Miola Gabriele sacerdote della diocesi di Fermo (1934-2017)
MIOLA mons. Gabriele. Pro memoria della vita ripercorrendo la mia vita, rapidamente, guardando solo gli aspetti esterni. <Fino all’anno 2006>
\\\ 1934-1940: dei miei primi sei anni della mia vita non ho ricordi precisi: il primo periodo l’ho passato a Monte Giberto, dove sono nato il 19 febbraio 1934 e battezzato due giorni dopo; i miei fratelli Pietro e Umberto avevano molto più di me essendo nati Pietro nel 21 e Umberto nel 23. Non ho ricordi, nemmeno dei miei fratelli forse perché già stavano con mio padre a Piane di Falerone dove babbo aveva trovato lavoro; un ricordo vago è legato alla famiglia Eusebi, vicina di casa, dove mamma mi lasciava in compagnia del figlio della signora Lisa, quasi mio coetaneo. Quando avevo forse tre anni babbo portò tutta la famiglia a Piane di Falerone, dove già lavorava. Di questo periodo ho un vago ricordo dell’asilo di Servigliano, tenuto dalle suore, dove i miei genitori mi mandavano in compagnia di altri bambini.
\\\ 1940-1945: gli anni della scuola elementare e il tempo della guerra.
Dei primi tre anni, cioè delle prime tre classi, non ho ricordi precisi. Dalla contrada “Madonnetta” si andava insieme con altri al centro di Piane di Falerone; le aule, affittate dal comune, stavano all’inizio della strada che va verso il paese, vicino al ponte del fossato. La maestra era anziana, sempre vestita di nero, che a noi bambini non piaceva: abitava vicino alle aule della scuola, la sua casa era piena di gatti, se li portava anche a scuola.
Le cose cambiarono in quarta elementare. Venne una maestra nuova, giovane, arrivava col treno da Fermo alla stazione di Piane, non lontana dalla scuola. Si chiamava Angela Macchini, ma normalmente Lina. E’ rimasta la mia maestra, la vera maestra, che ho sempre ricordato direi con devozione. Ricordo un fatto increscioso capitatomi durante la quinta: un giorno, finita la scuola, ci fermammo a giocare, al momento di tornare a casa, non ritrovai la borsa dei libri e quaderni. I miei genitori e i fratelli mi sgridarono. Il giorno dopo la ritrovai bruciata sotto il ponte del fosso accanto alla scuola. Forse un dispetto di qualche compagno! La maestra Macchini ci preparò all’esame di quinta per l’ammissione alla scuola media. Non tutti, ma un gruppetto, solo quelli che volevano passare alla Media; io volevo entrare in seminario. Avevo conosciuto, credo nelle vacanze estive, in giovane seminarista, che abitava poco lontano da casa mia, Damiano Ferrini, che allora doveva fare il liceo, mi offriva dal suo campo noci, prugne e altro, sorse così pian piano un’amicizia e in me l’idea di andare in seminario.
Nel 42 feci la prima Comunione e la Cresima a Falerone. Non ho ricordi particolari. Andavamo tutti i giorni, ragazzetti (allora potevamo essere lasciati soli per le strade polverose, non c’erano infatti macchine, se non rarissime, ma solo carri trainati dai buoi), portandoci da mangiare, dalla Madonnetta a Falerone alle aule del beato Pellegrino: per un mese ci fecero catechismo, mattino e sera. Ricordo i due preti di Falerone, i fratelli Gianfranceschi, don Sante, il parroco, e don Luigi, e le catechiste.
In quegli anni, credo nel 43 fu istituita la parrocchia di S. Stefano a Piane di Falerone e il primo parroco fu don Elia Malintoppi faleronese. Mi prese a ben volere, mi faceva fare il chierichetto sia nella chiesa di Piane, che era un garage sotto le aule della scuola, sia nella chiesa della contrada Madonnetta, di proprietà della famiglia Ferrini, dove veniva solo alla domenica. Chiamava mio fratello Umberto, che era già giovanotto e aveva una bella voce, a cantare la Messa degli angeli e la Messa da requiem.
Del periodo della guerra ricordo: la presenza di prigionieri, inglesi soprattutto, che venivano sotto scorta di soldati italiani a fare una passeggiata dal campo di concentramento di Servigliano fino a Piane e poi, evidentemente dopo l’8 settembre, la fuga dei prigionieri dal campo. Ricordo che mio fratello Umberto, con la formazione della repubblica di Salò, si andava nascondendo per sfuggire al rastrellamento dei giovani fatto dai fascisti; il passaggio delle truppe tedesche in ritirata, che ci avvertirono però quando fecero saltare il ponte di Servigliano sul Tenna; qualche episodio brutto di patrioti, che la gente chiamava i” latriotti”, perché andavano prendendo viveri da ogni parte, l’arrivo degli alleati, che nella nostra zona erano polacchi, la messa al campo e i canti che questi facevano, la richiesta di sigarette in barattoli per i miei fratelli e altre cose.
\\\ 1945-48 gli anni della scuola media in seminario.
In agosto il seminarista Ferrini mi accompagnò a Fermo in seminario per fare l’esame di ammissione. Mamma mi fece preparare la biancheria e chiamò una parente di Grottazzolina, Fulvia Ferracuti, sarta. Stette per un po’ di tempo a casa nostra e fu in quell’occasione che mio fratello Umberto e Fulvia si fidanzarono (si sposarono nel ’50). La mattina della partenza per il seminario, presto, era forse il primo ottobre, il parroco don Elia venne nella chiesetta della Madonnetta vicino alla nostra casa, disse la Messa, benedisse la veste talare, me la fece indossare e mi disse: “Gabriele, non ti dico di farti prete, ma non mi mandare notizie cattive!” Babbo mi accompagnò alla stazione di Piane, prendemmo il treno per Fermo e cominciò la mia avventura di seminarista.
Nel ’945 le prime due classi della Media stavano in una parte del Fontevecchia. Il rettore del seminario era Mons. Giuseppe Potentini, ma al Fontevecchia c’era come vicerettore don Stefano Cardenà. In prima media eravamo una trentina, ci seguiva come responsabile (si chiamava prefetto) il giovane prete don Narsete Cecarini, che era anche nostro professore, mentre studiava all’università per laurearsi: ci faceva italiano, latino, storia, geografia. Non ricordo chi veniva per matematica; per musica veniva don Cesare Celsi. Don Narsete ci accompagnò come professore per tutto il periodo della Media era un bravo professore. Dopo la prima media, dal Fontevecchia fummo trasferiti al seminario vicino alla chiesa del Carmine.
Ricordi di quel periodo: portavamo la talare, ma non ricordo che mi desse fastidio, era cosa scontata! Mi piacevano le passeggiate a S. Maria a mare dove si poteva andare a giocare in riva al mare; a scuola andavo bene, furono anni spensierati. Delle lotte politiche di quegli anni non ci dicevano nulla o non ne ho ricordi. Per le elezioni del 48 ci fecero pregare, ci dicevano che era stata una grande vittoria. La nostra formazione era: studio preghiera, disciplina.
I tre anni si conclusero con l’esame statale di licenza Media, che sostenemmo alla Media “Betti” ed ho questo grazioso ricordo. Nella nostra scuola non c’era disegno, eccetto qualche lezione di don Marcello Manfroni, invece c’era anche l’esame di disegno. Ricordo che il foglio mio rimase in bianco e una ragazzetta, che mi era stata messa vicino, dopo aver fatto il suo lavoro, prese il mio foglio e fece anche il mio!
Credo nel 47 il mio parroco don Elia Malintoppi fu trasferito alla parrocchia di S. Girio a Potenza Picena, forse per i contrasti che aveva avuto con i comunisti di Falerone; venne a Piane don Elio Jacopini, già cappellano militare. Ricordo che andammo a riceverlo alla stazione di Piane di Falerone noi due seminaristi: Damiano Ferrini ed io.
\\\ 1948-50 gli anni del ginnasio.
Dopo la Media la classe si era assottigliata perché alcuni erano andati via, qualcuno era rimasto indietro, ma trovammo cinque compagni nuovi, venuti dopo la scuola Media: Ilario Trebbiani, Romolo Illuminati, Tito Marini, Giuseppe Cesanelli e un altro di cui non ricordo il nome. Degli assistenti ricordo Renato Valentini, Giuseppe Traini, Giuseppe Simonelli. I superiori erano: il rettore Potentini, il vicerettore don Lino Lauri e don Stefano Cardenà. Avevo una certa soggezione di don Lino Lauri. Dopo la scuola i giochi preferiti: all’aperto staffetta, sbarra, taglia salame ecc. all’interno nei giorni di pioggia o nelle sere d’autunno e inverno lettura di riviste missionarie, sport soprattutto ciclismo, ma più di tutto ci piaceva leggere il settimanale per ragazzi “Il Vittorioso”, che alcuni potevano permettersi di comperare, ma che poi ci facevano leggere.
Gli insegnanti di questi due anni. Don Umberto Marinangeli per italiano, latino, storia e geografia in quarta; in quinta invece don Achille Corredini; don Aldo Baldassarri per greco in quarta, e in quinta don Dino Mancini; per matematica d. Ennio Carboni; per inglese don Petrelli. Professori chiamati ad insegnare, autodidatti, eccetto Carboni, non ci hanno trasmesso molto. Marinangeli più che del latino si interessava alla metrica dell’esametro e del distico: scomponeva i distici di Ovidio, Tibullo o gli esametri dell’Eneide e ce li faceva ricomporre, aveva le dita gialle per il fumo del sigaro, parlava a scatti; don Achille Corradini, buon conoscitore del Manzoni, ma poco del resto; don Aldo era più le volte che mancava che quelle che veniva: ci ha insegnato poco di greco; don Dino Mancini era laureato in lettere moderne, ma di greco ci ha dato veramente poco, don Ennio ci terrorizzava con i votacci; don Petrelli parlava bene l’inglese perché era stato come missionario in paesi di lingua inglese, ma non aveva nessuna capacità didattica e ci ha insegnato quasi nulla. Il biennio del ginnasio è terminato con l’esame statale di ammissione al liceo: mi esaminarono i proff. Vincenzo Tosco e Alvaro Valentini al ginnasio-liceo “Annibal Caro”. Era l’anno santo 1950. Come premio della promozione ricordo che i miei mi pagarono il viaggio a Roma, organizzato dal seminario, per l’anno santo, ma non ho ricordi precisi. In quell’anno si sposò mio fratello Umberto con Fulvia; celebrarono il matrimonio a Loreto e si ritrovarono a pranzo nella Parrocchia di S. Girio a Potenza Picena dove era parroco don Elia Malintoppi, che era stato il primo nostro parroco a Piane di Falerone e rimasto legato alla mia famiglia. Io non partecipai o non mi dettero il permesso di partecipare al matrimonio di mio fratello. Andarono in viaggio di nozze prima a Roma, dove fecero visita allo zio di Fulvia, prof. Vincenzo Monaldi, celebre tisiologo, direttore dell’Ospedale di Napoli, che oggi è a lui intitolato, e poi a Napoli.
\\\ 1950-54 gli anni del liceo.
Degli anni del liceo ricordo gli assistenti don Leonardo Piciotti e don Armando Marziali: due studenti teologi molto differenti, che si integravano bene. I superiori erano gli stessi, ma don Lino Lauri era andato parroco, vicerettore unico era don Stefano Cardenà.
Il liceo del seminario aveva un’impostazione diversa da quello pubblico, la disciplina fondamentale era filosofia teoretica: ci facevano studiare tutti i trattati classici e d’impostazione “scolastica”: la logica minor e maior, cosmologia, metafisica, antropologia, etica. Le discipline letterarie e scientifiche avevano meno spazio. I cambiamenti del periodo postbellico portarono nuove esigenze anche nell’ambito dello studio: la congregazione dei seminari fece aggiungere un anno come propedeutico alla teologia: nel nostro seminario invece di fare un anno propedeutico con lo studio della filosofia, dando così più spazio alle discipline del liceo, i superiori scelsero di allungare di un anno il liceo. Tornando a quel tempo, ho l’impressione che fu un disastro perché in quel quarto liceo non combinammo nulla.
I nostri insegnanti: don Luigi Marconi e poi don Lucio Marinozzi per filosofia e storia della filosofia, don D. Mancini per italiano e storia, don Ludovico Cassiani per greco e latino, don Ennio Carboni e poi don Ottavio Svampa per matematica, don Mario Scoponi per scienze e fisica, don Stefano Cardenà per religione.
