Ricordo di Mons. Giuseppe Oreste Viozzi arciprete di Servigliano (di don Elio Jacopini parroco nella vicina Piane di Falerone)
Quella sera per la prima volta non fu puntuale, come lo era stato per quarantacinque anni. L’orologio aveva suonato le quattro del pomeriggio ed il suo gruppo di persone stava in chiesa e lo attendeva per il Rosario: come mai l’arciprete ritarda?
L’arciprete era morto all’improvviso, mentre scendeva in chiesa, appunto, per la Benedizione. Era l’ultima domenica dell’anno liturgico dopo Pentecoste, la domenica con la visione apocalittica della fine di Gerusalemme e del mondo. All’omelia della Messa, su quello spunto aveva inserito il pensiero della morte con accenti particolarmente commossi, che avevano reso più attento l’uditorio. Così aveva condotto a termine la sua azione liturgica, sempre svolta con ordinata ed austera religiosità, ed era uscito silenziosamente come sua abitudine.
La notizia mi arrivò poco dopo, sul filo del telefono, mentre stavo registrando il nome di un neonato nel Libro dei battezzati. Non ho saputo frenarmi ed ho pianto a lungo, sul Libro aperto, mentre i padrini mi guardavano muti e meravigliati. Essi non potevano sapere cosa rappresentava per me quell’uomo, pur severo e rude, da me tanto diverso come formazione, carattere, precisione! In lui ammiravo le doti che mancano in me e ne godevo, me ne arricchivo. Ad ogni difficoltà mi bastava comporre un numero telefonico e poco dopo la sua voce afona mi dava la risposta, precisa e sicura.
Ora, come più vicino sacerdote, avevo un dovere da compiere e corsi per l’ultima volta da lui. Trovai la grande piazza di Servigliano, di fronte alla Parrocchia, a quell’ora quasi sempre deserta, animata di gente di ogni categoria che accorreva dalle case e dalla campagna: bambini pieni di stupore di fronte ad un fatto che li tocca da vicino ma di cui stentano a capire il vero significato; donne sgomente ed in lacrime; giovani che hanno perso l’aria scanzonata della festa e si fermano pensosi; uomini il cui dolore si legge nel volto mentre parlano sottovoce. Poi arrivano i preti dei paesi vicini che tracciano un segno di croce e bisbigliano preghiere trattenendo a stento le lacrime mentre attorno a lui, apertamente piangenti, sono i più vicini di ogni giorno: il fratello Giulio, il cappellano don Lidio, la fedele perpetua.
Cerchiamo le sue ultime disposizioni e troviamo subito il testamento, nel primo cassetto della scrivania, in una grande busta rossa: un esempio mirabile di modestia, fede, delicatezza e rettitudine, preciso come tutta la sua vita. Vi è accanto un grosso volume di Cronistoria della Parrocchia, in cui ha annotato in sintesi ma meticolosamente i fatti salienti dell’attività pastorale, con la sua breve biografia e quelle dei suoi predecessori. Di sé non intendeva scrivere altro: vi leggiamo infatti, di suo pugno, « deceduto a Servigliano li… » (la data, 20 novembre 1966, l’ho poi messa io).
Era nato a Servigliano il 9 agosto 1890 da Achille, morto nel 1942 a 79 anni, e da Carolina Bruni. La madre, morta novantenne nel 1956, l’aveva sempre voluta tenere in casa con sé, avvolgendola di venerazione, specie quando aveva cominciato a declinare e perdere lucidità.
I compagni d’infanzia, ai quali rimase sempre legato da robusta amicizia che neppure la diversità di idee era riuscita ad incrinare, lo ricordano ragazzo con loro: di ingegno assai vivace ma fin d’allora molto riservato. Il Seminario, dove entrò nell’ottobre del 1904, trovò in lui un terreno adatto per piantarci seme buono e genuino, che prometteva un proficuo raccolto. Non sempre è così: per molti di noi l’aratro deve prima scavare in profondità ed a lungo, con pazienza, perché trova piante aspre da estirpare. Ma per tutti, sono dodici anni di sacrifici, poiché un ragazzo è sognatore e ribelle anche se rinchiuso in una tonaca nera e lunga. A quei sacrifici non si resiste se non c’è un ideale che li renda accettabili, così come non si discute di problemi più grandi degli uomini e si canta in serenità il Tantum Ergo, mentre i coetanei corrono al sole e cantano canzoni d’amore.
Egli, a 23 anni scriveva nel suo Diario: “Presto il mio nome si cancellerà dalla memoria degli uomini e sole rimarranno dinanzi a Dio le mie opere”. Per un temperamento così schivo e già fin d’allora negato ad ogni forma di retorica e di compiacimento delle proprie parole, questa frase è illuminante e da sola definisce i frutti che il Seminario dava nella sua anima. Non minori, d’altronde, ne dava nel suo intelletto poiché i suoi antichi insegnanti lo indicavano come il primo nel profitto e speravano che continuasse anche dopo a coltivare gli studi.
