GABRIELE MIOLA NELLA RIVISTA “Firmana” pubblicò RECENSIONI DI LIBRI
La rivista FIRMANA dell’Istituto teologico fu fondata a Fermo (FM) dal docente Gabriele Miola
Elenco delle opere studiate e commentate con note di complemento del docente Miola Gabriele:
+ Y. SIMOENS, Il libro della pienezza. Il Cantico dei Cantici. Una lettura antropologica e teologica, EDB, Bologna 2005 vedi FIRMANA nn. 41/42 (2006) pp. 297-299
+ J. L. SKA, Il Libro Sigillato e il Libro Aperto, EDB, Bologna 2005 vedi FIRMANA nn. 41/42 (2006) pp. 299- 305
+ J. L. SKA, I volti insoliti di Dio. Meditazioni bibliche, EDB, Bologna 2006 vedi FIRMANA nn. 41/42 (2006) p. 305
+ E. SCOGNAMIGLIO, Catholica. Cum Ecclesia et cum mundo, ED. MESSAGGERO
PADOVA 2004. vedi FIRMANA nn. 35/36 (2004) pp. 289-294
+ JEAN CABAUD, “Il rabbino che si arrese a Cristo. La storia di Eugenio Zolli rabbino capo a Roma durante la seconda guerra mondiale”, Edizioni S. Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2002 vedi FIRMANA nn. 32/33 (2003) pp. 233-236
+ EUGENIO ZOLLI, Prima dell’alba. A cura di Alberto Latorre. Ediz. San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2004 vedi FIRMANA nn. 35/36 (2004) pp. 294-297
+ I. FINKELSTEIN – N. A. SILBERMAN, Le tracce di Mosè. La Bibbia tra storia e mito, (Saggi 14), Carocci editore, Roma 2002 vedi FIRMANA nn. 32/33 (2003) pp. 223-233 L’unificazione d’Israele al tempo di David e Salomone. Storia o cacconto”fondativo?” A proposito di un libro recente.
+ J. L. SKA, La Strada e la Casa. Itinerari biblici (Collana Biblica 2), EDB, Bologna
2001 vedi FIRMANA n. 31 (2003) pp. 203-210
+ J. L. SKA, “Abramo e i suoi ospiti.Il Patriarca e i credenti in Dio unico”. Ediz. Dehoniane, Bologna 2003 vedi FIRMANA n. 31 (2003) pp. 203-210
+ P. SACCHI, Gesù e la sua gente, Cinisello Balsamo, S. Paolo 2003 vedi FIRMANA n. 31 (2003) pp. 210- 212
Il biblista Gabriele Miola fa recensione del libro
- SlMOENS, Il libro della pienezza. Il Cantico dei Cantici. Una lettura antropologica e teologica, EDB, Bologna 2005 (pp. 206) euro 15,50. vedi FIRMANA nn. 41/42 (2006) pp. 294-297
Il titolo del libro indica già da sé la sintesi cui è giunto l’autore, che presenta il risultato della sua ricerca in questo saggio sul Cantico dei Cantici: il Cantico celebra la pienezza della Historia salutis dell’Antico e del Nuovo Testamento, del primo in quanto il Cantico è l’espressione più alta della Sapienza e del secondo perché la Profezia ne lascia intravedere la consumazione nell’amore pieno tra il Creatore e l’uomo quale vertice di tutta la creazione. Il sottotitolo Lettura antropologica e teologica precisa il metodo seguito dall’autore, cioè di leggere unitariamente il senso letterale e spirituale del poema d’amore, che è il Cantico. Scrive nell’introduzione: «Leggeremo il Cantico integrando il senso spirituale nel senso letterale. […] Qui il senso letterale è soprattutto un senso antropologico. Il riferimento a Dio passa attraverso l’espressione dell’esperienza umana di una coppia che si ama» (pag. 8).
Simoens fa appena qualche accenno alla storia dell’interpretazione del Cantico nella tradizione ebraica e cristiana, lascia da parte le diverse teorie sulla formazione del poema, ritiene il cantico una composizione assolutamente unitaria di un unico autore anonimo del dopo esilio, che si nasconde sotto la figura di Salomone perché questo nome rimanda ad una dignità regale davidica e sapienziale.
Per Simoens i riferimenti dell’autore del Cantico sono da una parte Gen 2-3, capitoli che presentano la coppia simbolo dell’umanità, due in una carne sola, l’uno di fronte all’altro e tutti e due di fronte a Dio, che, a custodia della loro unità, ha fatto loro dono della legge, e ancora una coppia divisa dal dramma dell’amore che si sottrae alla legge, ma ancora coppia accolta ed amata; dall’altra parte tutta la storia d’Israele nel suo dramma di essere, alla luce della parola profetica, sposa che Dio s’è scelta, amata e ricercata pur nella fragilità e debolezza di lei.
La lettura simbolico-allegorica, che vede nell’amore dei due giovani la relazione JHWH-Israele, non è sovrapposta né staccata, ma interna e unitaria nel Cantico. Esso celebra di fatto l’amore di lei e di lui, di due giovani, che si amano, si cercano, si perdono e si ritrovano per arrivare a quella comunione, unità, fusione in cui trova pienezza il desiderio d’amore insito nel maschile e femminile della stessa natura umana. Nel cantare il mistero d’amore della coppia il Cantico vela e svela nello stesso tempo la storia drammatica dell’umanità nella sua tensione tra libertà e legge e la storia d’Israele nella sua terra tra liberazione e schiavitù, vita e morte. Il Cantico celebra la pienezza del disegno di Dio, di cui l’unione di lei e di lui è simbolo: unione prefigurata nei profeti quando JHWH farà Israele sua “sposa per sempre […] nella giustizia e nel diritto, nella benevolenza e nell’amore […] e conoscerà JHWH, il Signore” (Os 2,21s) e compiuta quando Gesù, lo sposo, e la Chiesa, la sposa, diranno allo Spirito-Amore: vieni! (Ap 22,17).
L’autore sulla scia dell’esegesi di P. Beauchamp, messi a parte il prologo (1,1-4) e l’epilogo (8,5-7 e 8-14) divide il Cantico in due parti simmetriche di cinque canti ciascuna (prima parte 1,5-4,15 e seconda parte 5,2-8,4) con al centro due vv. 4,15-5,1 che fanno da cerniera tra la prima e la seconda. Non si tratta quindi di canti d’amore sorti occasionalmente per le feste dei giovani o per quelle nuziali e poi uniti da un redattore, che avrebbe dato a canti profani una tonalità simbolico-religiosa, ma di un poema che canta l’amore dei giovani, che è esso stesso realtà simbolica di rapporti più alti in esso vissuti, come la relazione Dio creatore e l’umanità, uomo-donna, fatti ad immagine di Dio, e il rapporto JHWH- Israele, che preannunzia quello Cristo-Chiesa.
Per questo Simoens, riprendendo una distinzione di A. M. Pellettier, afferma che la lettura del Cantico non può fermarsi ad una esegesi “desoggettivizzata”, cioè solo storico-critica, ma richiede una lettura “soggettivizzata”, come quella patristica e quella spirituale tipica dei grandi mistici. Scrive: «Il primo tipo di esegesi tiene a distanza il soggetto interpretante, mentre il secondo tipo lo coinvolge fortemente nella lettura, al punto da considerare il testo destinato proprio a questo coinvolgimento come prioritario rispetto a qualsiasi altro atteggiamento, senza però escludere ogni interesse nei riguardi dell’apporto scientifico, nel senso esegetico moderno del termine» (pag. 28).
Questi aspetti sono continuamente richiamati ed applicati nel commento ai singoli canti, costanti sono i riferimenti a situazioni e a testi dell’Antico Testamento impliciti nel Cantico ed esplicitati nel commento, come anche le tensioni nascoste nel poema, che rimandano al Nuovo Testamento e richiamate dall’autore. Tutto ciò rende la lettura saporosa e coinvolgente, veramente “soggettivizzata”.
Un aspetto ancora da notare, non comune nei commenti al Cantico. I personaggi principali del Cantico sono evidentemente lui e lei, adombrati in Salomone (3,7-11) e la Sulammita (7,1), ma ci sono tante altre presenze: i fratelli di lei, le sentinelle della notte, i pastori, le figlie di Gerusalemme, gli amici di lui, la madre. Questi personaggi hanno un ruolo non solo come parte dello svolgimento drammatico nel cercarsi e nel perdersi reciproco dei due giovani, ma hanno anche valore di simbolo, evocativo della tensione interna al vero amore. I fratelli di lei che scacciano la sorella perché non ha custodito la vigna (1,6b), le guardie che fanno la ronda interpellate dalla ragazza in cerca dell’amato (3,3), le guardie che perlustrano la città e percuotono la giovane che rincorre l’amato e le strappano il mantello (5,7), richiamano, a parere di Simoens, il volto severo della legge, ma la legge è anche custode dell’amore perché non traligni in passione disordinata. Scrive a proposito Beauchamp:
«L’amore non è prescritto, non è la legge e la legge non è l’amore. Nessuno ha bisogno di un permesso per amare […] l’amore non si spiega che da se stesso, viene dall’origine. Cozza contro la legge, ma la legge è sempre incarnata da viventi alle prese essi stessi con il loro desiderio. Così l’amore secondo il Cantico si distingue fermamente dalla legge, ma non si sottrae puramente e semplicemente al suo dominio: vive con essa un rapporto abbastanza tormentato. I terzi richiamano continuamente la loro presenza: l’amore non può dispiegarsi fuori del corpo sociale, anche se non vi ha la sua origine. Il corpo sociale non è la legge della coppia. La legge dice ciò che sta oltre la coppia e la società» (L’uno e l’altro Testamento, vol. 2, Glossa, Milano, p. 164).
L’altra serie di presenze: i pastori dietro le cui tracce va la ragazza per trovare l’amato (1,8), gli amici del giovane invitati alla festa, a gioire e a bere vino (5,1) e soprattutto la figura della madre presso la cui stanza la giovane vuol portare l’amato (8,1-2), le figlie di Gerusalemme invocate nelle più diverse circostanze, sono figure, secondo Simoens, che collocano l’amore della coppia nel quadro sociale entro il quale l’amore trova la sua esplicitazione e il suo senso. Così pure, commenta Simoens, la figura dello sposo, nella cui persona il Cantico lascia trasparire dignità regale e sacerdotale, e la bellezza della dorma, cantata con immagini che rimandano alle caratteristiche della terra nella quale si è svolta la storia dell’alleanza tra JHWH e Israele, collocano l’amore della coppia su un piano emblematico biblico che va da Gen 2-3, attraverso la profezia e la sapienza d’Israele, cioè la storia concreta e il desiderio dell’uomo, e arriva a pienezza nel Nuovo Testamento con le nozze dell’Agnello.
Il lavoro di Yves Simoens è veramente ricco, richiede una lettura attenta e ripetuta per entrare nello spirito del commento; è un lavoro più per iniziati che per principianti. Simoens ha sviluppato le intuizioni che Paul Beauchamp ha sinteticamente presentate nel capitolo sul Cantico dei Cantici nel suo volume L’uno e l’altro Testamento. Compiere le Scritture (Glossa, Milano 2001, pp. 153-191, orig. francese 1990). Simoens è professore di esegesi alla facoltà teologica dei pp. Gesuiti Centre Sévres di Parigi, insegna al PIB di Roma. La traduzione del Cantico dall’ebraico è nuova, quasi letterale, ma molto espressiva, sembra di entrare in contatto col testo originale. Segnalo un errore di stampa nella tra-scrizione di un termine ebraico: pag. 84 terza riga del secondo capoverso: non kabah, ma kalah, meglio ancora allah.
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GABRIELE MIOLA fa recensione del libro
- L. SKA, Il Libro Sigillato e il Libro Aperto, EDB, Bologna 2005 (pp. 512) € 35,00
Il volume raccoglie 23 articoli sull’Antico Testamento pubblicati tra il 1990 e il 2004 in diverse riviste e collettanee; dalla nota bibliografica posta alla fine del volume risulta che erano stati pubblicati: sei nella rivista «La Civiltà Cattolica», otto sono relazioni tenute presso lo Studio biblico teologico aquilano edite in collane a cura dell’ISSRA (L’Aquila) oppure presso le Dehoniane di Bologna o Roma, due in «Rinascere» rivista del movimento “Rinascita Cristiana”, due in «Parola, Spirito e Vita», uno in «Studia Patavina», una conferenza tenuta presso la facoltà di Lettere dell’Università di Pisa, uno in «Synaxis», uno in «Asprenas», una relazione tenuta all’ISR di Avellino. I 23 articoli sono stati raggruppati in tre parti, ognuna delle quali esprime un ambito o indirizzo comune: la prima parte, chiamata “Orientamenti” tocca temi generali di metodo e di ermeneutica dell’AT; la seconda intitolata “Letture bibliche” è dedicata alla presentazione di brani soprattutto di Genesi ed Esodo, ma anche di Samuele, Rut e Proverbi; la terza raccoglie tre interventi dedicati a “Diritto e Istituzioni della Bibbia”.
Il titolo del volume II Libro Sigillato e il Libro Aperto rimanda all’immagine dell’Apocalisse (5,2.9), al rotolo sigillato con sette sigilli che solo l’Agnello può dissigillare e l’immagine è ripresa per dire che la Sacra Scrittura ha bisogno di una mano che guidi alla comprensione della parola di Dio in essa trasmessa, come il diacono Filippo guida l’etiope ministro della regina Candace, che sul suo carro legge Isaia ed è incapace di capire la Scrittura fino a quando Filippo gli apre il brano di Isaia al senso della profezia (At 8,26-35). Il prof. Ska prende il lettore per mano e lo conduce dentro tanti testi dell’Antico Testamento.
Il prof. Ska insegna esegesi dell’Antico Testamento al Pontificio Istituto Biblico di Roma e accanto all’indispensabile metodo storico-critico privilegia quello narratologico. È questa una caratteristica delle sue relazioni negli incontri biblici, il professore, chiariti problemi storici e di contesto, ti fa entrare in maniera piana nelle pagine della Scrittura suscitando stupore e meraviglia per la loro bellezza letteraria e insieme per il messaggio che ne proviene. Così ognuno degli articoli raccolti in questo volume ti invita ad andare avanti, a leggerne altri e a gustare la parola di Dio.
Non è evidentemente possibile presentare i 23 articoli, ne sceglierò qualcuno dalle tre parti. Apre la prima raccolta un articolo dal titolo: Come leggere l’Antico Testamento. Un problema sempre aperto e affrontato in tutte le epoche dell’esegesi biblica e della storia della Chiesa, molto sentito oggi perché la Bibbia è messa in mano a tutti e se ne consiglia la lettura personale. Richiamate le difficoltà che il cristiano prova di fronte alla condotta e alle ambiguità dei patriarchi e di altri personaggi, di fronte alle guerre e alla violenza ordinate da Dio al suo popolo contro i nemici nell’occupazione della terra promessa o nella storia d’Israele, come pure di fronte ad una teologia carente sul problema della vita eterna nei Salmi, nei libri di Qohelet e di Giobbe, l’autore fa due premesse:
a). nota che esistono modi e canoni diversi nell’accostarsi ai testi: personaggi violenti, guerre ed eventi di distruzione non fanno scandalo in poemi classici, lo fanno invece nella Bibbia; ma anche le stesse pagine bibliche che sconcertano un lettore diventano per altre fonte di ispirazione come è avvenuto spesso nelle arti figurative e teatrali, basti pensare alla trasfigurazione artistica di personaggi come Giosuè, Sansone, David ecc.
b). chiede al lettore della Bibbia di accostarsi con metodo giusto alla lettura di essa. La cultura illuminista e positivista aveva imposto una lettura astratta perché si preoccupava dell’oggettività dell’evento o della verità in sé, astraeva dall’aspetto narrativo e letterario, il senso era come estrinseco alla Bibbia stessa; giustamente Ska seguendo autori recenti d’ermeneutica, invita ad entrare nelle pieghe della narrazione biblica e ad interpretarne eventi e personaggi secondo criteri che emergono dai testi stessi poiché “essi definiscono il rapporto con la realtà storica in accordo con le convenzioni letterarie della loro epoca e generano la loro peculiare teologia seguendo le vie a loro proprie” (pag. 20).
Ska invita ad entrare nel racconto e vedere il cammino della ricerca di Dio propria dei personaggi, ricerca che passa attraverso difficoltà e valori morali propri del tempo, mette in evidenza che il giudizio non va fatto in astratto, ma dentro il racconto, che vede il dramma dei personaggi e il realizzarsi del piano del Signore attraverso le difficoltà, le contraddizioni e le miserie umane. Se è vero che già la sapienza pagana diceva: «Nulla di umano mi è estraneo» (Homo sum, humani nìhil a me alienum puto: Terenzio), a maggior ragione è vero dei personaggi biblici e del piano di Dio, tanto più che “da quando il Verbo si è fatto carne, il sacro si è radicato nel mondo profano o, per adoperare la parola di C. Peguy, “lo spirituale si è fatto carnale”” (p. 18).
Sacra Scrittura e Parola di Dio è il terzo articolo, una relazione tenuta poco dopo l’11 settembre 2001 e l’autore s’interroga all’inizio come mai può succedere che Scritture ritenute sacre, come il Corano, abbiano potuto avallare l’idea di un crimine terribile, sostenere gli esecutori nel preparare il piano e indurli a perpetrarlo con il loro stesso suicidio distruggendo le Twin Towers, procurando la morte di migliaia di innocenti. Si potrebbe dire: il Corano non è la Bibbia e può avallare comportamenti di quel tipo. Ma anche nella Bibbia possiamo trovare violenze e molto gravi: per esempio perché Dio ordina a Giosuè di sterminare tutte le popolazioni di Canaan? Ska invita a capire i modi diversi con cui i lettori si pongono dinanzi alla Bibbia, perché c’è “una lettura fondamentalista e una lettura critica delle Scritture. Entrambe sono fatte da credenti, ed è proprio questo che rende il problema più acuto. La differenza essenziale però è che la lettura critica riesce a distinguere tra “sacra scrittura” e “parola di Dio” e, soprattutto, non identifica la “lettera” e ogni “lettera” della Bibbia con la parola di Dio nella sua globalità” (pp. 44-45).
Ska ci propone due immagini per cogliere questa differenza: la sfera e il bosco. La sfera è considerata perfetta perché ogni punto è uguale ad un altro ed è sempre egualmente equidistante dal centro: così ogni parola della Scrittura è uguale ad un’altra; l’immagine esprime il tipo fondamentalista di lettura della Bibbia. Il bosco invece è una realtà costantemente ineguale, bisogna conoscerlo addentrandosi in esso e cogliendone nei diversi adattamenti secondo le stagioni e la luce del giorno e del tempo l’estrema diversità di ogni componente per gustarne la varietà e la ricchezza. Premesso che nella Bibbia si trovano tanti generi espressivi: dall’oracolo profetico, al genere sapienziale, a racconti storici e parabolici ecc., l’autore mette in evidenza tre aspetti: primo, quello della “compilazione”, cioè racconti che si sovrappongono, ma distinguendosi, per esempio i due racconti della creazione, i diversi atteggiamenti di valutazione nei confronti del tempio, cosa sacra e residenza perenne di Dio e invece cosa da distruggere perché diventato covo di idolatria ecc.; secondo, quello della “revisione”: Abramo è prima della legge, ma è anche uno che osserva la legge, oppure la promessa e la realizzazione della monarchia come struttura essenziale di Israele quale nazione tra le altre, e la visione postesilica secondo la quale per costituire Israele sono sufficienti il culto e la Torah senza il monarca; terzo, quello dell’“intenzione”: la prospettiva di Israele da una parte è quella di possedere una terra, ma dall’altra invece la Bibbia ebraica si chiude con il libro ielle Cronache, che dopo l’editto di Ciro esorta gli ebrei a tornare, ma è un popolo in cammino verso una terra che non gli appartiene. La Torah del resto, il libro fondamentale d’Israele, termina con la morte di Mosè senza entrare nella terra di Canaan, e il popolo accampato sulle rive del Giordano è in attesa di entrare, come ad indicare che esso è sempre in cammino verso la terra promessa. Concludendo Ska scrive: «La verità non è nella “lettera” del testo, ma nell’atto intelligente e critico del lettore che prolunga, all’interno della comunità dei credenti, lo sforzo di aggiornamento iniziato dalla stessa Scrittura» (p. 58).