Non ho un bel ricordo dello studio degli anni di liceo. Professori per lo più autodidatti, non avevano lauree specifiche; Marconi e Marinozzi venivano dalla Gregoriana, ma non avevano lauree statali. Il prof. Marconi, a parte il fatto che ci incutesse timore, era bravo e chiaro nelle lezioni, ma è venuto molto poco perché continuamente malato, ci fece filosofia don Marinozzi, che poteva esser bravo e competente ma non comunicava con gli alunni sia perché aveva una voce talmente flebile che non si riusciva e seguire, ci è stato d’aiuto più il prefetto don Armando Marziali che il professore. Don Dino Mancini, pur laureato in lettere alla Cattolica di Milano, non ha fatto altro che dettare gli appunti di letteratura italiana, ma non ci ha fatto leggere né ci ha commentato un brano d’autore e per storia assegnava solo i capitoli da leggere sul testo, don Ludovico Cassiani era lettore bravissimo in greco e latino, non aveva difficoltà nei testi, ma era un lettore per sé, incapace di insegnare e completamente digiuno di letteratura greca e latina; don Ennio Carboni cominciò l’anno e poi se ne andò e con don Ottavio Svampa non imparammo niente; don Mario Scoponi non sapeva nulla di scienze e di fisica e quindi non ci ha insegnato nulla tanto che, negli ultimi mesi del quarto liceo, anche i superiori, consci della situazione, fecero venire il prof. Marcello Seta, che ci introdusse alla fisica, ma era troppo buono con noi studenti. Don Cardenà faceva religione in orario extrascolastico seguendo un testo di apologetica, impostata tutta sulla difesa del dogma e della tradizione. Con questo non voglio dire che non fossero buoni preti, anzi erano stimati e anche noi li stimavamo per la loro attività pastorale d’ogni genere, ma non per la scuola.
Una situazione disastrosa, ma noi ragazzi non ce ne rendevamo conto; ce ne accorgemmo quando alcuni decidemmo di fare, dopo il cosiddetto quarto anno di liceo, la maturità classica. Un esame immane da privatisti con tutte le materie da portare di tutti e tre gli anni liceali, tutta la letteratura italiana, greca e latina di tre anni, tutta la storia e altro. Cercammo di prepararci da soli, ma fummo tutti respinti; io mi salvai riportandomi greco e fisica, che riparai ad ottobre!
Se mi domando: come mai una tale situazione? Oggi sarebbe insostenibile! Due motivazioni, mi sembra, stavano alla base. La prima una certa mentalità di separazione dal mondo e di autosufficienza. In una società ancora poco culturalizzata, i preti venivano ritenuti in genere persone colte e, almeno quelli che riuscivano di più a scuola, capaci di fare tutto e quindi anche di insegnare, anche discipline per le quali non erano affetto preparati. La seconda stava nel fatto che i preti che avessero fatto le università laiche non erano guardati di buon occhio, dovevano pagarsi le spese da sé, e poi se venivano chiamati ad insegnare in seminario, non erano per nulla o poco ricompensati, per cui ognuno poi si arrangiava facendo scuola privata e entrando con i concorsi nelle scuole pubbliche. Così il prof. di matematica don Ennio Carboni, don Dino Mancini prof. di italiano. Ricordo che qualche professore lamentava a scuola che economicamente stavano molto meglio i parroci che non i docenti del seminario (cosa che è andata avanti fino agli anni 80, cioè fino all’epoca del nuovo concordato). Quello economico doveva essere un problema grave per il seminario. Noi ragazzi ne eravamo estranei, ma ricordo che ci chiedevano spesso di dire a casa che pagassero la retta. Un anno, non ricordo quale, ci dissero che ci mandavano a casa per le vacanze di Natale dopo la celebrazione del pontificale al duomo. Le chiedevamo da anni le vacanze di Natale e quindi fu una gioia per noi quando ci dissero che ci mandavano a casa. Però ci dissero: “dite ai genitori che se al rientro non saranno saldati tutti i debiti delle rette non rientrerete!” E fu così. Quando rientrai dopo l’Epifania, non portavo con me i soldi per la retta e mi mandarono a casa! I miei se ne rammaricarono e protestavano perché non ci veniva data la somma promessa dal reddito di terreni lasciati dai preti Sorbatti per i seminaristi poveri di Falerone. Sta di fatto che mio padre, nonostante le proteste dei miei fratelli (non nei miei confronti, ma dei preti e del seminario), si dovette prestare i soldi per rimandarmi in seminario.
Noi ragazzi eravamo estranei alla vita del mondo, unica attività fuori della scuola era quella di occuparci delle missioni: lavoravamo per il circolo missionario, fra l’altro scrivemmo a macchina su clichés tutti gli appunti di letteratura italiana del prof. don D. Mancini, che poi duplicavamo con la copiatrice ad alcol e vendevamo alle ragazze del Magistrale “Bambin Gesù”, dove don Dino insegnava. Ricordo con piacere il periodo delle recite al corridoio S. Carlo nel tempo di carnevale, preparate da noi, con l’aiuto dei superiori di classe o di don Mario Scoponi. Le doti che venivano apprezzate e sviluppate erano musica, canto (io ero proprio negato) e teatro come sostegno alla futura attività parrocchiale.
Le classi del liceo erano piccole, la grande selezione avveniva negli anni della Media e del Ginnasio. Chi entrava in Liceo e poi soprattutto in Teologia era considerato ormai quasi sicuro nel cammino verso il sacerdozio. Chi usciva durante il liceo o dopo la terza liceo veniva considerato un approfittatore o traditore e in genere venivano tagliati tutti i rapporti con chi usciva dal seminario, anche se poi si cercava un recupero con loro facendo quasi ogni anno le giornate degli ex-alunni. In genere dopo anni di astio e di ripulsa nei confronti del seminario, in una età più matura si tornava ad apprezzare il seminario e c’era una buona partecipazione a queste giornate. Il rettore Potentini era solito dire che il seminario serviva a fare insegnanti, avvocati, medici, impiegati ecc. e qualche prete!
La formazione personale di noi giovani era affidata alla struttura o meglio alla comunità e al padre spirituale. La comunità con i suoi cardini e i suoi ritmi: preghiera, scuola-studio, disciplina, ricreazione, corsi di esercizi, era una “macchina” formatrice; chi non rientrava in quei canoni veniva escluso o si escludeva da sé. I superiori avevano, nel passare degli anni, una funzione di controllo, ma potevano avere anche una funzione paterna a seconda della fiducia che sapevano acquistarsi dai seminaristi. II padre spirituale invece entrava, come si diceva, in “foro interno” attraverso la confessione raccomandata o imposta settimanale e la direzione spirituale; aveva un grande rilievo nella formazione e nella maturazione del cammino verso il sacerdozio. La continuità per molti anni, conte padre spirituale, di Mons. Marcello Manfroni, figura altamente apprezzata per il suo spirito di preghiera, di riservatezza, di distacco, di lavoro, è stata una garanzia di equilibrio nella vita dei singoli e del seminario in genere. Circa la formazione affettiva e sessuale pubblicamente “ne verbum quidem”; il mondo femminile era un mondo escluso, il modello che ci si proponeva era S. Luigi Gonzaga di cui più che della sua carità, che esercitò eroicamente assistendo gli appestati di Roma e morendone, ci si parlava della sua angelica virtù e ci si diceva che non guardava in volto nemmeno la madre! La parola d’ordine era mortificazione, del resto non del tutto sbagliata, ma forse incompleta. Ci si inculcava la tattica della fuga di fronte alla donna, dovuta forse a quella prospettiva morale che affermava che nella bella virtù, cioè nel sesto comandamento ‘non datur parvitas materiae’. Eppure quando nelle brevi vacanze estive stavo a casa, mi piaceva intrattenermi con le ragazze che lavoravano con Fulvia e mia cognata mi lasciava per ore con il piccolo Massimo che era nato nel 51. Vista con l’occhio di oggi era una formazione volta più al negativo, ma che poi si andava equilibrando nell’esperienza e nel cammino della vita, anche se a qualcuno può aver creato drammi non piccoli.
Nonostante tutto debbo dire che gli anni del liceo furono anni belli, positivi in cui siamo stati formati soprattutto al senso dell’ubbidienza, dell’appartenenza alla Chiesa, del lavoro, della missione. Con Ilario Trobbiani parlavamo spesso di andare in missione: lui voleva andare al PIME per le missioni in Asia ed io dai Comboniani per le missioni in Africa.
In quegli anni si parlava molto della costruzione del seminario nuovo, vidi la posa della prima pietra, ma non ne vidi la costruzione. Quando tornai a Fermo dopo otto anni, il seminario s’era trasferito nel nuovo edificio sul colle Vissiano e cominciai lì la mia vita di prete diocesano e la mia attività e vi sono rimasto fino ad oggi.
\\\ 1954-58 gli anni della teologia, del seminario romano e dell’ordinazione presbiterale.
Dopo la maturità classica <1954> il vicerettore Mons. Cardenà mi chiamò e mi disse: c’è da fare un concorso per andare al seminario romano. Lo feci: si trattava di svolgere un tema, di cui non ricordo nemmeno il titolo. Non mi disse altro. Dopo un po’ di tempo, credo un mese, mi chiamò e mi disse: vai a Roma al seminario romano. Non mi rendevo conto di nulla, nemmeno sapevo che al romano avrei incontrato un altro di Fermo, ma che aveva finito la teologia ed era già sacerdote, don Duilio Bonifazi, che non avevo conosciuto nemmeno a Fermo, sarebbe rimasto al romano ancora per un anno.
I miei mi prepararono tutto e mi fecero partire solo perché mons. Stefano Cardenà li aveva assicurati che non c’era da pagare la retta in quanto avevo vinto il concorso e la borsa di studio del seminario pio (seppi dopo che erano borse di studio legate all’antico seminario marchigiano a Roma, voluto da Pio IX, poi soppresso e unito al seminario romano); in ottobre il giorno stabilito, non ricordo quale, andai a Roma, accompagnato da mio fratello Umberto. Mi accolse il vicerettore Mons. Agostini, che mi accompagnò alla cameretta assegnatami e cominciò così il mio cammino romano.
Eravamo una classe piccola, di appena dodici alunni, diversi provenienti dalle borse del seminario pio e due soli dal seminario minore di Roma. Eravamo del seminario pio: Antonio Capriotti di Ripatransone, Elio Borgiani e Mario Ramaccioni di Macerata, Mario Biagini di Rimini, Rocco Cerrato di Faenza; inoltre due di Udine Della Picca e D’Auria, uno di Avellino Adriano de Lillo, uno di Trapani Salvatore Corso, di Roma provenienti dal seminario minore: Alberto Roncoroni e Paolo Medici e ancora Lovelli, uscito alla fine dell’anno, di cui non ricordo il nome.
I superiori del seminario romano: il rettore Mons. Plinio Pascoli, vicerettore don Agostini, padre spirituale Mons. Pericle Felici, e ogni anno un teologo seminarista del 4° anno come assistente di classe.
La struttura educativa era la stessa del seminario di Fermo: preghiera e Messa quotidiana, scuola all’Ateneo Lateranense, passeggio quotidiano di un’ora, studio, preghiera della sera. Di nuovo? Niente! Anche qui lo stesso metodo: è la struttura che forma e i superiori sono controllori e anche qui il padre spirituale come forza di equilibrio e rifugio nei momenti difficili. Alcune cose mi sembravano proprio strane: al mattino uno di noi, a turni settimanali, appena suonava la campana della sveglia, usciva per il corridoio e diceva ad alta voce per far sentire una preghiera chiamata “la concezione”, le porte delle camere dovevano essere socchiuse ed un certo momento della preghiera si doveva uscire tutti sulla porta, già vestiti, per concludere in ginocchio la preghiera. Alla sera lo stesso: uno passava per il corridoio a dire la preghiera, ad un certo punto tutti all’uscio della porta in ginocchio per concluderla e poi ci si ritirava e dopo una ventina di minuti veniva tolta la luce. Oscuro, per dormire! La luce veniva ridata al suono della sveglia del mattino! A parte il valore della preghiera, era un modo per controllare che tutti si fossero alzati e che tutti andassero a dormire! Altra cosa strana: la posta personale, cartoline e lettere, si doveva consegnare aperte al vicerettore per la spedizione e ci veniva consegnata aperta quella in arrivo! Un controllo, che non facilitava dialogo e chiarezza. Ancora: i giornali si andava a leggerli dinanzi allo studio del vicerettore: L’Osservatore Romano e II Popolo, quotidiano della DC, non altri! Di queste cose ci si lamentava, ma l’accettarle era segno di vocazione! Ancora: nei giorni festivi erano possibili le visite di parenti e amici; per quelli che erano di fuori Roma non c’erano problemi perché non c’erano visite; ma per quelli di Roma le visite erano separate: una volta le donne e una volta gli uomini! I seminaristi romani protestavano! Tuttavia si accettava tutto e i giorni passavano tranquilli.
Le cose più piacevoli erano le passeggiate, quelle brevi quotidiane o quelle occasionali più lunghe, che ci permettevano, a noi provinciali, di conoscere Roma e dintorni, come pure la partecipazione alle solenni liturgie a S. Pietro col papa perché noi del romano avevamo biglietti per posti vicini alla celebrazione. Eravamo entusiasti per Papa Pacelli.
