NEPI GABRIELE SCRIVE IL DIARIO A RICORDO DELL’AMICO PRETE DI TORCHIARO. Racconti ameni

NEPI GABRIELE – RACCONTI AMENI – Utefe 2002
\Premessa\ “I nostri pensieri, le nostre parole sono onde provenienti da una memoria sigillata testimone del nostro passato” ( Gibran II Profeta )
. IL CURATO DI TORCHIARO (Ponzano di Fermo)- LU CURATU DE LU TROCCHIA’ –
Più volte avevo pensato di raccogliere qualche pagina del diario dei giorno che furono, riguardanti l’inizio del mio insegnamento, a ciò incoraggiato anche da amici e testimoni di vicende di singolare originalità.
Per questo, ho preso carta e penna e mi sono accinto alla “nobile impresa”, trascrivendo i ricordi che la memoria affettiva risvegliava nel mio animo.
È nata così questa storia semplice, che narra un’amicizia genuina e vicende vissute nel periodo del mio primo anno d’insegnamento. Personaggio dominante è senz’altro don Costanzo, visto nel ruolo principale di parroco (cui si univa quello di farmacista, commerciante, medico, agronomo, tuttofare, per il bene del paese e dei parrocchiani) e ciò senza tralasciare di evidenziare le sue particolari caratteristiche di uomo quanto mai spontaneo, sincero, capace di slanci generosi. – Nato a Monte Vidon Corrado (paese di Osvaldo Licini, vincitore della Biennale di Venezia 1958), dal 1913 era curato di Torchiaro. In alcuni racconti, le situazioni narrate assumono toni vernacolari forse un po’ buffi; ma non è stato facile tradurre in pensiero la voce e la mentalità di don Costanzo, che colorava il suo dire in un modo tutto personale e a volte di dubbia ortodossia. Il suo fare però si inseriva perfettamente nel contesto umano e paesano di allora, oggi naturalmente molto diverso e trasformato.
Nel raccontare non è stato cercato né l’effetto facile, né la resa compiacente al gusto immediato del lettore; ogni parola è voce di ricordi, di piacevoli esperienze, vissute in prima persona e che compaiono in queste semplici pagine, che vogliono essere una finestra aperta su un piccolo mondo, o se volete, sul “mitico” don Costanzo, passato alla storia per quel suo “particolarissimo” modo di essere prete, difficile da definire, ma reale e appagante. – Gabriele Nepi –
L’INCONTRO < DEL MAESTRO Gabriele Nepi>
Ero stato destinato, come insegnante elementare di prima nomina, a Torchiaro, un tranquillo paesino dell’entroterra fermano. Piccolo, un po’ medioevale, ma pieno di attrattive, arroccato a 190 m. d’altitudine e a 5 chilometri da Ponzano, che fungeva da Comune.
Un percorso, a linea spezzata mista, conduceva alla chiesa parrocchiale. Questa, e la scuola elementare erano tutt’uno, poiché quest’ultima era stata ricavata proprio dall’abitazione del parroco, che generosamente aveva concesso i locali.
La costruzione risultava l’edificio più grande di questo paese, vecchio, robusto, con stradine strette e tortuose, quasi fuori tempo, abitato da gente semplice, ma buona e laboriosa.
Qui non mancavano: aria fresca ossigenante, garruli voli di rondini intorno al campanile, ginestre, gerani sulle porte, musco… sembrava quasi un presepe in attesa.
Quel primo ottobre giunsi che la gente ancora dormiva, ma non il ‘Curato’ (così chiamavano il parroco) del luogo.
Avevo già sentito parlare di lui…; per alcuni, scomodo e spinoso; per altri, bizzarro, ma generoso; per altri ancora, saggio, bonario, arguto, scanzonato.
Poco incline, per natura, ai giudizi altrui, perché spesso attingono dal pettegolo, dal cattivo o dall’insidioso, ero curioso di conoscerlo, di scoprirlo da solo.
Come lui udì il rumore della mia Vespa… si fece sulla porta della chiesa, mi guardò un attimo… poi in un abbraccio caloroso, paterno, palesò subito il suo buon cuore e la cordiale simpatia.