L’articolo 4, di ben 40 pagine, intitolato La Bibbia un libro aperto o un libro sigillato? dà il titolo a tutta la raccolta del volume. L’autore vi riprende il problema ermeneutico, che aveva trattato in un ampio articolo La “nouvelle critique” et L’exégése anglo-saxonne pubblicato in RSR 80 (1992) 29-53. Scrive: «La Bibbia è un libro aperto o sigillato e quasi incomprensibile? Le riflessioni di quest’articolo vorrebbero fornire alcuni punti saldi per orientarsi nell’ermeneutica moderna» (p. 60).
L’autore nella prima parte riassume le diverse prospettive dell’ermeneutica indicando tre punti di partenza con cui si può guardare la Bibbia: come “documento”, come “monumento”, come “avvenimento”. Prendere la Bibbia come “documento” significa analizzarla nella sua genesi e stratificazioni successive, interpretare l’intenzione dell’autore in funzione dei destinatari di ogni testo o brano. È il metodo storico-critico, che ha avuto i suoi grandi meriti, ma ha corso il rischio di far perdere l’unità e lo sguardo d’insieme del testo biblico. Considerare la Bibbia come un “monumento” significa considerare l’intera Bibbia e singoli libri come opera a se stante, coglierne le proporzioni, lo stile, la bellezza, i personaggi senza preoccuparsi dei valori teologici e morali dei testi. È la lettura della Bibbia con i metodi più attuali d’analisi sincronica. Uno sguardo sincronico sulla Bibbia è di fatti molto proficuo, ma può correre il rischio di fermarsi ad una lettura estetizzante. Porsi dinanzi alla Bibbia come un “avvenimento” significa lasciarsi interrogare dal testo ed entrare in esso coinvolgendosi perché il testo non solo mi interpella, ma io stesso divento attore nell’evento o nella riflessione. Ska presenta questa prospettiva ermeneutica riassumendola come segue: «Il significato del testo non è “nascosto” nel testo e il compito del lettore non è di “scoprire” quello che sta già presente in esso. Il compito del lettore è molto creativo: deve costruire il significato» (p. 73). La Bibbia è sempre una parola che interpella perché aspetta una risposta dell’uomo a Dio, che è il vero autore di essa, ma l’interprete non può esprimere una creatività soggettiva che stravolga l’appello e la relativa risposta dell’uomo. Scrive Ska: «Le posizioni estreme sono poco difendibili perché sembrano implicare che non sia più necessario leggere il testo per poi interpretarlo. Nessuno arriva a questa posizione insostenibile, però è un pericolo corso da alcune teorie poco bilanciate» (p. 75) e per una posizione equilibrata d’applicazione di questi metodi rimanda al libro di U. Eco: I limiti dell’interpretazione.
La seconda parte dell’articolo porta il titolo Lo specchio, la lampada e la finestra “tre immagini che serviranno non esattamente a classificare le diverse scuole di esegesi, piuttosto a definire tre direzioni principali dell’ermeneutica dall’antichità fino ad oggi” (p. 78 . L’immagine dello “specchio” usata nell’ermeneutica fin da Platone, che legge l’arte in genere, pittura, scultura, opere letterarie, come specchio di una realtà perché la imita, è un tipo di lettura arrivata fino ai nostri tempi, anche se reinterpretata secondo la sensibilità della cultura nelle diverse epoche storiche. Anche oggi diciamo che le narrazioni bibliche p.e. quelle dell’Esodo, vanno lette come narrazioni specchio di un messaggio teologico che bisogna cogliere nel racconto: «Il lettore è invitato a guardare bene nello “specchio” e ad interpretare il mondo delle immagini che passa davanti ai suoi occhi» (p. 81). L’immagine della “lampada” o della “sorgente” serve a Ska ad evidenziare l’esegesi influenzata dal romanticismo, che rigetta il classicismo e si rifà alla spontaneità del primitivo e delle origini. È l’esegesi tipica di grandi esegeti come Gunkel, von Rad, che privilegiano esaltare i periodi antichi, quelli delle saghe dei patriarchi, dell’epopea dell’esodo o del regno davidico a scapito della strutturazione rigida, tipica d’Israele nel post-esilio. La metafora della “finestra” non caratterizza una scuola particolare, ma l’immagine serve per intravedere come la lettura di un brano può essere illuminato a seconda delle finestre che si aprono. Ska presenta come esempio i diversi modi: con cui si può leggere (ed è stato letto) il brano della vedova che ottiene dal profeta Eliseo la moltiplicazione dell’olio per poter pagare i suoi creditori ed evitare così di finire in schiavitù lei e i suoi figli a causa dei debiti (2 Re 4,1-7): il racconto viene letto da una “finestra” classica, da una sociologica, da una storica, politica, teologica e da una letteraria.
La Pontificia Commissione Biblica nel documento L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa (1993) al primo capitolo Mctodi e approcci per l’interpretazione elenca ben tredici metodi ripartiti in diverse aree. La conclusione di Ska è simpatica, invita a non smarrirsi di fronte alle proposte odierne dell’ermeneutica, ma a prendere l’atteggiamento di chi entra in università e sa che vi trova “maestri che guideranno passo passo lo studente nel suo cammino” preparandolo ad essere autonomo nelle specializzazioni che metterà poi a servizio dei cittadini o a vedere coloro che insegnano e studiano in università come una famiglia in cui si sperimenta “entusiasmo per lo studio, curiosità per le ricerche nuove, solidarietà nei momenti difficili e legami duraturi per il futuro” (p. 97).
Ancora cinque articoli sono raccolti nella prima parte: due sono dedicati al problema del canone delle Scritture, di questi il sesto: Formazione del canone delle Scritture ebraiche e cristiane, molto curato, si sviluppa per ben 50 pagine.
La seconda parte della raccolta sotto il titolo Letture bibliche riunisce undici articoli: cinque dedicati a Genesi, tre all’Esodo, uno a Rut, uno a 2 Samuele su David e il figlio Assalonne, l’ultimo porta il titolo I volti “insoliti” di Dio nell’AT, che prelude ad un altro volumetto: I volti insoliti di Dio. Mcditazioni bibliche, pubblicato di recente (cfr. sotto). Mi limito a presentare il n° 13: Genesi 18,1-15 alla prova dell’esegesi classica e dell’esegesi narrativa e il n° 15 L’Esodo, il nome di Dio e la storia d’Israele.
Nel presentare il racconto della teofania di Mamre e l’ultimo annuncio della nascita di un figlio ad Abramo (Gen 18,1-15) Ska parte dall’analisi dello studio di Frei, che mette sott’accusa l’esegesi classica per aver accantonato la narrativa biblica e letto il testo solo sotto il profilo delle fonti e quindi della storicità dei racconti. L’esegesi classica correva il rischio, come mette in evidenza Frei, una volta analizzate le fonti e suddiviso il testo, di abbandonare la narrazione biblica e di esprimere solo gli aspetti teologici di ogni brano e di perdere quindi l’unità del racconto e della Bibbia. Gen 18,1-15 veniva in genere suddiviso in due parti: il v. 1 come introduttivo, i w. 2-8 una scena di “teoxenia”, cioè di ospitalità della divinità, i vv. 9-15 come annuncio di nascita basato sul significato del nome del nascituro Isacco, che può essere inteso come “JHWH fa sorridere, porta il sorriso”; i due spezzoni venivano rapportati il primo a teofanie simili e il secondo ad annunci di nascita comuni nelle pagine bibliche. La divisione del racconto veniva basato su alcune apparenti incongruenze di termini come pane-focacce, l’uso del singolare e del plurale nel dialogo dei tre ospiti con Abramo. Nella seconda parte dell’articolo Ska si affida all’analisi narratologica e rileva l’unità del brano: la scenografia proposta, in cui si muovono i personaggi tra l’albero e la tenda, la cortesia attenta di Abramo verso gli ospiti, l’intreccio del dialogo e la sorpresa della promessa, umanamente impossibile, di avere un figlio all’età dei due protagonisti, trovano la loro unità, ricchezza espressiva e danno un messaggio al lettore di ieri e di oggi. Conclude l’autore:
«Il messaggio finale riguarda il modo in cui JHWH si è rivelato allorquando ha annunziato la nascita di Isacco, dalla quale dipendevano le promesse e dal quale è sorto il popolo d’Israele. Ora il lettore virtuale del racconto è un membro del popolo d’Israele e questo racconto gli comunica qualcosa circa la sua origine, che è legata a un “riso”.
Tale messaggio è inseparabile dall’esperienza della lettura e dal contributo attivo del lettore, che rimane il solo incaricato di rispondere alle domande del racconto» (p. 297).
L’Esodo, il nome di Dio e la storia d’Israele è il n° 15 della raccolta e l’articolo è stato pubblicato nel n. 47 della rivista «Parola, Spirito e Vita» il cui tema generale, per i diversi contributi di quel numero, è dato dal titolo Leggere la storia come salvezza. Questo arti-colo di Ska è il primo di quel numero della rivista, che ha finalità di lettura teologico-spirituale della Bibbia; l’articolo legge i capitoli 1-15 dell’Esodo in chiave narrativa, superando gli interrogativi sulla storicità degli eventi narrati nell’Esodo per il cui significato rimanda alla bibliografia citata nelle diverse note.
I temi sviluppati nell’articolo sono quattro: I. Il nome di Dio. Fatto un breve cenno al significato del nome, Ska mette in rilievo che il nome è legato dall’evento dell’esodo alla formula: “Io sono JHWH che vi ho fatto uscire dall’Egitto”, che si ritrova in quasi tutti i libri storici e profetici come una confessione di fede legata alla storia, che ha costituito Israele come popolo libero, perché solo JHWH può rendere libero e “solo la persona libera, nel mondo antico, è davvero persona” (p. 317). IL II contesto. Ska legge l’insieme dei capitoli sulla linea di un processo. Dio istituisce un processo contro il faraone e contro l’Egitto perché il popolo di Israele viene trattato con “brutalità”. I testi descrivono in effetti un reato, un’ingiustizia grave, che crea una tensione drammatica nel racconto, che si risolverà quando Dio ristabilirà la giustizia a favore del suo popolo. Diverse volte ricorre l’espressione che Dio ha visto, osservato le umiliazioni del suo popolo e la brutalità con cui è trattato Israele e ha deciso di liberarlo. Il giudizio di Dio in qualche modo è un giudizio di parte a sollievo e salvezza dell’oppresso perché Dio non tollera l’ingiustizia. III. La vocazione di Mosè. La vocazione di Mosè è il contesto in cui si rivela il nome di Dio. Dio si fa presente, “sono sceso” dice “per liberare Israele dalla mano degli Egiziani”. Uno scendere, sottolinea Ska, che ha il senso dell’incarnazione. Il nome che Dio rivela, JHWH (senza entrare in questioni filologiche) esprime una presenza, un esserci, una presenza nella storia ed è nella storia che Dio rivela il suo esserci quando difende la sua gloria, il suo nome nelle opere della salvezza. IV. Le piaghe d’Egitto. Nei racconti delle piaghe ricorre più volte l’espressione “affinché tu (Mosè) o egli (il faraone) sappia o sappiano (gli egiziani) o sappiate (gli israeliti) che io sono JHWH” e questo conferma che Dio si rivela quando salva. Le piaghe non sono quindi una punizione quanto piuttosto una dimostrazione del potere di giudizio che Dio applica di fronte all’ostinatezza dei colpevoli e del potere di salvezza per chi si è rivolto al giudice giusto. Conclude Ska: «Il linguaggio giuridico di alcuni brani posti in posizioni chiave nel racconto ha come scopo di dare a questa “storia” il suo significato più profondo» (p. 329).
Una nota. Fa piacere vedere come il prof. Ska nell’esposizione si serva anche di studi di suoi alunni, come quando nelle note rimanda al commento in due volumi del nostro docente di esegesi a Fermo, Antonio Nepi, Esodo, pubblicati nella collana Dabar Logos Parola, edizioni Mcssaggero di Padova.
Un accenno alla terza parte della raccolta intitolata Diritto e istituzioni nella Bibbia, dove l’autore affronta questi temi: 1. Il sacerdozio nell’Antica e Nuova Alleanza (n. 21) 2. Istituzione degli anziani nell’Antico Testamento (n. 22) e 3. Diritto biblico e democrazia occidentale (n° 23), quest’ultimo pubblicato in «La Civiltà Cattolica» (2004). Ska prende lo spunto dal lavoro per l’elaborazione della Costituzione europea e dalla questione sulle radici cristiane dell’Europa, richiama gli studi di Harold J. Berman sul Dictatus Papae di Gregorio VII (1074-75), che secondo il noto studioso divenne la fonte del diritto degli stati europei, mette in evidenza che i principi basilari della democrazia moderna si trovano nella Bibbia, che nelle sue istituzioni non ha strutture democratiche di partecipazione politica, ma in essa si trovano le basi della democrazia per i valori di cui la Bibbia, insieme al diritto romano, è fondazione e li elenca in: la dignità umana, privilegio universale; la libertà; il diritto e la legalità; alleanza e consenso; responsabilità; il giudizio ultimo e la responsabilità personale.
Ricordo che affrontò questo stesso tema, su invito del nostro Istituto Teologico nel 2005, in una tavola rotonda con il filosofo e deputato Rocco Buttiglione e con il giornalista L. Segarelli e destò meraviglia e discussione l’affermazione circa la base biblica della democrazia odierna. Le risposte del relatore si possono trovare proprio in quest’articolo.
È noto che negli ultimi trenta anni sono entrate molte novità negli studi biblici: in esegesi sono stati sempre più accolti i metodi sincronici, sull’origine del Pentateuco è stata abbandonata la teoria di Wellhausen delle quattro fonti JEDP (su cui è basato il commento dell’edizione della Bibbia di Gerusalemme, Dehoniane), in storiografia è stata revisionata la lettura della corrente deuteronomista, che ha segnato la storia d’Israele da Giosuè ai libri dei Re. Il prof. Ska è maestro in questi ambiti e i suoi articoli, raccolti in questo libro, hanno il sapore della novità, anche per chi ha coltivato studi biblici prima degli anni Settanta, e sono di facile lettura per tutti. È un invito a prendere in mano il libro e gustarlo articolo per articolo.
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Il biblista GABRIELE MIOLA fa recensione del libro
- L. SKA, I volti insoliti di Dio. Mcditazioni bibliche, EDB, Bologna 2006 (pp. 142) € 10,50
È un altro piccolo gioiello del prof. Ska sul tema del volto di Dio. Il professore vi raccoglie le meditazioni scritte per il Movimento Rinascita Cristiana con l’aggiunta di alcune altre per arricchire il tema svolto. Sono 21 meditazioni bibliche sullo stesso tema: ogni meditazione presenta in due massimo tre pagine (solo due volte arriva alle dieci pagine) il tema e in una pagina offre degli spunti di riflessione con interrogativi, cui il lettore è invitato a rispondere entrando nella propria coscienza e nella propria fede. Le 21 meditazioni prendono spunto da sedici testi dell’Antico Testamento e da cinque del Nuovo.
Il desiderio di Dio, di vedere il suo volto è il fine di ogni religione; la Bibbia l’esprime con interrogativi pressanti e ripetuti: «Quando verrò e vedrò il volto di Dio» (Sai 42,3), o quando Mosè chiede a Dio: «Mostrami la tua gloria» cioè il volto (Es 33, 18.20). Ska nell’introduzione mette in evidenza che, per la Bibbia, Dio non lo si raggiunge con speculazioni intellettuali o misticismi umani, ma egli stesso si rivela nella storia. Lo stesso nome che Dio s’è dato JHWH esprime una presenza, è il Dio che s’è mostrato ad Abramo, Isacco e Giacobbe, è il Dio che s’è rivelato nel volto di Gesù Cristo (Gv 14,8). Secondo la Bibbia Dio è sempre presente nella storia dell’uomo, cammina accanto a lui, quando sperimenta la gioia del bene e della vita e anche quando l’uomo pretende di far da solo allontanandosi da lui, perché Dio lo sollecita sempre, lo aspetta con tenerezza e amore.
Ska con queste meditazioni fa una lettura sapienziale dei testi biblici, li fa gustare ed invita ad un lavoro di approfondimento personale. Mctte a profitto il suo lungo lavoro scientifico, la sua larga conoscenza per far assaporare la profondità e la bellezza della paro-la di Dio. Ci offre una vera lectio divina. Ci auguriamo che questo libretto arrivi nelle mani di preti, religiosi e laici; darà molti frutti.
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GABRIELE MIOLA fa recensione del libro
EDOARDO SCOGNAMIGLIO, CATHOLICA.CUM ECCLESIA ET CUM MUNDO, ED. MESSAGGERO PADOVA 2004, PAGG.406.
Catholica è una delle quattro note della Chiesa inserite nel credo: “credo la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica”. Nei trattati di ecclesiologia si dedica sempre una riflessione sul senso delle quattro caratteristiche che determinano l’essere della Chiesa. L’autore del saggio pensa che in essi viene riservato poco spazio alla nota della cattolicità e ne affronta lo studio in maniera ampia in questo volume. Le quattro note sono inclusive nel senso che si richiamano a vicenda e l’una non sta senza l’altra: il saggio si presenta come una rilettura del trattato sulla Chiesa e del suo rapporto col mondo alla luce della nota catholica.
Il libro si sviluppa in tre ampi capitoli. Il primo porta il titolo: Quale cattolicità? Partendo dal senso comune del termine cattolico come universale, l’autore precisa che fa parte della Chiesa la sua “vocazione cattolica”, cioè di sguardo e di apertura all’universale inteso non nel senso della globalizzazione moderna, che si ferma all’esigenza di una economia globale aperta e interdipendente, ma nel senso del dialogo, che è esigenza connaturata nell’uomo, che può e deve aprirsi a tutti i popoli con le loro diverse culture. Esaminate le difficoltà del dialogo nella mentalità del mondo moderno, l’autore si ferma ad analizzare le caratteristiche del vero dialogo, che può portare alla pace, di cui la Chiesa proprio in quanto cattolica nel piano di Dio è simbolo. Il dialogo che la cattolica porta avanti ha una radice trascendente perché è basato sul mistero dell’incarnazione e il dialogo trinitario. Il Verbo di Dio che entra nel mondo e costituisce la Chiesa suo corpo la rende capace di riconoscere la presenza del logos e le tracce dell’amore trinitario nell’uomo e nelle culture. La legge del dialogo, scrive l’autore, è il silenzio e l’ascolto: “dove c’è l’ascolto viene meno ogni forma di violenza, di prevalenza sull’Altro. La Chiesa, prima ancora di venire a dialogo con il mondo in cui si trova a vivere e di farsi parola, messaggio, colloquio, deve imparare ad ascoltare la voce dell’uomo e la voce di Dio. Il futuro dell’uomo è nel silenzio e non nella parola prevaricatrice” (pag. 30).