Per la teologia si frequentava la Lateranense e quella sola. I miei professori, al primo anno: p. Chiettini ofm per teologia fondamentale, mons. Garofalo per introduzione alla S. Scrittura, mons. Vona per patristica ed ebraico, mons. Lattanzi per ecclesiologia; p. D’Amato benedettino per liturgia, C. Zedda per greco biblico; nel triennio a corsi unificati: mons. Piolanti per dogmatica, p. Garcia ab Orbisio cappuccino per esegesi, Mons. Palazzini per teologia morale e poi sostituito da mons. Lambruschini, mons. Maccarrone per storia della Chiesa, mons. Damizia per Diritto, e poi c’erano i corsi opzionali; io scelsi: Pfister per arte cristiana, Graneris per storia delle religioni. Non ho un buon ricordo dei miei studi di teologia, i proff. apprezzati erano Garofalo e Piolanti, ma erano poco abbordabili. La cosa più significativa era la biblioteca e per noi del seminario romano c’era il vantaggio che l’incaricato ci prestava i libri e ce li faceva portare via e tenere per qualche giorno. Un gruppetto della mia classe era più impegnato nello studio e con spirito di ricerca: eravamo Cerrato, Corso, Medici, Roncoroni, il quale si ammalò e lo perdemmo al primo anno, e passò alla classe successiva; gli altri si contentavano delle dispense. Cominciava a girare aria nuova dalla teologia francese e si cercava di leggere qualcosa di Bouyer, De Lubac, Congar, Danielou.
Nel Ginnasio a Fermo ci fecero studiare, come lingua straniera, inglese, ma apprendemmo poco o niente con don Gustavo Petrelli. I libri di teologia erano per lo più in francese allora mi misi a studiare francese da solo. Scrissi a don Damiano Ferrini, che insegnava francese nella media del seminario e mi feci mandare una grammatica e un libro di esercizi. Studiai da me, cominciai a leggere e riuscii presto a cavarmela nella lettura di un articolo o di un libro, anche se non avevo nessun esercizio di pronuncia e tanto meno di scrittura.
La Lateranense, come le altre facoltà <pontificie> romane, erano legate alla neoscolastica e pian piano cominciammo a respirare qualcosa di diverso anche se non potevamo rendercene conto e coglierne la portata. Annaspavamo da soli, i proff. certo non ci aiutavano. Ricordo che un giorno Piolanti venne a scuola con un libro, credo “Surnaturel” di De Lubac e gridava: al rogo, al rogo questi libri! La cosa serviva invece ad incuriosirci e si correva in biblioteca a trovare il volume, che però non era reperibile. Piolanti ripeteva continuamente che bisognava tornare al tomismo “sine glossa” e ci stimolava a leggere la Summa Theologica: la comprai, ma debbo dire che si cercava di affrontare qualche ‘quaestio’, non avevamo chi ci introducesse a S. Tommaso, e l’insieme non dava il gusto della lettura Ci piaceva studiare, preparare bene gli esami, ma c’era un’insoddisfazione di fondo, che ci faceva interrogare e davamo del “poverini” a chi si preoccupava poco della scuola o era proteso verso un futuro di carriera ecclesiastica, non tanto tra i nostri compagni di classe, quanto di altri: era un’aria che si respirava ad ogni pie’ sospinto!
I quattro anni della teologia passarono presto con le diverse tappe del cammino verso il presbiterato: la tonsura, poi i diversi ordini minori (ostiariato e lettorato, esorcistato e accolitato) e poi il suddiaconato (creava un po’ di ansia con il celebre passo dell’accettazione del celibato: il vescovo ordinante nella liturgia ad un certo momento chiedeva se si accettava la castità perfetta per tutta la vita e allora diceva: “Si vis, huc accede” e gli ordinandi facevano un passo avanti; lo feci senza timore, direi con sicurezza), poi il diaconato. Tutti gli ordini mi furono conferiti nella cappella del seminario romano o nella basilica di S. Giovanni in Laterano a seconda delle opportunità celebrative. L’ordinazione presbiterale invece la si faceva ciascuno nella propria diocesi in genere nel sabato “Sitientes”, cioè nella quarta settimana di quaresima. Fui ordinato dall’arcivescovo Perini il 22 marzo 1958 nella Messa d’orario delle 7 del mattino nella cappella del seminario, la domenica Messa solenne a Piane di Falerone. Don Vincenzo Cappella, viceparroco a Corridonia, con cui c’era una lontana parentela, mi fece dono del canto con la presenza della sua schola cantorum. I miei e il parroco, don Elio Jacopini, mi fecero festa in chiesa e prepararono il pranzo nella sala, ancora grezza, della casa parrocchiale. Il 24 Messa in seminario per i seminaristi; il 25 Messa a Loreto in santa casa e pranzo a casa di don Elia, mio primo parroco. Qualche giorno dopo tornai al seminario romano per la chiusura dell’anno accademico e per fare la licenza in teologia, che fu buona, ma non proprio brillante.
A rivedere i quattro anni alla Lateranense alla luce del cambiamento che è venuto poco dopo con l’elezione di Giovanni XXIII nel 58 e la parola d’ordine “aggiornamento”, mi accorgo che furono anni non dico sprecati, ma di poco interesse! Non ci fu dato l’amore alla teologia e alla ricerca, dovemmo conquistarcelo da soli; il punto fermo era attaccamento alla Chiesa e al suo magistero, che non ci mancava, ma staccato dalle esigenze della vita della Chiesa e della gente.
La conclusione di questa impostazione di vita in seminario e di studio all’università fu che, finita la teologia, non mantenni rapporti con nessuno, né con i superiori del seminario né con i professori della Lateranense. C’era più stimolo con alcuni compagni di seminario (Cerrato, Corso, Roncoroni) che con superiori e insegnanti.
\\\ 1958-1962 gli anni degli studi biblici.
Fatta la licenza in teologia alla Lateranense in luglio tornai in diocesi. Non ho ricordi precisi, andai ad ossequiare l’arcivescovo Perini, il vicario mons. Vagnoni, incontrai qualche professore del seminario, ma il mio rapporto era col rettore del seminario mons. Cardenà. Ci ritrovammo con i compagni di classe, che erano stati ordinati in giugno: decidemmo di ritrovarci in un giorno di giugno tutti gli anni (cosa che abbiamo fatto sempre fino ad oggi) e di dire l’ora sesta del breviario per noi, ricordandoci vicendevolmente.
Un giorno mi chiamò Mons. Cardenà e mi disse: la borsa di studio del seminario pio è per cinque anni, hai ancora un armo; vuoi fare un anno al seminario romano e al Laterano per avviare la tesi in teologia o vuoi andare il Biblico? Se vai al Biblico potrai stare al seminario romano ancora per un anno, ma poi per il secondo anno dovrai arrangiarti trovandoti una parrocchia di Roma che ti ospiti e ti permetta di studiare perché la diocesi non ti può pagare la permanenza in un collegio. Scelsi la seconda e anche i miei di casa mi lasciarono piena libertà. In settembre andai a fare l’iscrizione al Biblico, feci l’esame di ammissione di greco e di ebraico, che ho dovuto riprendere per conto mio, ma andavo poco al di là della semplice lettura! Comunque fui ammesso e in ottobre cominciai il Biblico.
Ottobre fu anche il mese dei grandi cambiamenti nella Chiesa. Il 9 ottobre morì Pio XII. Era il nostro papa, il papa del grande magistero. La sua figura ieratica ci affascinava, noi seminaristi del Romano, tenuti lontano dai veri problemi della Chiesa e ignari dei maneggi di curia, eravamo un tutt’uno col papa, quando andavamo a S. Pietro a gridare: viva il papa! Il 28 ottobre, quando venne la fumata bianca dal conclave, il solito gruppetto di amici eravamo a Piazza S. Pietro per sentire dalla viva voce il nome del nuovo papa. Il card. Canali dalla grande loggia della basilica annunciò: “Gaudium magnum! Habemus papam: Angelum S. R. E. cardinalem Roncalli”. Rimanemmo di stucco, sconsolati. Non pensavamo proprio a Roncalli. Lo conoscevamo di quella conoscenza superficiale tipica dei seminaristi, che si lasciano guidare dalle apparenze. Il cardinale di Venezia, anche lui del Romano, veniva ogni tanto al seminario, si fermava a pranzo e dopo pranzo gli piaceva fermarsi con i seminaristi che gli si facevano attorno volentieri. Domandava a quelli che stavano più vicini a lui di dove fossero e alla risposta aveva sempre da dire qualcosa o sulla località e su persone che conosceva di quel luogo e quando dopo un po’ i seminaristi cominciavano ad allontanarsi e rimanevano pochi chiudeva con qualche parola di esortazione e diceva: “ho capito, è ora che me ne vada anch’io!” Lo stimavamo un buon padre, vescovo e pastore alla buona perché conoscevamo poco o niente della sua vita. Dinanzi alla figura maestosa di Pio XII, per noi non era personalità irrilevante. Da qui la nostra delusione per l’elezione di Giovanni XXIII. Aveva 78 anni e ci dicemmo subito: un papa di transizione. Una prima sorpresa venne quando cominciò ad uscire dal Vaticano, ad andare nelle parrocchie di Roma perché diceva: io sono vescovo di Roma e un vescovo deve fare la visita pastorale al suo popolo; ma soprattutto quando dopo appena tre mesi dall’elezione, andò a S. Paolo per concludervi la settimana di preghiera per l’unità dei cristiani e dette l’annuncio, da tutti assolutamente inaspettato, che voleva fere un sinodo per la diocesi di Roma, la revisione del Codice di Diritto Canonico e un concilio della Chiesa cattolica. Fu sorpresa, attesa e grande trepidazione. Sorpresa perché nessuno, almeno in Italia, pensava ad un concilio universale, anzi alcune scuole teologiche dicevano che dopo il Vaticano I, che aveva proclamato l’infallibilità del papa, non c’era più bisogno di un concilio, bastava il magistero del pontefice; attesa, perché non si sapeva che cosa ne poteva venire e ci si aspettava molto; trepidazione perché si temeva per un concilio rapido che sancisse solo tutte le direttive teologiche e pastorali di Roma. Emersero subito, infatti, (per usare termini di un linguaggio non proprio adatto, ma espressivo) correnti conservatrici e progressiste.
Cominciai il Biblico. Stavo al seminario romano, come preti eravamo liberi, stavamo in alcune vecchie stanze del corridoio vicino alla cappella, eravamo Corso, De Lillo, io e c’erano don Nicoletti e mi pare anche don Molari e qualcun altro che non ricordo. Si poteva uscire quando volevamo.
Mi prendeva molto lo studio: le lingue semitiche ebraico ed aramaico, e poi greco, storia e geografia biblica, e naturalmente esegesi: per l’AT p. Moran tenne un corso su l’esodo e l’alleanza, per il NT p. Zerwick sui vangeli dell’infanzia. Tra i compagni di corso ricordo Cortese, Ghiberti, Barbaglio, Ghidelli, Pettinato. Tutti nomi che poi, in un campo o nell’altro sono emersi negli studi biblci in Italia, ma ci interessavamo anche di vita attiva e particolarmente dei lavori delle commissioni preparatorie per il concilio.
Per la pastorale mi dissero di andare alla parrocchia di S. Ignazio d’Antiochia sull’Appia nuova, alla periferia sud di Roma, costituita di recente nel quartiere “Statuario”. Andavo alla domenica mattina, c’era una buona comunicazione da S. Giovanni in Laterano alla parrocchia col trenino delle Capannelle, che mi lasciava proprio dinanzi a S. Ignazio. Il parroco don Giovanni Scorza mi accolse benevolmente, mi faceva celebrare una Messa e predicare, confessare e un po’ di attività coi chierichetti e i ragazzi del catechismo secondo il metodo del “centro oratori” del Vicariato di Roma, fondato e diretto dal com. Canapa. La canonica era curata dalla mamma vedova Raffaella e dalla sorella signorina Caterina, che mi accolsero con molta simpatia e mi fecero sentire a mio agio. Dopo pranzo tornavo in seminario per studiare.
Alla fine dell’anno andai per due mesi in Inghilterra con l’intento di imparare l’inglese. Come compagni al Laterano avevo avuto studenti inglesi del collegio rosminiano, che stava a S. Giovanni a Porta latina. Avevo fatto amicizia con John Moss e Denis Cleary e chiesi loro se mi potevano ospitare. Non avevo possibilità di pagarmi un soggiorno londinese e tanto meno una scuola d’inglese. Furono molto gentili e così andai da loro nel Galles a Cardiff. E’ stato un bel soggiorno, ma tutti loro parlavano bene l’italiano perché erano stati studenti a Roma, per cui anch’io, nonostante cercassi di dire qualche parola in inglese, mi ritrovai a parlare italiano. Così per la lingua il soggiorno non fu produttivo! Passai l’ultima settimana a Londra, sempre presso i rosminiani, e potei visitare la città e specialmente il British Museum, di cui ammirai le sezioni orientale e greca.
