Titolo originale ” Lu Curatu de lu Trocchià ” Fermo 2002
IL ‘SANTO’ NUOVO
I primi annunci primaverili venivano festeggiati in paese con processioni religiose mattutine; era come voler chiedere e sperare una maggiore vitalità fertile per la campagna, per le coltivazioni in genere e per tutto il nostro organismo, un rigenerarsi per proiettarsi verso la vita.
In realtà, come ci insegna la storia, questo bisogno è talmente innato nell’uomo che presso tutti i popoli veniva festeggiato il risveglio della natura con riti di purificazione, con feste, cerimonie, quasi che l’uomo ne sentisse necessità particolari. Basti pensare che i nostri antichi progenitori, i Piceni, sciamarono dalla conca reatina nel Teramano e a nord del Tronto, proprio per voto di primavera sacra.
Durante una processione religiosa (detta delle Rogazioni) un bambino, svegliato in anticipo frignava o piagnucolava assonnato… Don Costanzo in paramenti sacri, senza pensarci due volte, gli si avvicinò calmo, con il grande reliquiario, lo abbassò all’altezza del piccolo. “Zitto, se no ti faccio mangiare dal momò”. Il piccolo sgranò gli occhi, si aggrappò alla gonna della mamma e tacque; non potemmo neanche questa volta frenare una sonora risata all’intimazione dello spauracchio.
La processione cominciava a snodarsi lungo il strada principale del paese con la statua mariana. “Ti salutiamo, o Vergine, colomba tutta pura / nessuna creatura è bella come Te!”. Tale era il canto per la Madonna, il suo splendore e la sua angelica beltà.
Un’altra processione che ricordo con simpatia è quella in onore di Sant’Antonio dalla barba bianca, protettore degli animali, santo temuto ed amato dai nostri contadini. Secondo il curato, tale festa, doveva competere e distinguersi da quelle dei paesi vicini, con un rapporto di competizione e di curiosità. Questa ricorrenza era piena di abitudinarietà e di superstizione, ma molto coinvolgente…
Le campane suonavano a distesa e richiamavano campagnoli, che ben rasati e tirati a lucido gremivano la chiesa oltre l’inverosimile. “Tengono più a Sant’Antonio, che al buon Dio” ripeteva Don Costanzo; sulla piazzetta, davanti la chiesa, portavano le loro bestie strigliate, infiocchettate, per ricevere la benedizione solenne. La statua di Sant’Antonio campagnolo, con il lungo bastone e il porcellino era piena di luci e di offerte…
“Già, era lui, che allontanava le calamità dalle stalle, che proteggeva le nascite dei torelli, o il latte delle mucche… Credo proprio che il buon Dio avrà senz’altro sorriso molto di questo torto o sgarbo dovuto alla popolare credenza!
A proposito di Sant’Antonio c’è un fatto curioso con una venatura leggermente “blasfema”. Da tempo era venerata in chiesa una statua di detto santo, ma tarlata, fatiscente e non più atta al culto. Si pensò allora di sostituirla con una nuova e Pasquale, attivista delle festa, si offrì di farla fare a sue spese. Mise a disposizione un tronco di pero del suo podere e si Impegnò a pagare lo scultore.
Per quanto riguarda la “materia prima” non costituì per lui un sacrificio. L’albero non aveva mai dato frutti. Era sì un tronco possente e robusto di pero e per ricavarne la statua ci volle del bello e del buono, ma alla fine sotto le mani esperte dello scultore venne fuori una statua solenne e maestosa e al solo guardarla imponeva rispetto e riverenza.
L’aspetto solenne e ieratico era così imponente che si dovette cambiare anche il cavallo. Per dare un’idea approssimativa delle proporzioni, la statua era come un granatiere in mezzo ai soldati di fanteria di statura inferiore a quelle dei granatieri.
Posta la statua alla venerazione dei fedeli, Pasquale si recò a pregare con fervore per il fatto che nella sua stalla una giovane mucca era malata e si sarebbe perso un capitale di guadagno e di lavoro. Desiderava che il santo, dopo il suo dono, avesse a fare la grazia della guarigione. Ecco che si sente battere alle spalle. Era suo figlio! “O babbo, la manza è morta!” disse con voce rotta.