Mi accolse come un figlio; in quell’istante mi tornò alla mente l’immagine del Padre buono, che ansiosamente attende il ritorno del figliol prodigo.
Certo, io non ero scappato, ma Don Costanzo (era questo il nome del curato) aspettava il mio arrivo, per ridestare il paesino, perché, diceva, attraverso un giovane educatore tentasse un’ascesa, diventasse famoso, si risvegliasse un po’.
In realtà, si creò subito tra noi una “complicità” di generosità e di collaborazione sociale, scandita da avvenimenti semplici, ma talvolta clamorosi, tali da finire sulle prime pagine dei giornali nazionali.
Mi invitò a prendere un caffè; l’ingresso della sua casa era pieno di scatole, scatoline, sacchi, bottiglie, bottigliette…
“Qui manca la farmacia!”. “Qui, non c’è un Consorzio Agrario!” aggiunse; poi subito, con la sua voce forte, nasale chiamò: “Peppinaaa, Pasqualinaaa!”.
In men che non si dica, apparvero due donne, due tipi curiosi, vestite di scuro, fazzoletti in testa, strofinacci in mano, pronte ad eseguire gli ordini…
Il mio occhio intanto vagava per l’ambiente e osservava: tende scure, pesanti, poi mosche sulla parete, mosche alle finestre, mosche sulle lampade… Ogni tanto il silenzio era rotto da un “tac tac”; era una delle donne che spiaccicava e spacciava qualche mosca…
“Adesso basta ad ammazzare mosche, preparate il caffè al nuovo maestro”, esclamò Don Costanzo.
Scomparvero come saette e dopo un po’ tornarono con due tazzine fumanti… Stavo sciogliendo lo zucchero, quando una mosca, in picchiata, cadde nella mia tazzina.
L’imbarazzo era grande; che fare? Il buon curato mi guardò come per dire: “Beh, che aspetti, il caffè è buono, caldo!”.
Contemporaneamente il suo occhio sagace andò sulla mosca che galleggiava, e senza scomporsi, intinse due dita nel caffè, afferrò l’insetto e porgendomi la tazzina esclamò: “Non ti preoccupare, a tutto c’è rimedio, fuorché alla morte!”.
Ricordo che, eroicamente, deglutii in un sol sorso quel caffè, scottandomi la lingua ed imparai subito che bisogna abituarsi a tutto.
Quello stesso giorno mi invitò a pranzo; declinai gentilmente ma fermamente l’invito, adducendo come scusa impegni già precedentemente presi. Il pensiero della mosca mi dissuadeva…
* * *
Nella prima messa domenicale, mi presentò ufficialmente alla comunità paesana, anche se già aveva parlato di me a tutti; la sua casa, infatti era un po’ come la piazza; lì ciascuno sapeva dell’altro, e lui, il curato, conosceva tutti meglio delle proprie tasche.
In seguito, proprio durante le celebrazioni, assistei ad omelie, che mi richiamavano continuamente nella mente il don Camillo in chiave combattivo-umoristica.
Dava colore alle parole, calore alle frasi, efficacia alle espressioni: trovava la risposta giusta, adeguata al momento giusto.
Del personaggio di Guareschi aveva anche un po’ l’aspetto fisico… In carne, ben colorito, naso preminente, capelli bianchi diradati; di don Costanzo subito emergevano: le scarpe larghe, deformate, spesso risuolate due o tre volte; le mani ossute, poderose, gesticolanti e la poca eleganza, anche se indossava, sempre la veste talare. Questa, un po’ svasata dietro, gli arrivava al polpaccio, ma sul davanti rimaneva ancora più corta per via di un bel po’ di pancia (abbastanza arrotondata). Soffriva molto il caldo ed era sua abitudine asciugarsi e strofinarsi viso e mani col fazzoletto. Questo aveva i colori più strani… rare volte infatti glielo vidi bianco, spesso rosso, blu, verde, sul tipo di quelli che nel periodo della mietitura o della vendemmia annodavano intorno al collo i nostri contadini marchigiani e che si vendevano a pochi soldi sulle bancarelle alla fiera.