Al Biblico ogni anno bisognava fare un esame di lingua straniera all’inizio di ogni anno; feci quello di francese, di inglese e poi cominciai a studiare il tedesco da solo e chiesi per l’estate una borsa di studio al Goethe Institut, ma non me la concessero, scrissi allora al vicariato di Monaco di Baviera per andare presso qualche parrocchia per prestar servizio, sperando di fare qualche progresso nella lingua. Non potevo permettermi di pagarmi un corso di tedesco in Germania. Mi assegnarono la parrocchia di S. Jakob a Voetting nella periferia di Freising. Per fortuna la Messa era ancora in latino e non c’era difficoltà per la liturgia. Il parroco Mathias Gammel mi accolse generosamente e mi trovai bene, ma lui poi andò in vacanza e mi lasciò solo in parrocchia. Trovai tanta difficoltà con la lingua e fu uno strazio anche se conobbi alcune famiglie, che mi accoglievano volentieri: la famiglia del prof. Raum, la famiglia dell’ing. Then, quella numerosa del maestro Gleixner. A Freising c’era il seminario teologico della diocesi e conobbi il biblista prof. Sharbert, che mi fece omaggio di qualche sua pubblicazione. Il secondo anno ottenni la borsa di studio dal Goethe e frequentai due mesi i corsi base a Murnau nella bassa Baviera, ma mantenni i contatti con il parroco Gammel presso cui tomai altre volte e nel 1960 partecipai con lui al Congresso Eucaristico Internazionale di Monaco.
Nel secondo anno del Biblico1959-60 oltre i corsi di ebraico 2 e greco 2, come seconda lingua semitica scelsi siriaco e poi i corsi di esegesi: sui Salmi (p. Vogt) e la lettera ai Romani (p. Lyonnet). Era stato chiamato al Biblico un professore nuovo p. Luis Alonso Schoekel, che tenne un corso libero “Lectio cursiva di ebraico”. Ci scrivemmo in molti. Lui leggeva il testo ebraico come si legge un qualsiasi testo in prosa o poesia nella propria lingua. Rimanemmo stupiti tutti e capimmo come fosse lontano il corso ufficiale di ebraico, tenuto dal p. Boccaccio, che ci faceva conoscere grammatica e sintassi, ma non ci dava il gusto della lingua e della lettura del testo, le conseguenze me le son portate poi sempre dietro.
Il secondo anno fu un anno duro, molto duro. Finita la borsa di studio al romano, bisognava trovare una parrocchia. Evidentemente chiesi ospitalità al parroco di S. Ignazio d’Antiochia, che mi disse subito di sì. Per andare al Biblico dovevo prendere due mezzi: dallo Statuario a S. Giovanni o a Termini col tram e poi o l’87 da S. Giovanni o il 64 da Termini per andare a piazza Venezia, che sta a due passi dalla Gregoriana e dal Biblico. In parrocchia era ospite già un prete indiano di Goa don Blasco Collaco, che stava frequentando scienze sociali alla Pro Deo. Con il parroco facemmo un programma: la mattina libera per tutt’e due per seguire i corsi all’università, il pomeriggio impegnati alternativamente, io e don Blasco, con l’oratorio, inoltre don Blasco seguiva il gruppo giovani ed io il gruppo ragazzi; la domenica mattina una Messa, confessioni e catechismo. Tutte le mattine dicevo Messa presso le suore Elisabettine alle 6.30, fatta colazione alle 7,20 prendevo il tram per Roma; arrivavo trafelato per le 8.15 al Biblico! Quei 45-50 minuti sui mezzi pubblici mi servivano per leggere! Alla fine dell’anno, tra tanti sacrifici, notti insonni e tante lacune, feci la licenza!
Mi iscrissi al terzo anno nel 60-61 senza avere la prospettiva di fare la tesi di dottorato, feci comunque tutti gli esami; mi iscrissi anche al quinto anno di teologia al Laterano, con l’idea di fare le tesi, feci tutti gli esami, ma, una volta tornato in diocesi, non sono mai riuscito a concludere. Intanto era scoppiato lo scontro tra il Laterano e il Biblico. Alcuni proff. del Laterano, Spadafora (che aveva sostituito Garofalo e Garcia), Lattanzi e Romeo attaccarono il Biblico accusandolo di progressismo e di eterodossia, specialmente i proff. Lyonnet e Zerwick. Lyonnet per l’esegesi della lettera ai Romani di 5,12 quasi riducesse il peccato originale ai peccati dei singoli e Zerwick che, applicando, secondo la DAS, i generi letterari ai racconti di Luca e Matteo 1-2, negasse la storicità dei racconti dell’infanzia. Circolavano ciclostilati con accuse e risposte, che noi studenti ci passavamo l’un l’altro. Un tipo di letteratura di bassa lega, che risentiva degli scontri che ormai si facevano sentire tra le correnti preconciliari. Noi parteggiavamo evidentemente per i nostri professori e rimanemmo male quando ai proff. Zerwick e Lyonnet fu tolto l’insegnamento. Accusavamo d’ignoranza e prepotenza il Laterano e il conservatorismo della facoltà teologiche romane e delle Congregazioni della Santa Sede.
\\\ 1961-62 l’anno più bello dei miei studi.
Tornato in diocesi chiesi prima al rettore mons. Cardenà e poi al vescovo mons. Perini se mi permettevano di andare un anno in Palestina. Al Biblico a Roma avevo saputo che lo Studium Biblicum Franciscanum di Gerusalemme accettava studenti a condizioni molto favoreroli: ‘Missa pro mensa’. Scrivemmo, io, Barbaglio, Cortese e le domande furono accettate. L’Arcivescovo Perini e mons. Cardenà acconsentirono, anche perché la diocesi non doveva fare spese. I miei genitori e i miei fratelli furono contenti. Durante l’estate misi da parte dei soldini, ebbi qualche offerta e così programmai la partenza via mare: Napoli-Cairo-Beirut. Nel programmare il viaggio m’incontrai presso la Custodia di Terra Santa con un teologo francescano tedesco ofm, di cui non ricordo il nome, che andava in Terra Santa allo Studium e organizzammo il viaggio. Le tappe erano sempre presso i conventi francescani della Custodia. Questo mi evitava tutte le spese di permanenza. Debbo immensa gratitudine alla Custodia, che mi ha dato tante possibilità di visite e di studio.
Sbarcammo ad Alessandria e facemmo breve sosta perché la città non offriva molto e avevamo i giorni contati. Andammo al Cairo, ospiti dei francescani: visita alle piramidi di Saqqara, di Ghiza, al Museo e anche alla parte islamica. L’antico Egitto ci si rivelò nel suo splendore: un mondo, una cultura, una meraviglia. Dal Cairo con il treno andammo ad Assuan: una notte di viaggio insieme ai fellahim, arrivammo al mattino pieni di sabbia (!). Visite: al lago e dintorni, a File. Non andammo ad Abu Simbel per mancanza di tempo e denaro, tornammo ad Alessandria.
Da Alessandria a Beirut con la stessa nave, ospiti sempre dai francescani: visita ai cedri, a Ugarit e a Baalbeck. Poi da Beirut a Damasco: visita al museo, ai luoghi paolini e poi andammo ad Aleppo. Da Damasco raggiungemmo Gerusalemme, e fummo ospitati allo Studium Biblicum Franciscanum. Qui ritrovai don Enzo Cortese e don Giuseppe Barbaglio
Ottobre 61-Maggio 62 un anno straordinario. Il rettore della casa era p. Donato Baldi, conosciuto per il celebre atlante biblico e per altri studi, ma ormai anziano non insegnava più. I professori erano tutti francescani: p. Psaller per archeologia, il giovane p. Guido Lombardi per geografia e le escursioni esplorative, p. Bagatti per archeologia del NT e Gerusalemme, p. Spjikermann per numismatica antica, p. Pax per esegesi del NT, p. Emanuele Testa per esegesi AT. Eravamo pochi studenti: alcuni pp. francescani, che avevano fatto teologia a Gerusalemme a S. Salvatore, tra cui p. Stanislao Loffreda, mio conterraneo perché originario della valle del Tronto, due pp. benedettini spagnoli del monastero di Montserrat e noi tre preti provenienti dal PIB, in tutti una quindicina.
Al mattino si andava a lezione, nel pomeriggio si studiava con libertà approfittando della biblioteca che si andava formando allora, si faceva vita conventuale, studenti e professori. I proff. più vicini erano quelli italiani, come p. Guido con cui organizzavamo le escursioni, p. Emanuele sempre faceto e divertente nel suo modo di parlare carico di battute, barzellette e osservazioni acute. A dire il vero non è che le lezioni ci entusiasmassero molto e quando potevamo approfittavamo per andare all’Ecole Biblique a sentire le lezioni di De Vaux, Benoit, anche se il direttore p. Baldi non voleva. P.E. Testa stava stampando la sua tesi di laurea “Il simbolismo giudeo-cristiano” e ci teneva lezione sull’argomento, ma era talmente confusionario che non ci faceva gustare la tematica, che pure era importante. Mentre i domenicani dell’Ecole Biblique avevano curato l’archeologia dell’AT e di Qumran, i francescani quella del NT e quella legata ai santuari, che per lo più erano affidati alle loro cure. I momenti più belli erano le escursioni con p. Guido. Abbiamo così imparato a conoscere la Giudea, la Samaria, la vallata del Giordano e la Giordania sempre con la Bibbia in mano.
La divisione della Terra Santa in due tra Israele e Giordania non ci permetteva di andare liberamente nella Galilea, la pianura di Sharon e il Negev; rimasero fuori così le zone archeologiche di Meghiddo e Bet-shean, Hazor, il Carmelo. La Gerusalemme storica, quella entro le mura di Solimano, era in mano giordana e quindi eravamo liberi di visitarla.
Noi studenti non francescani eravamo avidi di visite perché sapevamo che poi non avremmo avuto più occasioni. Così noi cinque: io, Barbaglio, Cortese, i due pp. benedettini Basilio Girbau e Antonio Figueras decidemmo di partire per visitare la Mesopotamia e la Persia. Organizzammo il viaggio scrivendo prima alle case religiose dei diversi luoghi, Bagdad, Mosul, Teheran per avere ospitalità e quindi in marzo del 62 partimmo servendoci dei mezzi pubblici. A Bagdad fummo ospiti in un grande collegio dei pp. gesuiti, a Mosul dei pp. Francescani, a Teheran dei salesiani. Visitammo il museo di Bagdad e i siti archeologici della cultura sumera, accadica, assira, neobabilonese, persiana: Ur, Warka, Larsa, Nippur, Aqarquf, Ninive, Korsobad ecc, e poi in Persia: Tchoga Zambil, Persepoli, Beishtum ecc. Furono quattro settimane stupende, che solo una certa spregiudicatezza giovanile ci permise di affrontare senza far conto di difficoltà e rischi.
Con maggio finiva la nostra permanenza presso lo Sudium Biblicum Franciscanum a Gerusalemme e per il ritorno noi tre italiani, Barbaglio, Cortese ed io decidemmo di far ritorno in Italia attraverso Siria, Turchia, Grecia. Ci organizzammo con lo stesso metodo: mezzi pubblici e ospitalità presso le case religiose, dove era possibile. Facemmo: Gerusalemme-Amman-Damasco. In Siria oltre Damasco e il suo museo visitammo: Mahalula e poi Paimira e lungo l’Eufrate: Mari, Deir ez-Zor e poi Aleppo e qui, le città morte a Qalaat-Sheman (cioè S. Simone stilita); andammo poi sul mare e visitammo Lataqie, Ugarit. Passmmo poi in Turchia e visitammo Antiochia, Tarso e poi andando verso Ankara ci fermammo alla capitale degli Hittiti: a Hattusha (Bagaskoej). Da Ankara in Cappadocia e poi sul Mediterraneo: Laodicea, Efeso. Mileto, Pergamo e arrivammo ad Istanbul. Dalla Turchia passammo in Grecia e visitammo i luoghi paolini: Filippi, Tessalonica, Berea; passammo alle Meteore, Delfi e ad Atene, Corinto. Ormai verso la fine del ritorno, passammo per Olimpia, ci imbarcammo a Patrasso e da qui a Brindisi. E con il treno prendemmo la via di casa.
Quando arrivai a Porto S. Giorgio c’era ad aspettarmi mio fratello Umberto. Appena mi vide, mi disse: “sei più nero di un africano!” In lambretta tornammo a casa a Piane di Falerone e finì l’anno più intenso e diverso dei miei studi.
\\\ 1962-68. I primi sei anni di prete in diocesi.