Pasquale esclamò a forte voce e collera. “Il peggio viene dopo. Tu sei come il veterinario che per guadagno si mette d’accordo col macellaio”. Aggiunse riferendosi al legno, materia prima della statua: “Tu non hai fatto nemmeno le pere?”
Il fatto era accaduto tempo prima. Evidentemente quell’enorme statua è stata sostituita con altra di dimensioni comuni. Ma il fatto fece tanto scalpore che per vario tempo girò per il paese una poesia dialettale carina ed efficace al riguardo e che s’intitolava appunto “Lu santu novu”.
I FUNGHI E LA PROVA DEL GATTO
In occasione di un’altra festività, mi sembra Pentecoste, il curato chiese ed ottenne l’aiuto di alcuni frati per le confessioni generali.
Proprio il giorno precedente, un montanaro, aveva portato in dono a don Costanzo un cestino di funghi. Secondo il parere delle perpetue avrebbero profumato e reso più gustose le tagliatelle, ma chi garantiva veramente sulla loro non velenosità?
“La cosa era semplice; secondo don Costanzo, bastava intingere un po’ di pane nel sugo e farlo assaggiare ad uno dei tanti gatti in giro per la canonica. Se fosse sopravvissuto…”. Così fu fatto e non ci fu responso negativo.
A pranzo mangiavano con gusto; gli stessi frati furono entusiasti… sul loro desco non sempre avevano l’opportunità di avere cibi così succulenti… Erano alla fine, quando, come una saetta, Peppina, che era scesa in cantina a prendere il vino cotto, si diresse verso il curato e gli farfugliò all’orecchio qualcosa.
In cantina aveva visto il gatto che miagolava e si contorceva… quindi i funghi erano velenosi; avevano evidenziato i loro effetti con ritardo, ma non c’era dubbio, erano velenosi…
Lascio immaginare al lettore il parapiglia e lo sgomento di quel momento: che fare? Bisognava interpellare subito un medico, chiamare il pronto soccorso, assumere del latte, vuotare immediatamente lo stomaco…
Il frate più anziano, però, si volle far accompagnare in cantina per controllare di persona il gatto e constatare la gravità dell’avvenimento, ma quale non fu la sua sorpresa nel vedere due bei micetti nati da poco. La gatta (e non il gatto) si contorceva, ma per il parto…
Passato lo spavento, ci risero sopra, ma questo fatto ancora oggi viene raccontato, soprattutto in convento.
*GRANDE EVENTO
L’avvenimento che coinvolse entrambi, curato e maestro, fu l’arrivo dei bersaglieri. Don Costanzo mi esortava spesso a far cantare canzoni patriottiche agli alunni, perché attraverso queste c’era l’assimilazione della storia, c’era l’interiorizzazione e la personalizzazione della conoscenza.
A far nascere la forte curiosità in tutti i bambini di conoscere da vicino, dal vivo i bersaglieri fu proprio una di queste canzoni: “Quando passano per via, gli animosi bersaglieri…” inoltre fu la guerra di Crimea, studiata con gli alunni di quinta classe (in quell’epoca un unico insegnante aveva affidate cinque classi; c’era la famosa e deprecata pluriclasse) e furono le famose figurine Liebig, che riportavano immagini di giovani bersaglieri con i bei cappelli piumati.
Potevo deludere questo desiderio più che naturale degli alunni? Ne parlai con il curato che, impegnato oltre l’inverosimile con ritiri per il clero, con commissioni economiche, mi diede il suo pieno consenso per ogni iniziativa, che volevo prendere a riguardo, mi offriva il suo sostegno morale, ma lasciava al mio estro ogni decisione da prendere.
Fu spedita subito una lettera al colonnello dei bersaglieri, che prestavano servizio nel capoluogo di provincia, anzi, gli alunni acclusero anche la cifra di cinquecento lire ricavate dalla vendita di uova. Chiedevano di poter vedere, di parlare, di fotografarsi con due bersaglieri, per intervistarli e sapere alcuni dati importanti del loro servizio e della loro vita; la somma era per la spesa-viaggio che avrebbero sostenuto.
