NEPI ANTONIO ALUNNO POI DOCENTE AL LICEO CLASSICO PAOLO VI A FERMO ricordi

VITAI LAMPADA TRADUNT . . .

Vi sono ricordi che si rammentano soltanto, mentre altri, invece, appartengono allo scrigno geloso dell’anima. “Ricordare è la poetica del cuore”, scriveva E. Jabés. E mi ritrovo, forse impertinentemente, a ricordare il “Paolo VI” come alunno e docente.

Come alunno, restano indelebili i cinque anni canonici, dal 1974 al 1979. La mia classe, il V Ginnasio, fu inconscia testimone del “trapasso degli eoni”. Nel 1975, infatti, si consumò la metamorfosi del liceo Classico, esclusivamente riservato ai seminaristi, in un liceo aperto anche a studenti esterni, ragazzi e ragazze. Niente di kafkiano, alla Gregorio Samsa, per intenderci, ma qualcosa che avvenne con levità e naturalezza Vitai lampada tradidimus : ci ritrovammo ad essere l’anello di continuità tra passato e presente. Fu una svolta decisiva, che lasciò inorriditi non pochi vati ecclesiastici. Ma quella che allora parve ai più come una disperata operazione dettata dà un mero o calcolato istinto di sopravvivenza, nel tempo si è rivelata una coraggiosa apertura, una linfa culturale ed una fucina spirituale ed umana, preziose non solo per il Seminario, ma per la stessa diocesi. “Tutto questo grazie all’intuizione profetica di Mons. Bellucci, arcivescovo di Fermo, grazie al solerte e nascosto lavoro di Don Giorgio Cupidio che, come preside solitario, poi come segretario, ha garantito in tutti questi anni l’esistenza della scuola, nonché grazie all’energia di alcuni professori, in particolare delle giovani professoresse del movimento di Comunione e Liberazione.

“Forsan et haec  meminisse iuvabit”, direbbe Virgilio, imitator d’Omero. Questo ci tutela dal rischio di svendere tesori del nostro patrimonio culturale diocesano, in nome di una miope ragion di Stato economica, che non sempre sa aspettare il lento maturare delle cose, e spesso confonde l’economia della salvezza con la salvezza dell’economia.

In questa attuale temperie che esalta lo spiritualismo da stadio, ringrazio il “Paolo VI “per avermi insegnato la spiritualità dello studio. Come uomo e come prete, apprezzo il fatto di aver frequentato questa scuola cattolica, non clericale. Lo stile di vita e le modalità educative del nostro liceo erano già allora realizzati in termini partecipativi e condividendi: il valore “persona” era posto alla base dei percorsi culturali che, pur rispettando i programmi ministeriali, garantivano una personalizzazione propositiva, e quindi l’opportunità di assimilare schemi mentali, strutture cognitive aperte, dinamiche, flessibili, il senso di appartenenza al “Paolo VI” non ci chiudeva in una torre d’avorio, o in una serra ovattata, dove i rumori del “mondo” arrivavano filtrati, smorzati o ideologicamente neutralizzati. Non posso dimenticale quegli anni, duri ed intensi, di forti lotte politiche, insanguinati da stragi ed attentati, anni peraltro di urgenti istanze di riforma sociale e scolastica. Avevamo però professori che tra le pagine di Tacito e di Hegel, tra quelle sull’acido desossiribonucleico e sulla teoria, dell’entropia, sapevano farci riflettere sulla realtà, sulla responsabilità di saper leggere criticamente la storia, gli eventi del passato e del presente. Gente che non aveva bisogno di urlare ed inculcare forsennatamente la propria fede ed esperienza cristiana, ma sapeva trasfonderla pacatamente dietro un aoristo o una poesia di Leopardi. Spesso i testi diventavano folgoranti pretesti, mai comunque distorti ideologicamente. Resta ancora indelebile, ad esempio, quella settimana di dibattiti a proposito della morte di Moro, che ci vide tutti infervorati, dai ginnasiali a quelli dell’ultimo anno, a discutere con inusitata passione politica. Erano anche gli ultimi anni del pontificato di Paolo VI, costellati di momenti critici, ma anche di nuove proposte e modelli teologici per la vita ecclesiale. Tutto questo non ci coglieva impreparati, perché grazie al prezioso contributo dell’adiacente Istituto Teologico Marchigiano di Fermo, con cui condividevamo professori del calibro di Mons. Miola, Mons. De Angelis e Mons. Fagiani – allora non erano monsignori …..- Eravamo al corrente delle problematiche nel vivo delle discussioni più scottanti. La presenza concreta di coetanei e di coetanee, non sempre dichiaratamente cattolici, era una feconda occasione di dialogo, di riflessione critica, di interrogativi stimolanti, senza paure di depauperamento di compromissioni ed arroccamenti.

“Ruit hora”.    Rivisito con piacere e gratitudine quei cinque anni fondamentali e riattingo volti, momenti ed emozioni. Sono stati non solo cronologicamente rilevanti, ma anche “Kairoi” capaci di inscriversi ed incidere nel mio percorso di vita. Cinque anni dopo il liceo, sui banchi del Pontificio Istituto Biblico, mi sarebbero ritornati preziosi il rigore grammaticale e felino di don Giorgio Cupidio e la filologia condita di sapida ironia di Mons. Ippolito Crivellucci, miei insegnanti di greco e latino. Altrettanto preziose sarebbero state la sensibilità linguistica e narratologica di don Germano Liberati, mio insegnante di italiano, e l’esprit de finesse di don Armando Monaldi, mio folle e geniale insegnante di francese. Un grazie particolare, che non è solo mio, ma di tutta la classe, va a don Giulio Camilloni, insegnante di storia, allora con look gramsciano, che con talento e passione ha saputo guidarci oltre il manuale scolastico e ad allargare lo sguardo e il respiro; a don Alberto Cintio, insegnante di chimica e geografia, sin da allora vivace rockclimber che non amava il rock, nonché costruttore di meridiane; al compianto Piergiorgio Stortini, primo insegnante di matematica e a Valter Stortini suo successore; un altro grazie, non meno sentito va a Ivana Rapati e Lina Bertoni, insegnanti di italiano in ginnasio, e a Rosa Maria Andruccioli, insegnante di francese e Clelia Casadei, insegnante di fisica e matematica queste donne, con la loro dedizione e sensibilità squisitamente femminile, hanno infranto l’egemonia “maschile” che aveva contrassegnato il timbro educativo fino ad allora in voga. Unico afflato del genio femminile, in una classe, come la nostra, priva sino alla fine, di pulzelle, eunuchi e cicisbei. Merito loro, merito di chi le ha volute.

A che gridare, come nel film L’attimo fuggente, “mio capitano, o mio capitano?” La risposta o le risposte, restano doverosamente gelate nel cuore, decantate – nel duplice senso del termine – e maturate dalla vita di poi. Io conosco la mia.

Un ricordo particolare va a tutti i miei compagni. Oggi, a vent’anni di distanza, potremmo sinceramente cantare, come facevamo ieri su quel pianoforte stonato nell’aula in fondo al corridoio “compagni di scuola, ma non compagni di niente….”. Siamo rimasti uniti, forti di quella complicità, di quella goliardia ma soprattutto di quell’amicizia che il tempo non ha oltraggiato, ma consolidato. – Posso fieramente ricordare che, più o meno proclivi ad uno studio matto e disperatissimo, ognuno di loro si è fatto strada, nel mondo accademico ed imprenditoriale: nessuno di noi, purtroppo, ha fatto felice il vecchio Ippolito, che, in novissimis diebus, tra Artemisia ed Atena Glaukopis, agognava, fumando, una specializzazione futura come veterinario di un suo ex-alunno; qualcuno, invece, ha tradito la “poetica del punto dilatato” vagheggiata da Germano “occhi di bragia”, approdando ad altri eretici esiti pittorici. Resta insoluto, a distanza d’anni, un enigma intrigante, vale a dire chi preferisse (beninteso a livello letterario) il bardo di Montegiorgio: Fiammetta o Beatrice?

Dieci anni dopo, sono ritornato al “Paolo VI” come prete ed insegnante di religione al ginnasio. Ho ritrovato poche cose cambiate: immutata, era restata l’atmosfera di collaborazione tra alunni ed insegnanti, tra docenti e docenti. Si è trattato di un solo anno, non meno intenso, di cui serbo un vivido ed affettuoso ricordo. A don Giorgio, che mi rammentava il logion evangelico di Mt 10,8 “gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”, dispiacque la mia “dipartita”. Dispiacque sinceramente anche a me.

Antonio Nepi                  Alunno dall’anno scol. 1974/75 al 1978/79

<digitazione Vesprini Albino>

 

Vtor d’Omero. Questo ci tutela dal rischio di svendere tesori del nostro patrimonio culturale diocesano, in nome di una miope ragion di Stato economica, che non sempre sa aspettare il lento maturare delle cose, e spesso confonde l’economia della salvezza con la salvezza dell’economia.

In questa attuale temperie che esalta lo spiritualismo da stadio, ringrazio il “Paolo VI “per avermi insegnato la spiritualità dello studio. Come uomo e come prete, apprezzo il fatto di aver frequentato questa scuola cattolica, non clericale. Lo stile di vita e le modalità educative del nostro liceo erano già allora realizzati in termini partecipativi e condividendi: il valore “persona” era posto alla base dei percorsi culturali che, pur rispettando i programmi ministeriali, garantivano una personalizzazione propositiva, e quindi l’opportunità di assimilare schemi mentali, strutture cognitive aperte, dinamiche, flessibili, il senso di appartenenza al “Paolo VI” non ci chiudeva in una torre d’avorio, o in una serra ovattata, dove i rumori del “mondo” arrivavano filtrati, smorzati o ideologicamente neutralizzati. Non posso dimenticale quegli anni, duri ed intensi, di forti lotte politiche, insanguinati da stragi ed attentati, anni peraltro di urgenti istanze di riforma sociale e scolastica. Avevamo però professori che tra le pagine di Tacito e di Hegel, tra quelle sull’acido desossiribonucleico e sulla teoria, dell’entropia, sapevano farci riflettere sulla realtà, sulla responsabilità di saper leggere criticamente la storia, gli eventi del passato e del presente. Gente che non aveva bisogno di urlare ed inculcare forsennatamente la propria fede ed esperienza cristiana, ma sapeva trasfonderla pacatamente dietro un aoristo o una poesia di Leopardi. Spesso i testi diventavano folgoranti pretesti, mai comunque distorti ideologicamente. Resta ancora indelebile, ad esempio, quella settimana di dibattiti a proposito della morte di Moro, che ci vide tutti infervorati, dai ginnasiali a quelli dell’ultimo anno, a discutere con inusitata passione politica. Erano anche gli ultimi anni del pontificato di Paolo VI, costellati di momenti critici, ma anche di nuove proposte e modelli teologici per la vita ecclesiale. Tutto questo non ci coglieva impreparati, perché grazie al prezioso contributo dell’adiacente Istituto Teologico Marchigiano di Fermo, con cui condividevamo professori del calibro di Mons. Miola, Mons. De Angelis e Mons. Fagiani – allora non erano monsignori …..- Eravamo al corrente delle problematiche nel vivo delle discussioni più scottanti. La presenza concreta di coetanei e di coetanee, non sempre dichiaratamente cattolici, era una feconda occasione di dialogo, di riflessione critica, di interrogativi stimolanti, senza paure di depauperamento di compromissioni ed arroccamenti.