Furono anni di impegni vari in diversi campi piuttosto disparati. Mia residenza fu il seminario, dove sono rimasto fino ad oggi e forse vi rimarrò ormai fino agli ultimi giorni della mia vita. Elenco i diversi impegni:
.a). Impegni pastorali. Quasi subito mi fu assegnata la celebrazione dell’eucaristia al mattino alle ore sette presso il collegio “Matteo Mattei”; sostituendo don Armando Marziali. C’erano allora le suore della carità di S. Vincenzo. Qui conobbi Dolores Dolomiti che era portiera e sacrista, mi preparava il necessario per la celebrazione e dopo la Messa nella sala attigua alla portineria mi serviva la colazione; fu nominata anche applicata di segreteria presso l’amministrazione del collegio e quando fu chiuso, il “Matteo Mattei”, in quanto IPAB, passò in proprietà al Comune di Fermo, di conseguenza Dolores fu assunta come impiegata nell’amministrazione comunale. Dolores aveva come padre spirituale don Damiano Ferrini. Quando questi partì per il Brasile, me l’affidò. Nacque un’amicizia schietta, un affetto chiaro, venne in pellegrinaggio con me in Terra Santa, mi fece tanti lavoretti, curò la mia biancheria, venne a casa dei miei e divenne come una di famiglia. Quando partivo per i diversi pellegrinaggi o gite con gruppi dell’Opera Romana veniva spesso anche lei con me e mi faceva da segretaria. Quando divenni preside dell’ITM-ISSR la chiamai come addetta di segreteria e fece un ottimo lavoro di organizzazione e soprattutto instaurò contatti cordiali con tutti, professori e studenti, seminaristi e laici, creando un bel clima di relazioni cordiali e familiari. Faceva parte dell’UNITALSI e fu nominata anche segretaria dell’associazione. Due impegni significativi, fatti con senso di grande responsabilità e di servizio gratuito.
Mons. Vagnoni, vicario generale, per la domenica mi chiese di andare a Pedaso per aiutare don Attilio Mira, una figura simpatica, tradizionale, di prete. Fra l’altro, non ricordo perché e come, era amico di mons. Tondini, direttore delle lettere latine in segreteria di Stato in Vaticano, che veniva a passare qualche giorno di vacanza a casa di don Attilio, dove conobbe don Tommaso Mariucci jr., che s’era laureato da pochi anni in lettere classiche alla Cattolica di Milano e nel momento professore in seminario, e se lo portò a Roma. A Pedaso fu mandato un cappellano e l’anno seguente mi mandarono ad aiutare alla domenica don Angelo Panicciari all’Istituto S. Stefano di Porto Potenza Picena. L’amicizia di don Angelo mi fu cara e mi aiutò molto a superare un momento di crisi. A Porto Potenza feci amicizia anche con il parroco don Mauro Carassai perché mi chiamò a dire una Messa d’orario nella chiesa nuova e gli suggerii il tema del grande mosaico che fece realizzare nell’abside. Risolta la presenza di un altro prete al S. Stefano, fui mandato, sempre al sabato sera e domenica, a Casette d’Ete con il parroco don Primo Livi, gran pasticcione, ma di animo buono e grande. Ultimo impegno domenicale fu quello di Porto Civitanova nella parrocchia di Cristo Re con don Eliseo Scorolli, che aveva realizzato, su fondamenta precedenti, la chiesa nuova e la stava arricchendo di vetrate, lo aiutai insieme con don Raffaele Canali, ad esprimere tutta la storia della salvezza nelle vetrate, che affidò però ad un principiante, più fumettista che artista; belle invece quelle del timpano affidate all’artista Luchetti di Macerata.
.b. Impegno primario fu l’insegnamento. Il prefetto degli studi era mons. Orlando Perfetti, ma di fatto faceva tutto il rettore mons. Cardenà. Questi mi assegnò alcuni dei suoi insegnamenti nel primo anno di teologia: introduzione biblica generale, ebraico, greco biblico e i libri sapienziali nei corsi riuniti di teologia.
Erano gli anni del concilio e seguivo svolgimento, dibattiti e crisi attraverso articoli e resoconti di Raniero La Valle su L’Avvenire d’Italia e con don Romolo Illuminati, coetaneo e prof. di Storia della Chiesa, ci si accalorava sulle innovazioni e le aperture che il concilio portava: era lo scontro tra tradizionalisti e progressisti. Quando andavo a Roma incontravo don Alberto Roncoroni, che frequentava Liturgia a S. Anselmo e mi introdusse presso il prof. Tommaso Federici, laico prof. a S. Anselmo, amico di Vagaggini e di Marsili, tra i teologi e liturgisti più noti e significativi in Italia. Federici mi indirizzava sulla bibliografia più innovativa, soprattutto francese, in campo biblico, liturgico e teologico. Fu una relazione, un’amicizia bella ed arricchente. A Fermo invece lo scambio teologico e culturale era pressoché inesistente; al di là di qualche scambio d’idee con don Illuminati per il resto era silenzio, sembrava che il concilio non interessasse! Don Bonifazi era affaccendato in altre cose. Del resto l’arcivescovo Perini non ci diceva niente; non era contento dell’andamento del concilio perché s’aspettava trattazioni teologiche, documenti che dovessero concludersi con la proclamazione delle verità di fede e l’anatema per chi non le accettava, come nei precedenti concili o indicazioni pastorali precise sul catechismo o altri campi; il vescovo ausiliare, mons. Michetti, parlava ammirato della grande assise conciliare, ma non si esponeva sulle tematiche controverse e tantomeno sugli scontri tra progressisti e tradizionalisti. Nel 1963 morì papa Giovanni XXIII e gli succedette papa Montini col nome di Paolo VI. Fu il timoniere del concilio sulle strade nuove che si erano aperte, del resto era un buon conoscitore della teologia francese e di Maritain. Dette libertà ai padri conciliari anche se si riservò alcuni temi scottanti, come quelli sulla vita del clero.
Gli anni 62-68 (ma anche gli anni 70) furono belli e disgraziati insieme per il mio insegnamento. Mancavano insegnanti in teologia ed erano gli anni dell’innovazione. Don Bonifazi diceva di star poco bene, intanto si andava laureando in filosofia ad Urbino, don Giorgio Cupidio doveva finire la laurea in lettere classiche a Firenze. All’inizio di ogni anno, veniva mons. Cardenà e mi diceva: nessuno vuol far scuola, vedi di prendere questo corso! In quegli anni mi fecero fare di tutto: oltre alle discipline assegnatemi, mi fecero insegnare teologia fondamentale e teologia della rivelazione, storia della salvezza, ecclesiologia, storia e teologia delle religioni, storia del movimento ecumenico e quasi non bastasse insegnai anche latino e greco in ginnasio e liceo. Si stava facendo la pratica ministeriale della parificazione del nostro liceo interno: Bonifazi, che nel frattempo si era laureato in filosofia ad Urbino e aveva fatto l’abilitazione, non volle accettare di fare il preside e fu chiamato un laico in pensione, il prof. Scattolini. Io mi ero iscritto alla facoltà di lettere classiche a Bologna, avevo fatto alcuni esami tra cui quello di greco (il noto prof. Del Grande mi fece portare, invece degli autori classici, tutto il NT: per greco 1 i vangeli e per greco 2 S. Paolo), dovetti prendere, fino alla venuta di don Cupidio, greco e latino nel liceo interno. Che dire? Feci il tappabuchi in tutto e non combinai nulla: non ho fatto la tesi in teologia, né mi son laureato in lettere anche se mi mancavano solo due esami!
In questi stessi anni ebbi anche l’insegnamento di religione al liceo classico A. Caro di Fermo. Don Armando Marziali, che stava realizzando l’opera di Villa Nazareth, convinse don Savino Ciccioli, direttore dell’Ufficio Catechistico Diocesano, a accettare le sue dimissioni e convinse me a prendere le 9 ore di religione. Mi trovai bene con colleghi come i proff. Tulli, Tosco, Valentini ed altri, ma sperimentai quanto fosse difficile insegnare religione con giovani che spesso erano contro la Chiesa per tradizione familiare o che già respiravano l’aria di un’iniziale contestazione. Cercai di portare gli aspetti nuovi del concilio su la Bibbia, l’ecclesiologia, la libertà religiosa e altro, ma mi scontrai con un muro di gomma, che respingeva tutto. I ragazzi mi apprezzavano, ma non riuscivo a coinvolgerli nei grandi temi, con una classe fu un insuccesso completo. Mantenni una certa amicizia e oggi me li son ritrovati professionisti nei diversi campi, soprattutto in medicina.
Un’altra attività di questi anni, dal 66 al 70, furono gli incontri zonali col clero sui grandi temi del concilio. Mons. Perini (o forse meglio mons. Michetti) volle far conoscere il concilio in diocesi, ma più che farlo direttamente, del resto era già anziano, affidò il compito all’ausiliare, che cooptò me e don Rolando Di Mattia. Mons. Michetti mi fece parlare sui documenti principali, mi dovetti leggere commenti ed articoli e affrontare costituzioni, decreti e dichiarazioni: Dei Verbum, Lumen Gentium, Sacrosantum Concilium, Gaudium et Spes, ma anche Dignitatis Humanae e Nostrae AEtatis , io esponevo e poi lui guidava il dialogo. Che delusione quando vedevo incapacità di percepire la novità e a volte disinteresse e discussioni accese. Invece quando si arrivava a trattare temi come la verità della Bibbia, il carattere sapienziale di Gn 1-11, i preti anziani, come don Lorenzetti, don Verdini, che io stimavo per la loro attività, mi facevano accuse di eterodossia. Per fortuna che mons. Michetti mi difendeva! Fu in questi anni che conobbi don Rolando Di Mattia, di cui apprezzai la cultura, l’apertura ai temi conciliari, la forza di lavoro. Sono rimasto legato a lui per sempre con profonda amicizia, anche se aveva venti anni più di me.
\\\ 1968-72 quattro anni come assistente dei seminaristi teologi (o vicerettore).
Furono anni difficili. La contestazione giovanile, iniziata in USA, da Parigi e dall’Europa era passata in Italia e se ne respirava l’aria anche in seminario. L’impostazione educativa tradizionale, pietà, disciplina, studio, controllata con una forte struttura interna non reggeva più. Il rettore mons. Cardenà faceva fatica, i giovani teologi scalpitavano, volevano fiducia, libertà. Contestavano a scuola i professori, arrivarono a contestare apertamente il vescovo di Ascoli mons. Morgante, che insegnava, mi pare, diritto canonico.
Da più parti si chiedeva un cambiamento, e mons. Arcivescovo Perini convocò in maggio o giugno 68 una riunione di superiori e insegnanti. Sentì i pareri di tutti, ascoltò qualche consiglio e a un certo momento don Romolo Illuminati disse: “io vedrei bene tra i teologi don Miola, come educatore”. Tutti annuirono, si sentirono liberati da un peso, che videro volentieri gettato sulle mie spalle! D’accordo il vescovo e tutti i presenti. Nel liceo classico <A. Caro> prese l’insegnamento di Religione Cattolica don Romolo Illuminati. Fece bene; pian piano ebbe la cattedra completa di 18 ore e l’ha mantenuta fino al pensionamento, cioè fino al 2004. Si dedicò solo all’insegnamento e non accettò mai altri impegni né in ITM-ISSR né in diocesi.
Lasciata la scuola di religione, mi trasferii in ima cameretta al reparto dei teologi, presi lo studiolo all’angolo del secondo piano dove c’erano da una parte alcune camerette degli studenti e dall’altra il corridoio e le aule di ricreazione; le aule di teologia stavano al primo piano.
Cominciai con loro l’anno 68-69. Il seminario teologico contava una trentacinquina di studenti, composto dai seminaristi di Fermo e di Ascoli Piceno, perché mons. Morgante, per scarsità di alunni, aveva mandato i teologi al seminario di Fermo. Lui, compagno di studi di mons. Cardenà al seminario pio-romano, controllava la situazione venendo da Ascoli una volta la settimana per tenere un corso in teologia. Aveva lasciato l’insegnamento in quell’anno dopo la contestazione che aveva avuto in classe. A scuola venivano anche i teologi della congregazione dei Figli dell’Amore Misericordioso, circa una quindicina, italiani e spagnoli.
Al seminario minore della media era stato già chiamato come rettore don Giuseppe Trastulli, al liceo furono posti come assistenti non più dei teologi, ma dei preti: don Armando Marziali, don Valentino Lauri, che era anche professore di matematica; poi don Remo Agostini e poi don Vittorio Rossi, con i quali collaboravo; ma il mio compito specifico era quello di seguire i teologi, Mons. Cardenà era il rettore generale.