Il colonnello, sensibile e carico di grande umanità, non ci fece attendere molto la sua risposta. Non solo sarebbero giunti in due ma ne sarebbe venuto un plotone. L’arrivo a passo di corsa, con trombe squillanti fu d’un godimento unico; festoni, striscioni, bandierine abbellivano l’avvenimento, che toccava tutti nel profondo dell’animo.
Che dire degli alunni? Il loro cuore aveva accelerato il battito, il sorriso sprizzava gioia, le mani s’intrecciavano con forza ed entusiasmo. La notizia diffusa prontamente dalla radio richiamò sul luogo tantissima folla festante, applaudente, attenta.
Fu per tutti, me compreso, uno shock rivitalizzante ed arricchente. Gli stessi superiori: Provveditore, Ispettore, Direttore mi inviarono lettere di plauso e di consenso. Ne parlarono molto i quotidiani, riportando anche aneddoti curiosi, come quello di un contadino, che, per non perdere l’occasione di ammirare i bersaglieri, falciò il suo grano, giunto a maturazione, per tutta la notte.
Chi però gioì in segreto, senza far pesare i consigli dati, senza apparire in prima persona, né nel comitato organizzatore, creato per l’occorrenza, né tra le personalità in vista, fu proprio Don Costanzo. Quando si spensero le luci della festa, quando ritornò il silenzio, e stavo raccogliendo i fogli delle declamazioni dei bambini… chi vedo alle mie spalle? Proprio lui, il curato, che, abbracciandomi fraternamente, era felice per me e con me. Aveva voluto lasciare a me solo l’onore ed il vanto dell’iniziativa.
Chiesi il perché di tale comportamento, ma con semplicità e sincerità mi rispose: “Ti meriti questo ed ancor di più”. Dice Sant’Agostino: “Avanza, non ti smarrire, non tornare indietro, non arrestarti. Canta e cammina”.
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ASCOLTO E SOLIDARIETA’
In confessione ascoltava tutti con discreta comprensione e sufficiente bontà, soprattutto quelli che, saputo della sua generosità, raggiungevano Torchiaro da distante, per scaricare cannonate morali. Ripeteva: “Non sono io che perdono, ma quel povero Cristo, che ha sofferto ed è morto in croce per questi”:
Se però un o una penitente sceglieva orari sbagliati, spesso sentiva rimproverarsi “Figlio mio, o figlia mia, proprio adesso t’è venuto il pentimento? Spicciati, devo andare alla Mutua o al Consorzio, Nostro Signore sa… tutto. Alla fine impartiva la benedizione e l’assoluzione.
Aveva una grande avversione per le suocere che confessavano le loro animosità verso le nuore; spesso chiudeva loro lo sportello in faccia, o le rimbrottava dicendo: “Vergogna, sei invidiosa.” La penitente si dileguava celermente.
Famosa è rimasta qualche confessione di penitenti che non potevano raggiungere il confessionale. Andava il prete e una volta usò come grata uin corbello; altre volte col setaccio per non mettere in difficoltà il penitente.
Oggi, tutto è semplice e facile, anche le confessioni “a viso aperto”, ma a quei tempi… c’era un grande timore per il viso scoperto.
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Don Costanzo viveva pienamente la solidarietà, la gioia del dono; ogni giorno a suo modo scriveva una pagina di bene, senza ricorrere a molte parole. Ho davanti agli occhi quel povero spazzacamino, che ospitò nella sua canonica con amicizia fraterna. Lo aveva incontrato a Fermo. Lo spazzacamino gli aveva offerto in vendita un almanacco; era il “Barbanera di Foligno”. Don Costanzo, quel giorno, aveva dimenticato a casa il portamonete e non aveva il becco di un quattrino; non osò chiederli in prestito, perché nessuno gli avrebbe creduto. Giunto a casa, vidi delle lacrime rigargli il viso. Mi chiese di andare in città a rintracciare lo spazzacamino. Certo non fu facile, ma ci riuscii con l’aiuto di alcuni volenterosi. Lo portai a Don Costanzo. Lo spazzacamino non credeva ai suoi occhi; viveva in un’atmosfera di irrealtà; abituato alla solitudine, all’attesa, selvaggio e randagio, stentava a credermi. Giunti a casa del curato i suoi occhi si bagnarono di commosso stupore. Vi rimase per una settimana. Il commento di Don Costanzo fu solo: “E stata una vera grazia! Cristo cammina ancora scalzo e nudo per le strade”.