L’autore, frate minore conventuale, vede realizzata la capacità di dialogo, che il Dio trinitario ha donato alla Chiesa, nella figura e nella pratica di Francesco: fratello minore di tutti, che nell’ascolto sa immedesimarsi nell’altro, accoglierlo, testimoniargli il perdono di Dio e stabilire quindi la comunione e la pace, come frutto del perdono. A proposito scrive: “A tutto questo deve tendere il nostro essere ecclesiale: alla riconciliazione cattolica, cioè universale, tra tutti i popoli della terra. E vera quella cattolicità che dona il perdono … Nel suo significato più ampio, la cattolicità indica la chiamata di tutti i popoli alla salvezza nell’orizzonte dell’unità e della pace universale.” (pag. 42). A questo punto l’autore si pone la domanda: chi appartiene alla catholica? E, riprese le distinzioni sull’appartenenza alla Chiesa della LG 14, sottolineata la differenza tra il senso intensivo e integrale del termine cattolico e quello estensivo di universale, cioè chiamata alla missione verso tutti i popoli, che pure in qualche modo appartengono o sono ordinati alla Chiesa, scrive: “La cattolicità dell’unica Chiesa di Cristo non ha semplicemente un’estensione geografica e un’intensità giuridica, né solo un significato dogmatico e antropologico-esistenziale, ma soprattutto simbolico. Se è vero che ogni uomo -a prescindere dalla sua consapevolezza- è ordinato e orientato al popolo di Dio…la cattolicità ha un valore simbolico di unione, distinzione e partecipazione-comunione con il mistero del Padre rivelato in Cristo per mezzo dello Spirito. Questa simbolicità della cattolicità è di ogni Chiesa, di tutte le chiese, delle comunità che celebrano l’eucaristia come di quelle che professano la stessa fede e vivono del medesimo battesimo. Ogni uomo che ha compiuto una decisione per Gesù Cristo è cattolico! Per la catholica, nessun uomo è straniero” (pag. 53).
È questo il problema del rapporto tra Chiesa visibile e Chiesa invisibile: “La «Chiesa della grazia» permette d’avere una visione più aperta della cattolicità in quanto dono di Cristo e dello Spirito: nell’aggregatio fidelium rientrano anche coloro la cui fede implicita è nota solo a Dio. Per cui, secondo il genio di Tommaso, più che affermare «extra Ecclesiam nulla salus» è giusto dire «extra fidem nulla salus». Per un senso estensivo della cattolicità dev’essere in primo piano non l’ecclesia in sé e per sé, ma la fede implicita nella salvezza. La cattolicità, prima ancora di essere una nota ecclesiologica -per un certo tempo a carattere apologetico- è una realtà cristologica e pneumatica, cioè trinitaria” (pag. 55-56).
Il secondo paragrafo del primo capitolo è dedicato allo sviluppo e alla comprensione nella storia della Chiesa del termine: cattolico. Precisato che non c’è un uso biblico del termine, l’autore passa ad esaminarne i diversi significati negli scrittori classici e poi all’uso che se ne fa nei padri della Chiesa. Ignazio d’Antiochia lo usa per indicare l’unità del corpo ecclesiale contro le serpeggianti e disgreganti eresie cristologiche, un’unità testimoniata da Ignazio con il martirio, che diventa segno di coesione per tutte le chiese locali alle quali Ignazio si rivolge, un segno che esprime l’unità delle comunità intorno all’eucaristia come intorno al martire. In Ireneo “cattolica” indica l’universalità dell’unica Chiesa e il significato rimane in Tertulliano, Cipriano ecc.; con le eresie trinitarie e cristologiche cattolico esprimerà nel quinto secolo l’aspetto dell’universalità e dell’ortodossia: Vincenzo di Lerino affermerà “ciò che dovunque, ciò che sempre, ciò che da tutti è stato creduto, questo è veramente e propriamente cattolico”. Nel cammino della storia, già a partire dal VI secolo, s’incontrano, si scontrano e s’intrecciano il potere civile e quello dei vescovi; Roma, anche nel confronto con la Chiesa d’Oriente, tende a proporsi come coordinatrice della cristianità; in occidente nel medioevo i vescovi e il papa acquistano poteri sempre più vasti e con Gregorio VII la Chiesa di Roma diventa il vertice indiscusso della Chiesa cattolica fino a coincidere, con Innocenzo III, l’espressione Chiesa cattolica e Chiesa romana. Scrive Scognamiglio: “Il papa era l’unico titolare della suprema potestà universale di giurisdizione della Chiesa intera…Di conseguenza, il papa, pur vincolato dalla legge divina e alla costituzione divina della Chiesa, aveva piena libertà di manovra nel corpo ecclesiale; era diventato, in un certo senso, il monarca della Chiesa. Secondo questa prospettiva, la nota della cattolicità della Chiesa sfocia nell’assolutismo…” (pag. 112). Questo porta l’autore a precisare il significato di cattolicità e indefettibilità della Chiesa nello sviluppo della teologia fino alle soglie del Vaticano II.
Il secondo capitolo è intitolato: Immaginare la Chiesa cattolica. Volutamente usa il verbo “immaginare” per la valenza teologica che ha il termine “immagine”. Fatta un’analisi del termine, presenta i diversi modelli sviluppatisi nell’ecclesiologia postconciliare. Li chiama modelli-indirizzi e ricorda quello teandrico, kerygmatico, comunionale, ecumenico, sacra-mentale, pneumatico, storico, socio-politico, simbolico, ma si ferma ampiamente solo sull’ecclesiologia di alcuni noti autori, che hanno caratterizzato la riflessione ecclesiologica e preconciliare e preparato così la visione di Chiesa del Vaticano IL Dedica un lungo paragrafo all’ecclesiologia di H. De Lubac La grace du catholicisme e un altro ampio paragrafo a Y. M. Congar Verso un «oecumenisme catholique»; fa una breve analisi delle riflessioni ecclesiologiche proposte nel postconcilio da H. Kung, S. Dianich, J. Werbick ed altri. La cattolicità della Chiesa è vista sempre nella prospettiva del ‘già e non ancora’ nella tensione costante della Chiesa all’annuncio del vangelo, come missione fondamentale affidatale dal Risorto, e all’assunzione dei valori umani propri degli individui e dei popoli. In questo ambito affronta il problema della cattolicità in rapporto alla relazione tra Chiesa universale e chiese locali, tra Chiesa cattolica e chiese separate con riferimento all’enciclica Ut Unum Sint e alla questione dell’espressione chiese sorelle, nonché al problema della salvezza di chi è estraneo alla Chiesa con riferimento alla Dominus Jesus. Unità e cattolicità della Chiesa sono in stretto rapporto, esprimono il paradosso dell’unità di tutti coloro che sono stati raggiunti dalla parola e dalla grazia di Dio e sono stati incorporati a Cristo con il battesimo e dall’altra parte la cattolicità dice unione e comunione con tutti perché Cristo è morto per i peccati di tutti ed è risorto per la salvezza di tutti. La Chiesa è nata una e cattolica, come pure santa e apostolica, a pentecoste.
Il terzo capitolo porta il titolo Cattolicità dell’«oikoumene». È il più ampio e in quattro paragrafi affronta il senso della cattolicità della Chiesa in rapporto ai problemi attuali. Il primo paragrafo: Il senso cosmico della cattolicità: la Parola di Dio e lo Spirito dopo aver accennato alla visione della cattolicità nelle diverse confessioni cristiane, esamina il documento di studio Cattolicità ed apostolicità redatto dal gruppo di lavoro formato da membri della Chiesa cattolica e del CEC, si riferisce ad altri documenti ecumenici come quelli di Dombes e passa poi al concetto di cattolicità delineato dai teologi ortodossi Lossky e Bulgakov e conclude scrivendo: “La cattolicità della Chiesa ha un valore sovraecumenico, cioè cosmico, ed ha per fine non semplicemente l’unione delle chiese e delle comunità cristiane, bensì la trasformazione del mondo e di tutta la creazione. Il carattere universale e cosmico della Catholica si rivela a noi proprio nella celebrazione eucaristica che spinge all’unità visi-bile delle comunità… Nell’Eucaristia sono riconciliati sia l’ordine della creazione sia quello della redenzione. In questo sacramento c’è la presenza di tutta la creazione e del mondo amato da Dio” (pag. 237).
Il secondo sottotitolo La conversione delle chiese ha ancora una tonalità ecumenica, richiama il cammino ecumenico fatto nel postconcilio e affronta tra l’altro il problema dell’ospitalità eucaristica tra le chiese rifacendosi al recente documento Ecclesia de Eucharistia e invita le chiese ad affrontare i problemi non risolti e ricorda prima di tutto: “il primato primaziale del romano pontefice e il significato della successione apostolica in ambito stretta- mente giuridico e sacramentale”, ma anche altri problemi di tensione come “la nomina dei vescovi, il celibato, l’ammissione delle donne al sacerdozio, il proselitismo ecc.” (pag. 246).
Il terzo paragrafo affronta il tema de L’incontro con le religioni: cattolicità in pericolo. Dalla dichiarazione conciliare Nostra Aetate sul dialogo interreligioso si è sviluppata una nuova riflessione teologica sul significato delle religioni non cristiane partendo da questa prospettiva: “si deve (o si può) riconoscere un senso salvifico alle altre religioni? Anche questa domanda è collegata al significato della cattolicità ecclesiale, perché rimette in gioco l’antico lemma extra ecclesiam nulla salus.” (pag. 248). L’autore si mostra favorevole ad un ruolo salvifico delle religioni. Partendo dal mistero trinitario e dal mistero dell’incarnazione l’autore svolge un concetto di rivelazione e presenza di Dio nelle religioni. “Il Padre è nelle religioni perché è ciò che sta alle origini del movimento religioso. Ed è in questa protologia che le religioni hanno il diritto di esistere. Non perché sono un fenomeno culturale, un dato storico che non si può eliminare o che per forza dobbiamo sopportare, bensì perché vivono della tensione paterna di Dio e del suo comunicare con l’uomo”. Per l’incarnazione la mediazione del Verbo è universale e le religioni esprimono in qualche modo un volto del Cristo. Scrive l’autore: “La presenza delle religioni in Cristo è da rileggere nell’ottica della compassione all’uomo e della fedeltà al Padre. Nell’azione soteriologica di Gesù che muore in croce e che risorge c’è posto per ogni esperienza dell’uomo. Gesù ha ristabilito l’unione dell’umanità con Dio…Non solo Cristo è attivo e presente nelle religioni ad opera dello Spirito, ma sono le religioni, in rapporto al Cristo risorto e alla sua destinazione finale, già anticipata nel presente della pasqua, ad assumere un ruolo attivo per l’unica mediazione umana e divina del Verbum caro”, (pag. 282 s.). E lo Spirito, che è lo Spirito d’amore o il donatore d’amore, continua l’autore, come in una kenosi, vive in mezzo a noi e soffia dove vuole, apre, attraverso i riti, i segni, i simboli delle religioni, al regno di Dio.
Ad gentes è l’ultimo paragrafo del terzo capitolo e conclude il cammino di riflessione sulla cattolicità della Chiesa. Scrive l’autore all’inizio del paragrafo: “La presenza di Cristo nel mondo attraverso la Chiesa è di natura mistica, sacramentale, cioè simbolica. Ha un carattere liturgico: per questo, gli apostoli, dopo aver ricevuto le ultime istruzioni ed essere stati benedetti dal Risorto, «tornarono a Gerusalemme con grande gioia; e stavano sempre nel tempio lodando Dio» (Le 24,52s). Il cristianesimo delle origini non conosce alcun tipo di ascesi ma solo una mistica dello Spirito, una sorta d’esperienza di Dio nella memoria pneumatica di Gesù Cristo. Il Risorto apre i discepoli alla mondanità, all’inserimento nella società del tempo e al confronto delle culture e i mondi attorno a Gerusalemme” (pag. 299). Tutto il paragrafo è dedicato al problema dell’inculturazione del vangelo sulla scia dell’Evangelii Nuntiandi, della Redemptoris Missio. Analizza ampiamente il concetto di cultura nelle filosofie moderne ed affronta il problema dell’evangelizzazione in questo nostro tempo caratterizzato dalla postmodernità rifacendosi al documento postsinodale Ecclesia in Europa e al Progetto culturale orientato in senso cristiano proposto dalla CEI e al documento Comunicare il vangelo in un mondo che cambia. La Chiesa è stata posta da Cristo nel mondo per il mondo; certamente incontra nel mondo tanti pericoli e per questo deve saper superare quei «rischi globali» insiti nella mentalità del mondo. La catholica tiene lo sguardo aperto sulla storia, che cammina verso una sempre più incisiva interdipendenza nel clima di globalizzazione tipico del nostro tempo ed in esso manifesta il suo essere catholica perché «annuncia tutta intera la fede, tutta intera la salvezza per tutto l’uomo e per tutta l’umanità», come si esprime il catechismo della Chiesa tedesca. La Chiesa non è estranea al mondo né può diventarlo, ma porta la sua testimonianza evangelica assumendo i tanti problemi del mondo: vita, risorse, energia, sviluppo sostenibile ecc. Ed è proprio la testimonianza, che va dalla preghiera personale, comunitaria, alla celebrazione dell’eucaristia, alla condivisione dei problemi, all’annuncio missionario, alla carità e alla dedizione per gli altri fino al martirio, che fa sì che la Chiesa sia accolta come catholica, testimone della salvezza di Cristo. Scrive il nostro autore: “Il nostro impegno come martyria ammette nella Chiesa una solidarietà con il mondo quale premessa fondamentale alla nostra santità che ci impone di stare nella storia senza esenzioni, come compagni degli uomini. Mostrare il vivo volto di Cristo al mondo è possibile solo nell’ottica della condivisione e dell’assimilazione al mondo, raggiungendo gli uomini lì dove sono, anche nel loro peccato, negli abissi della morte, del loro rifiuto di Dio, incontrandoli con simpatia e amore, visto che lo stesso Gesù Cristo «morì per noi mentre eravamo ancora peccatori» (Rom 5,8) e ci ha riconciliati con Dio «mentre eravamo nemici» (Rom 5,10). È questa la bellezza del cristianesimo che salverà il mondo” (pag. 373).
Dopo aver seguito lo sviluppo dei capitoli di questo ampio lavoro, ecco alcune osservazioni finali. Dicevo all’inizio che il lavoro si presenta come una rivisitazione del trattato di ecclesiologia alla luce della nota catholica. La lettura del volume certamente lascia l’idea dell’ampiezza della cattolica come termine che, da una parte identifica, insieme alle altre note, la Chiesa, e dall’altra apre ad una dimensione simbolico-escatologica. L’autore tocca tutti i problemi relativi alla realtà della catholica. Chiesa e regno di Dio, Chiesa universale e chiese locali, l’unità della Chiesa e i problemi ecumenici, le divisioni dei cristiani e quindi i rapporti con le chiese separate o chiese sorelle, le comunità ecclesiali, il ministero ordinato, l’ospitalità eucaristica e inoltre la catholica e la salvezza dei non cristiani, il dialogo interreligioso, la tensione missionaria della catholica e il vasto problema dell’inculturazione del vangelo, la comunione con il mondo e le tensioni culturali, morali politiche ed economiche che lo assillano e lo lacerano. Tutti questi problemi sono affrontati, ma evidente-mente non sono risolti né potevano esserlo. La quantità dei problemi lascia l’impressione di affastellamento e dà pesantezza nella lettura. Lo stesso concetto di catholica non è usato sempre in maniera coerente e a volte risulta estraneo al problema affrontato.
Per l’autore catholica esprime la realtà dinamica del progetto di Dio, che tocca non solo la Chiesa ma tutta la realtà mondana, è la tensione escatologica che pervade il disegno di salvezza. La semantica del termine catholica si ampia e si trasforma. Nell’ultima pagina, più che nel corso del lavoro se ne evidenzia il significato, quando scrive: “E’ l’Ecclesia ab Abel, che racchiude il senso divino della cattolicità. Catholica, poi, è la Chiesa di Dio, l’intero popolo eletto … Catholica, però, è anche l’umanità che si apre all’amore di Dio… Sono cattolici i popoli che hanno diritto di cittadinanza su questa Terra…Cattolico è pure il tentativo di dialogo per ripristinare la pace tra etnie… La cattolicità, dunque, non ha un’origine giurisdizionale, un vincolo primariamente istituzionale. E un dono eziologico e carismatico che permette alle comunità cristiane di essere il luogo della compassione in cui l’umanità può ritrovare l’unità e la salvezza, lo spazio in cui il mondo appare e si sente riconciliato” (pag. 378s). Alla fin fine si potrebbe dire che la catholica coincide col “regno di Dio”. Come questo si esprime nel “già e non ancora”, così, dice l’autore, la catholica ha due tempi: “nel momento attuale, la cattolicità ha un carattere innanzitutto liturgico-sacramentale e … canonico; ma assume poi un significato cosmico, simbolico. In rapporto al futuro, la cattolicità appare totalmente come dono escatologico… dono gratuito del Padre. E lui che, nella piena gratuità, ha iscritto tutti gli esseri viventi nel libro della vita. Il salmo proclama con tenacia e gioia: «Tutti là sono nati» (Sai 84,7). Per cui, la Chiesa raccoglie e offre al Padre, nella potenza dello Spirito, attraverso Gesù Cristo, tutto ciò che è del mondo (n.d.r. cioè il regno). Così noi sappiamo dove è la Chiesa (n.d.r.: il regno), ma non ci è dato di giudicare e dire dove la catholica (n.d.r.: il regno) è” (pag. 379).
Per un’eventuale ristampa si consiglia di compilare un dizionarietto con i temi affrontati e segnalazione delle pagine relative e di correggere i seguenti errori di stampa:
pag. 73 ultima riga, da correggere il greco in: pepleromene pistei kai agape
pag. 160: ultime due righe: non è chiaro il senso: sono giuste o c’è un refuso?
pag. 270: seconda riga del secondo capoverso: leggere “Caritas Deus est”
pag. 277 nota 92 quarta riga, leggere: quale Ur-bild
pag. 301 ultima riga, leggere: insito nel potere
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GABRIELE MIOLA fa recensione del libro in FIRMANA anno 2003 nn. 32\33
JEAN CABAUD, Il rabbino che si arrese a Cristo. La storia di Eugenio Zolli rabbino capo a Roma durante la seconda guerra mondiale, Edizioni S. Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2002 pp.120.
<segue un libro dello Zolli>
Questo titolo <della Cabaud> mi ha incuriosito, ho acquistato il libro e l’ho letto d’un fiato. Ricordavo il nome di Zolli dall’anno propedeutico alla teologia (1953- 54), nelle lezioni del corso di Apologetica. La conversione di Zolli, rabbino capo della sinagoga di Roma, nel 1945 aveva suscitato scalpore; ne sentii parlare ancora qualche rara volta negli anni di teologia alla Lateranense (54-58) e del Biblico (58-61), ma non avevo mai avuto l’opportunità di conoscerne la vita. Questo libretto della Cabaud, anch’essa ebrea convertita, me ne ha data l’occasione.
Questo libretto non è una biografia critica, è piuttosto una testimonianza. Scrive Mcssori nella presentazione: “Judith Cabaud non ha alcuna pretesa di porsi accanto alle opere della storiografia professionale. Molte cose, qui, sono soltanto accennate; molte altre necessitano di un approfondimento sulla base di una documentazione più vasta … L’autrice ha inteso il suo lavoro soprattutto come una testimonianza” (pag. 9).