“Ruit hora”.    Rivisito con piacere e gratitudine quei cinque anni fondamentali e riattingo volti, momenti ed emozioni. Sono stati non solo cronologicamente rilevanti, ma anche “Kairoi” capaci di inscriversi ed incidere nel mio percorso di vita. Cinque anni dopo il liceo, sui banchi del Pontificio Istituto Biblico, mi sarebbero ritornati preziosi il rigore grammaticale e felino di don Giorgio Cupidio e la filologia condita di sapida ironia di Mons. Ippolito Crivellucci, miei insegnanti di greco e latino. Altrettanto preziose sarebbero state la sensibilità linguistica e narratologica di don Germano Liberati, mio insegnante di italiano, e l’esprit de finesse di don Armando Monaldi, mio folle e geniale insegnante di francese. Un grazie particolare, che non è solo mio, ma di tutta la classe, va a don Giulio Camilloni, insegnante di storia, allora con look gramsciano, che con talento e passione ha saputo guidarci oltre il manuale scolastico e ad allargare lo sguardo e il respiro; a don Alberto Cintio, insegnante di chimica e geografia, sin da allora vivace rockclimber che non amava il rock, nonché costruttore di meridiane; al compianto Piergiorgio Stortini, primo insegnante di matematica e a Valter Stortini suo successore; un altro grazie, non meno sentito va a Ivana Rapati e Lina Bertoni, insegnanti di italiano in ginnasio, e a Rosa Maria Andruccioli, insegnante di francese e Clelia Casadei, insegnante di fisica e matematica queste donne, con la loro dedizione e sensibilità squisitamente femminile, hanno infranto l’egemonia “maschile” che aveva contrassegnato il timbro educativo fino ad allora in voga. Unico afflato del genio femminile, in una classe, come la nostra, priva sino alla fine, di pulzelle, eunuchi e cicisbei. Merito loro, merito di chi le ha volute.

A che gridare, come nel film L’attimo fuggente, “mio capitano, o mio capitano?” La risposta o le risposte, restano doverosamente gelate nel cuore, decantate – nel duplice senso del termine – e maturate dalla vita di poi. Io conosco la mia.

Un ricordo particolare va a tutti i miei compagni. Oggi, a vent’anni di distanza, potremmo sinceramente cantare, come facevamo ieri su quel pianoforte stonato nell’aula in fondo al corridoio “compagni di scuola, ma non compagni di niente….”. Siamo rimasti uniti, forti di quella complicità, di quella goliardia ma soprattutto di quell’amicizia che il tempo non ha oltraggiato, ma consolidato. – Posso fieramente ricordare che, più o meno proclivi ad uno studio matto e disperatissimo, ognuno di loro si è fatto strada, nel mondo accademico ed imprenditoriale: nessuno di noi, purtroppo, ha fatto felice il vecchio Ippolito, che, in novissimis diebus, tra Artemisia ed Atena Glaukopis, agognava, fumando, una specializzazione futura come veterinario di un suo ex-alunno; qualcuno, invece, ha tradito la “poetica del punto dilatato” vagheggiata da Germano “occhi di bragia”, approdando ad altri eretici esiti pittorici. Resta insoluto, a distanza d’anni, un enigma intrigante, vale a dire chi preferisse (beninteso a livello letterario) il bardo di Montegiorgio: Fiammetta o Beatrice?

Dieci anni dopo, sono ritornato al “Paolo VI” come prete ed insegnante di religione al ginnasio. Ho ritrovato poche cose cambiate: immutata, era restata l’atmosfera di collaborazione tra alunni ed insegnanti, tra docenti e docenti. Si è trattato di un solo anno, non meno intenso, di cui serbo un vivido ed affettuoso ricordo. A don Giorgio, che mi rammentava il logion evangelico di Mt 10,8 “gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”, dispiacque la mia “dipartita”. Dispiacque sinceramente anche a me.

Antonio Nepi                  Alunno dall’anno scol. 1974/75 al 1978/79

<in seguito docente>

 

VITAI LAMPADA TRADUNT . . .

Vi sono ricordi che si rammentano soltanto, mentre altri, invece, appartengono allo scrigno geloso dell’anima. “Ricordare è la poetica del cuore”, scriveva E. Jabés. E mi ritrovo, forse impertinentemente, a ricordare il “Paolo VI” come alunno e docente.

Come alunno, restano indelebili i cinque anni canonici, dal 1974 al 1979. La mia classe, il V Ginnasio, fu inconscia testimone del “trapasso degli eoni”. Nel 1975, infatti, si consumò la metamorfosi del liceo Classico, esclusivamente riservato ai seminaristi, in un liceo aperto anche a studenti esterni, ragazzi e ragazze. Niente di kafkiano, alla Gregorio Samsa, per intenderci, ma qualcosa che avvenne con levità e naturalezza Vitai lampada tradidimus : ci ritrovammo ad essere l’anello di continuità tra passato e presente. Fu una svolta decisiva, che lasciò inorriditi non pochi vati ecclesiastici. Ma quella che allora parve ai più come una disperata operazione dettata dà un mero o calcolato istinto di sopravvivenza, nel tempo si è rivelata una coraggiosa apertura, una linfa culturale ed una fucina spirituale ed umana, preziose non solo per il Seminario, ma per la stessa diocesi. “Tutto questo grazie all’intuizione profetica di Mons. Bellucci, arcivescovo di Fermo, grazie al solerte e nascosto lavoro di Don Giorgio Cupidio che, come preside solitario, poi come segretario, ha garantito in tutti questi anni l’esistenza della scuola, nonché grazie all’energia di alcuni professori, in particolare delle giovani professoresse del movimento di Comunione e Liberazione.

“Forsan et haec  meminisse iuvabit”, direbbe Virgilio, imitator d’Omero. Questo ci tutela dal rischio di svendere tesori del nostro patrimonio culturale diocesano, in nome di una miope ragion di Stato economica, che non sempre sa aspettare il lento maturare delle cose, e spesso confonde l’economia della salvezza con la salvezza dell’economia.

In questa attuale temperie che esalta lo spiritualismo da stadio, ringrazio il “Paolo VI “per avermi insegnato la spiritualità dello studio. Come uomo e come prete, apprezzo il fatto di aver frequentato questa scuola cattolica, non clericale. Lo stile di vita e le modalità educative del nostro liceo erano già allora realizzati in termini partecipativi e condividendi: il valore “persona” era posto alla base dei percorsi culturali che, pur rispettando i programmi ministeriali, garantivano una personalizzazione propositiva, e quindi l’opportunità di assimilare schemi mentali, strutture cognitive aperte, dinamiche, flessibili, il senso di appartenenza al “Paolo VI” non ci chiudeva in una torre d’avorio, o in una serra ovattata, dove i rumori del “mondo” arrivavano filtrati, smorzati o ideologicamente neutralizzati. Non posso dimenticale quegli anni, duri ed intensi, di forti lotte politiche, insanguinati da stragi ed attentati, anni peraltro di urgenti istanze di riforma sociale e scolastica. Avevamo però professori che tra le pagine di Tacito e di Hegel, tra quelle sull’acido desossiribonucleico e sulla teoria, dell’entropia, sapevano farci riflettere sulla realtà, sulla responsabilità di saper leggere criticamente la storia, gli eventi del passato e del presente. Gente che non aveva bisogno di urlare ed inculcare forsennatamente la propria fede ed esperienza cristiana, ma sapeva trasfonderla pacatamente dietro un aoristo o una poesia di Leopardi. Spesso i testi diventavano folgoranti pretesti, mai comunque distorti ideologicamente. Resta ancora indelebile, ad esempio, quella settimana di dibattiti a proposito della morte di Moro, che ci vide tutti infervorati, dai ginnasiali a quelli dell’ultimo anno, a discutere con inusitata passione politica. Erano anche gli ultimi anni del pontificato di Paolo VI, costellati di momenti critici, ma anche di nuove proposte e modelli teologici per la vita ecclesiale. Tutto questo non ci coglieva impreparati, perché grazie al prezioso contributo dell’adiacente Istituto Teologico Marchigiano di Fermo, con cui condividevamo professori del calibro di Mons. Miola, Mons. De Angelis e Mons. Fagiani – allora non erano monsignori …..- Eravamo al corrente delle problematiche nel vivo delle discussioni più scottanti. La presenza concreta di coetanei e di coetanee, non sempre dichiaratamente cattolici, era una feconda occasione di dialogo, di riflessione critica, di interrogativi stimolanti, senza paure di depauperamento di compromissioni ed arroccamenti.

“Ruit hora”.    Rivisito con piacere e gratitudine quei cinque anni fondamentali e riattingo volti, momenti ed emozioni. Sono stati non solo cronologicamente rilevanti, ma anche “Kairoi” capaci di inscriversi ed incidere nel mio percorso di vita. Cinque anni dopo il liceo, sui banchi del Pontificio Istituto Biblico, mi sarebbero ritornati preziosi il rigore grammaticale e felino di don Giorgio Cupidio e la filologia condita di sapida ironia di Mons. Ippolito Crivellucci, miei insegnanti di greco e latino. Altrettanto preziose sarebbero state la sensibilità linguistica e narratologica di don Germano Liberati, mio insegnante di italiano, e l’esprit de finesse di don Armando Monaldi, mio folle e geniale insegnante di francese. Un grazie particolare, che non è solo mio, ma di tutta la classe, va a don Giulio Camilloni, insegnante di storia, allora con look gramsciano, che con talento e passione ha saputo guidarci oltre il manuale scolastico e ad allargare lo sguardo e il respiro; a don Alberto Cintio, insegnante di chimica e geografia, sin da allora vivace rockclimber che non amava il rock, nonché costruttore di meridiane; al compianto Piergiorgio Stortini, primo insegnante di matematica e a Valter Stortini suo successore; un altro grazie, non meno sentito va a Ivana Rapati e Lina Bertoni, insegnanti di italiano in ginnasio, e a Rosa Maria Andruccioli, insegnante di francese e Clelia Casadei, insegnante di fisica e matematica queste donne, con la loro dedizione e sensibilità squisitamente femminile, hanno infranto l’egemonia “maschile” che aveva contrassegnato il timbro educativo fino ad allora in voga. Unico afflato del genio femminile, in una classe, come la nostra, priva sino alla fine, di pulzelle, eunuchi e cicisbei. Merito loro, merito di chi le ha volute.