Ogni anno un gruppo di giovani arriva all’ordinazione sacerdotale e si disperde, per andare ognuno verso un punto della Diocesi. Per lui quel giorno arrivò il 18 marzo 1915; era il sabato delle Quattro Tempora e venne ordinato nella Cappella del Seminario dall’Arcivescovo Mons. Castelli. Ma poi ripartì subito per la guerra, a continuare il servizio militare fino all’agosto del 1919.
L’emozione, gli slanci, i propositi, le preoccupazioni di quel periodo le appuntò nel suo Diario con stile scarno ed incisivo. Quelle non molte pagine di un quaderno ingiallito sono piene di riflessioni acute su realtà che molti di noi hanno vissuto e sofferto, ma viste con altri occhi: la vita del Seminario, l’evento tragico della guerra (l’avanzata, Caporetto, le tradotte, il Piave, i fanti, la loro religiosità, il suo ministero, i lunghi trasferimenti…).
Al periodo passato sotto le armi è poi rimasto sempre affezionato; ma a chiarire il senso di questo suo atteggiamento valgono le espressioni di condanna della guerra che ha scritto con una forza che forse sorprenderà, a proposito della seconda guerra mondiale, e che sono riportate in questo suo libro di Cenni Storici su Servigliano.
Dall’ottobre del 1919 al novembre del 1921 fu cappellano a Pedaso e successivamente a Monte S. Pietrangeli. L’11 novembre 1921, su chiamata della Congregazione del SS. Crocefisso entra come Arciprete parroco nella Parrocchia di S. Marco a Servigliano, tra i suoi «concittadini festanti» (lo fa notare nella Cronistoria). A questo punto il suo Diario, già negli ultimi anni divenuto una semplice annotazione di date, si ferma per non più riprendere: la sua vita (forse questa ne è l’interpretazione) cessa di appartenere a se stesso e d’ora innanzi, anche nei suoi aspetti spirituali, interessa solo come vita dell’arciprete parroco, di cui parlare dunque, come si parlerebbe di altra persona, solo nella Cronistoria della Parrocchia. uarantacinque anni di ministero pastorale a Servigliano e cinquanta anni di sacerdozio. Quanto ha seminato?!
Si potrebbe precisare quanti battesimi ha impartito, quante prime Comunioni ha somministrato, quanti matrimoni ha celebrato, quanti moribondi ha assistito: sono fatti che riguardano tutta la popolazione nata, vissuta o morta in 45 anni a Servigliano. Ma per lui veramente, che ha inteso sempre e soltanto fare il parroco, la realtà dei fatti espliciti è quella che meno conta, e l’altra non è registrabile in termini umani.
Ho assistito all’8° Congresso Eucaristico parrocchiale, nell’agosto del 1948, ed ho visto l’intensa commozione spirituale di una folla imponente e raccolta. Ho ascoltato il racconto di tanti episodi di bene che l’arciprete aveva fatto a Piane di Falerone, quando ancora non c’era l’attuale mia parrocchia. Mi sono trovato alle ultime vicende del Campo Raccolta Profughi e so quanto bene vi ha profuso durante lunghi anni, quanta strada ha sempre a passo svelto percorso per portare, innumerevoli volte aiuti e sollievo a molte decine di migliaia di esseri umani di ogni razza e religione, sbattuti qua e là dalle varie vicende belliche e postbelliche.
Ho preso parte ai festeggiamenti del 50° del suo sacerdozio e tutti abbiamo in quell’occasione capito di quanto affetto fosse circondato questo prete taciturno, estraneo alle lotte di parte, sempre dignitosissimo, profondamente affezionato al suo paese e pronto a concorrere per la soluzione dei suoi problemi. Povero come può esserlo un sacerdote che si interessa solo alla ricchezza interiore e soccorre sommessamente la povertà altrui con tutte le risorse non dedicate alla sua chiesa: nulla per sé neppure una bicicletta. Non se ne è mai lamentato, come mai si è udita una sua parola sulle molte sofferenze fisiche alle quali non concesse nulla, fino alla morte. Ma quando si arrivava a casa sua, l’ospitalità era sempre pronta, cordiale, signorile.
Quando, l’ultimo momento, mi fu detto di parlare per il suo 50° di sacerdozio, in luogo di Mons. Marconi, tanto più idoneo di me ma impedito già dal male che lo avrebbe in breve tempo condotto a morte, presi coraggio da una frase pronunziata da persone del tutto lontane: «Può dirne tutto il bene che vuole: è un vero prete». Parlai sospinto da questa convinzione, che era anche la convinzione della grande folla presente, gioiosa, entusiasta, superiore a tutte le previsioni. Lui sorrideva divertito alle mie battute, ma alla fine, come dopo le prediche, mi ripeté in un sussurro rapido:” bravo, bravo”.
Quanti, fra quella moltitudine, avevano avuto una pena segreta nel cuore che lui aveva lenito? Quanti erano stati salvati dallo sconforto, o trattenuti da atti irreparabili, o semplicemente ricondotti a sorridere al prossimo? Non vi è dubbio che quella festa fu un atto di riconoscenza: nessuno poteva sapere che sarebbe stato l’ultimo.
Fu Monsignore, Cameriere Segreto di sua santità il Papa; Vicario Foraneo, Parroco Consultore; ebbe incarichi per opere culturali, assistenziali, caritative. Ma sempre e soprattutto fu l’Arciprete di Servigliano.