Il lavoro della Cabaud sottolinea soprattutto il cammino spirituale di Zolli, che lo portò a vedere in Gesù e quindi nel cristianesimo la continuità e la pienezza delle Scritture ebraiche. Zolli infatti non si considerava “convertito, ma arrivato”.
Ecco alcuni dati biografici, desunti dal libro dalla Cabaud. Zolli nasce a Brody, città ai confini dell’impero austro-ungarico verso la Galizia polacca, ultimo di sei figli della famiglia Zoller (Zolli è cognome italianizzato) il 17 settembre 1881, ebbe il nome di Israel. La famiglia è benestante, il padre possiede una fabbrica a Lods (Polonia), ma quando quella zona della Polonia passò sotto l’amministrazione zarista, le fabbriche di proprietari stranieri vennero soppresse e la famiglia Zoller fu ridotta in povertà e si spostò a Lvov. Fece studi classici, ma con passione si dedicò anche a studi religiosi leggendo soprattutto la letteratura ebraica midrashica. Ottenne il “diploma di Maestro di religione”, che gli apriva la strada agli studi per la carriera di rabbino; lesse Maimonide, ma disdegnava tutta la casistica delle scuole rabbiniche; si appassionava a leggere Isaia e si aprì alla lettura del Nuovo Testamento e la Cabaud riporta una bella espressione dalle sue memorie: “Tutto questo mi sbalordiva: il Nuovo Testamento è, in effetti, un Testamento nuovo!” Nel 1904, morta la mamma, che gli aveva inculcato la passione per gli studi religiosi e per la quale nutriva una grande venerazione, lasciò la famiglia (che non rivedrà più) e si iscrisse all’Università di Vienna, ma per il serpeggiante antisemitismo, dopo pochi mesi lasciò l’Austria e venne in Italia. Si stabilì a Firenze dove si iscrisse alla facoltà di Filosofia presso l’Università statale e all’Istituto degli Alti Studi del Collegio rabbinico. Nel 1913 viene nominato vice-rabbino della città di Trieste e in quell’anno sposò Adele Litwak originaria di Lvov. Si ritrova così in ambito austro-ungarico, ma la lunga permanenza a Firenze l’aveva fatto innamorare dell’Italia e durante la guerra del ‘15-18, per i suoi sentimenti italiani, fu guardato a vista dalla polizia austriaca, ma egli si occupò prevalentemente, oltre che dei suoi compiti di vice-rabbino, dell’assistenza ai profughi ebrei cacciati dai paesi dell’est d’influenza russa. Dal 1918 al 1938 fu rabbino capo della sinagoga di Trieste ormai con cittadinanza italiana. Furono anni di intensa attività, ma soprattutto di studio e in particolare di confronto tra la tradizione ebraica e l’ebreo Gesù di Nazareth. Scrisse molti articoli e saggi per riviste italiane e tedesche, ma soprattutto pubblicò due opere significative: nel 1935 Israele: uno studio storico e religioso e nel 1938 II Nazareno. La Cabaud vede in queste due opere il grande cammino del rabbino verso una visione nuova che supera l’impostazione ebraica della pratica della legge e riporta questa frase di Zolli: “La Legge insegna ed indica il cammino; la corsa verso Dio passa attraverso la propria volontà. Conoscere è amare; noi amiamo con il cuore e non attraverso nozioni ricevute da fuori” (pag.37). Zolli ormai vede una continuità tra Antico e Nuovo Testamento. Gesù diventa sempre di più il personaggio di cui spesso si parla in casa. Intanto in Germania s’era scatenata la follia nazista contro gli Ebrei, ma anche in Italia, dopo un primo momento in cui Mussolini condannò la persecuzione di Hitler contro gli Ebrei, presto con le leggi razziali prima e con il patto d’acciaio poi (1938-39) gli Ebrei si trovarono in clima di persecuzione e di guerra. Il rabbino Zolli si prodigò in mille modi per aiutare Ebrei in difficoltà: da una parte favorendone la fuoriuscita verso la Palestina, dall’altra intervenendo presso le autorità, tanto che si meritò l’appellativo di rabbino buono.
Nel 1940 la comunità israelitica di Roma chiama Zolli ad occupare il posto vacante di Gran Rabbino. Zolli accettò e si trasferì nella capitale. Il libro della Cabaud si ferma a descrivere l’attività di Zolli in questi anni drammatici 1940-44 per la comunità ebraica della capitale, particolarmente il periodo dell’occupazione nazista di Roma dopo la caduta del fascismo del 9 settembre del 1943: emerge una figura di Zolli uomo di fede, di preghiera, ma anche di attività diplomatica, di interventi presso le autorità di Roma e del Vaticano, di aiuto ai correligionari ebrei, fino a quando i tedeschi eliminarono i rabbini di Genova, Firenze, Bologna e allora Zolli, su cui era stata posta una taglia di trecentomila lire, fu costretto con la sua famiglia a trovar ospitalità e rifugio in una famiglia cristiana fino all’arrivo degli alleati a Roma nel giugno del ‘44.
Zolli, con l’occupazione nazista di Roma, aveva perso la cittadinanza italiana e la funzione di Gran Rabbino della capitale, il 21 settembre dello stesso anno 44, con decreto ministeriale gli fu ridata la cittadinanza italiana e fu confermato Gran Rabbino della Comunità ebraica di Roma. L’esperienza della guerra, le leggi razziali di Mussolini, la persecuzione nazista a Roma gli fecero meditare sempre di più il profeta Isaia e particolarmente i carmi del servo. Ormai nel cuore del rabbino prendeva sempre più posto la figura di Gesù. Nell’autunno del 44 mentre presiedeva la liturgia del Yom Kippur, il giorno del grande perdono, nella sinagoga ebbe una grande esperienza mistica. L’autrice del libro riporta dalla autobiografia di Zolli questa testimonianza: “D’improvviso, con gli occhi dello spirito, vidi una grande prateria e, in piedi, in mezzo all’erba verde c’era Gesù Cristo rivestito di un manto bianco; sopra di Lui il cielo era tutto blu. A quella vista provai una pace indicibile… Allora in fondo al cuore sentii queste parole: Sei qui per l’ultima volta. D’ora in poi seguirai me! Le accolsi con la massima serenità e il mio cuore rispose immediatamente: Così sia, così è, così deve essere”.
Nel Gennaio del 1945 gli fu chiesto di riorganizzare il Collegio Rabbinico di Roma, cioè il centro degli studi ebraici, ma non accettò; ormai si stava aprendo un’altra strada davanti ai suoi occhi sempre più pieni della figura di Gesù il Nazareno. Prese contatto con padre Dezza, noto professore della Gregoriana e cominciò la sua preparazione al battesimo, che ricevette da monsignor Traglia il 13 febbraio 1945 e volle prendere il nome di Eugenio in onore di papa Pio XII, Eugenio Pacelli. Con lui fu battezzata anche la moglie Emma; la figlia Miriam seguì i genitori dopo un anno.
Negli ultimi tre brevi capitoli la Cabaud segue Zolli negli ultimi anni della sua vita. Morì a Roma il 2 marzo 1956 all’età di 74 anni. Entrando nella Chiesa, Zolli perse tutto, casa e stipendio, ma soprattutto fu oggetto di calunnie e denigrazione da parte degli Ebrei non solo di Roma, ma anche dell’ebraismo internazionale, fu trattato da apostata e scomunicato. Si ritrovò in estrema povertà, ma l’accettò volentieri; fu aiutato da padre Dezza e papa Pacelli volle che tenesse dei corsi all’Istituto Biblico e alla Gregoriana, fu chiamato a tenere qualche corso anche all’Università di Roma. Zolli non considerò mai il suo battesimo una conversione, ma l’approdo di una lunga navigazione: erano state le Scritture ebraiche che l’avevano portato alla fede in Gesù come conclusione di un cammino ininterrotto, il Nuovo Testamento non è che la continuazione, il compimento della promessa fatti ai padri. Sofia Cavalletti, nota per i suoi studi sulla patristica, sulla liturgia antica e sull’ebraismo, che fu sua assistente all’Università, gli rende questa testimonianza: “Lo scopo principale della sua vita era quello di insegnare che dall’Antico al Nuovo Testamento…c’è un lento cammino dello spirito verso le mete più elevate” (pag. 104).
Mcssori nella prefazione a questo libro lamenta che quella di Zolli sia una figura dimenticata, non solo (del resto comprensibile) presso gli Ebrei, ma anche preso i cattolici; si augura che dopo la traduzione in italiano e la pubblicazione di questo scritto della Cabaud possano riprendere gli studi su Zolli in maniera scientifica e si approfondisca quel motivo costante che ricorreva spesso sulla bocca e si ritrova negli scritti di Zolli che Antico e Nuovo Testamento formano un’unità. E un dato fondamentale della fede e della teologia cristiana e vale la pena approfondire come l’abbia scoperto nella vita, nello studio e negli scritti Eugenio Zolli.
Edito in FIRMANA nn.32\33 a. 2002
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EUGENIO ZOLLI, Prima dell’alba. A cura di Alberto Latorre. Ediz. San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2004 pagg. 284
Le edizioni San Paolo hanno pubblicato nel 2002 su Eugenio Zolli il volume di J. Cabaud, Il rabbino che si arrese a Dio. La storia di Eugenio Zolli rabbino capo a Roma durante la seconda guerra mondiale (cfr.recensione in Firmana nn. 32-33). Ora viene opportuna la pubblicazione dell’autobiografia di Zolli. In copertina dopo il titolo Prima dell’alba c’è scritto, come sottotitolo: ”Autobiografia autorizzata”, mentre in prima pagina non c’è. Se è un’autobiografia certamente chi l’autorizza è l’autore, ma in questo caso l’autobiografia per la prima volta fu pubblicata in inglese col titolo Before the Down (Prima dell’alba) in occasione di un viaggio di Zolli in America. Si pensava quindi che lo scritto originale fosse in inglese. Invece è stato ritrovato il dattiloscritto in italiano e quindi c’è la certezza che l’inglese è una traduzione; nel “Congedo” del diario ringrazia “le reverende madri Williamson e Maranzana” che hanno curato la versione in inglese. Poiché tra il testo inglese e il dattiloscritto in italiano ci sono delle varianti, ad esempio, capitoli spostati ed altro, gli eredi hanno autorizzato la pubblicazione dell’originale italiano. Questo è precisato nella nota premessa al libro dal curatore del libro A. Latorre.
Queste le tappe principali della vita di Zolli. Nasce il 17 settembre 1881 a Brody, cittadina oggi nella Polonia, allora ai confini nord-ovest dell’impero austro-ungarico. Gli fu messo nome Israel. La sua lingua madre è quindi il tedesco. Quando Brody passò sotto l’amministrazione zarista, la famiglia si spostò a Leopoli, dove Zolli seguì studi classici e rabbinici. Nel 1904, dopo la morte dei genitori, lasciò la famiglia e si iscrisse all’università di Vienna dove rimase appena un semestre. Venne quindi a Firenze e si iscrisse alla facoltà di filosofia e contemporaneamente al Collegio Rabbinico Italiano. Completò gli studi con la laurea in filosofia all’università statale e con il titolo di rav (rabbino, maestro) al collegio rabbinico. Nel 1911 fu nominato vice-rabbino alla sinagoga di Trieste e nel 1913 rabbino e si ritrovò quindi in ambito austriaco; vi rimase fino al 1939. In quell’anno fu nominato rabbino capo della sinagoga di Roma. Qui visse tutta la tragedia degli ebrei di Roma nella bufera dell’occupazione nazista in Italia a seguito delle leggi razziali fasciste e della persecuzione tedesca contro gli ebrei nella capitale. Nel 1945 maturò la sua conversione al cristianesimo e il 13 febbraio ricevette il battesimo. Morì il 2 marzo 1956.
Quella di Zolli è un’autobiografia molto scarna di elementi cronologici e narrativi, ricca invece di considerazioni di carattere religioso, filosofico e teologico.
Del periodo a Brody ricorda la profonda religiosità della mamma e alcuni episodi come quando s’imbatté con un contadino che aveva sovraccaricato il suo cavallo, tanto che scivolò sul ghiaccio e il cavallo cadde; il ragazzo Israel si mise ad aiutare il povero contadino per far rialzare l’animale e per raccattare il carico. Tornò a casa in ritardo sul consueto orario e si ebbe dei rimproveri, ma tacque sull’opera buona che aveva fatto. Un altro episodio: un compagno s’era portato a scuola la boccettina dell’inchiostro vuota, ne chiese a Israel che gliene diede; il compagno, per averne di più, spinse improvvisamente il gomito di Israel, ma l’inchiostro fuoriuscì e gli macchiò il vestito e lo sporcò tutto. Zolli ricordando l’episodio scrive: “Non ero né indignato, né adirato; non sentivo per lui né odio né disprezzo. Non mi passò nemmeno per l’anticamera del cervello l’idea di denunciarlo al maestro. Non posso neppure dire di avergli perdonato. Nulla di tutto ciò. Per me il ragazzo era diventato una specie di non essere” (pag. 41). Tornato a casa raccontò tutto alla mamma, che lo consolò con tenerezza. Piccoli episodi che rivelano un temperamento calmo, un animo buono, ma anche fermo. Descrive particolarmente l’amico Stanislao presso cui andava spesso per passar del tempo e fare i compiti di scuola; ammirava questo compagno e la sua mamma, vedova, dolce, laboriosa, piena d’affetto verso il figlio per il quale non c’era mai bisogno di alzare la voce e tanto meno le mani. Avevano una casa semplice, ma dignitosa, c’era una grande stanza con alla parete un crocefisso e Israel lo guardava spesso quasi in contemplazione e si poneva interrogativi. Scrive: “Perché ‘questo’ fu crocefisso? Era cattivo? Oh che si crocefiggono tutti i cattivi? Se poi, fosse stato più cattivo degli altri, proprio tanto cattivo, perché tanta, proprio tanta gente lo segue? E perché le signore di mia madre … che pur seguono questo crocefisso sono tanto buone? La faccenda delle signore cominciava a divenire a sua volta uno strano ‘perché’. Come mai Stanislao e sua mamma, pure seguaci e adoratori di ‘questo’, sono tanto buoni? Perché noi ragazzi diventiamo così ‘diversi’ al cospetto di ‘questo’, e nella vicinanza di Stanislao e di sua madre?” (pag. 51). I corsivi sono originali <r.- aggiunti segni ‘ ’>, non nomina mai Gesù, ma questo personaggio diventa sempre più importante per lui. Le domande che il ragazzo Israel si poneva preludono ad un atteggiamento della vita che lo porta ad interrogarsi sugli uomini, i loro atteggiamenti, la loro fede e le loro pratiche religiose e forse sono un preludio ad interrogativi più profondi che insorgeranno nella maturità della vita con lo studio e un’attività attenta ai bisogni delle persone della propria religione e degli altri.
Del periodo degli studi all’università di Firenze e al Collegio rabbinico e poi della sua attività di rabbino a Trieste non racconta episodi, ma lascia trasparire una vita intensa caratterizzata da una forte tensione nel suo lavoro e una costante riflessione sui testi biblici non solo dell’Antico Testamento e del Talmud, ma anche sui testi del Nuovo Testamento: s’interroga sul ‘mistero’ della figura del servo di Dio nel profeta Isaia, sulla cultura giudaica e quella greca, sulla sete di Dio che traspare dai salmi, sul dialogo tra l’anima e Dio, l’io e Lui, s’interroga sulla sofferenza di Dio e la tristezza del Signore, sui vangeli e la persona di Gesù. Affronta la figura di Paolo ebreo e di Paolo cristiano e la posizione dell’apostolo nei confronti della Torah. Si appassiona nell’approfondire il cammino di ebrei arrivati alle soglie del cristianesimo come il filosofo Bergson. In maniera velata, perché descrive la sete che l’anima ha di Dio quando l’uomo ne è lontano, ma vi tende con tutte le forze e sente vibrare nel suo essere un’attrazione divina, descrive la sua tensione e il suo cammino. Scrive: “la sua anima stanca lo scorge dapprima flebilmente, si dibatte ancora nel dubbio. Ma poi si aggrappa disperatamente a lui e si lascia trascinare per una via estatica. E salendo di altezza in altezza, in quali sfere meravigliose viene condotta! “(pag. 133).
A partire dal capitolo Prima dell’alba, senza che il testo offra dati cronologici, si capisce che Zolli ormai si trova a Roma, con l’incarico di rabbino capo della sinagoga della capitale e le pagine del diario sono la memoria del suo travaglio interiore e del suo cammino verso Cristo, Si domanda se la conversione sia un’infedeltà alle origini, un tradire l’ebraismo e risponde a se stesso che è come la fioritura della primavera; ricorda la conversione di alcuni amici, richiama la figura di Edith Stein, della dottoressa Mcirowsky, meno conosciuta della Stein, anch’essa ebrea convertita divenuta suora e morta martire nella persecuzione nazista, si ferma a lungo a descrivere la personalità, l’opera e il martirio di Massimiliano Kolbe, legge gli scritti delle origine cristiane, come la Didachè, nei quali vede continuità e novità nel passaggio dal giudaismo al cristianesimo, riflette sul concetto di coscienza e fede nelle lettere di S. Paolo e scrive: “ La coscienza non attinge la sua forza dalla legge, la quale spirituale e santa diletta la mente, resta pur tuttavia annullata (anche se assimilata) dal corpo di peccato, che è morte. L’uomo muore assieme al peccato attraverso il battesimo nella morte di Cristo. Risorto alla vita attraverso la crocefissione di Cristo l’uomo è libero dal peccato e la sua coscienza resta ormai totalmente e indissolubilmente legata al Padre, al Figlio, allo Spirito santo” (pag. 184s) e con S. Paolo e la Didachè prega: Marana’ ta’, Signore, vieni!
Gli ultimi tre capitoli hanno lo stile di una documentazione. La conversione di Zolli, rabbino capo della sinagoga di Roma, aveva creato non solo sorpresa tra gli ebrei della capi-tale, ma anche indignazione, accusa di tradimento, che sfociò in calunnie, quasi che egli avesse pensato a salvare se stesso e la sua famiglia e si fosse disinteressato della comunità ebraica durante l’occupazione nazista. Di fatto Zolli, che conosceva bene la lingua tedesca ed altre lingue aveva contatti con molte sinagoghe anche estere, fu preveggente nel capire le conseguenze dell’occupazione di Roma da parte dei tedeschi e intervenne presso personalità ebraiche autorevoli, che dirigevano uffici importanti del governo fascista ed erano legate a personaggi del regime, perché diffidassero delle assicurazioni provenienti dai ranghi del partito, ma non fu creduto. Zolli riporta un’ampia documentazione ufficiale, che dimostra la falsità delle accuse e rivendica il suo operato a favore dei suoi correligionari durante tutto il periodo terribile dell’occupazione nazista di Roma. Termina con un elogio dell’attività di Pio XII e dei padri Gesuiti per la salvezza di singoli e di gruppi di ebrei.