A che gridare, come nel film L’attimo fuggente, “mio capitano, o mio capitano?” La risposta o le risposte, restano doverosamente gelate nel cuore, decantate – nel duplice senso del termine – e maturate dalla vita di poi. Io conosco la mia.

Un ricordo particolare va a tutti i miei compagni. Oggi, a vent’anni di distanza, potremmo sinceramente cantare, come facevamo ieri su quel pianoforte stonato nell’aula in fondo al corridoio “compagni di scuola, ma non compagni di niente….”. Siamo rimasti uniti, forti di quella complicità, di quella goliardia ma soprattutto di quell’amicizia che il tempo non ha oltraggiato, ma consolidato. – Posso fieramente ricordare che, più o meno proclivi ad uno studio matto e disperatissimo, ognuno di loro si è fatto strada, nel mondo accademico ed imprenditoriale: nessuno di noi, purtroppo, ha fatto felice il vecchio Ippolito, che, in novissimis diebus, tra Artemisia ed Atena Glaukopis, agognava, fumando, una specializzazione futura come veterinario di un suo ex-alunno; qualcuno, invece, ha tradito la “poetica del punto dilatato” vagheggiata da Germano “occhi di bragia”, approdando ad altri eretici esiti pittorici. Resta insoluto, a distanza d’anni, un enigma intrigante, vale a dire chi preferisse (beninteso a livello letterario) il bardo di Montegiorgio: Fiammetta o Beatrice?

Dieci anni dopo, sono ritornato al “Paolo VI” come prete ed insegnante di religione al ginnasio. Ho ritrovato poche cose cambiate: immutata, era restata l’atmosfera di collaborazione tra alunni ed insegnanti, tra docenti e docenti. Si è trattato di un solo anno, non meno intenso, di cui serbo un vivido ed affettuoso ricordo. A don Giorgio, che mi rammentava il logion evangelico di Mt 10,8 “gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”, dispiacque la mia “dipartita”. Dispiacque sinceramente anche a me.

Antonio Nepi                  Alunno dall’anno scol. 1974/75 al 1978/79

<in seguito docente>

 

VITAI LAMPADA TRADUNT . . .

Vi sono ricordi che si rammentano soltanto, mentre altri, invece, appartengono allo scrigno geloso dell’anima. “Ricordare è la poetica del cuore”, scriveva E. Jabés. E mi ritrovo, forse impertinentemente, a ricordare il “Paolo VI” come alunno e docente.

Come alunno, restano indelebili i cinque anni canonici, dal 1974 al 1979. La mia classe, il V Ginnasio, fu inconscia testimone del “trapasso degli eoni”. Nel 1975, infatti, si consumò la metamorfosi del liceo Classico, esclusivamente riservato ai seminaristi, in un liceo aperto anche a studenti esterni, ragazzi e ragazze. Niente di kafkiano, alla Gregorio Samsa, per intenderci, ma qualcosa che avvenne con levità e naturalezza Vitai lampada tradidimus : ci ritrovammo ad essere l’anello di continuità tra passato e presente. Fu una svolta decisiva, che lasciò inorriditi non pochi vati ecclesiastici. Ma quella che allora parve ai più come una disperata operazione dettata dà un mero o calcolato istinto di sopravvivenza, nel tempo si è rivelata una coraggiosa apertura, una linfa culturale ed una fucina spirituale ed umana, preziose non solo per il Seminario, ma per la stessa diocesi. “Tutto questo grazie all’intuizione profetica di Mons. Bellucci, arcivescovo di Fermo, grazie al solerte e nascosto lavoro di Don Giorgio Cupidio che, come preside solitario, poi come segretario, ha garantito in tutti questi anni l’esistenza della scuola, nonché grazie all’energia di alcuni professori, in particolare delle giovani professoresse del movimento di Comunione e Liberazione.

“Forsan et haec  meminisse iuvabit”, direbbe Virgilio, imitator d’Omero. Questo ci tutela dal rischio di svendere tesori del nostro patrimonio culturale diocesano, in nome di una miope ragion di Stato economica, che non sempre sa aspettare il lento maturare delle cose, e spesso confonde l’economia della salvezza con la salvezza dell’economia.

In questa attuale temperie che esalta lo spiritualismo da stadio, ringrazio il “Paolo VI “per avermi insegnato la spiritualità dello studio. Come uomo e come prete, apprezzo il fatto di aver frequentato questa scuola cattolica, non clericale. Lo stile di vita e le modalità educative del nostro liceo erano già allora realizzati in termini partecipativi e condividendi: il valore “persona” era posto alla base dei percorsi culturali che, pur rispettando i programmi ministeriali, garantivano una personalizzazione propositiva, e quindi l’opportunità di assimilare schemi mentali, strutture cognitive aperte, dinamiche, flessibili, il senso di appartenenza al “Paolo VI” non ci chiudeva in una torre d’avorio, o in una serra ovattata, dove i rumori del “mondo” arrivavano filtrati, smorzati o ideologicamente neutralizzati. Non posso dimenticale quegli anni, duri ed intensi, di forti lotte politiche, insanguinati da stragi ed attentati, anni peraltro di urgenti istanze di riforma sociale e scolastica. Avevamo però professori che tra le pagine di Tacito e di Hegel, tra quelle sull’acido desossiribonucleico e sulla teoria, dell’entropia, sapevano farci riflettere sulla realtà, sulla responsabilità di saper leggere criticamente la storia, gli eventi del passato e del presente. Gente che non aveva bisogno di urlare ed inculcare forsennatamente la propria fede ed esperienza cristiana, ma sapeva trasfonderla pacatamente dietro un aoristo o una poesia di Leopardi. Spesso i testi diventavano folgoranti pretesti, mai comunque distorti ideologicamente. Resta ancora indelebile, ad esempio, quella settimana di dibattiti a proposito della morte di Moro, che ci vide tutti infervorati, dai ginnasiali a quelli dell’ultimo anno, a discutere con inusitata passione politica. Erano anche gli ultimi anni del pontificato di Paolo VI, costellati di momenti critici, ma anche di nuove proposte e modelli teologici per la vita ecclesiale. Tutto questo non ci coglieva impreparati, perché grazie al prezioso contributo dell’adiacente Istituto Teologico Marchigiano di Fermo, con cui condividevamo professori del calibro di Mons. Miola, Mons. De Angelis e Mons. Fagiani – allora non erano monsignori …..- Eravamo al corrente delle problematiche nel vivo delle discussioni più scottanti. La presenza concreta di coetanei e di coetanee, non sempre dichiaratamente cattolici, era una feconda occasione di dialogo, di riflessione critica, di interrogativi stimolanti, senza paure di depauperamento di compromissioni ed arroccamenti.

“Ruit hora”.    Rivisito con piacere e gratitudine quei cinque anni fondamentali e riattingo volti, momenti ed emozioni. Sono stati non solo cronologicamente rilevanti, ma anche “Kairoi” capaci di inscriversi ed incidere nel mio percorso di vita. Cinque anni dopo il liceo, sui banchi del Pontificio Istituto Biblico, mi sarebbero ritornati preziosi il rigore grammaticale e felino di don Giorgio Cupidio e la filologia condita di sapida ironia di Mons. Ippolito Crivellucci, miei insegnanti di greco e latino. Altrettanto preziose sarebbero state la sensibilità linguistica e narratologica di don Germano Liberati, mio insegnante di italiano, e l’esprit de finesse di don Armando Monaldi, mio folle e geniale insegnante di francese. Un grazie particolare, che non è solo mio, ma di tutta la classe, va a don Giulio Camilloni, insegnante di storia, allora con look gramsciano, che con talento e passione ha saputo guidarci oltre il manuale scolastico e ad allargare lo sguardo e il respiro; a don Alberto Cintio, insegnante di chimica e geografia, sin da allora vivace rockclimber che non amava il rock, nonché costruttore di meridiane; al compianto Piergiorgio Stortini, primo insegnante di matematica e a Valter Stortini suo successore; un altro grazie, non meno sentito va a Ivana Rapati e Lina Bertoni, insegnanti di italiano in ginnasio, e a Rosa Maria Andruccioli, insegnante di francese e Clelia Casadei, insegnante di fisica e matematica queste donne, con la loro dedizione e sensibilità squisitamente femminile, hanno infranto l’egemonia “maschile” che aveva contrassegnato il timbro educativo fino ad allora in voga. Unico afflato del genio femminile, in una classe, come la nostra, priva sino alla fine, di pulzelle, eunuchi e cicisbei. Merito loro, merito di chi le ha volute.

A che gridare, come nel film L’attimo fuggente, “mio capitano, o mio capitano?” La risposta o le risposte, restano doverosamente gelate nel cuore, decantate – nel duplice senso del termine – e maturate dalla vita di poi. Io conosco la mia.

Un ricordo particolare va a tutti i miei compagni. Oggi, a vent’anni di distanza, potremmo sinceramente cantare, come facevamo ieri su quel pianoforte stonato nell’aula in fondo al corridoio “compagni di scuola, ma non compagni di niente….”. Siamo rimasti uniti, forti di quella complicità, di quella goliardia ma soprattutto di quell’amicizia che il tempo non ha oltraggiato, ma consolidato. – Posso fieramente ricordare che, più o meno proclivi ad uno studio matto e disperatissimo, ognuno di loro si è fatto strada, nel mondo accademico ed imprenditoriale: nessuno di noi, purtroppo, ha fatto felice il vecchio Ippolito, che, in novissimis diebus, tra Artemisia ed Atena Glaukopis, agognava, fumando, una specializzazione futura come veterinario di un suo ex-alunno; qualcuno, invece, ha tradito la “poetica del punto dilatato” vagheggiata da Germano “occhi di bragia”, approdando ad altri eretici esiti pittorici. Resta insoluto, a distanza d’anni, un enigma intrigante, vale a dire chi preferisse (beninteso a livello letterario) il bardo di Montegiorgio: Fiammetta o Beatrice?

Dieci anni dopo, sono ritornato al “Paolo VI” come prete ed insegnante di religione al ginnasio. Ho ritrovato poche cose cambiate: immutata, era restata l’atmosfera di collaborazione tra alunni ed insegnanti, tra docenti e docenti. Si è trattato di un solo anno, non meno intenso, di cui serbo un vivido ed affettuoso ricordo. A don Giorgio, che mi rammentava il logion evangelico di Mt 10,8 “gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”, dispiacque la mia “dipartita”. Dispiacque sinceramente anche a me.

Antonio Nepi                  Alunno dall’anno scol. 1974/75 al 1978/79

<in seguito docente>

 

VITAI LAMPADA TRADUNT . . .

Vi sono ricordi che si rammentano soltanto, mentre altri, invece, appartengono allo scrigno geloso dell’anima. “Ricordare è la poetica del cuore”, scriveva E. Jabés. E mi ritrovo, forse impertinentemente, a ricordare il “Paolo VI” come alunno e docente.