Di Don Costanzo non potrò mai dimenticare la spiegazione del Vangelo che parla delle nozze di Cana. Lo spiegava con vivezza, sembrava un attore consumato, mimava addirittura la scena abilmente con alta professionalità. «E quelli mangiano e bevono, bevono e mangiano e cantano, inneggiano agli sposi. Ad un tratto, che è non è, si scopre che il vino era finito. Un pranzo di nozze senza vino?? Inaudito! ! !».
«Allora – continua Don Costanzo – la Madonna con supplice sguardo si rivolge a Gesù e gli dice “Non hanno più vino” Gesù tace alquanto, poi la guarda fisso e sbotta “E che te ne frega a Te?”». Dovetti uscire dalla Chiesa per frenare il riso e di conseguenza per non dare scandalo… Un commento al Vangelo così reale non l’avevo mai udito!
* * *
All’alba, durante la celebrazione eucaristica, il campanello, all’elevazione, spesso taceva; il chierichetto un po’ insonnolito rifaceva il suo pisolino, o magari si distraeva a giocare a palline sui gradini dell’altare.
Don Costanzo (all’epoca il celebrante volgeva le spalle all’assemblea) con la coda dell’occhio seguiva ogni mossa ed il più delle volte, per richiamare al dovere il chierichetto, gli sferrava un sonoro calcio. Il malcapitato, allora, con tutta la forza che aveva, afferrava il campanello, che trillava così fortemente e acutamente da sentirsi anche a distanza di diversi metri.
Si udiva subito qualche mamma gridare: “Svegliati, la Messa sta all’elevazione, perdi la corriera”…
Quel trillo quotidiano, era quindi la sveglia utile per alcuni studenti, che dovevano raggiungere la vicina Fermo per frequentare la scuola secondaria superiore.
Un servizio sociale anche quello, visto che in paese mancava un orologio pubblico.
Quando si pregava, spesso le orazioni in latino venivano storpiate; il “latino maccheronico” faceva andare in bestia Don Costanzo: Ttura ‘ssa vrugna; Dormo jo’ l’ara; Fidele Nzacca, Reggina de zzinale de Concetta (che dal dialetto allude alla prugna; all’aia; all’insaccare; al grembiule o zinale, trasposizioni per Turris eburnea; Domus aurea; Foederis arca; Regina sine labe concepta).
Inutile dire, se le letture bibliche richiamavano vitelli, buoi, capre e pecore… lo spunto era eccellente per reclamizzare prodotti chimici, così come la vigna, il fico che non dava frutto, il seme che non germogliava.
Omelie che parlavano di latte scremato, in polvere, di alimenti di altissimo valore biologico, di terreno povero di sali minerali, di microbi, di vomito o di diarrea…
La farmacia era lì, dietro la chiesa e Don Costanzo, all’occorrenza, era avvocato, perito, medico, veterinario; era un uomo tra il contadino e il signore, con un sorriso aperto, sincero che contrastava un po’ con la voce gracchiante, era amante del frizzo e delle barzellette, faceto e spiritoso.
Frequentava spesso il mercato di Fermo: comprava, vendeva, mediava di tutto e con tutto.
Se per caso il compratore si accorgeva di qualche errore o raggiro, Don Costanzo, senza scomporsi, col suo solito simpatico umorismo gli ribatteva: “che ci vuoi fare, figlio mio, noi preti sappiamo addizionare bene, moltiplicare meglio, ma sottrarre un po’ meno, dividere poi per niente”.
Gli batteva una mano sulla spalla, lo invitava a bere un bicchiere e subito il battibecco cessava e l’affare si concludeva.
Arrotolava i soldi nel rosso largo fazzoletto, lo annodava, poi lo sistemava nella borsa o in tasca.
Non tutti i soldi però erano insieme; diceva che era meglio distribuirli in più parti, per prudenza, perché c’erano mani veloci e magiche che in un batter d’occhio sapevano farli sparire.
Molte volte lo sentivo sollecitare la devozione a Santa Margherita da Cortona; una volta gli chiesi la motivazione e lui, con un sorrisetto malizioso, asserì: “Fermagli d’oro tra i capelli, viso dipinto, profumo; ti dicono niente?”.