Il diario termina qui, Zolli non parla della sua conversione, del battesimo, né degli undici anni della vita dopo la conversione. Ora nel testo è riportato un breve capitolo in appendice, tradotto dall’inglese. Quest’appendice era stata pubblicata nell’edizione inglese del 1954, al curatore è sembrato opportuno aggiungerla all’edizione italiana. Zolli confessa che ogni conversione è avvolta nel mistero della grazia di Dio, e anche la sua, tuttavia rivede un cammino che in qualche modo ha preparato la risposta alla chiamata. Tutti gli riconoscevano una spiccata capacità riflessiva e una predisposizione al misticismo, anche se lui confessa di non averne avuta mai consapevolezza. Gli studi rabbinici, la lettura dell’Antico Testamento, del Talmud particolarmente delle parti midraschiche e soprattutto dello Zohar, gli hanno aperto l’anima verso una luce superiore, che ha trovato nel vangelo e nella persona di Gesù. Gesù era diventato il centro della sua vita, tutta la sua anima, in famiglia non si parlava che di Gesù. La chiamata avvenne quasi in forma visiva nel giorno della festa del Kippur, giorno dell’espiazione, di digiuno, di preghiera e di liturgia. Mcntre presiedeva nella sinagoga il culto ebbe due momenti mistici. Scrive: “Iniziai a sentire come se una nebbia stesse insinuandosi nella mia anima: divenne più densa, e persi interamente il contatto con gli uomini e le cose attorno a me. Una candela, pressoché consumata, bruciava nel suo candeliere vicino a me. Appena la cera si fu liquefatta sul suo candeliere, la piccola fiamma brillò in una più grande, balzando verso il cielo. Rimasi affascinato dalla vista di ciò… La lingua di fuoco si agitava e si contorceva, tormentata; e la mia anima vi partecipava, soffriva… Subito dopo vidi con l’occhio della mente un prato stendersi in alto, con erba luminosa ma senza fiori. In questo prato vidi Gesù Cristo vestito con un mantello bianco, e oltre il suo capo il cielo blu. Provai la più grande pace interiore… Dentro il mio cuore trovai le parole: “Tu sei qui per l’ultima volta”. Le presi in considerazione con la più grande serenità di spirito e senza alcuna particolare emozione. La replica del mio cuore fu: “Così sia, così sarà, così deve essere”. Due momenti intensi distinti ma congiunti, il primo segnava la fine del suo tormento che sfociava in alto verso il cielo, il secondo la chiamata di colui che era diventato tutt’uno col suo cuore e lo invitava all’ultimo passo. Di fatti scrive Zolli: “Fu alcuni giorni dopo questi fatti che rinunciai al mio incarico in seno alla comunità ebraica e andai da un prete… per ricevere l’insegnamento cristiano… il 13 febbraio ricevetti il battesimo e venni incorporato nella Chiesa Cattolica, il corpo di Gesù Cristo” (pag. 274-75).
Edito in Firmana nn. 35\36 anno 2003
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GABRIELE MIOLA fa recensione e studio su
- FINKELSTEIN – N. A. SILBERMAN, Le tracce di Mosè. La Bibbia tra storia e mito, (Saggi 14), Carocci editore, Roma 2002, pp. 409.-
L’unificazione d’Israele al tempo di David e Salomone.
Storia o racconto “fondativo”? A proposito di un libro recente.
\n\ Cfr. il volume Abschied vom Jahwisten. Die Komposition des Hexateuch in der juengsten Diskussion, (edito da Gettz, Schmid, Witte), Berlino, 2002 [Commiato dallo Jahwista. La composizione dell’Esateuco nella discussione più recente”]. Il volume raccoglie contributi di più autori, che da tempo hanno abbandonato l’esistenza della tradizione jahwista. Cfr recensione di A. C. Hagedorn in ZAW 2003/2; della elohista si discuteva già da molto tempo.!
“ Le tracce di Mosè. La Bibbia tra storia e mito.” Questo libro ha fatto parlare molto di sé. Gli autori sono due archeologi israeliani noti per il loro lavoro di scavo in Israele, Libano e Siria. In questo volume danno in sintesi i risultati delle loro decennali ricerche archeologiche. Sulla base dell’archeologia rileggono le epoche bibliche dandone una descrizione, che per molti lati la critica biblica aveva già da tempo assodato, e aprendo qualche altra prospettiva che andrà però verificata. Il volume, pubblicato in Israele nel 2001 col titolo: The Bible Unearthed. Archaeology’s New Vision of Ancient Israel and thè Origin of Sacred Texts, fece scalpore tanto che ne fu fatta in breve tempo una ristampa. Ne parlò la stampa e una rivista biblica francese di buona divulgazione in tre numeri diversi è tornata sul libro e i suoi autori. La posizione più innovativa, espressa da questi due autori, sulla base dell’archeologia, è che il regno unificato delle dodici tribù d’Israele al tempo di David e Salomone non sarebbe mai esistito. Esso sarebbe una costruzione letteraria della corrente deuteronomista iniziata al tempo del re Giosia, cioè nell’ultima parte del VII secolo, e completata nel post-esilio in epoca persiana dalla corrente sacerdotale nel V-IV secolo. I due autori ripercorrono tutte le epoche bibliche con questo metodo in tre momenti: (1) presentazione dei racconti biblici, (2) incoerenza di questi in rapporto ai dati archeologici e storici, (3) proposta di una datazione dei testi biblici più coerente, secondo i due autori, rispetto ai dati attuali della ricerca.
Di per sé il libro ha sorpreso molto l’opinione pubblica, molto meno gli addetti ai lavori.
Poiché alcuni laici e preti, che avevano letto o sentito parlare del libro sono rimasti a dir poco sorpresi e mi hanno chiesto <= al recensore docente Miola Gabriele> un parere, rimanendo sul piano delle conoscenze più diffuse nell’ambito di un pubblico acculturato e del clero, ripercorriamo le tappe principali della critica e della storiografia biblica e le posizioni offerte dal volume di Finkelstein e Silberman.
.a.) Partiamo dal Pentateuco. La critica storica del Pentateuco dell’800 e del primo 900 si era confrontata con le scoperte delle culture antiche del Mcdio Oriente (testi sumerico- accadici, assiri, babilonesi, fenicio-ugaritici, ittiti ecc.), aveva proposto ipotesi varie sull’origine del Pentateuco e aveva trovato agli inizi del 900 una sistemazione con la teoria di Wellhausen secondo cui il Pentateuco risulta dalla fusione di quattro fonti: quella più antica chiamata yahwista (del X-IX sec., sigla J), quella elohista (IX-VIII sec., sigla E), quella deuteronomista (sec. VII, sigla D) e quella sacerdotale (VI sec., sigla P), unificate più tardi solo nel IV sec. al tempo di Esdra. Ne derivava che il Pentateuco, così come ci è stato trasmesso, nella sua stesura definitiva, aveva poco a che fare con Mosè, la cui figura veniva posta nel XIII sec. Questa prospettiva, riveduta, purificata da incongruenze interne, si andò affermando negli studi biblici. Nell’ambito cattolico però fu osteggiata almeno fino all’enciclica Divino Afflante Spiritu di Pio XII (1943, sigla DAS). La pontificia commissione biblica fino agli anni trenta metteva in guardia i biblisti cattolici sull’autenticità mosaica del Pentateuco. E nonostante la DAS, che invitava gli esegeti cattolici ad adottare il metodo storico-critico nello studio della Bibbia e a studiare i generi letterari per un’ermeneutica più attenta al senso letterale, la Humani Generis nel 1950 richiamava l’attenzione degli esegeti cattolici sul senso storico dei primi undici capitoli della Genesi. Ma già la Bibbia di Gerusalemme nella sua prima edizione del 1955 accoglieva la teoria delle fonti. All’Istituto Biblico negli anni 50 era normale nell’esegesi dell’AT il riferimento alle quattro fonti e la teoria wellhauseniana, rivista e corretta, era data per scontata: porre i corpi narrativi, legislativi e cultuali di Esodo, Levitico e Numeri nel VI-V sec. o il Deuteronomio con i testi della riforma di Giosia e i discorsi di Mosè in cui si parla dell’esilio e del ritorno dall’esilio, porlo al VII-V secolo, era cosa evidente e scontata; classificare il racconto della creazione di Gen 1, 1-2,4a o i capitoli delle genealogie di Genesi, o il racconto dell’alleanza di Dio con Abramo di Gen 17 ecc. come testi della tradizione sacerdotale e quindi tardivi, del sec. VI-V, era normale; come pure classificare i racconti delle origini di Gen 1-11 come non storici, ma racconti “mitici” o “sapienziali” non faceva difficoltà. Eppure io stesso, già nel postconcilio, ancora negli anni 70, presentando al clero i racconti di Gen 1-11 come testi da leggere non in chiave storica, ma sapienziale, ho sentito preti allora cinquantenni reagire e contestare vivacemente una simile lettura. Segno evidente che la metodologia storico-critica non era stata recepita, che la Bibbia era letta ancora in maniera problematica nel rapporto con le scienze, che la Dei Verbum, la Sacrosanctum Concilium e il concilio in genere non erano stati assimilati, avevano appena sfiorato la superficie. Negli ultimi venti anni, la teoria delle quattro fonti è stata superata: non si suppone più una tradizione jahwista ed elohista, ci si concentra di più sulle due grandi tradizioni, deuteronomistica e sacerdotale, che servendosi di testi più antichi, hanno riletto tutta la storia biblica, non solo quella delle origini, ma tutta la storia d’Israele fino al periodo postesilico, sistematizzandola definitivamente non prima del V-IV secolo.
<nota> Sulla tradizione jahwista cfr. il volume ”Abschied vom Jahwisten. Die Komposition des Hexateuch in der juengsten Diskussion” (edito da Gettz, Schmid, Witte) Berlino, 200. [Commiato dello Jahwista. La composizione dell’Esateuco nella discussione più recente]. Il volume raccoglie contributi di più autori, che da tempo hanno abbandonato l’esistenza della tradizione jahwista. Cfr. recensione di A. C. Hagedorn in ZAW 2003/2; della elohista si discuteva già da molto tempo.
La preparazione del clero giovane oggi è diversa, ma è rimasta la mentalità precedente per la maggior parte dei cristiani, anche di cultura media ed universitaria. In realtà la Bibbia, nonostante il grande lavoro fatto nei quaranta anni dopo il concilio, è ancora quasi un corpo estraneo nel popolo cristiano, non fa parte della vita comune dei cristiani, né come conoscenza storico-critica né come nutrimento, cibo della fede, cioè come parola di Dio, eccetto per alcuni gruppi ristretti. Dire Bibbia si intende ancora per molti l’Antico Testamento quasi in opposizione al Nuovo, ma anche col Nuovo si intende il Vangelo, ma non Paolo o l’Apocalisse, che restano ancora al margine della cultura e della fede cristiana. L’atteggiamento verso la Bibbia è in genere un atteggiamento di curiosità storica, che si desta quando la grande stampa mette in circolo notizie, che in qualche modo confermano o per lo più si pensa contestino i dati della storia biblica generalmente accettati come storicamente certi. Questo è vero anche per il volume di cui ci interessiamo.
- b) Il libro di Finkelstein-Silberman è una rilettura dei vari periodi biblici sulla base di ricerche archeologiche, concentrato soprattutto all’epoca della monarchia, ma vuol anche rispondere agli interrogativi: quando si può far cominciare una vera storia documentata di Israele? I racconti dei Patriarchi nel libro della Genesi e quelli dell’Esodo sono storia o saghe religiose? Che valore ha il libro di Giosuè con l’occupazione della terra promessa o le storie disparate dell’epoca dei giudici? Il regno di David e di Salomone sono realmente esistiti nella loro estensione ed unità o sono idealizzazione e proiezione fatta in un periodo posteriore?
I due archeologi sostengono, a partire dalle proprie ricerche, una tesi e lo dichiarano apertamente fin dall’introduzione. Basta leggere questo brano: “Fino a poco tempo fa, sia gli studiosi del testo sia gli archeologi avevano dato per scontato che l’antico Israele fosse già uno stato pienamente formato all’epoca della monarchia unita di David e Salomone. Molti specialisti biblici, in effetti, continuano a credere che il documento yahwista sia la fonte più antica del Pentateuco e che esso sia stato compilato in Giuda nel X secolo a. C., all’epoca di David e Salomone. In questo libro sosterremo che si tratta di una conclusione molto improbabile. Da un’analisi delle testimonianze archeologiche non emerge alcun segno della presenza nel regno di Giuda e, in particolare a Gerusalemme, di una qualsiasi forma di diffusione della scrittura o degli altri attributi di uno stato pienamente sviluppato prima dell’VIII secolo a. C., ben oltre duecentocinquanta anni dopo. Naturalmente -nessun archeologo lo può negare- la Bibbia contiene leggende, personaggi e frammenti di storie che risalgono molto indietro nel tempo ma – l’archeologia può dimostrarlo – la Torah e la storia deuteronomistica portano inequivocabili segni del fatto che la loro prima compilazione risale al settimo secolo a. C.” (pag. 35- 36), cioè al tempo del re Giosia. I due autori seguono le tappe della storia biblica e, sempre dati archeologici alla mano, tirano le loro conclusioni che esporremo facendo parlare il più possibile gli autori citando dal loro libro.
- Per l’epoca patriarcale concludono: la storia di Genesi sui patriarchi non è che “un tentativo di presentare le tradizioni patriarcali come una pia preistoria, prima di Gerusalemme, prima della monarchia, prima del tempio, quando i padri delle nazioni erano monoteisti ma era ancora loro permesso di sacrificare in luoghi diversi. La rappresentazione dei patriarchi come pastori o allevatori può, infatti, essere stata intesa come mezzo per dare un’atmosfera di grande antichità alle fasi formative di una società che solo da poco aveva sviluppato una chiara coscienza nazionale… Sia la fonte yahwista del Pentateuco che la storia deuteronomista furono scritte nel settimo secolo a. C. in Giuda, a Gerusalemme, quando il regno settentrionale di Israele non esisteva più” (pag. 59).
- Quanto alla storia dell’esodo, dopo aver esaminato la situazione archeologica circa i luoghi menzionati nei racconti del libro omonimo e delle tappe del cammino esodiale nel libro dei Numeri, così si esprimono i due autori: “E impossibile dire se sia vero o meno che il racconto biblico sia un’espansione e una rielaborazione di vaghe memorie della migrazione dei cananei in Egitto e della loro espulsione dal delta nel secondo millennio a. C.: sembra comunque evidente che la forza della storia biblica dell’esodo non dipendeva tanto dal richiamo ad antiche tradizioni e a dettagli demo-politiche presenti…quando un giovane condottiero di Giuda era pronto a confrontarsi con il grande faraone, e le antiche tradizioni raccolte da fonti molto differenti furono unite in una singola epopea completa che sosteneva gli scopi politici di Giosia”… L’epopea dell’esodo d’ Israele dall’Egitto non è né verità storica né finzione letteraria: è una potente espressione della memoria e delle speranze nate in un mondo in procinto di cambiare… La Pasqua non è un momento isolato, ma un’esperienza continua di resistenza nazionale contro i potenti” (pag. 82-84 passim)
- Negli anni ‘50-60 si era affermata la scuola archeologica di W. F. Albright, che facendo scavi in Palestina tra il 1920 e 1940, aveva trovato che nel periodo tra XIII-XII sec. s’era verificato nella terra di Canaan un grande sommovimento e distruzioni su larga scala: questa situazione era stata attribuita all’arrivo delle tribù degli Ebrei e alla conquista armata della terra promessa al tempo di Giosuè. La stele del faraone Mcren-ptah (o Mcrneptah), datata intorno al 1210 a. C., in cui si legge per la prima volta il nome di Israele come popolo presente tra le diverse altre etnie in terra di Canaan, ne era la conferma. La nuova archeologia, tra i cui esponenti si trovano gli autori del volume, sulla base di nuove ricerche, ha contestato la tesi di Albright perché l’ambito dei cambiamenti abbraccia tutto il Vicino Oriente mediterraneo e le distruzioni e il cambiamento sociale verificatisi in quelle vaste zone vanno attribuiti piuttosto all’epoca dell’invasione dei cosiddetti popoli del mare. Del resto tra la versione biblica della presenza di Israele in Canaan, data dal libro di Giosuè e quella che si può leggere nel libro dei Giudici, c’è un’evidente disparità. Il libro di Giosuè ci presenta un’occupazione rapida nel giro di qualche mese, un’occupazione armata con grandi battaglie, un’occupazione completa di tutto Canaan e la divisione di tutta la terra tra le tribù di Israele. Nel libro dei Giudici appare invece una compresenza di cananei ed ebrei per lungo periodo con contrasti e lotte di alterne vicende.
- Il racconto dei libri di Giosuè e dei Giudici pongono il problema della storicità dei racconti e quello delle origini o dell’insediamento degli israeliti in Canaan. Per i nostri autori le storie eroiche di Giosuè e dei Giudici sono saghe antiche sorte nelle popolazioni che confrontarono la loro cultura grama e le rovine imponenti che testimoniavano la grandezza e la forza di età precedenti tra i secoli XVIII e XII dovute all’invasione dei popoli del mare, racconti che furono poi raccolti e sistemati dall’ideologia deuteronomista nel secolo VII al tempo di Giosia: e allora, dicono i nostri autori, “l’imponente figura di Giosuè viene usata per evocare un ritratto metaforico di Giosia, aspirante salvatore di tutto il popolo di Israele” (pag. 108). Quanto all’origine di Israele, dopo aver messo in evidenza le nuove acquisizioni archeologiche, affermano: “l’apparizione dell’antico Israele fu il risultato, e non la causa, del collasso della cultura cananea. E la maggior parte degli israeliti non arrivò a Canaan da fuori, ma emerse al suo interno. Non ci fu un esodo di massa dall’Egitto, come non ci fu una conquista violenta di Canaan. Inizialmente Israele fu costituito per la maggior parte da popolazioni locali, le stesse che incontriamo nell’altopiano nell’età del bronzo e in quella del ferro: colmo dell’ironia, anche i primi israeliti erano originari di Canaan” (pag. 133).
- Quanto all’epoca della monarchia, Finkelstein- Silberman scrivono: “Fino a poco tempo fa, molti studiosi hanno concordato sul fatto che la monarchia unita fu il primo periodo biblico a poter essere effettivamente considerato storico. A differenza delle memorie dei patriarchi o del miracoloso esodo dall’Egitto e delle visioni sanguinarie dei libri di Giosuè e dei Giudici, quella di David era una storia fortemente realistica di manovre politiche e intrighi dinastici. Anche se molti dettagli delle prime imprese di David erano sicuramente elaborazioni leggendarie, gli studiosi credettero a lungo che la storia della sua ascesa al potere fosse compatibile con la realtà archeologica” (pag. 137). Dopo aver esaminato il succedersi delle ricerche archeologiche con le diverse datazioni dei reperti, concludono che ritrovamenti datati prima all’epoca di Salomone (X sec.), abbassati poi all’epoca di Acab (IX sec.), attualmente confrontati con i reperti di un’area più vasta che abbraccia anche la Siria, rilevato che archeologicamente non si può parlare di Gerusalemme come di una grande città fino al sec. VII, i due archeologi concludono: “Le nuove date riportano l’aspetto delle strutture monumentali, delle fortificazioni e degli altri segni di pieno sviluppo… a quelle analoghe in Siria. Esse ci permettono infine di capire perché Gerusalemme e Giuda si presentino così povere di reperti del decimo secolo: il motivo è che in quell’epoca Giuda era ancora una regione sperduta e arretrata” (pag.156) e su l’epoca di David e Salomone scrivono: “nel decimo secolo il loro governo non si esercitava su un impero, su città-palazzo o su una grandiosa città capitale. Di David e Salomone l’archeologia ci può dire solo che sono esistiti e che la loro leggenda si è perpetuata” (pag. 157). Questa leggenda è stata completata e elaborata dalla corrente deuteronomista: “Si trattava di speranze teologiche, non di rappresentazioni storiche affidabili. Erano un elemento centrale della potente visione del rinascimento nazionale nel VII secolo” (pag. 158) e la figura ideale del nuovo David era il re Giosia.