Come alunno, restano indelebili i cinque anni canonici, dal 1974 al 1979. La mia classe, il V Ginnasio, fu inconscia testimone del “trapasso degli eoni”. Nel 1975, infatti, si consumò la metamorfosi del liceo Classico, esclusivamente riservato ai seminaristi, in un liceo aperto anche a studenti esterni, ragazzi e ragazze. Niente di kafkiano, alla Gregorio Samsa, per intenderci, ma qualcosa che avvenne con levità e naturalezza Vitai lampada tradidimus : ci ritrovammo ad essere l’anello di continuità tra passato e presente. Fu una svolta decisiva, che lasciò inorriditi non pochi vati ecclesiastici. Ma quella che allora parve ai più come una disperata operazione dettata dà un mero o calcolato istinto di sopravvivenza, nel tempo si è rivelata una coraggiosa apertura, una linfa culturale ed una fucina spirituale ed umana, preziose non solo per il Seminario, ma per la stessa diocesi. “Tutto questo grazie all’intuizione profetica di Mons. Bellucci, arcivescovo di Fermo, grazie al solerte e nascosto lavoro di Don Giorgio Cupidio che, come preside solitario, poi come segretario, ha garantito in tutti questi anni l’esistenza della scuola, nonché grazie all’energia di alcuni professori, in particolare delle giovani professoresse del movimento di Comunione e Liberazione.

“Forsan et haec  meminisse iuvabit”, direbbe Virgilio, imitator d’Omero. Questo ci tutela dal rischio di svendere tesori del nostro patrimonio culturale diocesano, in nome di una miope ragion di Stato economica, che non sempre sa aspettare il lento maturare delle cose, e spesso confonde l’economia della salvezza con la salvezza dell’economia.

In questa attuale temperie che esalta lo spiritualismo da stadio, ringrazio il “Paolo VI “per avermi insegnato la spiritualità dello studio. Come uomo e come prete, apprezzo il fatto di aver frequentato questa scuola cattolica, non clericale. Lo stile di vita e le modalità educative del nostro liceo erano già allora realizzati in termini partecipativi e condividendi: il valore “persona” era posto alla base dei percorsi culturali che, pur rispettando i programmi ministeriali, garantivano una personalizzazione propositiva, e quindi l’opportunità di assimilare schemi mentali, strutture cognitive aperte, dinamiche, flessibili, il senso di appartenenza al “Paolo VI” non ci chiudeva in una torre d’avorio, o in una serra ovattata, dove i rumori del “mondo” arrivavano filtrati, smorzati o ideologicamente neutralizzati. Non posso dimenticale quegli anni, duri ed intensi, di forti lotte politiche, insanguinati da stragi ed attentati, anni peraltro di urgenti istanze di riforma sociale e scolastica. Avevamo però professori che tra le pagine di Tacito e di Hegel, tra quelle sull’acido desossiribonucleico e sulla teoria, dell’entropia, sapevano farci riflettere sulla realtà, sulla responsabilità di saper leggere criticamente la storia, gli eventi del passato e del presente. Gente che non aveva bisogno di urlare ed inculcare forsennatamente la propria fede ed esperienza cristiana, ma sapeva trasfonderla pacatamente dietro un aoristo o una poesia di Leopardi. Spesso i testi diventavano folgoranti pretesti, mai comunque distorti ideologicamente. Resta ancora indelebile, ad esempio, quella settimana di dibattiti a proposito della morte di Moro, che ci vide tutti infervorati, dai ginnasiali a quelli dell’ultimo anno, a discutere con inusitata passione politica. Erano anche gli ultimi anni del pontificato di Paolo VI, costellati di momenti critici, ma anche di nuove proposte e modelli teologici per la vita ecclesiale. Tutto questo non ci coglieva impreparati, perché grazie al prezioso contributo dell’adiacente Istituto Teologico Marchigiano di Fermo, con cui condividevamo professori del calibro di Mons. Miola, Mons. De Angelis e Mons. Fagiani – allora non erano monsignori …..- Eravamo al corrente delle problematiche nel vivo delle discussioni più scottanti. La presenza concreta di coetanei e di coetanee, non sempre dichiaratamente cattolici, era una feconda occasione di dialogo, di riflessione critica, di interrogativi stimolanti, senza paure di depauperamento di compromissioni ed arroccamenti.

“Ruit hora”.    Rivisito con piacere e gratitudine quei cinque anni fondamentali e riattingo volti, momenti ed emozioni. Sono stati non solo cronologicamente rilevanti, ma anche “Kairoi” capaci di inscriversi ed incidere nel mio percorso di vita. Cinque anni dopo il liceo, sui banchi del Pontificio Istituto Biblico, mi sarebbero ritornati preziosi il rigore grammaticale e felino di don Giorgio Cupidio e la filologia condita di sapida ironia di Mons. Ippolito Crivellucci, miei insegnanti di greco e latino. Altrettanto preziose sarebbero state la sensibilità linguistica e narratologica di don Germano Liberati, mio insegnante di italiano, e l’esprit de finesse di don Armando Monaldi, mio folle e geniale insegnante di francese. Un grazie particolare, che non è solo mio, ma di tutta la classe, va a don Giulio Camilloni, insegnante di storia, allora con look gramsciano, che con talento e passione ha saputo guidarci oltre il manuale scolastico e ad allargare lo sguardo e il respiro; a don Alberto Cintio, insegnante di chimica e geografia, sin da allora vivace rockclimber che non amava il rock, nonché costruttore di meridiane; al compianto Piergiorgio Stortini, primo insegnante di matematica e a Valter Stortini suo successore; un altro grazie, non meno sentito va a Ivana Rapati e Lina Bertoni, insegnanti di italiano in ginnasio, e a Rosa Maria Andruccioli, insegnante di francese e Clelia Casadei, insegnante di fisica e matematica queste donne, con la loro dedizione e sensibilità squisitamente femminile, hanno infranto l’egemonia “maschile” che aveva contrassegnato il timbro educativo fino ad allora in voga. Unico afflato del genio femminile, in una classe, come la nostra, priva sino alla fine, di pulzelle, eunuchi e cicisbei. Merito loro, merito di chi le ha volute.

A che gridare, come nel film L’attimo fuggente, “mio capitano, o mio capitano?” La risposta o le risposte, restano doverosamente gelate nel cuore, decantate – nel duplice senso del termine – e maturate dalla vita di poi. Io conosco la mia.

Un ricordo particolare va a tutti i miei compagni. Oggi, a vent’anni di distanza, potremmo sinceramente cantare, come facevamo ieri su quel pianoforte stonato nell’aula in fondo al corridoio “compagni di scuola, ma non compagni di niente….”. Siamo rimasti uniti, forti di quella complicità, di quella goliardia ma soprattutto di quell’amicizia che il tempo non ha oltraggiato, ma consolidato. – Posso fieramente ricordare che, più o meno proclivi ad uno studio matto e disperatissimo, ognuno di loro si è fatto strada, nel mondo accademico ed imprenditoriale: nessuno di noi, purtroppo, ha fatto felice il vecchio Ippolito, che, in novissimis diebus, tra Artemisia ed Atena Glaukopis, agognava, fumando, una specializzazione futura come veterinario di un suo ex-alunno; qualcuno, invece, ha tradito la “poetica del punto dilatato” vagheggiata da Germano “occhi di bragia”, approdando ad altri eretici esiti pittorici. Resta insoluto, a distanza d’anni, un enigma intrigante, vale a dire chi preferisse (beninteso a livello letterario) il bardo di Montegiorgio: Fiammetta o Beatrice?

Dieci anni dopo, sono ritornato al “Paolo VI” come prete ed insegnante di religione al ginnasio. Ho ritrovato poche cose cambiate: immutata, era restata l’atmosfera di collaborazione tra alunni ed insegnanti, tra docenti e docenti. Si è trattato di un solo anno, non meno intenso, di cui serbo un vivido ed affettuoso ricordo. A don Giorgio, che mi rammentava il logion evangelico di Mt 10,8 “gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”, dispiacque la mia “dipartita”. Dispiacque sinceramente anche a me.

Antonio Nepi                  Alunno dall’anno scol. 1974/75 al 1978/79

<in seguito docente>

 

VITAI LAMPADA TRADUNT . . .

Vi sono ricordi che si rammentano soltanto, mentre altri, invece, appartengono allo scrigno geloso dell’anima. “Ricordare è la poetica del cuore”, scriveva E. Jabés. E mi ritrovo, forse impertinentemente, a ricordare il “Paolo VI” come alunno e docente.

Come alunno, restano indelebili i cinque anni canonici, dal 1974 al 1979. La mia classe, il V Ginnasio, fu inconscia testimone del “trapasso degli eoni”. Nel 1975, infatti, si consumò la metamorfosi del liceo Classico, esclusivamente riservato ai seminaristi, in un liceo aperto anche a studenti esterni, ragazzi e ragazze. Niente di kafkiano, alla Gregorio Samsa, per intenderci, ma qualcosa che avvenne con levità e naturalezza Vitai lampada tradidimus : ci ritrovammo ad essere l’anello di continuità tra passato e presente. Fu una svolta decisiva, che lasciò inorriditi non pochi vati ecclesiastici. Ma quella che allora parve ai più come una disperata operazione dettata dà un mero o calcolato istinto di sopravvivenza, nel tempo si è rivelata una coraggiosa apertura, una linfa culturale ed una fucina spirituale ed umana, preziose non solo per il Seminario, ma per la stessa diocesi. “Tutto questo grazie all’intuizione profetica di Mons. Bellucci, arcivescovo di Fermo, grazie al solerte e nascosto lavoro di Don Giorgio Cupidio che, come preside solitario, poi come segretario, ha garantito in tutti questi anni l’esistenza della scuola, nonché grazie all’energia di alcuni professori, in particolare delle giovani professoresse del movimento di Comunione e Liberazione.

“Forsan et haec  meminisse iuvabit”, direbbe Virgilio, imitator d’Omero. Questo ci tutela dal rischio di svendere tesori del nostro patrimonio culturale diocesano, in nome di una miope ragion di Stato economica, che non sempre sa aspettare il lento maturare delle cose, e spesso confonde l’economia della salvezza con la salvezza dell’economia.