“Ma poi la conversione, la carità ai poveri, l’aiuto ai malati una seconda Maddalena, ecco perché ad alcune donne raccomando di pregare questa Santa…”.
Era fatto così; le sue riflessioni sulla realtà familiare, sociale, politica erano semplici, senza toni apologetici, ma pertinenti, coerenti, efficaci.
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Non si commiserava mai, ma si guardava dentro in un dialogo continuo con Dio, fatto a modo suo, ma che certo era autenticamente vero.
A proposito della donna soleva dire che questa a quindici anni è limpida come l’acqua di fonte; a venti anni è limonata; a trenta anni spumante; a quaranta anni, vino da pasto; a cinquanta anni aceto ed aggiungeva, spesso anche torbido…
Concludeva poi: “ C’era una volta un uomo intelligente, ma prese moglie e non capì più niente!”
La prospettiva che mi presentava non era certo entusiasmante e lusinghiera.
Le sue lezioni di catechismo in classe avevano una straordinaria efficacia esplicativa e formativa. Gli alunni capivano ed ascoltavano con interesse.
Creava, ogni volta, un clima di attesa e di curiosità, usava paragoni ed immagini sorprendentemente simpatiche e concrete. Ad esempio… La chiesa, il papa, l’unità, era facile a capirsi diceva che bastava guardare il mucchio di paglia, o pagliaio, che molti avevano vicino casa. Il palo, cioè il papa, sosteneva tutta la paglia intorno a sé, che nonostante il vento, rimaneva unita, pronta per l’utilizzo; ma se togliamo il palo, addio paglia! Tutto vola al vento!
I misteri della fede, i dogmi erano presentati da Don Costanzo come momenti solenni, di profondo rispetto, come attimi di sospensione. Secondo lui, se tutto fosse chiaro, spiegabile, il Cristianesimo sarebbe stato scialbo, insipido… vino annacquato. II mistero invece è il cuore colorato del Cristianesimo.
Oggi, ripenso a quelle sue affermazioni e istintivamente le collego al film di Tarkovsky su Andrej Rubley, autore dell’icona della Trinità: lo spettatore deve prima compiere un lungo viaggio in bianco e nero per poi essere introdotto, in uno splendore di colori, alla contemplazione dell’icona trinitaria.
Simpatica era anche la conclusione che il curato faceva alla parabola della pecorella smarrita e cioè che vicino al cuore di Dio ci sono pecorelle ubriache, stanche, esaurite… “Quelle ubriache”, poco rispondenti al vangelo, era un chiaro messaggio a qualche abitante del luogo, che spesso alzava il gomito. Ma non basta…
Allora il Vangelo era letto in latino ed a un certo punto sempre a proposito di pecore recita il latino \mee me \ che si traduce “e le pecore mie mi \mee me\ conoscono” con tale brio ed efficacia che si sentiva con onomatopeica efficacia il belato della pecora “mee, mee,”.
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GIULIO CESARE, NAPOLEONE, IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA …
Con i bambini ci sapeva proprio fare, ma a modo suo li sapeva anche correggere, come quella volta che sotto al camino, nel cestino della Befana, appeso alla catena, fece porre per un “vivace Pierino” le “cacarozze” del somaro. Era solito dire che quel birbantello era venuto dal cielo, ma in un giorno di forte temporale.
Insegnava il gioco delle noci, o quello dei bottoni, che spesso furtivamente venivano staccati dalle federe messe ad asciugare dalle mamme. Anche i siluri, le fionde andavano alla grande e spesso gli obiettivi malcapitati erano, talora, sì uccelli, ma più spesso donne intente a lavare i panni o curve per tagliare erba per mucche e conigli.
La metodologia pedagogica del buon parroco creava in me, fresco di studi classici, (ma non ancora di pedagogia), curiosità, stima e anche un po’ di imitazione. Imparai subito le ragioni del bambino che frequenta la scuola, la necessità di coinvolgere le famiglie per ottenere risultati positivi; imparai soprattutto la vera finalità dell’educazione: garantire ai fanciulli di diventare adulti, di crescere nell’ampiezza della loro umanità, sostanziando la loro libertà, tutelando la creatività, potenziando la responsabilità e la partecipazione alla vita sociale e quindi alla storia del proprio paese, attivando ed organizzando il pensiero e l’azione intelligente, interrogando criticamente la realtà.
