NEPI GABRIELE IL PARROCO DI TORCHIARO RACCONTI MEMORIA DIARIO

NEPI GABRIELE – RACCONTI AMENI – Utefe 2002
\Premessa\ “I nostri pensieri, le nostre parole sono onde provenienti da una memoria sigillata testimone del nostro passato” ( Gibran II Profeta )
. – LU CURATU DE LU TROCCHIA’ –
Più volte avevo pensato di raccogliere qualche pagina del diario dei giornio che furono, riguardanti l’inizio del mio minsegnamento, a ciò incoraggiato anche da amici e testimoni di vicende di singolare originalità.
Per questo, ho preso carta e penna e mi sono accinto alla “nobile impresa”, trascrivendo i ricordi che la memoria affettiva risvegliava nel mio animo.
È nata così questa storia semplice, che narra un’amicizia genuina e vicende vissute nel periodo del mio primo anno d’insegnamento. Personaggio dominante è senz’altro don Costanzo, visto nel ruolo principale di parroco (cui si univa quello di farmacista, commerciante, medico, agronomo, tuttofare, per il bene del paese e dei parrocchiani) e ciò senza tralasciare di evidenziare le sue particolari caratteristiche di uomo quanto mai spontaneo, sincero, capace di slanci generosi. – Nato a Monte Vidon Corrado (paese di Osvaldo Licini, vincitore della Biennale di Venezia 1958), dal 1913 era curato di Torchiaro. In alcuni racconti, le situazioni narrate assumono toni vernacolari forse un po’ buffi:Mza non è stato facile tradurre in pensiero la voce e la mentalità di don Costanzo, che colorava il suo dire in un modo tutto personale e a volte di dubbia ortodossia. Il suo fare però si inseriva perfettamente nel contesto umano e paesano di allora, oggi naturalmente molto diverso e trasformato.
Nel raccontare non è stato cercato né l’effetto facile, né la resa compiacente al gusto immediato del lettore; ogni parola è voce di ricordi, di piacevoli esperienze, vissute in prima persona e che compaiono in queste semplici pagine, che vogliono essere una finestra aperta su un piccolo mondo, o se volete, sul “mitico” don Costanzo, passato alla storia per quel suo “particolarissimo” modo di essere prete, difficile da definire, ma reale e appagante. – Gabriele Nepi –
L’INCONTRO < DEL MAESTRO Gabriele Nepi>
Ero stato destinato, come insegnante elementare di prima nomina, a Torchiaro, un tranquillo paesino dell’entroterra fermano. Piccolo, un po’ medioevale, ma pieno di attrattive, arroccato a 190 m. d’altitudine e a 5 chilometri da Ponzano, che fungeva da Comune.
Un percorso, a linea spezzata mista, conduceva alla chiesa parrocchiale. Questa, e la scuola elementare erano tutt’uno, poiché quest’ultima era stata ricavata proprio dall’abitazione del parroco, che generosamente aveva concesso i locali.
La costruzione risultava l’edificio più grande di questo paese, vecchio, robusto, con stradine strette e tortuose, quasi fuori tempo, abitato da gente semplice, ma buona e laboriosa.
Qui non mancavano: aria fresca ossigenante, garruli voli di rondini intorno al campanile, ginestre, gerani sulle porte, musco… sembrava quasi un presepe in attesa.
Quel primo ottobre giunsi che la gente ancora dormiva, ma non il ‘Curato’ (così chiamavano il parroco) del luogo.
Avevo già sentito parlare di lui…; per alcuni, scomodo e spinoso; per altri, bizzarro, ma generoso; per altri ancora, saggio, bonario, arguto, scanzonato.
Poco incline, per natura, ai giudizi altrui, perché spesso attingono dal pettegolo, dal cattivo o dall’insidioso, ero curioso di conoscerlo, di scoprirlo da solo.
Come lui udì il rumore della mia Vespa… si fece sulla porta della chiesa, mi guardò un attimo… poi in un abbraccio caloroso, paterno, palesò subito il suo buon cuore e la cordiale simpatia.
Mi accolse come un figlio; in quell’istante mi tornò alla mente l’immagine del Padre buono, che ansiosamente attende il ritorno del figliol prodigo.
Certo, io non ero scappato, ma Don Costanzo (era questo il nome del curato) aspettava il mio arrivo, per ridestare il paesino, perché, diceva, attraverso un giovane educatore tentasse un’ascesa, diventasse famoso, si risvegliasse un po’.
In realtà, si creò subito tra noi una “complicità” di generosità e di collaborazione sociale, scandita da avvenimenti semplici, ma talvolta clamorosi, tali da finire sulle prime pagine dei giornali nazionali.
Mi invitò a prendere un caffè; l’ingresso della sua casa era pieno di scatole, scatoline, sacchi, bottiglie, bottigliette…
“Qui manca la farmacia!”. “Qui, non c’è un Consorzio Agrario!” aggiunse; poi subito, con la sua voce forte, nasale chiamò: “Peppinaaa, Pasqualinaaa!”.