In questa attuale temperie che esalta lo spiritualismo da stadio, ringrazio il “Paolo VI “per avermi insegnato la spiritualità dello studio. Come uomo e come prete, apprezzo il fatto di aver frequentato questa scuola cattolica, non clericale. Lo stile di vita e le modalità educative del nostro liceo erano già allora realizzati in termini partecipativi e condividendi: il valore “persona” era posto alla base dei percorsi culturali che, pur rispettando i programmi ministeriali, garantivano una personalizzazione propositiva, e quindi l’opportunità di assimilare schemi mentali, strutture cognitive aperte, dinamiche, flessibili, il senso di appartenenza al “Paolo VI” non ci chiudeva in una torre d’avorio, o in una serra ovattata, dove i rumori del “mondo” arrivavano filtrati, smorzati o ideologicamente neutralizzati. Non posso dimenticale quegli anni, duri ed intensi, di forti lotte politiche, insanguinati da stragi ed attentati, anni peraltro di urgenti istanze di riforma sociale e scolastica. Avevamo però professori che tra le pagine di Tacito e di Hegel, tra quelle sull’acido desossiribonucleico e sulla teoria, dell’entropia, sapevano farci riflettere sulla realtà, sulla responsabilità di saper leggere criticamente la storia, gli eventi del passato e del presente. Gente che non aveva bisogno di urlare ed inculcare forsennatamente la propria fede ed esperienza cristiana, ma sapeva trasfonderla pacatamente dietro un aoristo o una poesia di Leopardi. Spesso i testi diventavano folgoranti pretesti, mai comunque distorti ideologicamente. Resta ancora indelebile, ad esempio, quella settimana di dibattiti a proposito della morte di Moro, che ci vide tutti infervorati, dai ginnasiali a quelli dell’ultimo anno, a discutere con inusitata passione politica. Erano anche gli ultimi anni del pontificato di Paolo VI, costellati di momenti critici, ma anche di nuove proposte e modelli teologici per la vita ecclesiale. Tutto questo non ci coglieva impreparati, perché grazie al prezioso contributo dell’adiacente Istituto Teologico Marchigiano di Fermo, con cui condividevamo professori del calibro di Mons. Miola, Mons. De Angelis e Mons. Fagiani – allora non erano monsignori …..- Eravamo al corrente delle problematiche nel vivo delle discussioni più scottanti. La presenza concreta di coetanei e di coetanee, non sempre dichiaratamente cattolici, era una feconda occasione di dialogo, di riflessione critica, di interrogativi stimolanti, senza paure di depauperamento di compromissioni ed arroccamenti.

“Ruit hora”.    Rivisito con piacere e gratitudine quei cinque anni fondamentali e riattingo volti, momenti ed emozioni. Sono stati non solo cronologicamente rilevanti, ma anche “Kairoi” capaci di inscriversi ed incidere nel mio percorso di vita. Cinque anni dopo il liceo, sui banchi del Pontificio Istituto Biblico, mi sarebbero ritornati preziosi il rigore grammaticale e felino di don Giorgio Cupidio e la filologia condita di sapida ironia di Mons. Ippolito Crivellucci, miei insegnanti di greco e latino. Altrettanto preziose sarebbero state la sensibilità linguistica e narratologica di don Germano Liberati, mio insegnante di italiano, e l’esprit de finesse di don Armando Monaldi, mio folle e geniale insegnante di francese. Un grazie particolare, che non è solo mio, ma di tutta la classe, va a don Giulio Camilloni, insegnante di storia, allora con look gramsciano, che con talento e passione ha saputo guidarci oltre il manuale scolastico e ad allargare lo sguardo e il respiro; a don Alberto Cintio, insegnante di chimica e geografia, sin da allora vivace rockclimber che non amava il rock, nonché costruttore di meridiane; al compianto Piergiorgio Stortini, primo insegnante di matematica e a Valter Stortini suo successore; un altro grazie, non meno sentito va a Ivana Rapati e Lina Bertoni, insegnanti di italiano in ginnasio, e a Rosa Maria Andruccioli, insegnante di francese e Clelia Casadei, insegnante di fisica e matematica queste donne, con la loro dedizione e sensibilità squisitamente femminile, hanno infranto l’egemonia “maschile” che aveva contrassegnato il timbro educativo fino ad allora in voga. Unico afflato del genio femminile, in una classe, come la nostra, priva sino alla fine, di pulzelle, eunuchi e cicisbei. Merito loro, merito di chi le ha volute.

A che gridare, come nel film L’attimo fuggente, “mio capitano, o mio capitano?” La risposta o le risposte, restano doverosamente gelate nel cuore, decantate – nel duplice senso del termine – e maturate dalla vita di poi. Io conosco la mia.

Un ricordo particolare va a tutti i miei compagni. Oggi, a vent’anni di distanza, potremmo sinceramente cantare, come facevamo ieri su quel pianoforte stonato nell’aula in fondo al corridoio “compagni di scuola, ma non compagni di niente….”. Siamo rimasti uniti, forti di quella complicità, di quella goliardia ma soprattutto di quell’amicizia che il tempo non ha oltraggiato, ma consolidato. – Posso fieramente ricordare che, più o meno proclivi ad uno studio matto e disperatissimo, ognuno di loro si è fatto strada, nel mondo accademico ed imprenditoriale: nessuno di noi, purtroppo, ha fatto felice il vecchio Ippolito, che, in novissimis diebus, tra Artemisia ed Atena Glaukopis, agognava, fumando, una specializzazione futura come veterinario di un suo ex-alunno; qualcuno, invece, ha tradito la “poetica del punto dilatato” vagheggiata da Germano “occhi di bragia”, approdando ad altri eretici esiti pittorici. Resta insoluto, a distanza d’anni, un enigma intrigante, vale a dire chi preferisse (beninteso a livello letterario) il bardo di Montegiorgio: Fiammetta o Beatrice?

Dieci anni dopo, sono ritornato al “Paolo VI” come prete ed insegnante di religione al ginnasio. Ho ritrovato poche cose cambiate: immutata, era restata l’atmosfera di collaborazione tra alunni ed insegnanti, tra docenti e docenti. Si è trattato di un solo anno, non meno intenso, di cui serbo un vivido ed affettuoso ricordo. A don Giorgio, che mi rammentava il logion evangelico di Mt 10,8 “gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”, dispiacque la mia “dipartita”. Dispiacque sinceramente anche a me.

Antonio Nepi                  Alunno dall’anno scol. 1974/75 al 1978/79

<in seguito docente>

 

VITAI LAMPADA TRADUNT . . .

Vi sono ricordi che si rammentano soltanto, mentre altri, invece, appartengono allo scrigno geloso dell’anima. “Ricordare è la poetica del cuore”, scriveva E. Jabés. E mi ritrovo, forse impertinentemente, a ricordare il “Paolo VI” come alunno e docente.

Come alunno, restano indelebili i cinque anni canonici, dal 1974 al 1979. La mia classe, il V Ginnasio, fu inconscia testimone del “trapasso degli eoni”. Nel 1975, infatti, si consumò la metamorfosi del liceo Classico, esclusivamente riservato ai seminaristi, in un liceo aperto anche a studenti esterni, ragazzi e ragazze. Niente di kafkiano, alla Gregorio Samsa, per intenderci, ma qualcosa che avvenne con levità e naturalezza Vitai lampada tradidimus : ci ritrovammo ad essere l’anello di continuità tra passato e presente. Fu una svolta decisiva, che lasciò inorriditi non pochi vati ecclesiastici. Ma quella che allora parve ai più come una disperata operazione dettata dà un mero o calcolato istinto di sopravvivenza, nel tempo si è rivelata una coraggiosa apertura, una linfa culturale ed una fucina spirituale ed umana, preziose non solo per il Seminario, ma per la stessa diocesi. “Tutto questo grazie all’intuizione profetica di Mons. Bellucci, arcivescovo di Fermo, grazie al solerte e nascosto lavoro di Don Giorgio Cupidio che, come preside solitario, poi come segretario, ha garantito in tutti questi anni l’esistenza della scuola, nonché grazie all’energia di alcuni professori, in particolare delle giovani professoresse del movimento di Comunione e Liberazione.

“Forsan et haec  meminisse iuvabit”, direbbe Virgilio, imitator d’Omero. Questo ci tutela dal rischio di svendere tesori del nostro patrimonio culturale diocesano, in nome di una miope ragion di Stato economica, che non sempre sa aspettare il lento maturare delle cose, e spesso confonde l’economia della salvezza con la salvezza dell’economia.

In questa attuale temperie che esalta lo spiritualismo da stadio, ringrazio il “Paolo VI “per avermi insegnato la spiritualità dello studio. Come uomo e come prete, apprezzo il fatto di aver frequentato questa scuola cattolica, non clericale. Lo stile di vita e le modalità educative del nostro liceo erano già allora realizzati in termini partecipativi e condividendi: il valore “persona” era posto alla base dei percorsi culturali che, pur rispettando i programmi ministeriali, garantivano una personalizzazione propositiva, e quindi l’opportunità di assimilare schemi mentali, strutture cognitive aperte, dinamiche, flessibili, il senso di appartenenza al “Paolo VI” non ci chiudeva in una torre d’avorio, o in una serra ovattata, dove i rumori del “mondo” arrivavano filtrati, smorzati o ideologicamente neutralizzati. Non posso dimenticale quegli anni, duri ed intensi, di forti lotte politiche, insanguinati da stragi ed attentati, anni peraltro di urgenti istanze di riforma sociale e scolastica. Avevamo però professori che tra le pagine di Tacito e di Hegel, tra quelle sull’acido desossiribonucleico e sulla teoria, dell’entropia, sapevano farci riflettere sulla realtà, sulla responsabilità di saper leggere criticamente la storia, gli eventi del passato e del presente. Gente che non aveva bisogno di urlare ed inculcare forsennatamente la propria fede ed esperienza cristiana, ma sapeva trasfonderla pacatamente dietro un aoristo o una poesia di Leopardi. Spesso i testi diventavano folgoranti pretesti, mai comunque distorti ideologicamente. Resta ancora indelebile, ad esempio, quella settimana di dibattiti a proposito della morte di Moro, che ci vide tutti infervorati, dai ginnasiali a quelli dell’ultimo anno, a discutere con inusitata passione politica. Erano anche gli ultimi anni del pontificato di Paolo VI, costellati di momenti critici, ma anche di nuove proposte e modelli teologici per la vita ecclesiale. Tutto questo non ci coglieva impreparati, perché grazie al prezioso contributo dell’adiacente Istituto Teologico Marchigiano di Fermo, con cui condividevamo professori del calibro di Mons. Miola, Mons. De Angelis e Mons. Fagiani – allora non erano monsignori …..- Eravamo al corrente delle problematiche nel vivo delle discussioni più scottanti. La presenza concreta di coetanei e di coetanee, non sempre dichiaratamente cattolici, era una feconda occasione di dialogo, di riflessione critica, di interrogativi stimolanti, senza paure di depauperamento di compromissioni ed arroccamenti.