Incominciai ad essere entusiasta del progetto educativo: ogni giornata scolastica si apriva con impegno e laboriosità.
Don Costanzo mi osservava con occhi e cuore, seguiva con simpatia il mio lavoro e qualche volta addirittura era un secondo insegnante di sostegno, promuovendo un’eccellente apertura mentale e favorendo l’acquisizione di quadri concettuali fondamentali.
Quante volte, in sacrestia, mentre indossava i paramenti sacri, coinvolgeva i chierichetti nel ripasso delle tabelline; quant’altre volte dal ritorno d’un funerale, lungo il percorso cimitero-paese, affrontava il concetto di estensione, di lunghezza, larghezza, valore o peso!
Per non dire poi tutte le volte che fermava sul palmo della mano maggiolini, farfalle, formiche, ragni e con la competenza di uno scienziato rispondeva ai “come” ai “perché” ai “quando” dei fanciulli, che gli stavano intorno come moscerini intorno al grappolo d’uva.
Era anche il mio difensore; qualche volta infatti c’era un compito di troppo e gli alunni si lamentavano del lavoro e del sacrificio richiesto; mi difese con vigore anche quella volta che due contadini volevano il “risarcimento danni”, perché alcuni alunni avevano rovinato le loro botti. Le cose andarono così: in classe si parlò con fervore di Attilio Regolo, ucciso dai Cartaginesi nella famosa botte irta di chiodi e fatta rotolare.
Nelle campagne si stava preparando per la vendemmia: le botti messe al sole tentarono alcuni bambini che, imbottitile di sacchi di canapa, in due di esse, infilarono due volontari e giù… per la piccola discesa… gridando: “Viva Attilio Regolo! Viva i Romani!”.
La cosa più buffa però si ebbe, quando per far ricordare agli alunni la morte di Giulio Cesare, pensai ad uno stratagemma. Mi recai in tipografia e comprai manifesti listati a lutto; poi a caratteri cubitali scrissi:
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|” Oggi, 15 marzo CAIO GIULIO CESARE il conquistatore della Gallia |rendeva l’anima ai numi, trafitto da 22 pugnalate. |Ne danno il triste annuncio i suoi legionari e i Veterani delle guerre combattute sotto il suo comando |Roma, 15 marzo \ 44 avanti Cristo|” |_________________
|Colpito dal sicario Bruto è spirato oggi trafitto da pugnale CAIO GIULIO CESARE ||Ne danno il triste annunzio la moglie Calpurnia e i famigliari |Roma, idi di marzo \ 44 avanti Cristo\ |_______________
|Il grande condottiero GIULIO CESARE non è più coòito da pugnale traditore, il vincitore dei Galli, |il dittatore romano, è ora con gli dei. Lo piangono i suoi legionari, |i Romani e tutta la popolazione dell’Impero di Roma. Idi di marzo \44 a. C.\ |______________________________________________________________________________
Furono appesi lungo la scalinata che conduceva all’aula e lungo l’atrio, cioè la piazzetta.
Il gruppo classe fu entusiasta della cosa; addirittura si drammatizzò la scena con Bruto e Cesare e fu spettatore anche Don Costanzo, che pieno di gioia lodò gli alunni per l’interpretazione e si congratulò molto con me; apprezzava il coinvolgimento emotivo, la riflessione critica, le modalità finalizzate all’acquisizione di contenuti storici, nonché il tirocinio dell’azione. Apprezzò di meno, in verità, il disturbo che i manifesti gli avevano arrecato perché, in un battibaleno l’affissione aveva richiamato l’occhio di qualcuno, che, sapendo poco o niente della storia, voleva spiegazione, da parte del curato, sul morto, sulle pugnalate, sul luogo, sulla data del funerale…
Ed il curato, alzando le braccia in alto commentava “Beata inventiva del maestro”, ma rideva sotto i baffi, perché sapeva che quelle piccole, innocue, semplici trovate donavano sapere, voglia di conoscere, capacità di ricordare con interesse.