IL PRETE NERO E IL ‘MADONNARO’
La novità di un viso nero (“Musonero” lo chiamavano i curiosi) a Don Costanzo suggerì un’idea brillante. Da un po’ di tempo, la frequenza alla Messa domenicale lasciava a desiderare. Nella vicina Fermo, i missionari della Consolata avevano un sacerdote indigeno del Kenia, di pelle nera. Allora lo invitò a celebrare la Messa domenicale. Avvisò puntigliosamente tutti e, vuoi per il missionario nero, vuoi per la curiosità, nessuno sarebbe rimasto a casa.
Se non che, il sabato morì Lisa, a 99 anni, quando già si stavano preparando i festeggiamenti per il compimento del secolo. I funerali occorreva celebrarli proprio la domenica. Ormai i parrocchiani sapevano del prete nero; non si poteva tornare indietro, la credibilità costanziana sarebbe scaduta. La domenica, la chiesa era affollatissima; il prete nero rivestito anche dei paramenti neri, mettendo in mostra una chiostra di denti bianchissimi, celebrò la messa funebre. Va bene che Luisa aveva 99 anni e mesi, quindi la sua morte era quasi un fatto naturale, ma vedere, quel sacerdote africano, con i paramenti neri, cantare le esequie, pronunciando un latino stentato, molto diverso da quello di Don Costanzo, fece sì che il fervore, la commozione passassero in seconda linea…
Don Costanzo approfittò della circostanza per dare alcuni avvisi, ma soprattutto mise in risalto che perché era venuto un nero, le loro “anime nere” erano tornate all’ovile…
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ESORCISTA. All’inizio di questo mio racconto di diario sostenevo che Don Costanzo era un po’ di tutto: sacerdote, consigliere, veterinario, fratello, giudice…ed anche esorcista.
Ai più intimi raccontava spesso un episodio strano: salsicce e salami che, in una casa, di notte, compivano giri strani o salti da una stanza all’altra. Don Costanzo andò, benedì ripetutamente, confessò i componenti della famiglia, fece distribuire le salsicce ai poveracci e finalmente ritornò pace e tranquillità.
Quell’esperienza, per tre giorni, gli aveva tolto lo scilinguagnolo, il cuore gli batteva come una foglia sotto la tramontana. Ci volle vino e vino per rimettergli un po’ di calore nel sangue!
CHI DIPINGEVA MADONNE. Un giorno Don Costanzo incontrò un “madonnaro”. Uno di quelli che dipingono Santi e Madonne con gessetti colorati sulle piazze, sui marciapiedi. Era magro, allampanato. Se lo portò a casa. A Torchiaro non c’erano grandi superfici lisce per dipingere; la piazza era un acciottolato, le vie sconnesse e dissestate, forse anche l’animo di Don Costanzo era ruvido e ruspo, ma era quello del burbero benefico ed il “madonnaro” lo capì e ne fu commosso!
Non lasciò alcun suo lavoro, ma promise che, a Dio piacendo, sarebbe ripassato forse tra un anno… o due… Chissà?
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TRASFERIMENTO. L’anno scolastico volgeva alla fine; Don Costanzo che aveva riposto in me non so quali arcani disegni, seppe dalla stampa che ero stato trasferito in una sede scolastica più grande e più vicina a casa mia. Ne fu addolorato anche se, onestamente, capiva che era umano ambire ad un riavvicinamento. “Adesso chi mi scriverà le belle lettere come sapevi fare tu? Chi mi terrà compagnia nelle partite?”