In men che non si dica, apparvero due donne, due tipi curiosi, vestite di scuro, fazzoletti in testa, strofinacci in mano, pronte ad eseguire gli ordini…
Il mio occhio intanto vagava per l’ambiente e osservava: tende scure, pesanti, poi mosche sulla parete, mosche alle finestre, mosche sulle lampade… Ogni tanto il silenzio era rotto da un “tac tac”; era una delle donne che spiaccicava e spacciava qualche mosca…
“Adesso basta ad ammazzare mosche, preparate il caffè al nuovo maestro”, esclamò Don Costanzo.
Scomparvero come saette e dopo un po’ tornarono con due tazzine fumanti… Stavo sciogliendo lo zucchero, quando una mosca, in picchiata, cadde nella mia tazzina.
L’imbarazzo era grande; che fare? Il buon curato mi guardò come per dire: “Beh, che aspetti, il caffè è buono, caldo!”.
Contemporaneamente il suo occhio sagace andò sulla mosca che galleggiava, e senza scomporsi, intinse due dita nel caffè, afferrò l’insetto e porgendomi la tazzina esclamò: “Non ti preoccupare, a tutto c’è rimedio, fuorché alla morte!”.
Ricordo che, eroicamente, deglutii in un sol sorso quel caffè, scottandomi la lingua ed imparai subito che bisogna abituarsi a tutto.
Quello stesso giorno mi invitò a pranzo; declinai gentilmente ma fermamente l’invito, adducendo come scusa impegni già precedentemente presi. Il pensiero della mosca mi dissuadeva…
* * *
Nella prima messa domenicale, mi presentò ufficialmente alla comunità paesana, anche se già aveva parlato di me a tutti; la sua casa, infatti era un po’ come la piazza; lì ciascuno sapeva dell’altro, e lui, il curato, conosceva tutti meglio delle proprie tasche.
In seguito, proprio durante le celebrazioni, assistei ad omelie, che mi richiamavano continuamente nella mente il don Camillo in chiave combattivo-umoristica.
Dava colore alle parole, calore alle frasi, efficacia alle espressioni: trovava la risposta giusta, adeguata al momento giusto.
Del personaggio di Guareschi aveva anche un po’ l’aspetto fisico… In carne, ben colorito, naso preminente, capelli bianchi diradati; di don Costanzo subito emergevano: le scarpe larghe, deformate, spesso risuolate due o tre volte; le mani ossute, poderose, gesticolanti e la poca eleganza, anche se indossava, sempre la veste talare. Questa, un po’ svasata dietro, gli arrivava al polpaccio, ma sul davanti rimaneva ancora più corta per via di un bel po’ di pancia (abbastanza arrotondata). Soffriva molto il caldo ed era sua abitudine asciugarsi e strofinarsi viso e mani col fazzoletto. Questo aveva i colori più strani… rare volte infatti glielo vidi bianco, spesso rosso, blu, verde, sul tipo di quelli che nel periodo della mietitura o della vendemmia annodavano intorno al collo i nostri contadini marchigiani e che si vendevano a pochi soldi sulle bancarelle alla fiera.
Di Don Costanzo non potrò mai dimenticare la spiegazione del Vangelo che parla delle nozze di Cana. Lo spiegava con vivezza, sembrava un attore consumato, mimava addirittura la scena abilmente con alta professionalità. «E quelli mangiano e bevono, bevono e mangiano e cantano, inneggiano agli sposi. Ad un tratto, che è non è, si scopre che il vino era finito. Un pranzo di nozze senza vino?? Inaudito! ! !».
«Allora – continua Don Costanzo – la Madonna con supplice sguardo si rivolge a Gesù e gli dice “Non hanno più vino” Gesù tace alquanto, poi la guarda fisso e sbotta “E che te ne frega a Te?”». Dovetti uscire dalla Chiesa per frenare il riso e di conseguenza per non dare scandalo… Un commento al Vangelo così reale non l’avevo mai udito!
* * *
All’alba, durante la celebrazione eucaristica, il campanello, all’elevazione, spesso taceva; il chierichetto un po’ insonnolito rifaceva il suo pisolino, o magari si distraeva a giocare a palline sui gradini dell’altare.
Don Costanzo (all’epoca il celebrante volgeva le spalle all’assemblea) con la coda dell’occhio seguiva ogni mossa ed il più delle volte, per richiamare al dovere il chierichetto, gli sferrava un sonoro calcio. Il malcapitato, allora, con tutta la forza che aveva, afferrava il campanello, che trillava così fortemente e acutamente da sentirsi anche a distanza di diversi metri.
Si udiva subito qualche mamma gridare: “Svegliati, la Messa sta all’elevazione, perdi la corriera”…
Quel trillo quotidiano, era quindi la sveglia utile per alcuni studenti, che dovevano raggiungere la vicina Fermo per frequentare la scuola secondaria superiore.
Un servizio sociale anche quello, visto che in paese mancava un orologio pubblico.
Quando si pregava, spesso le orazioni in latino venivano storpiate; il “latino maccheronico” faceva andare in bestia Don Costanzo: Ttura ‘ssa vrugna; Dormo jo’ l’ara; Fidele Nzacca, Reggina de zzinale de Concetta (che dal dialetto allude alla prugna; all’aia; all’insaccare; al grembiule o zinale, trasposizioni per Turris eburnea; Domus aurea; Foederis arca; Regina sine labe concepta).