- A parere dei due archeologi la storia biblica dall’epoca dei patriarchi al periodo della monarchia di David e Salomone, cioè dai libri di Genesi-Esodo fino 1 e 2 Samuele e 1 Re cap. 14 è una storia religiosa idealizzata sorta, sulla base di tradizioni più antiche, per opera del deuteronomista a partire dal sec. VII in poi.
La prima parte dell’opera si può considerare una pars destruens che mette a confronto i dati dell’archeologia degli ultimi venti anni con i racconti biblici per concludere che questi non hanno un riscontro archeologico e storico. La seconda e terza parte sono dedicate una al regno di Samaria e l’altra al regno di Giuda. Tra i due regni non c’è alcuna relazione, non sono due regni successivi e tanto meno frutto di una divisione da un regno precedentemente unito. Scrivono: “Non esiste alcun genere di testimonianza archeologica che faccia pensare che questa situazione di divisione tra Nord e Sud subentrasse a una precedente unità politica, tanto meno a un’unità politica il cui centro fosse il Sud. Nel decimo e nel nono secolo a. C., Giuda era ancora scarsamente popolato, con un numero limitato di villaggi… Inoltre non abbiamo ancora serie testimonianze archeologiche del fatto che, all’epoca di David, Salomone e Roboamo, Gerusalemme fosse qualcosa di più di un modesto villaggio dell’altopiano, nonostante le impareggiabili descrizioni bibliche della sua grandezza” (p.172) Una vera storia biblica comincia con il regno del Nord i cui inizi vanno posti all’inizio del IX secolo, la cui fioritura si sviluppò con le due dinastie, quella di Omri e quella di Jeu. Gli autori si dilungano a descrivere prima la dinastia degli Omridi (884-842) e poi quella di Jeu (842-743) e la fine del regno del Nord nel 721. Fanno raffronti con testimonianze extrabibliche come la stele di re Mcsha, la stele di Dan per sottolineare i tentativi di espansione del regno del Nord e i conflitti con la Siria; riportano la testimonianza degli archivi assiri in cui si nomina la partecipazione del re Acab alla battaglia di Qarqar (853) per contrastare l’espansionismo dell’Assiria. La dinastia di Jeu è stata all’ombra dell’impero assiro da quando Jeu dovette pagare il tributo a Salmanassar III fino alla distruzione da parte degli assiri del regno del Nord nel 721, eccetto il periodo del lungo regno di Geroboamo II (783-743), che fu un periodo di pace e di sviluppo economico e di ricchezza, come risulta anche dalla predicazione dei profeti Amos ed Osea. Le notizie del testo biblico, i risultati delle ricerche archeologiche dell’ultimo ventennio, le fonti extrabibliche permettono di ricostruire una storia del regno del Nord, come di un regno organizzato, robusto, operoso, che ha dovuto alla fine cedere alla strapotenza dell’impero assiro. La storiografia del deuteronomista ci dà una versione religiosa, che legge la storia del regno del Nord alla luce della fede monoteista per cui tutti i re del Nord vengono condannati per il loro sincretismo religioso e la loro vita lontana dalla legge mosaica, quella ritrovata o meglio fatta ritrovare al tempo di Giosia. Concludono i nostri autori: “Per i lettori di Giuda, che nei tristi anni dopo la conquista assira d’ Israele, stavano fronteggiando la minaccia di un impero e di commistioni straniere, la storia biblica d’Israele servì da ammonizione, da avvertimento di quello che sarebbe potuto toccare loro. L’antico e una volta potente regno di Israele, che pure era stato benedetto da una terra fertile e da un popolo operoso, aveva perso la sua eredità. Ora il regno di Giuda, che era sopravvissuto, si preparava ad interpretare il ruolo del fratello minore favorito da Dio, come avevano fatto Isacco, Giacobbe o il loro antenato re David, pronto a recuperare un’eredità perduta e a redimere la terra e il popolo d’Israele” (pag. 239).
La terza parte è quindi dedicata al regno di Giuda. L’archeologia, dicono i due studiosi, rivela una netta differenza tra il regno del Nord e quello del Sud: “Israele e Giuda sono due mondi differenti… Le iscrizioni monumentali e i sigilli personali, cioè i segni essenziali di uno stato pienamente sviluppato, appaiono nel regno di Giuda solo alla fine dell’VIII secolo a. C., duecento anni dopo Salomone… Testimonianze di un regolare commercio appaiono solo nel VII secolo” (pag. 249), cioè al tempo di Giosia, così pure un allargamento della città per uno sviluppo demografico inizia dopo la fine del regno del Nord per il riversarsi della popolazione in fuga verso il sud: “Sull’onda delle campagne dell’Assiria a nord, Giuda sperimentò non solo un’improvvisa crescita demografica ma anche una reale evoluzione sociale” (pag. 257)… Dopo la caduta di Samaria (721 a. C.), con il grande accentramento del regno di Giuda, iniziò ad attecchire una nuova tendenza nei confronti della legge e della pratica religiosa… Ad un certo momento nel tardo VIII secolo a. C. ci fu l’apparizione di una scuola di pensiero sempre più forte che affermava che si doveva adorare solo YHWH e dichiarava sacrileghi gli altri culti del paese… Il nuovo movimento religioso … intraprese un conflitto aspro e incessante con i sostenitori dei costumi e dei rituali religiosi giudei più antichi e tradizionali” (pag. 260-61). È il tempo di Isaia e dei primi tentativi di riforma di Ezechia.
Con il declino della potenza assira da metà del secolo VII, il regno di Giuda non solo respira, ma si allarga. Scrivono i due archeologi: “Il ritiro degli assiri dalle regioni settentrionali della terra d’Israele creò una situazione che agli occhi dei giudei dovette sembrare un miracolo a lungo atteso… Sembrava aprirsi la strada per il degno coronamento delle ambizioni giudee e Giuda poteva infine espandersi a nord, annettersi gli altopiani settentrionali, accentrare il culto israelita e creare un grande stato panisraelita” (pag. 296-297)… “Arricchendo e rielaborando le storie contenute nei primi quattro libri della Torah, intrecciarono varianti regionali delle storie dei patriarchi ponendo le avventure di Abramo, Isacco e Giacobbe in un mondo con strane reminiscenze del VII secolo a. C. in cui veniva evidenziata la preminenza di Giuda su tutto Israele e creando per tutte le tribù d’Israele una grande epopea nazionale d’indipendenza… Il potente e prospero regno settentrionale alla cui ombra Giuda era vissuto per oltre duecento anni, fu condannato come aberrazione storica, scisma peccaminoso della vera eredità israelita. I soli governati giusti di tutti i territori israeliti erano i re della stirpe di David, in particolare il pio Giosia” (pag.297).
Secondo gli autori del libro il periodo di Giosia è il vero periodo di sviluppo del regno davidico ed il momento in cui si proiettano nel passato le aspirazioni del presente dandone una legittimazione di forza e di espansione, facendone risalire le promesse e la realtà al secolo decimo, cioè al tempo di David. Questa operazione sarebbe opera della corrente deuteronomista, che è quella che ha redatto la storia di Israele. Scrivono gli autori: “La grande saga delle scritture messe insieme durante il regno di Giosia era una composizione brillante e appassionata; raccontava la storia d’Israele dalla promessa di Dio ai patriarchi e, passando per l’esodo, la conquista della monarchia unita, la scissione dei due stati divisi, arrivava fino alla scoperta del libro della legge nel Tempio di Gerusalemme. Essa mirava a spiegare perché gli eventi passati portassero a trionfi futuri, mirava a giustificare l’esigenza deuteronomica di riforme religiose e più concretamente il rinascere delle ambizioni territoriali della dinastia di David” (pag. 316).
– Nell’ultimo capitolo della terza parte gli autori offrono alcune conclusioni basandosi meno sull’archeologia, ma sulla critica delle fonti per ricostruire la storia del postesilio e la formazione definitiva delle Bibbia. Concludono: “In breve la fase ultima della redazione biblica ricapitolò molti temi chiave del primo VII secolo cui è stata dedicata gran parte della discussione in questo libro. Ciò era dovuto alle analogie esistenti tra le realtà e le esigenze di questi due periodi: ancora una volta gli israeliti avevano a Gerusalemme il loro centro, ma non controllavano la maggior parte delle terre che consideravano loro per promessa divina, e dunque vivevano in grande incertezza. Ancora una volta c’era un’autorità centrale che doveva coalizzare la popolazione, e ancora una volta ci riuscì riformulando nel modo migliore il nucleo storico della Bibbia così da poterlo utilizzare come fonte primaria di identità e di riferimento spirituale per il popolo d’Israele al momento di affrontare le molte sciagure, le sfide religiose e i capovolgimenti politici che il destino aveva in serbo” (pag. 328).
Dopo questa lunga carrellata attraverso il volume di Finkelstein-Silberman, possiamo riassumere le loro posizione così: la vera storia di Israele comincia nel sec. IX-VIII col regno di Samaria al nord, il contemporaneo regno del sud, cioè quello di Gerusalemme, supposto anche che siano esistiti David e Salomone, era assolutamente inconsistente, non ha lasciato tracce significative fino al VII secolo. La storia dei Patriarchi, dell’Esodo, del regno unito al tempo di David e Salomone non sono che da una parte saghe religiose e dall’altra racconti «fondativi» della storia di Giuda nel sec. VII a. C.
Questa lettura della storia d’Israele, che s’è andata sviluppando a partire dagli anni 80 e di cui Finkelstein e Silberman sono stati protagonisti, non è condivisa da tutti, ma certo ha fatto presa nella ultima storiografia biblica. Caso emblematico è quello della “Storia d’Israele” di J. Alberto Soggin. Questo è un lavoro ben noto non solo in Italia, ma anche internazionalmente. Nella prima edizione del 1984 il Soggin faceva partire la storia d’Israele dal tempo di David e Salomone; nella seconda edizione del 2002 invece relega David e Salomone nella preistoria d’Israele e in questa nuova edizione \n\ J. A. Soggin, “Storia d’Israele”, Paideia, Brescia, 1984: Nella prima edizione i capitoli su David e Salomone aprono la storia d’Israele (dopo le premesse e la metodologia al cap. 3, pag. 75- 145), nella seconda del 2002 Soggin fa iniziare la storia da “I due regni divisi” a pag. 249 e relega di David e Salomone nelle “Tradizioni sulla preistoria del popolo” cap. 7- 8 pagg. 188- 244.\ scrive: “È con la costituzione dello stato prima nazionale, e poi territoriale, che si porrebbe per la prima volta a Israele e Giuda, unificati nell’impero davidico e salomonico, il problema della propria identità nazionale, della propria distinzione dagli altri popoli della regione, del proprio diritto ad essere se stessi. Ma la problematica sul piano storico di questo impero si è fatta sempre più evidente in questi ultimi anni, sicché in questa edizione ho deciso di includere David e Saio- mone nella preistoria… L’impero di David e Salomone, infatti presenta più problemi di quanti ne potremo mai risolvere. Le fonti che riferiscono su di esso sono tutte di origine tarda e riflettono quindi problematiche di epoche posteriori di molti secoli, quando il popolo, ridotto ormai al solo Giuda, stava passando per esperienze spiacevoli. Allora le riflessioni, sul valore, le vittorie e le conquiste di David e sulla magnificenza di Salomone, sugli ampli confini e la natura imperiale dello stato potevano avere un valore consolatorio specialissimo… Dell’impero davidico e salomonico non troviamo traccia alcuna nei pochi testi orientali dell’epoca… È dunque da prendere seriamente in considerazione l’eventualità che si tratti di una costruzione posteriore, pseudostorica e quindi artificiosa, tendente a glorificare un passato mai esistito per compensare un presente scialbo e grigio. E quello che è stato sostenuto da vari autori, ma non costituisce quella novità che si potrebbe pensare…” (pag. 55-56) e qui il Soggin nomina diversi autori che erano su questa linea, tra cui l’italiano Garbini. \n\ G. Garbini, “Storia ed ideologia nell’Israele antico”, Paideia, Brescia, 2001\.
In un piccolo, ma prezioso libretto J. L. Ska, professore al Pontificio Istituto Biblico di Roma \”La parola di Dio nei racconti degli uomini”, Cittadella, Assisi, 2000\, già prima che uscisse il volume di Finkelstein-Silberman, anche se in maniera più sfumata, si esponeva sulla stessa linea. Scrive: “Oggi la figura di David è fortemente ridimensionata. Il regno di David e di Salomone non poteva avere la proporzioni di cui parla la Bibbia. Nessun documento contemporaneo lo menziona… Neanche l’archeologia ha potuto avvalorare l’immagine biblica del regno di David e di Salomone… Forse si è stabilito un piccolo regno nella regione centrale di Giuda che si è progressivamente consolidato… Questo regno davidico di dimensioni piuttosto modeste acquistò nella memoria collettiva d’Israele dimensioni favolose e quasi leggendarie solo dopo la caduta di Samaria nel 721 a.C… In quel momento, Gerusalemme prese la successione di Samaria e diventò la città più importante della regione. I re di Giuda che appartenevano alla casa di David, fecero del loro antenato il primo re di un grande regno, che corrispondeva forse più ai loro sogni che alla realtà storica… La storia di David e di Salomone è pertanto per molti versi un’opera di propaganda politica. Ciò non significa che non abbia alcun significato teologico e fondamento storico. Anche le opere di propaganda politica debbono tener conto dei fatti per essere credibili e accettabili. Devono pure ubbidire ai canoni del pensiero religioso del tempo… Per dare un solo esempio del modo con cui si è creato questo passato grandioso, basti leggere il ben noto racconto di 1 Samuele 17 e paragonarlo con 2 Samuele 21,19. In quest’ultimo testo la vittoria contro Golia è attribuita non a David, ma a un altro eroe, Elha- nan, figlio di Yair, di Betlemme. Il racconto abbastanza elaborato di Samuele 17 è opera tardiva che attribuisce la prodezza a David, anch’esso oriundo betlemmita” (pag. 90-92).
Mario Liverani, grande storico delle civiltà del Mcdio Oriente Antico \”Antico Oriente. Storia Società Economia”, Laterza, Bari 1988\, in un illuminate articolo pubblicato su Biblica 1999/4 (pag. 488- 505) dal titolo “Nuovi sviluppi nello studio della storia dell’Israele biblico” concludeva il suo intervento con questa domanda: Quando far cominciare la storia d’Israele? E rispondeva: “Il periodo dei Patriarchi è stato difeso come storico almeno sino al libro di Th. L.Thompson \n\ “The Historicity of the Patrialchal Narratives” Berlin 1974/ ormai non è più difeso da nessuno. Anche l’episodio dell’esodo è comunemente accettato come «fondante» ma storicamente inattendibile. La storicità del periodo dei Giudici, è ancora basilare nella ricostruzione del Noth M. \ ”Storia d’Israele”, Paideia, Brescia 1975. Cfr. Parte prima: “Israele come lega delle dodici tribù” pag. 71- 172 [La prima edizione tedesca è del 1950, su cui è fatta la traduzione italiana del 1966.] (con la sua anfizionia tribale), è ormai sostituita da una collocazione fuori del tempo («prima» della storia documentata) di leggende e tradizioni mitiche. Il dibattito si è ormai accentrato sulla storicità della monarchia unita (e non potrà scendere ulteriormente nel tempo, data la indubbia storicità della fase dei regni divisi)” (pag. 503).
Come conclusione riportiamo alcun i giudizi su Le tracce di Mosè. Il biblista e archeologo Jacques Briend fa una ampia recensione del libro dei nostri autori \n\ in “Cahiers Evangile” n.122 rubrica ”Bible et archeologie” (pag. 62- 65)\e pur condividendo fondamentalmente le posizioni di Finkelstein-Silberman per i periodi dei Patriarchi, di Giosuè-Giudici, è cauto per le il periodo della monarchia. Si esprime così: “Finkelstein ha una posizione molto personale su la datazione della ceramica del Ferro I e II, abbassa le date di certa ceramica di almeno un secolo, il che gli permette di attribuire al IX secolo quel che ordinariamente viene datato al X. A proposito bisogna sapere che gli archeologi nel loro insieme respingono la “cronologia bassa” proposta da Finkelstein sulla base della ceramica. Un confronto su questo punto tra archeologi c’è stato e ne è venuta una posizione collettiva che Le tracce di Mosé non prende in considerazione. La posizione di un solo archeologo non basta; per avere autorità dev’essere approvata da colleghi alla pari. Il che è saggezza” (pag. 65). Un altro biblista André Lemaire scrive un articolo dal titolo «Il secolo scomparso di Davide e Salomone» nella rivista II mondo della Bibbia e dice: “Questa nuova cronologia resta molto discussa, in particolare dagli scavatori di Ghezer (W. G. Dever) e di Hazor (A. Ben. Tor), dove provocherebbe una compressione difficilmente accettabile dei numerosi livelli del Ferro II (IX-VIII secolo a. C.). Dal solo punto di vista archeologico, il dibattito è lungi dall’esser concluso \n\ Nello stesso numeto della rivista citata, un archeologo israeliano, A. Mazar, a proposito degli scavi fatti a Tel Rehov, scrive:”Il tempo della monarchia unita deve dunque essere inglobato in questo orizzonte culturale. Diventa allora possibile attribuire all’epoca di Salomone la porta della città di Hazor, il palazzo di Mcghiddo, quella di Ghezer … “. Conclusione quindi opposta a quella di Finkelstein e-Siberman/. Rimarchiamo che questa “cronologia bassa” s’iscrive nel contesto di una interpretazione storica dei regni di David e Salomone che, pur accettandone l’esistenza, pensa che non si possa estrarre nulla di storico dai libri di Samuele e dei Re, poiché questi sarebbero stati redatti troppo tardi… Comunque questa teoria ha il merito di invitare ad una rinnovata lettura critica della storiografia salomonica distinguendo meglio i livelli antichi, dai livelli deuteronomisti o di epoca persiana, con la loro tendenza ad esagerare la potenza e la ricchezza di Salomone” (pag. 28-29).
E’ vero, il dibattito non è concluso sia tra archeologi sia tra biblisti. Il biblista D. Kinet ha pubblicato recentemente una storia di Israele \n\ D. KINET, Geshichte Israels, Die neue Echter Bibel Ergaenzungsband 2 zum AT, Echter Vrlag, Wwerzburg 2001/ e considera storici i racconti del regno di David e Salomone. Il recensore dell’opera, il biblista italiano B. G. Boschi, glielo rimprovera e scrive: “Il sorgere dei regni di Saul, David e Salomone è presentato all’interno del fenomeno dei piccoli reami di Siria-Palestina, delle fonti letterarie bibliche e, brevemente, delle scoperte archeologiche, ritenute peraltro insufficienti e scarse… I problemi sorgono sul piano critico, e francamente non comprendiamo se il Kinet li abbia voluti evitare o non li abbia presi in considerazione. Nel secondo caso, avremmo alcune osservazioni da avanzare. I problemi sollevati, per es. da Garbini \n\come già detto sopra/ oltre che da me sottoscritto, sul cosiddetto impero di David o Salomone meritano attenzione, anche perché l’archeologia ha finora impietosamente ridimensionato i dati da epopea della stessa Bibbia…” \n\ Cfr Rivista Biblica, 2001/1 \
Concludo citando un’altra recensione, quella del prof. J. L. Ska in Rassegna di Teologia \n\ 2003/1 pp. 133-139 /.