Intanto il nuovo edificio scolastico stava diventando una realtà; Don Costanzo si sentiva felice, realizzava un sogno accarezzato da tanto tempo ed anch’io ero orgoglioso di avere contribuito in qualche modo a questo.
Il distacco dal paese sarebbe stato meno amaro; lì lasciavo qualcosa di mio. Ero lusingato anche perché gli alunni avevano preso a studiare volentieri, a leggere, a ricercare, senza molte difficoltà; avevano scoperto che il sapere può essere fonte di gioia e di conquista.
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L’ultimo giorno di scuola non mancarono foto-ricordo; anche qui ci fu una nota curiosà; la piazzetta era popolata da piccioni grigio piombo, che volavano in gara a stormi intorno al campanile…
Uno, planando come un aliante, poco educatamente lasciò cadere un piccolo rifiuto sul viso di un bambino che naturalmente scattò… Di conseguenza prese un bel ceffone dal curato il quale, però, non avendo dosato bene la forza, lo fece sbattere col compagno vicino creando così un parapiglia… e costringendo il fotografo a ripetere diverse volte la messa in posa… che sembrò un’eternità.
In quell’occasione, vidi ai piedi di Don Costanzo un paio di scarpe nuove, fiammanti… come se dalla foto si fossero potute notare…; “Beata semplicità” mormorai tra me e me…; seppi poi che tutto era stato orchestrato da Peppina e da Pasqualina, che non volevano si ripetesse “il fattaccio” riportato dai giornali quando era venuto Gronchi. Infatti, anche la veste di Don Costanzo aveva qualcosa di diverso: era stata passata pezzo per pezzo con un’erba che possedeva le virtù di ridare alla stoffa lucentezza e pulito, erba di certo superiore agli attuali detersivi.
Ci fu anche un pranzo di saluto con squisite tagliatelle alla papera, agnello scottadito, profumato, fatto su brace ardente, forte “acqua dell’Aso” cioè un mistrà casereccio in uso dalle nostre parti.
Non mancò il discorso di saluto di Don Costanzo, che pubblicamente mi fece promettere di ritornare spesso colà. Giurai che volentieri sarei tornato; ormai Torchiaro era, come scrisse Silone in un suo romanzo, “il paese della mia anima”. Lì infatti avevo trovato amicizia vera, felice, autentica: avevo trovato una mia seconda famiglia e poiché ero orfano avevo trovato in lui anche un padre, con affetto vivo, delicato ed educante.
Da Don Costanzo avevo imparato ad essere con gli altri, a vivere con gli altri, a comunicare insieme; avevo imparato ad amare la solidarietà, la gratuità, perché avevo capito che nessun uomo è un’isola, ma una parte viva, una cellula rigeneratrice di tutta l’umanità.
Dice un proverbio orientale: “Se hai un amico, vai spesso a trovarlo, perché le spine e le erbacce invadono il sentiero che non viene percorso…”. Io feci proprio questo.
Anche dopo il mio trasferimento, continuai a mantenere i contatti con alcune famiglie dei mie ex alunni e con Don Costanzo.
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Tornavo a trovarli nei giorni di vacanza, o in occasione di festività. Una di queste era la Sagra del Paese, in onore dei Santi Simone e Giuda, protettori di Torchiaro. Secondo Don Costanzo, questi concedevano molte grazie, perché nessuno ce li sapeva; erano santi “disoccupati”, senza tanti “clienti”.
“Una parrocchiana, dopo essersi rivolta a S. Antonio da Padova per sistemarsi, pregando poi i Santi suddetti aveva trovato subito marito…” raccontava il curato. Invenzione, caso, fortuna? Chissà!
La festa era un lieto ritrovarsi, un fare baldoria insieme. Le giovani rinnovavano il guardaroba, i giovani aspettavano questa occasione, per presentare calde dichiarazioni d’amore. C’era la banda, poi i fuochi artificiali, la tombola, il palo della cuccagna… Non mancavano stornelli, saltarelli, che facevano accorrere gente anche dai paesi vicini.