La vita scolastica, praticamente, attirava lo sguardo di tutto il paesino; era un po’ come l’odierna televisione, ma mentre questa spesso aumenta la solitudine delle persone, la nostra avventura scolastica le toccava dentro, anche se in modo semplice, curioso.
Giustamente è stato scritto “La pianta uomo si nutre anche attraverso quelle radici che hanno il nome di scuola”.
In realtà le memorie, soprattutto quelle storiche sono strettamente connesse col futuro, con l’avvenire.
Il 21 aprile fu caratterizzato da un bel fiocco rosa appeso sulla porta della scuola. Ohh?! “Il maestro aveva avuto una bambina, una figlia? Ma non era scapolo”? – “Aveva combinato in fretta e fuga un matrimonio?” “Con chi?”.
Questi ed altri interrogativi passarono di bocca in bocca, di finestra in finestra… ma all’uscita di scuola furono gli stessi alunni a svelare il mistero. Quel fiocco ricordava la nascita di Roma; il maestro l’aveva appeso proprio perché qualche bambino l’aveva dimenticata e durante la verifica di storia quella data importante era stata tralasciata.
Lo stesso fiocco servì, dopo pochi giorni, ad annunciare la nascita di una bambina, sorella di una alunna ed a creare questa graziosa abitudine in paese.
Il 5 maggio, furono gli stessi fanciulli ad ideare qualcosa per Napoleone e poiché i manifesti funebri di Giulio Cesare avevano creato tanto scalpore, vollero ripetere la cosa per divertirsi un po’ alle spalle degli ignari paesani.
Scrivemmo nei manifesti funebri la data 5 maggio 1821 — Napoleone Buonaparte si spegneva nell’isola di Sant’Elena in pieno oceano Atlantico.\ In un manifesto scrivemmo che davano il triste annunzio i suoi soldati combattenti dal Manzanarre al Reno. \ In altro manifesto erano i francesi costernati per l’annuncio perché l’Uomo fatale rendeva l’anima al Dio che atterra e suscita. \ In un terzo annuncio erano gli abitanti dell’isola di sant’Elena che annunciavano questa morte.\
Dopo pochi giorni dalla “morte” di Napoleone, venne in visita alle scuole, il Direttore Didattico.
I manifesti erano ancora affissi alle mura del paesello. Sulle prime, non qualificandosi domandò a dei passanti chi fosse quel Napoleone dei manifesti.
Il primo incontrato era un forestiero e non seppe dare informa zioni sufficienti. Ma intervennero subito Righetto, Pilluccu e Quarantò, che illustrarono con dovizia di particolari: vita, morte e miracoli di Napoleone, e poi nella foga della narrazione parlarono anche di Giulio Cesare, di Calpurnia, di Bruto e di… 20 pugnalate. Ma Pilluccu aveva sbagliato: non 20 ma 22. Glielo fece osservare Righetto, davanti al Direttore stupito per tali conoscenze storiche. Pilluccu però sempre pronto: “20 più IGE fa 22”. L’IVA non era ancora di moda! Tutti risero di cuore.
Il Direttore chiese dove fosse l’edificio scolastico, dicendo di essere un conoscente del maestro; subito scortato dal trio Pilluccu-Righetto-Quarantò, raggiunse la scuola.
Era un direttore di poche parole, ma appena mi vide, “Caro Maestro – disse – ho visto, ho letto, ho ammirato. Bravo! Ora si può dire che a Torchiaro si conosce Giulio Cesare ed il De Bello Gallico meglio che in qualche liceo di città. Ne sono lieto per lei perché…”.
Ma non potè finire, perché il quel preciso momento, panciuto e raggiante entrò Don Costanzo.
Le iniziative del maestro trovarono ampi consensi; il direttore didattico e Don Costanzo approvarono pienamente quell’originale modo di insegnare.
Anzi, il parroco, per dare più forza al suo pensiero, esclamò una frase latina di Orazio (C. III. 30 “Sume superbiam quaesitam meritis”) esaltando il meritato orgoglio per il successo cercato.