Dopo aver riassunto brevemente i passaggi del libro, il prof. Ska dice di condividere per lo più le posizioni dei due archeologi. Scrive: “Che cosa pensare di questo libro? Da una parte, la competenza degli autori come storici ed archeologi è assolutamente fuori discussione. Lo è anche la loro imparzialità, soprattutto perché entrambi sono Ebrei (Finkelstein insegna in Israele, a Tel Aviv). Si sa esattamente a quale scopo possa servire l’archeologia biblica in un certo mondo politico. Finkelstein si discosta dalle posizioni “ufficiali”, e questo depone a suo favore. Si potrà forse discutere qualche punto di dettaglio, le scoperte future obbligheranno magari a rivedere o a modificare qualche posizione, sarebbe opportuno smussare alcune formulazioni alquanto “spinte”; nell’insieme, però, la loro costruzione storica è valida, ben documentata e saldamente argomentata. Vi è un divario, ogni tanto importante, fra il “testo biblico” e quello che la storia e l’archeologia odierne riescono a dirci su “quello che è realmente accaduto”. Questo è ormai un dato di fatto e dopo la lettura di questo libro diventa sempre più difficile leggere l’Antico Testamento in modo “letterale” o “fondamentalista”. La Bibbia non ci offre un “filmato” del passato, e su questo punto non posso che condividere le conclusioni di quest’opera, soprattutto perché ho difeso la stessa tesi in un mio libretto intitolato <Ska> La parola di Dio nei racconti degli uomini (pag. 137).
Il prof Ska rimprovera, però, ai due autori di aver troppo insistito sulla finalità “politica” dei testi biblici sorti, secondo loro, al tempo di Giosia. La Bibbia non è sorta solo per propaganda politica, ma ha altre finalità: “lo scopo non era solo quello di giustificare la politica di un re, bensì di assicurare la sopravvivenza di un intero popolo, della sua “fede” e delle sue tradizioni religiose, giuridiche e culturali”. E ancora sottolinea Ska che i due autori con troppa sicurezza esaltano il regno di Giosia ed affermano che la storia d’Israele sia stata scritta dalla corrente deuteronomista nel VII secolo al tempo di questo re. Scrive: “le loro teorie letterarie sono alquanto “sommarie”… Gli specialisti odierni sono ancora più radicali perché pensano che la redazione finale risalga in gran parte all’epoca persiana. Questo vale certamente per il Pentateuco, ma anche per la cosiddetta “Storia Deuteronomistica” (Giosuè-2 Re) che, secondo gli specialisti, avrebbe conosciuto più di una redazione e sarebbe stata rielaborata durante e dopo l’esilio” (pag.138-139).
Possiamo quindi dire che la lettura del libro di Finkelstein-Silberman è salutare, aiuta a vedere nella storia biblica e nei profeti, che in essa hanno operato, non la cronistoria di eventi, ma la parola di Dio fatta storia di salvezza.
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MIOLA GABRIELE biblista fa recensione del libro
- L. SKA, La Strada e la Casa. Itinerari biblici (Collana Biblica 2), EDB, Bologna 2001 pp. 221.
IDEM., Abramo e i suoi ospiti. Il Patriarca e i credenti nel Dio unico (Collana Biblica 6), EDB, Bologna 2003, p.153.
Questi due volumi sono una raccolta di contributi ed articoli che il prof. Ska ha già pubblicato e che ora riunisce insieme per un più facile accesso a quanti vogliono usufruirne. Più che una recensione queste righe sono una presentazione dei due volumi seguendo i singoli articoli raccolti per darne le linee fondamentali.
Il primo volume raccoglie alcune conferenze tenute in diverse occasioni a Fermo, rivisitate dall’autore e pubblicate come articoli nella rivista Firmana. Quaderni di teologia e pastorale curata dall’Istituto Teologico Marchigiano e dall’Istituto Superiore di Scienze Religiose (ITM-ISSR), sede di Fermo, e poi raccolte in questo volume.
Il titolo si presta ad un bel gioco di interpretazione: la Strada della Parola che porta alla Casa del Padre, ma è anche la strada che dal Pontificio Istituto Biblico di Roma porta alla casa di ex-alunni ed amici a Fermo, che hanno accolto il professore amichevolmente nella loro casa dove hanno con gioia ascoltato “i percorsi biblici proposti” (Prefazione pag.7).
Gli undici titoli del libro offrono tematiche diverse tra loro, dovute alle diverse circostanze, nelle quali l’autore ha affrontato gli argomenti che gli erano stati richiesti, a volte come lectio per incontri di spiritualità, altre volte come prolusione all’anno accademico e come contributo biblico su una tematica affrontata in tornate di studio nell’ITM-ISSR.
Gli interventi di p. Ska si fanno seguire con gioia e interesse perché fanno trasparire una grande e profonda familiarità con la Parola da cui trae cose nuove e cose vecchie e con lo stesso interesse li si rileggono ora.
Il primo articolo è una meditazione sulla vocazione di Mosè. Dopo le prime battute il professore nota che tutto è partito dalla curiosità di Mosè che si domanda: “perché il roveto brucia senza consumarsi?” (Es 3,3) e rileva che, rispondendo alle domande più semplici, famosi pensatori hanno trovato risposte grandi e fa un cenno a filosofi come Platone e Aristotele, ma anche a Newton, a Heidegger e a personaggi come Margherita del Faust o Parsifal nella Ricerca del Graal e conclude con una nota di Guardini: “Vi sono due categorie di domande. Alla prima appartengono le domande a cui possiamo rispondere, alla seconda, le domande a cui non possiamo rispondere, ma con cui dobbiamo vivere. La domanda di Mosè e le domande dei grandi uomini sono di questo secondo tipo. A queste domande non riusciamo mai a dare una risposta definitiva, perché fanno parte della vita stessa, e impariamo a vivere quando impariamo a vivere con esse, anzi a vivere questa domanda che è la vita stessa” (pag. 13). A partire da questa domanda Mosè incontra il Dio vivente, colui che è, e che vede la miseria del suo popolo. Ora anche Mosè vede con occhio nuovo la stessa sofferenza, che già conosceva e da cui aveva tentato, senza esito, di sollevare il suo popolo. E solo ora, superate tutte le reticenze e difficoltà, compirà lo stesso disegno, ma come missione affidatagli dal Dio dei padri e da lui sostenuto, dal Dio che gli ha detto: Io sarò con te.
Il capitolo intitolato II passaggio del mar Rosso è un canto alla nuova creazione e alla libertà, una bella sintesi in chiave spirituale del volume dell’autore Le passage de la mer, la sua tesi di dottorato al PIB nel 1986. Nella relazione La vita come benedizione l’oratore vola alto e, dopo aver analizzato il contesto della benedizione biblica “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra” (Gen 1,28) e altri testi dell’AT, conclude: Questa “è la benedizione data al genere umano all’inizio della creazione e l’assicurazione che Dio è il Dio della vita. L’umanità viene chiamata a gestire il dono di Dio con cura e intelligenza nei momenti di prosperità e in quelli calamitosi. Non si tratta dunque di un ordine assoluto che valga per ogni tempo e ogni luogo, ma di una grazia impartita al genere umano che partecipa in questo modo al potere creatore di Dio” (pag. 54).
Nel 2000, l’anno del giubileo, tenne una bella lezione all’ITM dal titolo: Qualche osservazione sui fondamenti biblici del Giubileo. Dopo aver analizzato la situazione della società ebraica e la necessità di una legge come quella sull’anno sabbatico e visto il rapporto tra l’anno sabbatico e quello giubilare, concluso che la legge del giubileo non fu mai applicata e che fu creata forse per giustificare la riappropriazione delle terre per i ritornati dall’esilio di Babilonia, sottolineato che tali leggi non erano applicabili allora e non sono applicabili oggi nella nostra società, conclude ponendo molte domande a partire dai fondamenti biblici che sono alla base di tali leggi: la sovranità di Dio su tutti i membri del suo popolo e sulla terra promessa, il diritto alla terra e l’integrità della famiglia, il condono dei debiti e la liberazione degli schiavi: come tradurre concretamente per il mondo di oggi il diritto della terra e della natura a poter riposare e «ricrearsi»? Quali sono i debiti da condonare? Quali sono le terre da restituire? Gli schiavi da liberare? Le forme di schiavitù da abolire?
Illuminante è l’articolo: La legge in Israele. Nella prima parte il prof. Ska esamina i diversi codici delle culture del Vicino Oriente Antico e li confronta con quelli di Israele, nella seconda parte esamina le caratteristiche basilari del diritto veterotestamentario e sottolinea alcuni aspetti di solito trascurati: a) il luogo giuridico della legge: il deserto. Di fatto i diversi corpi legislativi di Israele si trovano nel Pentateuco ed è noto che il Pentateuco, la Torah come libro fondante di Israele, con il Deuteronomio termina nel deserto, alla soglie della terra promessa: ciò sta a significare che Israele per avere la sua identità non ha bisogno di un luogo, ma di osservare la legge che Dio gli ha dato dovunque si trovi; b) i cardini di un diritto nato nel «deserto». L’autore elenca: la responsabilità collettiva, il consenso; c) lo stile particolare della legislazione di Israele: discorso esortativo e non coercitivo, leggi con motivazioni, stile diretto. Bisogna leggere l’articolo per vederne la ricchezza e la novità.
Richiamo ancora un altro contributo: Mose – Giosuè – Gesù. Nonostante che ad una prima lettura dei vangeli appaia un rapporto diretto tra Mosè e Gesù e che negli studi di esegesi si ripeta che Gesù compie la figura di Mosè, l’autore mostra invece che Gesù è il compimento della figura di Giosuè e dopo un’approfondita disamina dei testi, conclude: “La lettura attenta dei passi del NT suggerisce che Gesù non è il «nuovo Mosè», ma piuttosto un «nuovo Giosuè» o il «vero Giosuè» annunziato da Mosè. Il vangelo potrebbe esser letto, quindi, come la diretta continuazione del Pentateuco. Gesù completa l’opera iniziata da Mosè, ma non la cancella. Gesù non sostituisce Mosè. Se lo sostituisse, non avremmo più bisogno dell’AT. Però ne abbiamo tuttora bisogno per una ragione semplice, fra tante altre: Mosè conduce il popolo dall’Egitto fino alle sponde del Giordano. Giosuè o Gesù fanno attraversare il Giordano ed entrare nella terra delle promesse” (pag.139).
Non è il caso di richiamare tutti i contribuiti, noto che il volume riporta un breve arti-colo: «Gli voglio fare un alleato, che sia suo omologo» (Gen 2,18). A proposito del termine ‘ ezer – aiuto. E la traduzione dal francese di una nota, molto tecnica, pubblicata dal professore su Biblica [65(1984) p. 233-238]. Gli studenti avevano avuto occasione di parlare con il professore su quel brano di Genesi e lui aveva rimandato a quel suo breve studio, che gli studenti hanno poi tradotto e pubblicato in Firmana.
Agli interventi, tenuti a Fermo, l’autore ha aggiunto nel volume l’articolo Gesù e la samaritana (Gv 4) pubblicato su Nouvelle Revue Théologique [118 (1996) p. 641-652] e tradotto per Firmana da A. Nepi e E. Sacchi. In questo lavoro Ska mette in luce alcuni rapporti tra il cap. 4 di Gv e l’AT: l’ora sesta inconsueta per andare ad attingere acqua al pozzo: la situazione matrimoniale della donna che incontra Gesù rapportata alla simbologia nuziale del profeta Osea, e soprattutto i diversi matrimoni combinati presso un pozzo, quello di Rebecca con il giovane Isacco (Gen. 24) preparato dal servo Eliezer a partire dall’incontro presso un pozzo, quello di Giacobbe e Rachele (Gen 29,1-14), e quello di Mosè e Zippora (Es 2,14-22). Fa vedere poi come questi riferimenti illuminino lo sviluppo del dialogo tra Gesù e la donna di Samaria e facciano meglio comprendere i salti di significato che caratterizzano il cap. 4 di Gv e nell’insieme tutto il racconto giovanneo. L’autore conclude: “Il nostro intento non era quello di sondare le profondità della teologia giovannea in questo passo, ma solamente mostrare che certe difficoltà del racconto possono essere facilmente risolte ricorrendo ad alcuni testi dell’AT, specialmente alle scene d’incontro presso il pozzo (Gen 24; 29,1-14; Es 2,14-22) e all’oracolo di Os 2,4-25. È possibile comprendere Gv 4 senza questi riferimenti. Ma il testo diventa più eloquente e suggestivo per chi sceglie di rileggere Gv 4 alla luce di queste pagine, che appartenevano sicuramente alla memoria collettiva, dei lettori del vangelo giovanneo”.
.-.-.-.-.-. Il secondo volume raccoglie articoli su la figura di Abramo pubblicati nel 2000-01 nella rivista “La Civiltà Cattolica” , ma rielaborati per la pubblicazione del libro. Il metodo, come nel primo volume, è quello narrativo, di presentare cioè la figura di Abramo: nello sviluppo del racconto biblico, nella tradizione ebraica, poi Abramo nel NT e il quarto Abramo nel Corano. Segue un epilogo che presenta la possibilità di un dialogo tra le tre religioni monoteiste a partire dalla figura comune di Abramo e un’appendice che analizza il racconto dell’accoglienza che Abramo fa ai tre ospiti presso la sua tenda alle querce di Mamre, capitolo che dà il titolo al libro: Abramo e i suoi ospiti.
Il primo capitolo porta il titolo: Abramo nella Genesi o l’eterna giovinezza del padre dei credenti. L’autore narra ed evidenzia i diversi apporti che hanno arricchito la figura del patriarca nel corso della storia e della formazione del testo biblico. Non fa disquisizioni sulle tradizioni bibliche e sul loro formarsi, ma appare evidente che l’autore dà per scontato che il lettore conosca che i racconti su Abramo hanno avuto la loro redazione definitiva solo nel postesilio, cioè dal VI al IV secolo. Sul filo conduttore del racconto biblico l’autore evidenzia alcune caratteristiche della figura di Abramo: l’inizio di un’avventura ad età avanzata (Abramo aveva 75 anni quando lasciò Carran per andare verso una terra ignota e lontana), una vita movimentata nel percorrere da straniero la terra di Canaan, il pericolo corso dalla moglie Sara in Egitto e in Canaan, la separazione dal nipote Lot e la liberazione del medesimo quando venne rapito, i rapporti con i pretenziosi potentati locali di Canaan, la proposta di Sara di avere un figlio dandogli la sua schiava Agar, la promessa di una discendenza più volte ripetuta la cui attuazione viene rimandata, la pretesa di Sarah che il marito cacci Agar quando è incinta e poi ancora l’allontani insieme col figlio Ismaele, la circoncisione per sé e i maschi della sua famiglia e infine la richiesta del sacrificio del figlio Isacco. In tutto questo Ska vede l’audacia di una prospettiva giovane della vita e il coraggio di sperare; vede una figura di Abramo che diventa modello per l’israelita del postesilio: ad esempio Abramo che allontana la straniera Agar come al tempo di Neemia-Esdra furono cacciate le donne straniere, Abramo che fedele applica la legge della circoncisione, ma ancora la figura del vecchio saggio e sapiente, modello di vita e di fede. Conclude l’articolo un parallelismo tra la figura di Ulisse e quella di Abramo. Somiglianze e più ancora dissimiglianza mostrano i valori diversi della cultura greca e di quella biblica.
Il secondo articolo è intitolato: Abramo nella tradizione ebraica o il modello dei credenti. Premesso che la figura di Abramo come capostipite di Israele diventa riferimento costante su cui modellare la vita, passa in rassegna la presentazione della figura di Abramo negli scritti della tradizione ebraica. Parte dal Siracide, che per gli Ebrei non è libro canonico, e segue poi gli scritti successivi: l’apocrifo della Genesi ritrovato a Qumran, il libro dei Giubilei, il Midrash Rabba cioè il grande commento al Pentateuco, la rilettura rabbinica di Abramo condensata nella Mishna e nel Talmud, che per Israele sono libri ufficiali e sacri, e in fine gli scrittori ebrei del periodo greco-romano: Giuseppe Flavio e Filone. Non è possibile qui seguire il percorso proposto da Ska per esaminare come ognuno di questi scritti ha riletto e riproposto la figura di Abramo. In genere si può dire che il personaggio Abramo rimane sempre centrale nella vita di Israele, lo si spoglia della problematicità tipica dell’Abramo biblico, si inseriscono notizie che mancano in Genesi, si rendono più logici alcuni passaggi della vita del patriarca, si giustifica la richiesta che Dio fa ad Abramo di sacrificare suo figlio, soprattutto si presenta Abramo come l’osservante perfetto della legge, che è la caratteristica dell’Israele del postesilio. L’autore passa con maestria attraverso tutti questi scritti e guida il lettore a vedere l’espandersi della figura di Abramo attraverso la storia e gli scritti di Israele. È una ricchezza che anche il cristiano deve conoscere.
-.-.-.-.-.-.-. Abramo nel Nuovo Testamento o il ritorno alle sorgenti è il titolo del terzo capitolo. Alcuni testi del NT, secondo l’autore, ricalcano la figura di Abramo della tradizione ebraica, quale modello osservante della legge. Su questa linea si trova il testo di Gc 2,21-23, che è un testo polemico verso la teologia paolina della giustificazione per la fede, mentre Gc esalta Abramo affermando: “Abramo, nostro padre, non fu forse giustificato per le opere, quando offrì Isacco, suo figlio, sull’altare?” (Gc 2,21); anche Eb 11,8-12.17-19 fa una lettura di Abramo come modello di obbedienza, perseveranza e di fiducia. Dice Ska che in questo passo si fa una lettura più etica che teologica della fede di Abramo. Nei sinottici si presenta Abramo come padre di tutti i credenti al di là di una appartenenza etnica. Certamente Abramo è il padre di Israele, ma non è sufficiente dinanzi a Dio una paternità carnale, c’è infatti una paternità spirituale secondo la fede di Abramo, che è superiore alla discendenza carnale. Ska mette in evidenza che questa paternità spirituale superiore ad ogni appartenenza carnale era già presente in brani del tritoisaia (63,7-19) ed in Ez 33. È quello che dirà il Battista in Mt 3,9 e Le 3,8 gridando che “Dio può far sorgere figli di Abramo anche da queste pietre” e lo stesso Gesù in Mt 8,10-11 dirà che molti “verranno dall’oriente e dall’occidente e siederanno a mensa con Abramo…nel regno dei cieli, mentre i figli del regno saranno cacciati fuori”. Per il vangelo di Gv l’autore, messa in evidenza la forte polemica tra giudei e cristiani negli anni 80-90 intorno alla persona di Gesù, chiaramente evidente nel quarto vangelo, sottolinea i brani dove si afferma la superiorità di Gesù sullo stesso Abramo quando la comunità giovannea mette in bocca a Gesù queste parole nei confronti del patriarca: “Abramo, vostro padre, esultò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e se ne rallegrò” (8,56) oppure: “Prima che Abramo fosse, io sono” (8,58). Commenta Ska: “L’affermazione della preesistenza si capisce meglio nel mondo antico in generale, e nel mondo biblico in particolare, dove l’anteriorità temporale significa superiorità nell’ordine dei valori. Se Gesù preesiste ad Abramo, e da tutta l’eternità, egli è dunque infinitamente superiore; allo stesso modo, non c’è paragone possibile tra l’appartenenza alla razza di Abramo e la fede in Gesù Cristo, soprattutto se si ammette che lo stesso Abramo ha atteso la venuta di Gesù (p 56). Ma è soprattutto S. Paolo che presenta Abramo come padre di tutti i credenti. L’apostolo fa perno sulla anteriorità della fede di Abramo, per la quale egli fu giustificato, prima che ricevesse la circoncisione e prima della legge di Mosè (Gen 15,6 e Gal 3,6; Rom 4,3.9s). Scrive Ska: “Abramo, secondo S. Paolo, possiede una duplice paternità: in primo luogo, per la fede è padre dei circoncisi (gli ebrei) e dei non circoncisi (tutti i popoli), poi secondo la carne è padre del popolo ebraico. Le due paternità, però, non si escludono. Ma la paternità secondo la fede precede la paternità secondo la carne, e la prima è, di conseguenza, più importante” come del resto S. Paolo afferma dicendo: “non c’è più giudeo né greco, non c’è più schiavo né libero, non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3,27-29).