“Ruit hora”.    Rivisito con piacere e gratitudine quei cinque anni fondamentali e riattingo volti, momenti ed emozioni. Sono stati non solo cronologicamente rilevanti, ma anche “Kairoi” capaci di inscriversi ed incidere nel mio percorso di vita. Cinque anni dopo il liceo, sui banchi del Pontificio Istituto Biblico, mi sarebbero ritornati preziosi il rigore grammaticale e felino di don Giorgio Cupidio e la filologia condita di sapida ironia di Mons. Ippolito Crivellucci, miei insegnanti di greco e latino. Altrettanto preziose sarebbero state la sensibilità linguistica e narratologica di don Germano Liberati, mio insegnante di italiano, e l’esprit de finesse di don Armando Monaldi, mio folle e geniale insegnante di francese. Un grazie particolare, che non è solo mio, ma di tutta la classe, va a don Giulio Camilloni, insegnante di storia, allora con look gramsciano, che con talento e passione ha saputo guidarci oltre il manuale scolastico e ad allargare lo sguardo e il respiro; a don Alberto Cintio, insegnante di chimica e geografia, sin da allora vivace rockclimber che non amava il rock, nonché costruttore di meridiane; al compianto Piergiorgio Stortini, primo insegnante di matematica e a Valter Stortini suo successore; un altro grazie, non meno sentito va a Ivana Rapati e Lina Bertoni, insegnanti di italiano in ginnasio, e a Rosa Maria Andruccioli, insegnante di francese e Clelia Casadei, insegnante di fisica e matematica queste donne, con la loro dedizione e sensibilità squisitamente femminile, hanno infranto l’egemonia “maschile” che aveva contrassegnato il timbro educativo fino ad allora in voga. Unico afflato del genio femminile, in una classe, come la nostra, priva sino alla fine, di pulzelle, eunuchi e cicisbei. Merito loro, merito di chi le ha volute.

A che gridare, come nel film L’attimo fuggente, “mio capitano, o mio capitano?” La risposta o le risposte, restano doverosamente gelate nel cuore, decantate – nel duplice senso del termine – e maturate dalla vita di poi. Io conosco la mia.

Un ricordo particolare va a tutti i miei compagni. Oggi, a vent’anni di distanza, potremmo sinceramente cantare, come facevamo ieri su quel pianoforte stonato nell’aula in fondo al corridoio “compagni di scuola, ma non compagni di niente….”. Siamo rimasti uniti, forti di quella complicità, di quella goliardia ma soprattutto di quell’amicizia che il tempo non ha oltraggiato, ma consolidato. – Posso fieramente ricordare che, più o meno proclivi ad uno studio matto e disperatissimo, ognuno di loro si è fatto strada, nel mondo accademico ed imprenditoriale: nessuno di noi, purtroppo, ha fatto felice il vecchio Ippolito, che, in novissimis diebus, tra Artemisia ed Atena Glaukopis, agognava, fumando, una specializzazione futura come veterinario di un suo ex-alunno; qualcuno, invece, ha tradito la “poetica del punto dilatato” vagheggiata da Germano “occhi di bragia”, approdando ad altri eretici esiti pittorici. Resta insoluto, a distanza d’anni, un enigma intrigante, vale a dire chi preferisse (beninteso a livello letterario) il bardo di Montegiorgio: Fiammetta o Beatrice?

Dieci anni dopo, sono ritornato al “Paolo VI” come prete ed insegnante di religione al ginnasio. Ho ritrovato poche cose cambiate: immutata, era restata l’atmosfera di collaborazione tra alunni ed insegnanti, tra docenti e docenti. Si è trattato di un solo anno, non meno intenso, di cui serbo un vivido ed affettuoso ricordo. A don Giorgio, che mi rammentava il logion evangelico di Mt 10,8 “gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”, dispiacque la mia “dipartita”. Dispiacque sinceramente anche a me.

Antonio Nepi                  Alunno dall’anno scol. 1974/75 al 1978/79

<in seguito docente>

 

VITAI LAMPADA TRADUNT . . .

Vi sono ricordi che si rammentano soltanto, mentre altri, invece, appartengono allo scrigno geloso dell’anima. “Ricordare è la poetica del cuore”, scriveva E. Jabés. E mi ritrovo, forse impertinentemente, a ricordare il “Paolo VI” come alunno e docente.

Come alunno, restano indelebili i cinque anni canonici, dal 1974 al 1979. La mia classe, il V Ginnasio, fu inconscia testimone del “trapasso degli eoni”. Nel 1975, infatti, si consumò la metamorfosi del liceo Classico, esclusivamente riservato ai seminaristi, in un liceo aperto anche a studenti esterni, ragazzi e ragazze. Niente di kafkiano, alla Gregorio Samsa, per intenderci, ma qualcosa che avvenne con levità e naturalezza Vitai lampada tradidimus : ci ritrovammo ad essere l’anello di continuità tra passato e presente. Fu una svolta decisiva, che lasciò inorriditi non pochi vati ecclesiastici. Ma quella che allora parve ai più come una disperata operazione dettata dà un mero o calcolato istinto di sopravvivenza, nel tempo si è rivelata una coraggiosa apertura, una linfa culturale ed una fucina spirituale ed umana, preziose non solo per il Seminario, ma per la stessa diocesi. “Tutto questo grazie all’intuizione profetica di Mons. Bellucci, arcivescovo di Fermo, grazie al solerte e nascosto lavoro di Don Giorgio Cupidio che, come preside solitario, poi come segretario, ha garantito in tutti questi anni l’esistenza della scuola, nonché grazie all’energia di alcuni professori, in particolare delle giovani professoresse del movimento di Comunione e Liberazione.

“Forsan et haec  meminisse iuvabit”, direbbe Virgilio, imitator d’Omero. Questo ci tutela dal rischio di svendere tesori del nostro patrimonio culturale diocesano, in nome di una miope ragion di Stato economica, che non sempre sa aspettare il lento maturare delle cose, e spesso confonde l’economia della salvezza con la salvezza dell’economia.

In questa attuale temperie che esalta lo spiritualismo da stadio, ringrazio il “Paolo VI “per avermi insegnato la spiritualità dello studio. Come uomo e come prete, apprezzo il fatto di aver frequentato questa scuola cattolica, non clericale. Lo stile di vita e le modalità educative del nostro liceo erano già allora realizzati in termini partecipativi e condividendi: il valore “persona” era posto alla base dei percorsi culturali che, pur rispettando i programmi ministeriali, garantivano una personalizzazione propositiva, e quindi l’opportunità di assimilare schemi mentali, strutture cognitive aperte, dinamiche, flessibili, il senso di appartenenza al “Paolo VI” non ci chiudeva in una torre d’avorio, o in una serra ovattata, dove i rumori del “mondo” arrivavano filtrati, smorzati o ideologicamente neutralizzati. Non posso dimenticale quegli anni, duri ed intensi, di forti lotte politiche, insanguinati da stragi ed attentati, anni peraltro di urgenti istanze di riforma sociale e scolastica. Avevamo però professori che tra le pagine di Tacito e di Hegel, tra quelle sull’acido desossiribonucleico e sulla teoria, dell’entropia, sapevano farci riflettere sulla realtà, sulla responsabilità di saper leggere criticamente la storia, gli eventi del passato e del presente. Gente che non aveva bisogno di urlare ed inculcare forsennatamente la propria fede ed esperienza cristiana, ma sapeva trasfonderla pacatamente dietro un aoristo o una poesia di Leopardi. Spesso i testi diventavano folgoranti pretesti, mai comunque distorti ideologicamente. Resta ancora indelebile, ad esempio, quella settimana di dibattiti a proposito della morte di Moro, che ci vide tutti infervorati, dai ginnasiali a quelli dell’ultimo anno, a discutere con inusitata passione politica. Erano anche gli ultimi anni del pontificato di Paolo VI, costellati di momenti critici, ma anche di nuove proposte e modelli teologici per la vita ecclesiale. Tutto questo non ci coglieva impreparati, perché grazie al prezioso contributo dell’adiacente Istituto Teologico Marchigiano di Fermo, con cui condividevamo professori del calibro di Mons. Miola, Mons. De Angelis e Mons. Fagiani – allora non erano monsignori …..- Eravamo al corrente delle problematiche nel vivo delle discussioni più scottanti. La presenza concreta di coetanei e di coetanee, non sempre dichiaratamente cattolici, era una feconda occasione di dialogo, di riflessione critica, di interrogativi stimolanti, senza paure di depauperamento di compromissioni ed arroccamenti.

“Ruit hora”.    Rivisito con piacere e gratitudine quei cinque anni fondamentali e riattingo volti, momenti ed emozioni. Sono stati non solo cronologicamente rilevanti, ma anche “Kairoi” capaci di inscriversi ed incidere nel mio percorso di vita. Cinque anni dopo il liceo, sui banchi del Pontificio Istituto Biblico, mi sarebbero ritornati preziosi il rigore grammaticale e felino di don Giorgio Cupidio e la filologia condita di sapida ironia di Mons. Ippolito Crivellucci, miei insegnanti di greco e latino. Altrettanto preziose sarebbero state la sensibilità linguistica e narratologica di don Germano Liberati, mio insegnante di italiano, e l’esprit de finesse di don Armando Monaldi, mio folle e geniale insegnante di francese. Un grazie particolare, che non è solo mio, ma di tutta la classe, va a don Giulio Camilloni, insegnante di storia, allora con look gramsciano, che con talento e passione ha saputo guidarci oltre il manuale scolastico e ad allargare lo sguardo e il respiro; a don Alberto Cintio, insegnante di chimica e geografia, sin da allora vivace rockclimber che non amava il rock, nonché costruttore di meridiane; al compianto Piergiorgio Stortini, primo insegnante di matematica e a Valter Stortini suo successore; un altro grazie, non meno sentito va a Ivana Rapati e Lina Bertoni, insegnanti di italiano in ginnasio, e a Rosa Maria Andruccioli, insegnante di francese e Clelia Casadei, insegnante di fisica e matematica queste donne, con la loro dedizione e sensibilità squisitamente femminile, hanno infranto l’egemonia “maschile” che aveva contrassegnato il timbro educativo fino ad allora in voga. Unico afflato del genio femminile, in una classe, come la nostra, priva sino alla fine, di pulzelle, eunuchi e cicisbei. Merito loro, merito di chi le ha volute.

A che gridare, come nel film L’attimo fuggente, “mio capitano, o mio capitano?” La risposta o le risposte, restano doverosamente gelate nel cuore, decantate – nel duplice senso del termine – e maturate dalla vita di poi. Io conosco la mia.

Un ricordo particolare va a tutti i miei compagni. Oggi, a vent’anni di distanza, potremmo sinceramente cantare, come facevamo ieri su quel pianoforte stonato nell’aula in fondo al corridoio “compagni di scuola, ma non compagni di niente….”. Siamo rimasti uniti, forti di quella complicità, di quella goliardia ma soprattutto di quell’amicizia che il tempo non ha oltraggiato, ma consolidato. – Posso fieramente ricordare che, più o meno proclivi ad uno studio matto e disperatissimo, ognuno di loro si è fatto strada, nel mondo accademico ed imprenditoriale: nessuno di noi, purtroppo, ha fatto felice il vecchio Ippolito, che, in novissimis diebus, tra Artemisia ed Atena Glaukopis, agognava, fumando, una specializzazione futura come veterinario di un suo ex-alunno; qualcuno, invece, ha tradito la “poetica del punto dilatato” vagheggiata da Germano “occhi di bragia”, approdando ad altri eretici esiti pittorici. Resta insoluto, a distanza d’anni, un enigma intrigante, vale a dire chi preferisse (beninteso a livello letterario) il bardo di Montegiorgio: Fiammetta o Beatrice?