Non feci programmi, mi proposi di condividere la vita con loro e di ascoltarli molto. La cosiddetta pedagogia del tempo parlava di educazione in piccoli gruppi di condivisione e lasciai che si organizzassero in gruppi tra di loro; si parlava di iniziare i teologi all’attività pastorale e furono mandati alla domenica in parrocchia; cercai di stimolarli allo studio intenso e personale della teologia, ma fu cosa per pochi, la maggior parte non andava al di là delle lezioni. S’era in tempo di riforma liturgica, sfrondammo tante devozioncelle e centrammo tutto sulla liturgia eucaristica, la meditazione della parola, la liturgia delle ore, lodi al mattino con uno spazio di meditazione e vespro alla sera. La Messa per lo più fu celebrata alla sera e dopo le letture io tenevo quasi sempre l’omelia o si lasciava spazio di riflessione. Gli esercizi spirituali e i ritiri si andava a farli fuori sede invitando qualche prete diocesano o esterno come guida. La figura del padre spirituale ne rimase ridimensionata, per fortuna c’era quel sant’uomo di don Marcello Manfroni, che rimase punto fermo di riferimento per diversi giovani; altri erano più legati a don Armando Marziali, che andavano a trovare a Villa Nazareth.
Si sentiva un’attesa quasi spasmodica dell’estate come tempo d’esperienza, col pretesto di presenza e conoscenza dei problemi del mondo, si voleva lavorare per guadagnare ed essere autonomi dalle famiglie e per condividere il lavoro con altri giovani. Fu così che organizzammo per le vacanze periodi di lavoro e lo trovammo per due-tre armi in luglio e agosto all’AIA di Verona, una grande azienda per la lavorazione del pollame: ospiti in una cascina, messa a disposizione da un medico, si andava a lavorare in azienda per otto ore mattino e pomeriggio, si prendevano i pasti alla mensa comune, alla sera dopo il lavoro ci si ritrovava in cascina, ma la vita era dura e si sentiva la voglia di evadere. La domenica, celebrata l’Eucaristia, uscivano in gruppetti tra di loro e con giovani e ragazze, amici nuovi fatti in azienda. Alla sera era difficile ritrovarsi per fare sintesi della settimana o della giornata. L’esperienza non fu negativa, ma si capì che non poteva essere la normalità dell’esperienza estiva di teologi.
Questa libertà era sentita come positiva. Mons. Cardenà ne soffriva e me lo disse apertamente. L’arcivescovo Perini, nonostante le critiche che sentiva mi lasciò fare e mi dette fiducia. Era evidente che molti teologi in questo clima furono rafforzati e maturarono una vocazione più sentita, diversi ne furono travolti. Sentivo che s’era perso l’amore al seminario come luogo di formazione, anche perché si parlava e si scriveva di altri metodi di formazione al sacerdozio. Si facevano le ipotesi più varie: si diceva di preparare i teologi a gruppi presso i preti stando nelle parrocchie, si parlò del seminario della cattedrale come era prima di Trento! In questa babele di ipotesi era difficile convincerli della necessità della struttura del seminario. Qualcuno mi diceva: “vedrai che l’anno prossimo dei liceali, fatta la maturità, nessuno verrà in teologia” e di fatto fu così; altri dicevano: “io non dirò mai a ragazzi di venire in seminario, il seminario è finito!”
L’arcivescovo Perini intanto aveva presentato le dimissioni e nel settembre del 70 giunse come amministratore apostolico, a sede piena, mons. Cleto Bellucci. Di origine anconetana, era stato vicerettore del seminario regionale di Fano, dove aveva studiato, poi per lunghi anni rettore del seminario regionale abruzzese di Chieti, poi vescovo ausiliare di Taranto con sede a Castellaneta. Per i problemi del seminario e dell’impostazione educativa dei teologi ci fu sintonia, mi capì e mi sostenne.
\\\ 1972-77 per cinque anni rettore del seminario.
Mons. Bellucci si trovò ad affrontare la crisi del seminario o dei seminari. L’arcivescovo volle che facessi il rettore e nominò il rettore, mons. Cardenà, vicario generale.
Per il seminario formò un’equipe: me, rettore generale, ma mi occupavo della teologia; don Trastulli rettore della media; nel ginnasio c’era don Armando Monaldi, che era professore di francese, nel liceo don Vittorio Rossi, poi venne don Angelo Fagiani. Ogni settimana, in un mattino libero per tutti dalla scuola o da altri impegni, ci si riuniva, si affrontavano i problemi del seminario, collaboravamo con l’animatore vocazionale dei pp. della Consolata, p. Bonomi, che sembrava avere in tasca la panacea per risolvere ogni crisi.
Organizzammo incontri con ragazzi di quarta-quinta elementare e le parrocchie a turno alla domenica ne mandavano tanti. I teologi li intrattenevano con incontri al mattino, li preparavano alla Messa, dopo pranzo li guidavano nella ricreazione e nel pomeriggio facevano un trattenimento in teatro con canti e piccoli sketsh e si chiudeva la giornata. Era un lavoro faticoso, ma ci si impegnava nella speranza di avere frutti e invece vedevamo che ogni anno calavano le entrate dei ragazzi nella media, che era stata parificata e ben organizzata, ma d’altra parte la media, dopo l’introduzione dell’obbligo, ormai stava in tutti i paesi. Il vecchio criterio per cui si accoglievano in seminario molti ragazzi e poi nel corso degli anni avveniva la selezione verso la teologia e il presbiterato era finito!
Vedevano più chiaro i giovani teologi che non noi superiori! Nel giro di quegli anni la scuola media finì; rimaneva il liceo parificato, aperto agli esterni, che man mano vedeva sempre più la prevalenza degli esterni, che dei seminaristi interni. Don Trastulli andò parroco alla pievania di Montegranaro, io rimasi con la teologia e alcuni ragazzi di liceo. La crisi era generale, erano stati chiusi i seminari minori nelle Marche e non solo, e tuttavia le critiche del clero, soprattutto anziano, erano feroci: io e i miei collaboratori eravamo gli affossatori del seminario! Mons. Bellucci era consapevole della crisi e non recepiva, per nostra fortuna, le critiche e ci sosteneva nello scoramento generale.
Per di più in quegli anni di crisi mons. Bellucci dovette affrontare la questione della permanenza del nostro seminario teologico. Il seminario regionale di Fano, finito il liceo, ridotto il numero dei teologi, si vide costretto ad abbandonare il grande edificio, proprietà della S. Sede, perché dispersivo e perché i seminari regionali erano passati alle dipendenze delle conferenze episcopali regionali, mentre il Vaticano reclamava la possibilità di vendere l’immobile. Ci furono grandi discussioni su dove portare il seminario regionale. La sede più appropriata sembrava Loreto perché era fuori da accaparramenti delle diverse diocesi marchigiane in quanto era prelatura a sé stante, ma i vescovi interessati non trovarono un accordo. Volevano che anche la diocesi di Fermo in quanto diocesi più grande in regione aderisse all’unificazione in un solo seminario maggiore, ma mons. Bellucci sostenuto dai superiori del seminario e dal clero diocesano non aderì. Giustamente disse: il seminario maggiore con il suo corpo docente è un bene grande per una diocesi, io ce l’ho e non vedo perché dovrei disfarmene. Aprì il seminario teologico diocesano ad accogliere teologi di altre diocesi, specialmente di vocazioni adulte e di seminaristi inviati dai rispettivi vescovi per motivi diversi e così ospitò teologi aquilani, teramani, pugliesi e andò avanti abbastanza bene. L’Istituto teologico era affiliato alla Pontificia Università Lateranense con i quattro anni di teologia e un quinto per poter fare il baccellierato.
Il seminario regionale trovò ospitalità in una villa a Montesicuro, se ricordo bene, stabilì i corsi teologici nel collegio dei saveriani in Ancona in zona Posatora, aperto anche ai religiosi; noi di Fermo collaborammo con qualche professore come Bonifazi, ci incontrammo diverse volte con i seminaristi, io feci amicizia con il rettore di allora don Delio Lucarelli (poi vescovo di Rieti).
Come rettore, dialogando con i giovani, continuai a proporre una buona liturgia: lodi e meditazione al mattino, vespro ed eucaristia con omelia alla sera; il rosario libero a gruppetti; incontri quindicinali o mensili di revisione comunitaria della vita di seminario, attività pastorale alla domenica in parrocchia, l’arcivescovo fu d’accordo per mandarli in parrocchia fin dal sabato pomeriggio; una certa libertà per uscire, avvisando il rettore. Un turno per le pulizie, oltre alle proprie stanze, anche dei corridoi e del refettorio. Esercizi spirituali di tre giorni all’inizio e prima della fine dell’anno e ritiri nei tempi liturgici forti e in altre occasioni. Il padre spirituale era sempre don Marcello, stimato per la sua pietà, ma ormai non teneva più le meditazioni, se non raramente. Fungeva anche da padre spirituale don Marziali, che i teologi andavano a trovare a Villa Nazareth. Ero fermo nel chiedere la presenza ai momenti comunitari, specialmente al mattino, mentre qualcuno rivendicava una ‘certa libertà’, ma non la consentivo per educarli alla precisione e alla correttezza verso gli altri.
La vita di comunità era imprescindibile per me, che venivo dalla disciplina del seminario romano, e mi dava fastidio vedere la fatica o meglio la trascuratezza dei teologi, almeno di alcuni. Negli anni settanta si parlava molto di vita di comunità, ma si guardava fuori, c’era una certa smania di andare a fare esperienze, che a me non piaceva, ma che dovevo tollerare. Fu così che l’arcivescovo Bellucci permise ad alcuni, finita la teologia, di andare un anno dai focolarini, se ben ricordo a Grottaferrata, e mi stupivo quando qualcuno, dopo quattro anni di teologia, al ritorno diceva: “adesso sì che ho imparato che cos’è il cristianesimo e la comunione!”
Tenevo allo studio e cercavo di farne capire l’importanza, spinsi mons. Bellucci a mandare giovani capaci a fare delle specializzazioni a Roma: mandò Giustozzi al Capranica e fece la Gregoriana; dopo la teologia a Fermo, fece laureare don Orazi in lettere classiche e lo mandò al Patristico e don Scarabotto prima e don Filippo Concetti dopo a fare liturgia a S. Anselmo. Petruzzi cominciò teologia dopo la laurea in lettere, ma poi andò al seminario lombardo a Roma e fece storia alla Gregoriana.
Con l’introduzione delle lingue popolari nella liturgia si sentiva la difficoltà di cantare il gregoriano; invece dell’organo si preferiva la chitarra! Convinsi il maestro don Celsi a musicare testi italiani e compose diverse parti per le celebrazioni in cattedrale, antifone della settimana santa ed altri testi, che ancor oggi piacciono e si cantano. Ma i teologi erano più portati alla musica moderna e invece di suonare il pianoforte o l’organo, chiedevano di avere un complessino; l’economo del seminario non ne volle sapere, mi venne in mente allora di chiederlo al prof. Patrizio Astorri, chirurgo e proprietario della clinica “Villa verde”, che conoscevo bene, e me lo finanziò.
Durante l’estate approfittavo del tempo libero per andare con l’Opera Romana Pellegrinaggi (ORP), di cui avevo conosciuto il direttore mons. Bianchi, per andare come assistente di pellegrinaggi nei paesi biblici, visitai così più volte l’Egitto, la Giordania, la Siria, la Turchia, tornai spesso in Terra Santa come guida di gruppi dell’ORP o che io stesso organizzavo. Approfittavo anche dell’amicizia e dell’ospitalità che mi dava don Rolando Di Mattia a Loro Piceno e mi preparavo qualche esame da fare all’università di Bologna presso cui mi ero iscritto a lettere classiche.
L’economo del seminario era da anni mons. Giuseppe Roscioli. Teneva in mano l’amministrazione, non accettava richieste e innovazioni, sapeva amministrare, e sapeva anche vantare il suo operato. Personalmente non ci prendevamo molto; ad un certo punto lasciò, quasi improvvisamente, il seminario perché fu chiamato all’amministrazione dei beni della prelatura di Loreto. Fu nominato economo don Dino Scoppa, che aveva i suoi punti, ma ci sentivamo almeno più spesso. Non ricordo precisamente in quale anno, quando ci trovammo ad affrontare il fatto che le suore della congregazione di Maria Bambina, presenti in seminario ab immemorabili, addette alla cucina, alla lavanderia e al guardaroba del seminario, se ne andarono a Loreto chiamate proprio da don Roscioli. Don Scoppa dovette immettere personale laico e forse fu anche un bene.
Mi occupai in quegli anni anche dell’”aggiornamento” del clero. Questa parola di papa Giovanni era diventata un richiamo impellente e in quegli anni invitai a tenere giornate di studio i professori che avevo conosciuto all’Istituto S. Anselmo e vennero proff. come Federici, p. Marsili, p. Nocent, p. Pinell, che crearono un bel clima per la recezione della riforma liturgica. Mons. Bellucci, sollecitato da me, da don Rolando Di Mattia e da don Lino Ramini, oltre agli incontri zonali, accettò di farci organizzare settimane estive residenziali di studio. Si teneva una settimana a fine giugno e una a fine agosto in località piuttosto lontane da Fermo per far sì che il clero si fermasse. Si sceglieva un tema di attualità, si chiedeva ai docenti del nostro istituto teologico di tenere delle relazioni e si invitava qualche noto teologo italiano. Furono settimane di convivenza cordiale e d’impegno, molto vivaci, intramezzate con qualche escursione a luoghi vicini d’importanza storica.