-.-.-.-. Il quarto capitolo è dedicato alla figura di Abramo nell’Islam, attraverso le pagine del Corano. Premesso che per un musulmano il Corano è parola di Dio direttamente rivelata in lingua araba al profeta Maometto e che quindi solo il Corano ci può dire, in modo autentico e definitivo, chi è Abramo per un musulmano, l’autore dice di adottare il metodo tipico della storia delle religioni per fare un confronto tra la figura biblica di Abramo e quella del Corano. Ska fa una bella analisi del modo in cui la Bibbia presenta Ismaele e la madre Agar sottolineando che dal racconto biblico non traspaiono elementi di ostilità nei confronti di questi personaggi, anzi sprizza una certa simpatia verso di loro poiché mette in evidenza la premura con cui Dio stesso accompagna la vicenda di Agar e di suo figlio Ismaele, anche se il testo biblico deve affermare che il piano di Dio si realizza attraverso il figlio della promessa, il figlio avuto da Sara, Isacco. Il Corano non ha un insieme di capitoli unitari per presentare Abramo come invece la Bibbia, che dedica i capitoli 12-25 di Genesi alla storia di Abramo. Il Corano riprende diversi elementi biblici su Abramo, ma soprattutto dipende da tradizioni ebraiche tardive. La figura del patriarca si può solo ricostruire da elementi sparsi in ‘sure’ diverse. L’articolo raccoglie questi elementi: Abramo come padre del monoteismo islamico, egli è il vero prototipo della religione mussulmana, che è chiamata nel Corano la “religione di Abramo” (millat Ibrahim) il sacrificio del figlio Ismaele, che è presentato nel Corano in forma meno drammatica che nella Bibbia perché Ismaele viene avvertito prima della richiesta sacrificale e si sottomette ubbidiente, come era nella tradizione ebraica; la presenza di Abramo e di Ismaele alla Mecca dove per ordine di Dio costruiscono la Ka’aba per farne un luogo di pellegrinaggio. Il brano più lungo su Abramo nel Corano è quello che ricalca la visita dei messaggeri di Dio ospiti di Abramo (sura 11,69-82 parallelo a Gen 18-19). Ska ne fa un bel confronto mettendo in risalto come il racconto biblico sia più drammatico e quello coranico scarno, da cui traspare una presenza solenne e timorosa di Dio, che ha già prestabilito ogni evento, lontano da quel pathos che traspare nella Bibbia col dialogo tra Dio ed Abramo. In ultima analisi nel Corano Abramo è il primo hanif, cioè il primo convertito all’islam e prototipo di ogni vero muslim, cioè «sottomesso» al volere di Dio, al di sopra di ogni altra religione, al di sopra di ogni ebreo e cristiano, che si combattono tra loro. La sura terza così presenta Abramo: «O gente del libro (cioè ebrei e cristiani), perché litigate riguardo ad Abramo, quando la torah e il vangelo sono stati rivelati dopo di lui? … Non capite dunque?… Abramo non era né ebreo né cristiano, era un hanif completamente consacrato a Dio e non era idolatra» (3,65-67). Nel Corano il testamento di Abramo suona: «Abramo lasciò il testamento ai suoi figli, come Giacobbe: Figli miei, Dio ha scelto per voi la (vera) religione. Non morirete dunque che sottomessi (muslim)» (2,126).\n\ Nella traduzione di C. M. Guzzetti [Il Corano, LDC, Leumann 1989] il testo suona: “Figli miei, in verità, Dio ha scelto per voi la vera religione: non morite, quindi senza sottomettervi” ed è il v. 132 non 126./
L’ultimo contributo del volume porta questo titolo: A mo’ di epilogo. Il cammino dell’impossibile? Presentata la figura di Abramo nella Bibbia, nella tradizione ebraica, nei testi del NT e del Corano, l’autore si domanda: perché nelle singole tradizioni troviamo un quadro differente di Abramo? E soprattutto: è possibile oggi, a partire dal comune riferimento ad Abramo, un dialogo tra i credenti delle tre religioni monoteiste? Il professore premette una bella pagina su come accostarsi ad Abramo e alla Bibbia. L’Abramo biblico è un personaggio complesso, molto umano nel suo cammino, che sperimenta tormento e buio, ma anche pace e speranza e la Bibbia non si può assimilare ad una sfera i cui punti sono tutti uguali, ma ad una foresta in cui addentrarsi con timore e fiducia e viverne tutti gli aspetti; tenebra e sprazzi di sole, mormorio leggero e vento impetuoso, corse leggere e impeto belluino, canto soave e strida acute. Inoltrarsi nella foresta significa armarsi di fede e cercare costantemente chi ti può guidare. “Chi si inoltra nella foresta” scrive Ska “dopo aver sentito lo stesso richiamo di Abramo, non cercherà di tornare verso il limitare del bosco, dove ha lasciato cadere dalle sue spalle le proprie sicurezze troppo ingombranti. Il senso si nasconde sempre davanti e chi guarda indietro rischia di essere colpito di immobilismo come la moglie di Lot (Gen 19,26). Il Dio di Abramo, è un Dio che cammina davanti”. E allora chi può guidare i cercatori, che vivono nell’ambito delle tre religioni, che riconosco-no Abramo come padre? Ska attualizza il problema all’oggi e si domanda: “E ancora pensa-bile un dialogo dopo ITI settembre 2001 e con quello che accade quasi ogni giorno nel vicino oriente?”. L’autore paragona l’uomo delle tre religioni monoteiste a Dante che si ritrova “nel mezzo del cammin” della vita in “una selva oscura” dove ha smarrito la “retta via”. Dante trovò Virgilio, Ska invita i credenti a mettersi alla sequela di Abramo e ne dà questa motivazione: “Abramo è anteriore agli insegnamenti particolari di Mosè, di Gesù Cristo e di Maometto. E, se si può dire, più primordiale. E testimone di una religione allo stato nativo, di una religione in cui sono ancora uniti gli elementi che in seguito saranno distinti e accentuati dalle diverse tradizioni. Un dialogo tra ebrei, cristiani e musulmani è quindi favorito nel ripartire da Abramo, perché tutti lo rispettano come padre e come antenato”. Il biblista invita ebrei, cristiani e musulmani a farsi ospiti di Abramo alle querce di Mamre e instaurare un dialogo quasi «dimenticandosi» delle proprie specificità religiose e «farsi carico insieme delle sorti dell’umanità intera». Un dialogo, che prima di essere religioso, è culturale, di quella cultura dell’uomo di cui ognuna delle tre religioni è ricca e di cui Abramo è esemplare nella sua ricerca vitale, che libera l’animo umano dalla sua naturale tendenza a cercare la via della salvezza unicamente nel mondo conosciuto del proprio passato. Per questo possibile dialogo Ska si rifà al periodo della convivenza di tre gruppi: cristiani, arabi ed ebrei in Spagna dal sec. Vili fino a tutto il secolo XV e mette in luce come la cultura si sviluppò con gli apporti di musulmani quali Averroè ed Avicenna e di apporti di ebrei quali Ibn Ezra e Maimonide e la figura del cristiano di origine ebraica Fray Luis de Leon. Di ogni personaggio Ska tratteggia gli apporti, ma non tralascia di sottolineare lotte e persecuzioni che costellano questo lungo periodo, che tutto sommato può rappresentare un periodo di tolleranza e di accoglienza vicendevole; non dissimile è l’esperienza della Sicilia arabo-cristiana dal IX al XIII secolo. L’autore tira qualche conclusione: prima, che i conflitti il più delle volte sorgono a motivo delle lotte di potere, la religione da sola raramente è stata all’origine delle ostilità; seconda, che gli scambi e le influenze reciproche sono state veramente fecondi nella cultura, nelle lettere, nella filosofia, nell’architettura e nelle arti in genere. Oggi, partendo da una radice comune, che è il padre Abramo, senza la pretesa di ricalcare il passato anzi con la speranza di evitarne gli errori, è possibile scrivere altre pagine di storia insieme, cristiani, musulmani ed ebrei, all’insegna della tolleranza, del rispetto e della creatività nei diversi campi dell’attività umana.
Una breve appendice dal titolo: L’albero e la tenda. La funzione del quadro in Geni 18,1-15 conclude il volume. È il celebre brano di Abramo alla teofania di Marre, che ha dato il titolo al libro. Questa nota è ripresa da Biblica 68 (1987) 383-89 in cui Ska l’aveva pubblicata. E una lettura dell’incontro di Abramo con i suoi tre ospiti. L’autore prescinde dall’analisi delle possibili fonti che possono aver dato origine al racconto, segue invece il metodo del Reader Response Criticism, o come lo chiama U. Eco della cooperazione interpretativa: in esso il lettore è coinvolto e vede come i personaggi arrivano a scoprire ciò che lui sa fin dall’inizio perché l’autore del racconto l’ha già informato. Ska divide il racconto in due scene: la prima all’ombra della quercia o dell’albero e la seconda presso la tenda. Nella prima il protagonista è Abramo presso i suoi ospiti, nella seconda il protagonista è Jhwh il Signore, presso Sara che sta nella tenda e di cui svela i segreti pensieri di incredulità dinanzi al Signore che le annuncia la nascita del figlio. Il sorriso incredulo di Sara diventa il sorriso di gioia per la parola potente ed efficace di Dio. Questo tipo di lettura aiuta a entrare meglio nel quadro e nei personaggi del racconto facendone vedere la profonda compenetrazione e trasmette al lettore la fede e la gioia di chi l’ha scritto.
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Il biblista Gabriele MIOLA fa recensione del libro
- SACCHI, Gesù e la sua gente, Cinisello Balsamo, S. Paolo 2003, pag.262
Il titolo è significativo. Il libro vuol collocare Gesù “tra la sua gente”. Un tentativo fatto da molti: nei tempi passati in base ad una critica ideologica, in tempi recenti su una base documentaria alla scoperta di Gesù ebreo, della sua “giudaicità”. I grossi volumi di Meier (Un ebreo marginale vol. 1, a. 2001 p. 466; voi. II, 2002 p. 1338; vol. III, 2003 p. 723 Queriniana, Brescia ed è attesa la traduzione di un quarto volume!) e di Barbaglio (Gesù ebreo di Galilea. EDB 2002 p.671) sono per le scuole e gli studiosi. Questo volume di Sacchi è accessibile a tutti ed ha il pregio di congiungere insieme un’informazione scientificamente accurata e la testimonianza di un credente che si interroga sulla predicazione di Gesù nel contesto religioso, culturale e sociale del tempo.
Il prof. Sacchi è un profondo conoscitore del giudaismo, della letteratura apocrifa e intertestamentaria; ha pubblicato in italiano gli scritti apocrifi dalla UTET e dalla Paideia; ha fondato riviste di studi giudaici e pubblicato volumi di sintesi di grande utilità per chi vuol conoscere l’epoca di Gesù. Cito solo Storia del secondo tempio, presso la SEI.
In questo volume Sacchi ci offre un’ottima panoramica sulle correnti religiose del tempo e sul contenuto degli scritti dei diversi gruppi, che oggi conosciamo meglio sulla base dei reperti di Qumran. Mette in luce i punti d’accordo delle sette religiose e i punti di discordanza sia tra loro sia in riferimento ai vangeli: sul valore della legge, sulle prescrizioni che reggevano la condotta circa la concezione del puro e dell’impuro, sulle diverse figure messianiche, sulla concezione del ‘‘figlio dell’uomo”, sulla fede nella risurrezione ecc.
Vi si può leggere una presentazione più aggiornata del quadro sociale politico dal tempo dei Maccabei agli Asmonei, fino a quello della famiglia degli Erodi e del dominio di Roma in Palestina, cioè un quadro che va dal II sec. a. C. al I d, C.
Molto interessanti sono i capitoli due e tre su Giovanni Battista e il suo rapporto con Gesù: il nostro autore mette in evidenza la predicazione di Giovanni, la sua visione del peccato, le visioni religiose che il Battista poteva avere sul battesimo, sulla legge, sul puro e l’impuro. Giovanni evidentemente non sapeva chi era Gesù e l’autore discute l’idea che il Battista poteva avere circa le espressioni attribuitegli: “figlio dell’uomo” o ‘‘figlio di Dio” o la concezione sul Messia, secondo le idee del tempo.
Illuminanti sono i capitoli centrali (4-10) che entrano nella vita pubblica di Gesù e quindi nel cuore dei vangeli. I continui rapporti posti tra il testo evangelico e le concezioni religiose del tempo sono, a mio parere, molto significativi. Ne stralcio qualcuno. A proposito della guarigione del paralitico, portato davanti a Gesù da barellieri e calato da sopra la copertura della casa, dove Gesù si trovava (Mc 2, 1-12), Sacchi scrive: “Gesù usa l’espressione figlio dell’uomo in maniera piana… Non credo che la gente conoscesse la teologia del Libro delle Parabole, ma è certo che almeno questo sapeva, che “Figlio dell’uomo” voleva dire Giudice, il giudice supremo e che questo giudice esisteva realmente: in quanto giudice , poteva condannare e perdonare; forse più condannare che perdonare. Se la gente non fosse stata in grado di capire questo, Gesù avrebbe pronunciato parole senza senso per la gente… Il rapporto fra il Libro della Parabole e Gesù non va interpretato come indizio che Gesù conoscesse il Libro della Parabole, ma piuttosto nel senso che il Libro delle Parabole dimostra l’esistenza nell’immaginario ebraico di una figura celeste delle cui caratteristiche Gesù si appropria. Se poi tutti gli evangelisti usano l’espressione Figlio dell’Uomo senza spiegarla, vuol dire che il concetto di Figlio dell’Uomo era noto” (pag. 106- 108 passim). Interessante è l’analisi che l’autore fa del concetto di “regno di Dio” sulla base dei testi religiosi conosciuti allora: il libro dei Giubilei, i Testamenti dei Dodici Patriarchi, il Rotolo del Tempio e altro. e scrive: “Fra le attese possibili di Israele c’era anche la venuta stessa di Dio sulla terra. L’annuncio che il regno di Dio era vicino non doveva creare stupore più di tanto, perché poteva essere inteso come se Dio stesse per scendere sulla terra… Gesù annunciava un nuovo rapporto tra Dio e l’uomo. Questo nuovo rapporto con la divinità permette all’uomo di guardare il suo Dio con occhio diverso… Il bene resta bene e il male resta male, ma Dio guarderà il peccatore con occhi diversi da prima e il peccatore può continuare a cercare Dio” (pag. 114-119 passim).
Affrontando il tema delle beatitudini, Sacchi fa un breve confronto tra il testo di Mt e quello di Le e si chiede come mai Mc non riporti questa pagina chiamata la magna charta dell’etica cristiana e scrive: “È improbabile che Mc, che conosceva l’importanza di quel momento veramente storico che fu il discorso del monte, lo abbia tralasciato per solo amore di brevità. L’importanza del monte nell’inizio della predicazione di Gesù era nota anche a lui, se presentò sul monte Gesù che sceglie i dodici apostoli (Mc 3,13s) … per Marco i contenuti di quel discorso dovevano emergere dalla storia stessa di ciò che Gesù fece e insegnò via via, prendendo così una pienezza di senso che nel discorso del monte non hanno. Il discorso del monte fu tenuto veramente da Gesù – anche se è incerto quanto materiale risalga a questo discorso – e rappresenta un primo lancio del suo progetto sull’uomo “ (pag. 154). E dopo aver sottolineato dei rapporti tra l’insegnamento di Gesù e l’etica dei maestri del tempo, scrive: “Se si legge uno qualsiasi dei sinottici, ci si accorge che l’insegnamento di Gesù è l’insegnamento di un maestro di Israele, che ha fatto tesoro della morale di molti scritti precedenti e l’ha portata alle conseguenze estreme, creando un sistema unitario, che viene esplicitato nell’episodio di colui che interroga Gesù su qua-le sia il comandamento più grande (Mc 12,28-30 e paralleli). Marco che ha tralasciato il discorso del Monte, condensa in questo episodio il succo dell’insegnamento di Gesù” (pag. 165).
Nei capp. 8-10 Sacchi presenta la prospettiva che Gesù poteva avere della sua missione e quindi anche di una eventuale condanna da parte dell’autorità di Gerusalemme. Per l’autore gli annunci del rifiuto che avrebbe incontrato, della sofferenza e della morte, che Gesù comincia a dare dopo la confessione di Pietro a Cesarea di Filippo: “Tu sei il Cristo” (Mc 8,27-33 e paralleli), rispecchiano la reale volontà di Gesù di correggere la visione messianica che avevano Pietro e gli altri apostoli e di prepararli allo scandalo della eventuale fine. L’autore mette ben in evidenza che Gesù, oltre la vicenda e la morte di Giovanni Battista e oltre le prospettive che emergevano dai testi sul “servo” nel Deuteroisaia, ha dinanzi concezioni correnti circa il problema del peccato e la necessità del riscatto espresse da opere come il Testamento di Levi e i Salmi di Salomone. Sacchi, per far capire gli annunci della passione e della morte, sottolinea un aspetto spesso trascurato nella presentazione della figura di Gesù: quello della fede-emunah. Emunah significa “fede-fiducia-fedeltà”: emunah significa “fede-fiducia” dell’uomo verso Dio, ma significa “fedeltà” di Dio verso l’uomo e il suo patto con Israele. Gesù chiede sempre fede-emunah a quanti si accostano a lui e chiedono il suo intervento, ma Gesù può aver fede in Dio? I teologi ne discutono (cfr. fra l’altro un recente articolo di G. Canobbio La fede di Gesù in RdCI 2002/4), Sacchi mette in evidenza che Gesù nell’annunciare la passione e la-morte, esprime anche la certezza della emunah di Dio verso il giusto e quindi può annunziare la vita piena, la sua risurrezione.
Molto significative sono le pagine dedicate all’ultima cena di Gesù (cap. 11), all’analisi delle parole circa il pane e il vino come suprema “interpretazione della sua missione” e circa il patto scrive: “il Patto di Gesù si distingue dalla serie dei patti che l’hanno preceduto per un motivo fondamentale: non ha clausole. Non c’è alcun «se farete» che lo condizioni. In questo senso non è più un Patto, ma una dichiarazione di alleanza in nome di Dio…” (pag. 234). E’ nota la difficoltà di comporre le differenze tra sinottici e Giovanni circa il giorno di Pasqua: per i sinottici Gesù celebra la cena pasquale (quindi pasqua cade giovedì-venerdì), per Giovanni Gesù muore alla vigilia della pasqua (questa cade perciò il venerdì-sabato e la cena di cui parla Giovanni non è una cena pasquale). Sacchi risolve la questione ricorrendo alla testimonianza dei due calendari adottati in Palestina e nel tempio di Gerusalemme e conclude che Gesù “deve aver celebrato la sua Pasqua la sera del martedì della stessa settimana in cui a Gerusalemme si celebrava la Pasqua di sabato. La celebrò, pertanto, tre giorni prima di quella che si celebrava a Gerusalemme” (pag.228). Concludo con una frase del prof. Franco Ardusso nella Presentazione del libro: questo libro di Sacchi “è del tutto godibile per chiarezza espositiva e per immediatezza di linguaggio, che tradiscono una lunga e felice prassi di docenza nelle scuole superiori dapprima, in università in seguito”.