Inutile dire, se le letture bibliche richiamavano vitelli, buoi, capre e pecore… lo spunto era eccellente per reclamizzare prodotti chimici, così come la vigna, il fico che non dava frutto, il seme che non germogliava.
Omelie che parlavano di latte scremato, in polvere, di alimenti di altissimo valore biologico, di terreno povero di sali minerali, di microbi, di vomito o di diarrea…
La farmacia era lì, dietro la chiesa e Don Costanzo, all’occorrenza, era avvocato, perito, medico, veterinario; era un uomo tra il contadino e il signore, con un sorriso aperto, sincero che contrastava un po’ con la voce gracchiante, era amante del frizzo e delle barzellette, faceto e spiritoso.
Frequentava spesso il mercato di Fermo: comprava, vendeva, mediava di tutto e con tutto.
Se per caso il compratore si accorgeva di qualche errore o raggiro, Don Costanzo, senza scomporsi, col suo solito simpatico umorismo gli ribatteva: “che ci vuoi fare, figlio mio, noi preti sappiamo addizionare bene, moltiplicare meglio, ma sottrarre un po’ meno, dividere poi per niente”.
Gli batteva una mano sulla spalla, lo invitava a bere un bicchiere e subito il battibecco cessava e l’affare si concludeva.
Arrotolava i soldi nel rosso largo fazzoletto, lo annodava, poi lo sistemava nella borsa o in tasca.
Non tutti i soldi però erano insieme; diceva che era meglio distribuirli in più parti, per prudenza, perché c’erano mani veloci e magiche che in un batter d’occhio sapevano farli sparire.
Molte volte lo sentivo sollecitare la devozione a Santa Margherita da Cortona; una volta gli chiesi la motivazione e lui, con un sorrisetto malizioso, asserì: “Fermagli d’oro tra i capelli, viso dipinto, profumo; ti dicono niente?”.
“Ma poi la conversione, la carità ai poveri, l’aiuto ai malati una seconda Maddalena, ecco perché ad alcune donne raccomando di pregare questa Santa…”.
Era fatto così; le sue riflessioni sulla realtà familiare, sociale, politica erano semplici, senza toni apologetici, ma pertinenti, coerenti, efficaci.
* * *
Non si commiserava mai, ma si guardava dentro in un dialogo continuo con Dio, fatto a modo suo, ma che certo era autenticamente vero.
A proposito della donna soleva dire che questa a quindici anni è limpida come l’acqua di fonte; a venti anni è limonata; a trenta anni spumante; a quaranta anni, vino da pasto; a cinquanta anni aceto ed aggiungeva, spesso anche torbido…
Concludeva poi: “ C’era una volta un uomo intelligente, ma prese moglie e non capì più niente!”
La prospettiva che mi presentava non era certo entusiasmante e lusinghiera.
Le sue lezioni di catechismo in classe avevano una straordinaria efficacia esplicativa e formativa. Gli alunni capivano ed ascoltavano con interesse.
Creava, ogni volta, un clima di attesa e di curiosità, usava paragoni ed immagini sorprendentemente simpatiche e concrete. Ad esempio… La chiesa, il papa, l’unità, era facile a capirsi diceva che bastava guardare il mucchio di paglia, o pagliaio, che molti avevano vicino casa. Il palo, cioè il papa, sosteneva tutta la paglia intorno a sé, che nonostante il vento, rimaneva unita, pronta per l’utilizzo; ma se togliamo il palo, addio paglia! Tutto vola al vento!
I misteri della fede, i dogmi erano presentati da Don Costanzo come momenti solenni, di profondo rispetto, come attimi di sospensione. Secondo lui, se tutto fosse chiaro, spiegabile, il Cristianesimo sarebbe stato scialbo, insipido… vino annacquato. II mistero invece è il cuore colorato del Cristianesimo.
Oggi, ripenso a quelle sue affermazioni e istintivamente le collego al film di Tarkovsky su Andrej Rubley, autore dell’icona della Trinità: lo spettatore deve prima compiere un lungo viaggio in bianco e nero per poi essere introdotto, in uno splendore di colori, alla contemplazione dell’icona trinitaria.
Simpatica era anche la conclusione che il curato faceva alla parabola della pecorella smarrita e cioè che vicino al cuore di Dio ci sono pecorelle ubriache, stanche, esaurite… “Quelle ubriache”, poco rispondenti al vangelo, era un chiaro messaggio a qualche abitante del luogo, che spesso alzava il gomito. Ma non basta…
Allora il Vangelo era letto in latino ed a un certo punto sempre a proposito di pecore recita il latino \mee me \ che si traduce “e le pecore mie mi \mee me\ conoscono” con tale brio ed efficacia che si sentiva con onomatopeica efficacia il belato della pecora “mee, mee,”.
.\-.\-titolo originale “Lu curatu de lu Trocchià ” Utefe Fermo 2002 NEPI Gabriele

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