Dieci anni dopo, sono ritornato al “Paolo VI” come prete ed insegnante di religione al ginnasio. Ho ritrovato poche cose cambiate: immutata, era restata l’atmosfera di collaborazione tra alunni ed insegnanti, tra docenti e docenti. Si è trattato di un solo anno, non meno intenso, di cui serbo un vivido ed affettuoso ricordo. A don Giorgio, che mi rammentava il logion evangelico di Mt 10,8 “gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”, dispiacque la mia “dipartita”. Dispiacque sinceramente anche a me.

Antonio Nepi                  Alunno dall’anno scol. 1974/75 al 1978/79

<in seguito docente>

 

VITAI LAMPADA TRADUNT . . .

Vi sono ricordi che si rammentano soltanto, mentre altri, invece, appartengono allo scrigno geloso dell’anima. “Ricordare è la poetica del cuore”, scriveva E. Jabés. E mi ritrovo, forse impertinentemente, a ricordare il “Paolo VI” come alunno e docente.

Come alunno, restano indelebili i cinque anni canonici, dal 1974 al 1979. La mia classe, il V Ginnasio, fu inconscia testimone del “trapasso degli eoni”. Nel 1975, infatti, si consumò la metamorfosi del liceo Classico, esclusivamente riservato ai seminaristi, in un liceo aperto anche a studenti esterni, ragazzi e ragazze. Niente di kafkiano, alla Gregorio Samsa, per intenderci, ma qualcosa che avvenne con levità e naturalezza Vitai lampada tradidimus : ci ritrovammo ad essere l’anello di continuità tra passato e presente. Fu una svolta decisiva, che lasciò inorriditi non pochi vati ecclesiastici. Ma quella che allora parve ai più come una disperata operazione dettata dà un mero o calcolato istinto di sopravvivenza, nel tempo si è rivelata una coraggiosa apertura, una linfa culturale ed una fucina spirituale ed umana, preziose non solo per il Seminario, ma per la stessa diocesi. “Tutto questo grazie all’intuizione profetica di Mons. Bellucci, arcivescovo di Fermo, grazie al solerte e nascosto lavoro di Don Giorgio Cupidio che, come preside solitario, poi come segretario, ha garantito in tutti questi anni l’esistenza della scuola, nonché grazie all’energia di alcuni professori, in particolare delle giovani professoresse del movimento di Comunione e Liberazione.

“Forsan et haec  meminisse iuvabit”, direbbe Virgilio, imitator d’Omero. Questo ci tutela dal rischio di svendere tesori del nostro patrimonio culturale diocesano, in nome di una miope ragion di Stato economica, che non sempre sa aspettare il lento maturare delle cose, e spesso confonde l’economia della salvezza con la salvezza dell’economia.

In questa attuale temperie che esalta lo spiritualismo da stadio, ringrazio il “Paolo VI “per avermi insegnato la spiritualità dello studio. Come uomo e come prete, apprezzo il fatto di aver frequentato questa scuola cattolica, non clericale. Lo stile di vita e le modalità educative del nostro liceo erano già allora realizzati in termini partecipativi e condividendi: il valore “persona” era posto alla base dei percorsi culturali che, pur rispettando i programmi ministeriali, garantivano una personalizzazione propositiva, e quindi l’opportunità di assimilare schemi mentali, strutture cognitive aperte, dinamiche, flessibili, il senso di appartenenza al “Paolo VI” non ci chiudeva in una torre d’avorio, o in una serra ovattata, dove i rumori del “mondo” arrivavano filtrati, smorzati o ideologicamente neutralizzati. Non posso dimenticale quegli anni, duri ed intensi, di forti lotte politiche, insanguinati da stragi ed attentati, anni peraltro di urgenti istanze di riforma sociale e scolastica. Avevamo però professori che tra le pagine di Tacito e di Hegel, tra quelle sull’acido desossiribonucleico e sulla teoria, dell’entropia, sapevano farci riflettere sulla realtà, sulla responsabilità di saper leggere criticamente la storia, gli eventi del passato e del presente. Gente che non aveva bisogno di urlare ed inculcare forsennatamente la propria fede ed esperienza cristiana, ma sapeva trasfonderla pacatamente dietro un aoristo o una poesia di Leopardi. Spesso i testi diventavano folgoranti pretesti, mai comunque distorti ideologicamente. Resta ancora indelebile, ad esempio, quella settimana di dibattiti a proposito della morte di Moro, che ci vide tutti infervorati, dai ginnasiali a quelli dell’ultimo anno, a discutere con inusitata passione politica. Erano anche gli ultimi anni del pontificato di Paolo VI, costellati di momenti critici, ma anche di nuove proposte e modelli teologici per la vita ecclesiale. Tutto questo non ci coglieva impreparati, perché grazie al prezioso contributo dell’adiacente Istituto Teologico Marchigiano di Fermo, con cui condividevamo professori del calibro di Mons. Miola, Mons. De Angelis e Mons. Fagiani – allora non erano monsignori …..- Eravamo al corrente delle problematiche nel vivo delle discussioni più scottanti. La presenza concreta di coetanei e di coetanee, non sempre dichiaratamente cattolici, era una feconda occasione di dialogo, di riflessione critica, di interrogativi stimolanti, senza paure di depauperamento di compromissioni ed arroccamenti.

“Ruit hora”.    Rivisito con piacere e gratitudine quei cinque anni fondamentali e riattingo volti, momenti ed emozioni. Sono stati non solo cronologicamente rilevanti, ma anche “Kairoi” capaci di inscriversi ed incidere nel mio percorso di vita. Cinque anni dopo il liceo, sui banchi del Pontificio Istituto Biblico, mi sarebbero ritornati preziosi il rigore grammaticale e felino di don Giorgio Cupidio e la filologia condita di sapida ironia di Mons. Ippolito Crivellucci, miei insegnanti di greco e latino. Altrettanto preziose sarebbero state la sensibilità linguistica e narratologica di don Germano Liberati, mio insegnante di italiano, e l’esprit de finesse di don Armando Monaldi, mio folle e geniale insegnante di francese. Un grazie particolare, che non è solo mio, ma di tutta la classe, va a don Giulio Camilloni, insegnante di storia, allora con look gramsciano, che con talento e passione ha saputo guidarci oltre il manuale scolastico e ad allargare lo sguardo e il respiro; a don Alberto Cintio, insegnante di chimica e geografia, sin da allora vivace rockclimber che non amava il rock, nonché costruttore di meridiane; al compianto Piergiorgio Stortini, primo insegnante di matematica e a Valter Stortini suo successore; un altro grazie, non meno sentito va a Ivana Rapati e Lina Bertoni, insegnanti di italiano in ginnasio, e a Rosa Maria Andruccioli, insegnante di francese e Clelia Casadei, insegnante di fisica e matematica queste donne, con la loro dedizione e sensibilità squisitamente femminile, hanno infranto l’egemonia “maschile” che aveva contrassegnato il timbro educativo fino ad allora in voga. Unico afflato del genio femminile, in una classe, come la nostra, priva sino alla fine, di pulzelle, eunuchi e cicisbei. Merito loro, merito di chi le ha volute.

A che gridare, come nel film L’attimo fuggente, “mio capitano, o mio capitano?” La risposta o le risposte, restano doverosamente gelate nel cuore, decantate – nel duplice senso del termine – e maturate dalla vita di poi. Io conosco la mia.

Un ricordo particolare va a tutti i miei compagni. Oggi, a vent’anni di distanza, potremmo sinceramente cantare, come facevamo ieri su quel pianoforte stonato nell’aula in fondo al corridoio “compagni di scuola, ma non compagni di niente….”. Siamo rimasti uniti, forti di quella complicità, di quella goliardia ma soprattutto di quell’amicizia che il tempo non ha oltraggiato, ma consolidato. – Posso fieramente ricordare che, più o meno proclivi ad uno studio matto e disperatissimo, ognuno di loro si è fatto strada, nel mondo accademico ed imprenditoriale: nessuno di noi, purtroppo, ha fatto felice il vecchio Ippolito, che, in novissimis diebus, tra Artemisia ed Atena Glaukopis, agognava, fumando, una specializzazione futura come veterinario di un suo ex-alunno; qualcuno, invece, ha tradito la “poetica del punto dilatato” vagheggiata da Germano “occhi di bragia”, approdando ad altri eretici esiti pittorici. Resta insoluto, a distanza d’anni, un enigma intrigante, vale a dire chi preferisse (beninteso a livello letterario) il bardo di Montegiorgio: Fiammetta o Beatrice?

Dieci anni dopo, sono ritornato al “Paolo VI” come prete ed insegnante di religione al ginnasio. Ho ritrovato poche cose cambiate: immutata, era restata l’atmosfera di collaborazione tra alunni ed insegnanti, tra docenti e docenti. Si è trattato di un solo anno, non meno intenso, di cui serbo un vivido ed affettuoso ricordo. A don Giorgio, che mi rammentava il logion evangelico di Mt 10,8 “gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”, dispiacque la mia “dipartita”. Dispiacque sinceramente anche a me.

Antonio Nepi                  Alunno dall’anno scol. 1974/75 al 1978/79

<in seguito docente>

 

VITAI LAMPADA TRADUNT . . .

Vi sono ricordi che si rammentano soltanto, mentre altri, invece, appartengono allo scrigno geloso dell’anima. “Ricordare è la poetica del cuore”, scriveva E. Jabés. E mi ritrovo, forse impertinentemente, a ricordare il “Paolo VI” come alunno e docente.

Come alunno, restano indelebili i cinque anni canonici, dal 1974 al 1979. La mia classe, il V Ginnasio, fu inconscia testimone del “trapasso degli eoni”. Nel 1975, infatti, si consumò la metamorfosi del liceo Classico, esclusivamente riservato ai seminaristi, in un liceo aperto anche a studenti esterni, ragazzi e ragazze. Niente di kafkiano, alla Gregorio Samsa, per intenderci, ma qualcosa che avvenne con levità e naturalezza Vitai lampada tradidimus : ci ritrovammo ad essere l’anello di continuità tra passato e presente. Fu una svolta decisiva, che lasciò inorriditi non pochi vati ecclesiastici. Ma quella che allora parve ai più come una disperata operazione dettata dà un mero o calcolato istinto di sopravvivenza, nel tempo si è rivelata una coraggiosa apertura, una linfa culturale ed una fucina spirituale ed umana, preziose non solo per il Seminario, ma per la stessa diocesi. “Tutto questo grazie all’intuizione profetica di Mons. Bellucci, arcivescovo di Fermo, grazie al solerte e nascosto lavoro di Don Giorgio Cupidio che, come preside solitario, poi come segretario, ha garantito in tutti questi anni l’esistenza della scuola, nonché grazie all’energia di alcuni professori, in particolare delle giovani professoresse del movimento di Comunione e Liberazione.