Ricordo le settimane di villa Immacolata in diocesi di Pescara sul rinnovamento della morale, quelle di Frontignano di Ussita sulla riconciliazione e quella sull’amministrazione economica della parrocchia, poi quelle presso gli alberghi gestiti dalla cooperativa di don Lino Ramini sulle Dolomiti. Un’esperienza che durò per diverso tempo tra gli anni settanta-ottanta.
\\\ 1977-1988 dieci anni di vicario generale di Mons. Bellucci
In occasione di riunioni ristrette era stato suggerito più volte all’arcivescovo di fare una visita pastorale e concluderla con la celebrazione di un sinodo diocesano. Nel giugno del 76 mons. Bellucci era succeduto formalmente a mons. Perini, come arcivescovo di Fermo. Di fatto non cambiava nulla perché era (già) amministratore sede piena con diritto di successione e fin dall’inizio lo si considerò arcivescovo della diocesi. Mons. Perini era rimasto in episcopio e mons. Bellucci convisse con lui per sette anni. Perini morì il 9 dicembre del 77, alla bella età di 92 anni, mentre si trovava a Busto Arsizio, ospite in una casa di riposo fondata dal suo fratello senatore. Nell’estate di quell’anno mons. Bellucci, avviando la visita pastorale, nominò mons. Cardenà vicario per la visita e nominò me vicario generale e nominò rettore del seminario don Paolo De Angelis. Al posto di mons. Lorenzetti nominò don Giuseppe Paci direttore dell’ufficio amministrativo
Costituì anche una specie di consiglio episcopale chiamando mons. Rolando Di Mattia a fare il vicario per la pastorale, mons. Giuseppe Di Chiara vicario per gli uffici di curia e don Lino Ramini come consulente per l’amministrazione. L’arcivescovo ci riuniva poche volte, ma io, don Rolando, don Peppe e don Lino ci riunivamo quasi tutte le settimane a casa di don Di Chiara a Monte San Pietrangeli. Si tenevano presenti i problemi della diocesi, le situazioni del clero, l’attività del vescovo ed io mi facevo portatore presso il vescovo, ma a titolo personale, delle indicazioni che emergevano dai nostri incontri.
Il 6 agosto 1978 morì Paolo VI, fu eletto papa Luciani, che morì dopo appena 33 giorni di pontificato e nell’ottobre, con vera sorpresa di tutti, fu eletto Giovanni Paolo II.
Mons. Bellucci era persona sui generis, aveva un’attenzione particolare all’arte e si circondava di amici. Aveva insegnato arte sacra per molti anni al seminario regionale di Fano e poi in quello di Chieti e aveva arricchito la sua sensibilità con visite a luoghi di storia e d’arte; il suo motto episcopale era: “dixi vos amicos” e selezionava amicizie, che poi sapeva mantenere con incontri, telefonate, ricordi ed auguri per ogni ricorrenza. Gli altri non contavano o contavano poco. Aveva un’ottima memoria visiva per cui ricordava volti e persone, luoghi ed occasioni, particolari che in genere a molti sfuggono. Teneva banco nella conversazione e sapeva parlare di tutto, non solo di arte, ma di storia e politica, di culinaria e di vini, di prodotti tipici regionali italiani ed esteri. Il primo impatto poteva essere di attenzione ammirata, ma più spesso poi di noia. Alla venuta a Fermo, trovò il palazzo vescovile in rovina nel senso che portava tutti i segni della sua vetustà e di un’incuria di manutenzione durata secoli poiché gli interventi fattivi erano stati solo occasionali e mai risolutivi. Ebbe il coraggio di affrontare il problema funditus e di metter mano ad un rifacimento radicale ab imis: seminterrato, archivio, piano terra con gli uffici di curia, piano di rappresentanza, piano notte e piano soggiorno. Curò i particolari di rifinitura e di arredamento degli ambienti: ingressi in ferro battuto, stucchi e affreschi rifatti, quadri, pezzi storici. Il risultato fu quello di un palazzo antico splendido. Passò la maggior parte del suo episcopato tra la polvere dei lavori nel palazzo, ma sembrava che ci guazzasse! Un bel coraggio, soprattutto economico perché in tempi di crisi dell’agricoltura il reddito della mensa vescovile era quasi nullo; dovette far fronte con i cosiddetti “cantieri di lavoro” messi a disposizione dal Ministro dei Lavori Pubblici per varie occasioni, sottraendoli, dicevano i parroci, alla destinazione parrocchiale. I suoi discorsi cadevano perciò spesso, se non sempre, sull’andamento dei lavori e i progetti di ripristino del palazzo. Io mi domandavo: “come fa a tener dietro ai lavori? E il denaro dove lo prende?” E mi lasciava l’insicurezza di un’incapacità mia personale a far fronte ad impegni simili. Una volta messo a posto il soggiorno al piano più alto, da cui si godeva un panorama splendido sul territorio degradante verso il mare, vi invitava personalità ed amici a pranzo, ricevuti e serviti con tratti principeschi. Qualcuno scherzava: “peccato che l’arcivescovo di Fermo abbia perduto, con la riforma di Paolo VI, il titolo di ‘principe’!” Mise a posto anche un’antica casa parrocchiale di Torre di Palme, che era rimasta libera dopo la morte di don Ferdinando Angelici, che era venuto ad abitare in seminario, poiché le due parrocchie di una frazione di poche centinaia di persone erano proprio inutili. In una posizione alta, splendida di fronte al mare, la ristrutturò conservando le caratteristiche delle linee medioevali. Una volta sistemata, ci invitava degli amici o anche noi del consiglio episcopale per qualche riunione. Diceva che si sarebbe ritirato qui quando avrebbe dato le dimissioni una volta raggiunti i settantacinque anni, come di fatto è stato. Dovette affrontare anche i lavori per la revisione del tetto della cattedrale perché ci pioveva dentro; prese occasione di questi lavori per ampliare gli spazi esterni nord a fianco della cattedrale per farvi il museo diocesano; strutturò gli ambienti ma non riuscì a refinirli e a sistemarli col materiale raccolto. Fu poi aperto dal successore mons. Franceschetti. Qualcuno l’accusava di avere la malattia del mattone, di fatto però sistemò ambienti strettamente necessari.
Con una personalità di tal fatta il lavoro pastorale in realtà passava in second’ordine. Non che se ne scordasse, ma vi portava un interesse superficiale e mai conclusivo. Lasciava l’impressione che la sua mente e il suo cuore stessero altrove, tanto più che i suoi rari interventi scritti e la sua predicazione erano generici e di una ripetitività asfissiante: la storia della salvezza e l’amore di Dio. Temi alti, ma con il rischio di banalizzarli. Qualche prete acutamente diceva: “è un esteta, e tutto vede con occhio estetizzante!”
Il mio lavoro di vicario generale si concentrò sulle relazioni con i preti e sulla pastorale. Mons. Bellucci si riservò tutto l’aspetto economico che affrontava con persone di sua fiducia come l’amministratore della mensa vescovile mons. Sabatini, il cassiere di curia prima mons. Contigiani e poi don Muccichini. Mi lasciò spazio invece nelle relazioni con i preti giovani nella sistemazione delle parrocchie, nell’aggiornamento teologico-pastorale dei preti nell’approfondimento delle linee pastorali della CEI, nelle iniziative che prese o gli furono suggerite come: la visita pastorale, il congresso eucaristico diocesano, il sinodo. Il mio rapporto col clero fu buono e in genere trovai accoglienza sulle proposte, anche di cambiamenti. Una sola mi creò problemi e rottura con don Silvestro Contigiani. Lui era parroco a S. Giuseppe alla periferia di Civitanova, vi aveva costruito la chiesa nuova, ma non la canonica, viveva in città con la sorella; era stanco e mi chiese di cambiare e di poter andare a fare il cappellano all’ospedale della città. I parroci della zona erano più che favorevoli ed io proposi a don Ginesio Cardelli di prendere la parrocchia; accettò la proposta. Quando orami tutto era concluso don Silvestro, che era andato a vedere la sua camera all’ospedale e resosi conto del lavoro, vide in don Ginesio un concorrente e non volle più andare cappellano all’ospedale. Rimasi fermo nella decisione, del resto presa concordemente, ed avvenne la rottura, e dopo non mi parlava. Mi dispiacque e me ne dispiace.
Il lavoro per la visita pastorale non mi impegnò tanto perché ci si era dedicato mons. Cardenà. S’era concordato con lui un ampio questionario da mandare prima ai parroci e poi seguì lui tutto il lavoro. Il questionario e la visita dovevano essere una premessa al sinodo: oltre tutti i rilevamenti riguardanti la chiesa parrocchiale (e le altre chiese) e la sacrestia con tutti i beni e le suppellettili, l’amministrazione dei beni di proprietà parrocchiale, il questionario affrontava le tematiche pastorali secondo la triplice divisione: evangelizzazione e catechesi, liturgia e pietà popolare, attività pastorali di ambito sociale e organizzazioni varie. Era complesso e non tutti lo presero seriamente e mons. Cardenà fece fatica a ferli compilare. Una volta ritirati i questionari e fattane una sintesi andava a discuterne con il parroco o, se c’era, con il consiglio pastorale della parrocchia. Rivista la sintesi, ne passava copia all’arcivescovo. Mons. Cardenà si lamentava ogni tanto con me che mons. Bellucci non lo chiamasse per parlarne insieme e aveva il sospetto che non le leggesse e non ne tenesse conto. Fu un lavoro improbo per due anni e più dal 78 all’81, difficile per mons. Cardenà anche perché non guidava la macchina e quindi aveva bisogno di concordare tempi e orari con i parroci che venivano o mandavano a prenderlo. Cominciò la visita, purtroppo si vide subito che non poteva portare i frutti che ci si aspettava. L’arcivescovo prese la visita come una sua presenza celebrativa, non si faceva accompagnare da chi l’aveva preparata, cioè da mons. Cardenà, se non rare volte, e tutto finiva con una Messa solenne, il successivo pranzo e qualche incontro in parrocchia con i gruppi e la gente. Era stata prevista una nota da trasmettere alla parrocchia dopo la visita come guida in base ai rilievi fatti, ma, mi pare, ne fece pochissime e generiche. Il lamento del vicario per la visita era costante e forse ne arrivò eco all’arcivescovo. Con me e con il consiglio episcopale non parlava volentieri della visita pastorale; non aveva in simpatia mons. Cardenà, anche se diceva di stimarlo, e forse per questo lo fece sentire emarginato. Furono due anni non del tutto persi, ma quasi; e soprattutto non creò consensi attorno all’arcivescovo.
Mons. Di Mattia era molto critico nei confronti dell’arcivescovo per il suo modo esteriorizzante e, secondo lui, superficiale di condurre la diocesi, lui chiedeva all’arcivescovo prese di posizione chiare anche in campo sociale-politico, non ricordo precisamente per quale questione, ma ad un certo momento, dopo un colloquio faccia a faccia, se ne andò da vicario per la pastorale; don Rolando mi invitò a lasciare, ma rimasi al mio posto.
Non aveva ancora finita la visita pastorale in molte grandi parrocchie che volle indire un congresso eucaristico diocesano. Mi dovetti sobbarcare a questo lavoro, ma non malvolentieri pensando che poteva essere un’occasione per un approfondimento della celebrazione dell’Eucaristia e del culto eucaristico. Don Filippo Concetti, professore di Liturgia al nostro Istituto teologico, ed io preparammo un bel testo servendoci di sussidi di altre diocesi e di consigli del prof. Federici, dividendo il materiale in otto temi e altrettante schede da usare durante l’anno di preparazione in tempi lasciati alla programmazione parrocchiale. L’accoglienza fu fredda, forse per la delusione della visita pastorale e il lavoro di approfondimento sull’Eucaristia non fu né molto né efficace.
Nell’83-84 fu indetto da Papa Giovanni Paolo II l’anno santo della redenzione; la diocesi vi partecipò con un grande pellegrinaggio. Ci fu un’adesione massiccia; don Luigi Traini s’incaricò dell’organizzazione delle autocorriere e tra gente andata con i pullman e macchine private a Roma eravamo circa dodicimila persone. Ci fu concessa la celebrazione eucaristica in S. Pietro all’altare basilicale presieduta dall’arcivescovo e un’udienza del S. Padre nella sala Paolo VI. La diocesi offrì al papa una bella somma di danaro per la carità e un evangeliario in argento, che io feci preparare in sbalzo dall’artista prof. Pancione, che allora insegnava all’istituto d’arte di Fermo.