“Forsan et haec  meminisse iuvabit”, direbbe Virgilio, imitator d’Omero. Questo ci tutela dal rischio di svendere tesori del nostro patrimonio culturale diocesano, in nome di una miope ragion di Stato economica, che non sempre sa aspettare il lento maturare delle cose, e spesso confonde l’economia della salvezza con la salvezza dell’economia.

In questa attuale temperie che esalta lo spiritualismo da stadio, ringrazio il “Paolo VI “per avermi insegnato la spiritualità dello studio. Come uomo e come prete, apprezzo il fatto di aver frequentato questa scuola cattolica, non clericale. Lo stile di vita e le modalità educative del nostro liceo erano già allora realizzati in termini partecipativi e condividendi: il valore “persona” era posto alla base dei percorsi culturali che, pur rispettando i programmi ministeriali, garantivano una personalizzazione propositiva, e quindi l’opportunità di assimilare schemi mentali, strutture cognitive aperte, dinamiche, flessibili, il senso di appartenenza al “Paolo VI” non ci chiudeva in una torre d’avorio, o in una serra ovattata, dove i rumori del “mondo” arrivavano filtrati, smorzati o ideologicamente neutralizzati. Non posso dimenticale quegli anni, duri ed intensi, di forti lotte politiche, insanguinati da stragi ed attentati, anni peraltro di urgenti istanze di riforma sociale e scolastica. Avevamo però professori che tra le pagine di Tacito e di Hegel, tra quelle sull’acido desossiribonucleico e sulla teoria, dell’entropia, sapevano farci riflettere sulla realtà, sulla responsabilità di saper leggere criticamente la storia, gli eventi del passato e del presente. Gente che non aveva bisogno di urlare ed inculcare forsennatamente la propria fede ed esperienza cristiana, ma sapeva trasfonderla pacatamente dietro un aoristo o una poesia di Leopardi. Spesso i testi diventavano folgoranti pretesti, mai comunque distorti ideologicamente. Resta ancora indelebile, ad esempio, quella settimana di dibattiti a proposito della morte di Moro, che ci vide tutti infervorati, dai ginnasiali a quelli dell’ultimo anno, a discutere con inusitata passione politica. Erano anche gli ultimi anni del pontificato di Paolo VI, costellati di momenti critici, ma anche di nuove proposte e modelli teologici per la vita ecclesiale. Tutto questo non ci coglieva impreparati, perché grazie al prezioso contributo dell’adiacente Istituto Teologico Marchigiano di Fermo, con cui condividevamo professori del calibro di Mons. Miola, Mons. De Angelis e Mons. Fagiani – allora non erano monsignori …..- Eravamo al corrente delle problematiche nel vivo delle discussioni più scottanti. La presenza concreta di coetanei e di coetanee, non sempre dichiaratamente cattolici, era una feconda occasione di dialogo, di riflessione critica, di interrogativi stimolanti, senza paure di depauperamento di compromissioni ed arroccamenti.

“Ruit hora”.    Rivisito con piacere e gratitudine quei cinque anni fondamentali e riattingo volti, momenti ed emozioni. Sono stati non solo cronologicamente rilevanti, ma anche “Kairoi” capaci di inscriversi ed incidere nel mio percorso di vita. Cinque anni dopo il liceo, sui banchi del Pontificio Istituto Biblico, mi sarebbero ritornati preziosi il rigore grammaticale e felino di don Giorgio Cupidio e la filologia condita di sapida ironia di Mons. Ippolito Crivellucci, miei insegnanti di greco e latino. Altrettanto preziose sarebbero state la sensibilità linguistica e narratologica di don Germano Liberati, mio insegnante di italiano, e l’esprit de finesse di don Armando Monaldi, mio folle e geniale insegnante di francese. Un grazie particolare, che non è solo mio, ma di tutta la classe, va a don Giulio Camilloni, insegnante di storia, allora con look gramsciano, che con talento e passione ha saputo guidarci oltre il manuale scolastico e ad allargare lo sguardo e il respiro; a don Alberto Cintio, insegnante di chimica e geografia, sin da allora vivace rockclimber che non amava il rock, nonché costruttore di meridiane; al compianto Piergiorgio Stortini, primo insegnante di matematica e a Valter Stortini suo successore; un altro grazie, non meno sentito va a Ivana Rapati e Lina Bertoni, insegnanti di italiano in ginnasio, e a Rosa Maria Andruccioli, insegnante di francese e Clelia Casadei, insegnante di fisica e matematica queste donne, con la loro dedizione e sensibilità squisitamente femminile, hanno infranto l’egemonia “maschile” che aveva contrassegnato il timbro educativo fino ad allora in voga. Unico afflato del genio femminile, in una classe, come la nostra, priva sino alla fine, di pulzelle, eunuchi e cicisbei. Merito loro, merito di chi le ha volute.

A che gridare, come nel film L’attimo fuggente, “mio capitano, o mio capitano?” La risposta o le risposte, restano doverosamente gelate nel cuore, decantate – nel duplice senso del termine – e maturate dalla vita di poi. Io conosco la mia.

Un ricordo particolare va a tutti i miei compagni. Oggi, a vent’anni di distanza, potremmo sinceramente cantare, come facevamo ieri su quel pianoforte stonato nell’aula in fondo al corridoio “compagni di scuola, ma non compagni di niente….”. Siamo rimasti uniti, forti di quella complicità, di quella goliardia ma soprattutto di quell’amicizia che il tempo non ha oltraggiato, ma consolidato. – Posso fieramente ricordare che, più o meno proclivi ad uno studio matto e disperatissimo, ognuno di loro si è fatto strada, nel mondo accademico ed imprenditoriale: nessuno di noi, purtroppo, ha fatto felice il vecchio Ippolito, che, in novissimis diebus, tra Artemisia ed Atena Glaukopis, agognava, fumando, una specializzazione futura come veterinario di un suo ex-alunno; qualcuno, invece, ha tradito la “poetica del punto dilatato” vagheggiata da Germano “occhi di bragia”, approdando ad altri eretici esiti pittorici. Resta insoluto, a distanza d’anni, un enigma intrigante, vale a dire chi preferisse (beninteso a livello letterario) il bardo di Montegiorgio: Fiammetta o Beatrice?

Dieci anni dopo, sono ritornato al “Paolo VI” come prete ed insegnante di religione al ginnasio. Ho ritrovato poche cose cambiate: immutata, era restata l’atmosfera di collaborazione tra alunni ed insegnanti, tra docenti e docenti. Si è trattato di un solo anno, non meno intenso, di cui serbo un vivido ed affettuoso ricordo. A don Giorgio, che mi rammentava il logion evangelico di Mt 10,8 “gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”, dispiacque la mia “dipartita”. Dispiacque sinceramente anche a me.

Antonio Nepi                  Alunno dall’anno scol. 1974/75 al 1978/79

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Vati non solo cronologicamente rilevanti, ma anche “Kairoi” capaci di inscriversi ed incidere nel mio percorso di vita. Cinque anni dopo il liceo, sui banchi del Pontificio Istituto Biblico, mi sarebbero ritornati preziosi il rigore grammaticale e felino di don Giorgio Cupidio e la filologia condita di sapida ironia di Mons. Ippolito Crivellucci, miei insegnanti di greco e latino. Altrettanto preziose sarebbero state la sensibilità linguistica e narratologica di don Germano Liberati, mio insegnante di italiano, e l’esprit de finesse di don Armando Monaldi, mio folle e geniale insegnante di francese. Un grazie particolare, che non è solo mio, ma di tutta la classe, va a don Giulio Camilloni, insegnante di storia, allora con look gramsciano, che con talento e passione ha saputo guidarci oltre il manuale scolastico e ad allargare lo sguardo e il respiro; a don Alberto Cintio, insegnante di chimica e geografia, sin da allora vivace rockclimber che non amava il rock, nonché costruttore di meridiane; al compianto Piergiorgio Stortini, primo insegnante di matematica e a Valter Stortini suo successore; un altro grazie, non meno sentito va a Ivana Rapati e Lina Bertoni, insegnanti di italiano in ginnasio, e a Rosa Maria Andruccioli, insegnante di francese e Clelia Casadei, insegnante di fisica e matematica queste donne, con la loro dedizione e sensibilità squisitamente femminile, hanno infranto l’egemonia “maschile” che aveva contrassegnato il timbro educativo fino ad allora in voga. Unico afflato del genio femminile, in una classe, come la nostra, priva sino alla fine, di pulzelle, eunuchi e cicisbei. Merito loro, merito di chi le ha volute.

A che gridare, come nel film L’attimo fuggente, “mio capitano, o mio capitano?” La risposta o le risposte, restano doverosamente gelate nel cuore, decantate – nel duplice senso del termine – e maturate dalla vita di poi. Io conosco la mia.

Un ricordo particolare va a tutti i miei compagni. Oggi, a vent’anni di distanza, potremmo sinceramente cantare, come facevamo ieri su quel pianoforte stonato nell’aula in fondo al corridoio “compagni di scuola, ma non compagni di niente….”. Siamo rimasti uniti, forti di quella complicità, di quella goliardia ma soprattutto di quell’amicizia che il tempo non ha oltraggiato, ma consolidato. – Posso fieramente ricordare che, più o meno proclivi ad uno studio matto e disperatissimo, ognuno di loro si è fatto strada, nel mondo accademico ed imprenditoriale: nessuno di noi, purtroppo, ha fatto felice il vecchio Ippolito, che, in novissimis diebus, tra Artemisia ed Atena Glaukopis, agognava, fumando, una specializzazione futura come veterinario di un suo ex-alunno; qualcuno, invece, ha tradito la “poetica del punto dilatato” vagheggiata da Germano “occhi di bragia”, approdando ad altri eretici esiti pittorici. Resta insoluto, a distanza d’anni, un enigma intrigante, vale a dire chi preferisse (beninteso a livello letterario) il bardo di Montegiorgio: Fiammetta o Beatrice?

Dieci anni dopo, sono ritornato al “Paolo VI” come prete ed insegnante di religione al ginnasio. Ho ritrovato poche cose cambiate: immutata, era restata l’atmosfera di collaborazione tra alunni ed insegnanti, tra docenti e docenti. Si è trattato di un solo anno, non meno intenso, di cui serbo un vivido ed affettuoso ricordo. A don Giorgio, che mi rammentava il logion evangelico di Mt 10,8 “gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”, dispiacque la mia “dipartita”. Dispiacque sinceramente anche a me.

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