Si arrivò al maggio dell’85 e organizzammo la chiusura del congresso eucaristico diocesano con iniziative durante il mese di maggio e la settimana conclusiva. Tra le personalità più significative invitate: mons. Chiarinelli, il p. benedettino di S. Anselmo prof. Scicolone, il prof Campanini e soprattutto per la giornata dei giovani madre Teresa di Calcutta. Andammo a prenderla a Roma alla casa delle suore sulla Casilina io, il dott. Raffale Astorri e la signorina Dolores. Rimanemmo esterrefatti quando ci disse che, nonostante gli accordi presi già da un anno, non poteva venire perché impegnata con il ritiro delle suore che dovevano fare alla domenica la professione solenne. Dopo insistenze, dinanzi alla sua fermezza, mi venne l’idea di dirle: avvisiamo il vescovo che la sta aspettando con tremila giovani Quando dopo la telefonata le dissi che il vescovo la voleva assolutamente a Fermo, chinò la testa e disse: “debbo ubbidire!” Mi fece impressione questo senso di ubbidienza ai vescovi! Facemmo il viaggio con la macchina del dott. R. Astorri in due ore e quindici minuti dalla Casilina al palazzetto dello sport di Porto S. Elpidio. Fu un delirio tra i giovani che non finivano di applaudire. L’ascoltarono veramente in religioso silenzio sebbene lei parlasse in inglese e mia nipote Mariagrazia traducesse. Segno proprio che la santità s’impone da sé. Dopo l’incontro con i giovani venne al duomo di Fermo dove c’erano gli anziani, li salutò e subito dopo ripartì per Roma. Mons. Di Chiara le consegnò un assegno della Caritas di sette milioni per i suoi poveri. La celebrazione conclusiva del congresso si tenne al Girfalco di Fermo la domenica di Pentecoste, si prevedeva la partecipazione di più di settemila persone, ne vennero dalla città e dai paesi circa cinquemilacinquecento. Dopo il congresso curai un volume con gli atti dell’ultimo mese.
Dopo la firma del nuovo concordato tra Stato italiano e S. Sede nel 1984 si avviò la riforma delle parrocchie e di tutto il sistema beneficiale. A mio parere fu una benedizione perché ormai il sistema beneficiale, fatta eccezione per pochissimi casi, non reggeva più e si doveva ricorrere ad altri mezzi per il sostentamento del clero, come la creazione di vicarie curate che permettevano ai preti titolari di ricevere la cosiddetta congrua. Il sistema di perequazione con un assegno mensile, anche se piccolo, garantiva il minimo, per qualsiasi tipo di ministero svolgesse, ad ogni prete, che non avesse altre entrate. Tutto il lavoro di ristrutturazione della parrocchie, dopo alcune riunioni di avvio, fu fatto da mons. Giuseppe Paci, direttore dell’ufficio amministrativo diocesano.
La visita pastorale continuò anche durante il tempo di preparazione al congresso eucaristico diocesano ed io cominciai a parlare della preparazione al sinodo, cui servivano da premessa e l’una e l’altro. Io andavo spesso dal vescovo, almeno una volta alla settimana o comunque quando era necessario. Un giorno di novembre dell’85 mi fece chiamare, mi consegnò una lettera della congregazione dei vescovi, in cui mi si trasmetteva la proposta di nomina a vescovo per la diocesi di Fano-Fossomhrone-Cagli-Pergola. Posso ora ricordare la cosa liberamente perché Mons. Bellucci, dopo il mio rifiuto, lo ha detto a tutti in più occasioni. Gli manifestai il mio disagio, mi disse di pensarci e di pregare, mi preparò lui stesso una lettera di accettazione, ma risposi che non me la sentivo di affrontare un tale ministero. Non ero spiritualmente preparato e il modello che avevo davanti con tutto l’impegno profuso nei problemi edilizi e nelle relazioni sociali ed amicali non mi piaceva, inoltre la situazione dei miei familiari era pesante. Mia madre era morta nel maggio dell’83, babbo andava vieppiù perdendo forze e lucidità, mio fratello Pietro, handicappato per una poliomielite infantile, era spesso in ospedale per problemi ortopedici ed urologici e non me la sentii di lasciare mio fratello Umberto e la sua famiglia a far fronte a tutte le difficoltà anche se mia cognata Fulvia si era prodigata sempre e in modo ammirevole nella lunga infermità di mamma e nella cura di mio padre e di mio fratello Pietro. Mons. Bellucci se ne dispiacque e tentò di rimediare mandandomi personalmente prima dal sottosegretario della congregazione, mons. Moreira Neves, cui ripetei le mie difficoltà, la mia incapacità e indisponibilità a questo servizio. Nel gennaio successivo mi mandò dal nunzio, di cui non ricordo il nome, che mi ventilò a voce un’altra proposta, quella di Camerino, ed egualmente ripetei il mio diniego. Mi chiese se desiderassi un’altra sede, ma risposi che non mi sentivo adatto ad assumere il servizio episcopale. Oggi debbo dire che non me ne sono mai pentito.
Nell’86, se ricordo bene, mons. Armando Marziali mi propose un’iniziativa, che io condividevo e a cui pensavo da tempo: organizzare una scuola di preparazione per il diaconato permanente. Mi disse che ne aveva parlato col vescovo, che gli aveva dato mandato di organizzarla come meglio credeva. Alcune diocesi italiane l’avevano già fatto, esisteva un centro diaconale a Reggio Emilia, che stampava anche una rivistina sul diaconato e le diverse esperienze connesse. Dopo averne parlato a lungo, sentiti anche diversi preti, piuttosto scettici però, decidemmo di partire. Lui avrebbe pensato a trovare nelle parrocchie uomini capaci e disponibili, a curare la formazione spirituale con incontri personali e di gruppo, io dovevo pensare alla scuola. Stabilimmo un cammino lungo di otto anni, che dovevano servire sia allo studio, ma soprattutto a sperimentare chi lungo questo tempo sarebbe rimasto fedele e avesse mostrato capacità di svolgere un ministero di cui ancora in pratica non si vedeva la specificità. Per la scuola stabilimmo corsi piuttosto impegnativi sulle diverse discipline teologiche: scrittura, dogmatica, morale, liturgia, storia, pastorale. Marziali volle che si tenessero le lezioni al sabato mattino e le stesse al sabato pomeriggio per dare la possibilità più ampia di partecipazione. Ci fu un numero discreto di iscrizioni, ma la difficoltà più grossa fu quella di trovare insegnanti perché la scuola impegnava tutto il sabato, mattino e pomeriggio, e non c’erano compensi! Bonifazi ed Illuminati si trincerarono dietro il fatto che secondo loro questa scuola non doveva esistere perché chi voleva diventare diacono avrebbe dovuto frequentare l’Istituto di Scienze Religiose! Ma quali uomini, professionisti o lavoratori sarebbero potuti venire a lezione tre volte alla settimana? Così io dovetti fare Bibbia e Liturgia, don Luigi Valentini Morale e Storia. Lasciammo ampia possibilità di fare gli esami: nei giorni stabiliti o in qualsiasi giorno, quando l’avessero preparati. Non coincidevamo in tutto io e don Marziali sia sul nome perché io volevo chiamarla; non “scuola per il diaconato”, ma “scuola di formazione teologica”, inoltre Marziali voleva che, partecipassero solo gli uomini scelti io invece volevo che fosse aperta anche alle donne, alle catechiste. Comunque partimmo. Le prime ordinazioni furono di due giovani uomini sposati provenienti da fuori diocesi: Gherardi Silvano, di origine piemontese, aveva fatto licenza in teologia a Roma col prof. Federici, che mi raccomandò di prenderlo in diocesi perché era sposato con una signora di Francavilla d’Ete e il parroco don Paolo era entusiasta di lui; l’altro di origine veneta, Luigi Mizia, collaborava con la comunità di Capodarco, completò qui da noi gli studi Mons. Bellucci li ordinò, ma purtroppo non si rivelò un buon inizio: il primo si impegolò in questioni di politica paesana e fu causa di divisione del paese; il secondo di carattere non si prese molto con la popolazione locale con cui aveva cominciato un corso biblico. In seguito con i nostri candidati locali l’esperienza è stata positiva. La scuola di formazione teologica esiste ancor oggi, ha formato una ventina di uomini ordinati diaconi, oggi è aperta anche alle donne ed attualmente nel 2006 ci sono una quarantina di iscritti.
Fu fatta una commissione per la preparazione del sinodo. Don Vinicio Albanesi, don Paolo Petruzzi e don Giovanni Cognigni proposero di prendere un unico tema, quello dell’evangelizzazione, e prepararono anche uno studio e un progetto; io proponevo una revisione della vita diocesana e pastorale su scala più ampia e prospettavo di porre alla base del lavoro le tre prerogative del popolo di Dio, sacerdotale, profetico e regale e quindi dì prevedere dopo un periodo di analisi di affrontare le tematiche: evangelizzazione e catechesi (profezia), liturgia e preghiera (sacerdozio), società e impegno nel mondo (regalità). Ci fu un lungo periodo di stasi e, alla ripresa della discussione, il vescovo appoggiò la proposta più ampia e si decise, ormai a più di venti anni dal concilio, di verificarne la recezione, di rimeditare i documenti conciliari e quelli postconciliari della S. Sede e della CEI, di dedicare un anno per ogni ambito con dei testi guida da discutere nelle riunioni distrettuali e vicariali e dopo tre anni di lavoro e di coinvolgimento di clero e laici, preparare, in base a quanto emerso, dei documenti, per ognuno dei tre ambiti, che sarebbero dovuti essere materia di discussione nelle assemblee sinodali. Si previde così un periodo di cinque-sei anni. Di fatto il lavoro cominciò nell’87 e terminò nel 94; il vescovo fece pubblicare il volume del sinodo nel 1995 nel 25° del suo episcopato a Fermo.
Gli anni 80 sono stati un po’ duri per la morte di mamma nell’83 e poi nel marzo 86 per la morte di babbo. Sono loro grato perché mi hanno lasciato piena libertà di scelta nella mia vita, mi hanno sostenuto sempre e mi hanno dato un esempio prezioso di fede, di vita cristiana, di pazienza nelle difficoltà, di perdono verso tutti, di laboriosità, di serenità. Ma anche anni duri per la salute. Non stavo bene perché mi aveva colpito una forte asma dovuta ad allergie, particolarmente da acari, a causa dello studio angusto, le cui pareti avevo foderato di libri. Feci vaccini per diversi anni, ma senza vantaggi. Feci una visita in Ancona dal dott. Floriano Bonifazi, mi trovò polipi nasali e mi consigliò di farmi operare a Fano dal dott. Citroni; da allora sono stato meglio, sotto controllo del centro allergologico di Ancona; mi segue la dott. Garritani. Chiesi al vescovo Bellucci di poter usufruire dell’appartamentino a fianco del mio studio, che era sempre libero e disponeva di un locale in cui avrei potuto sistemare i miei libri; me lo permise e mi trasferii e ci sono rimasto fino ad oggi. Furono anni difficili anche per i frequenti e lunghi ricoveri di mio fratello Pietro per problemi urologici all’ospedale di Pesaro. L’ho dovuto assistere per settimane e settimane per fortuna in periodo estivo; nello stesso periodo anche mio fratello Umberto ebbe problemi urologici e per un po’ di tempo stettero tutt’e due ricoverati allo stesso reparto.
I miei rapporti con l’arcivescovo erano sempre schietti e cordiali, ma forse non tollerava certe mie richieste, di cambiare, ad esempio, dalla funzione di cassiere di curia don Armando Muccichini che era anche suo segretario personale, perché i preti non lo volevano; d’altra parte s’era approfondita una certa frattura del vescovo con il clero quando fu pubblicata la lista degli iscritti alla loggia massonica P2, in cui figurava, insieme con alti prelati d’Italia e della curia romana, anche il suo nome. Il vescovo smentì la notizia, ma la cosa gettò ombre sulla sua figura. Si serviva sempre più della consulenza di don Vinicio Albanesi e di don Lino Ramini, che erano preti in vista e di rilievo diocesano e nazionale per le loro opere (la comunità di Capodarco e la cooperativa 13 maggio per la gestione delle case per ferie), in qualche modo ammirati, ma non accettati da tutto il clero diocesano per certe espressioni ed atteggiamenti laicali e per le loro aperture sociali e politiche. Io già da tempo chiedevo di lasciare l’incarico di vicario generale e nel giugno 88 in una riunione si parlò di cambiamenti e l’arcivescovo nominò suo vicario generale mons. David Beccerica e vicario per la pastorale don Domenico Follenti, ma volle che continuassi il lavoro per il sinodo diocesano e mi nominò vicario per il sinodo.
<La Voce delle Marche – anno 2006>