Il Direttore con la scusa di aver dimenticato il latino si fece tradurre il passo “Sii, fiero per tali meritate realizzazioni” sentenziò Don Costanzo. La conversazione si protrasse per un bel po’ ed alla fine andammo a pranzo invitati a casa del curato, espressamente da lui.
Pranzo paesano, genuino, preparato con tanta pazienza dalle perpetue instancabili ed innaffiato con un vino, che faceva risuscitare pure i morti; un vino cotto, squisito, che il curato, senza troppi pudori espressivi definì “pisciato fresco dagli angeli”.
Durante il pranzo, il parroco non fece che tessere le mie lodi come insegnante, ritornando, (e lo faceva con tutti gli ospiti di riguardo, come suo solito), all’avvenimento straordinario del quale eravamo stati entrambi protagonisti, anche se con differenti ruoli.
Appena giunto capii che in paese, un grave problema da risolvere era la costruzione di un edificio scolastico, modesto sì, ma igienicamente idoneo ad accogliere i fanciulli del paese.
La venuta del Presidente della Repubblica a Fermo per il Centenario dell’Istituto Industriale, mi fece balenare l’idea di una “supplica” o “petizione particolare”; ma chi poteva essere il “messaggero”? La stessa idea nacque nella mente del curato; non c’erano difficoltà, egli stesso sarebbe stato latore della lettera.
Mi esortò a rispolverare la mia cultura umanistica e a preparare una lettera che arrivasse, come diceva Don Bosco “a quella corda sensibile del cuore”; stavolta del Presidente della Repubblica e la facesse vibrare in tutta la sua generosità.
Ricordo che mi rifeci alla cultura, che oggi chiameremmo di promozione umana, la cultura dei valori, per terminare con un’espressione alquanto significativa: “non si può insegnare la bellezza del Creato e delle stelle in locali che sono stalle”.
Arrivò il fatidico giorno! A Fermo: fanfare, bandiere al vento, soldati, autorità… uno splendido sole faceva da sfondo e cornice ad un fermento mai registrato. Il Presidente Gronchi, scortato oltre misura, si apprestava a salire sulla loggetta sottostante la statua di Sisto V, nel Palazzo dei Priori.
Don Costanzo intanto, riconosciuto dal primo cordone di guardie (erano locali), avanzava… Riuscì a superare altra folla accalcata; altro cordone di sicurezza; la veste talare non faceva certo il prete, ma lo indicava e, grazie ad essa, molti lo lasciavano passare … Era ai piedi della scalinata, che conduceva alla loggia dalla quale il Presidente avrebbe parlato, quando un corazziere gli intimò l’alt.
“Reverendo, mostri l’invito!” Don Costanzo che non si perdeva mai d’animo, con prontezza e scaltrezza si tolse il bianco collarino, quello che portano i preti, e sollevandolo in alto esclamo forte: “Ecco: garanzia di Santa Romana Chiesa”. Il corazziere abbozzò un sorriso e lo lasciò passare; riuscì così a consegnare personalmente a Gronchi la lettera ed a parlargli direttamente.
Naturalmente fotografi e fotoreporter ebbero la possibilità di uno scoop straordinario.
Il giorno dopo, tutti i giornali raccontavano l’accaduto; come sempre accade i commenti giornalistici erano i più vari; chi considerava l’arretratezza delle aree rurali, il degrado, l’analfabetismo, il disimpegno, la mancanza di servizi pubblici e sociali largamente insufficienti.
Don Costanzo fotografato a fianco del Presidente della Repubblica, occupava la prima pagina. Un quotidiano “strappalacrime” quasi a volere dare una lezione di vita, scrisse “Un povero prete di campagna, dalla veste stinta dal sole e dalla pioggia da chissà quanto tempo, ha consegnato a Gronchi la seguente lettera” ecc.
Fermo, il giorno successivo era inondata di foto, era il duo: Don Costanzo – Gronchi.
Non starò qui a rammentare la profonda delusione di Peppina e Pasqualina, le due perpetue che, per una settimana erano state dietro alla veste talare con edera e fondi di caffè; dirò solo che quel giornale scomparve dalla canonica e dal paese, come se fosse stato un marchio di infamia. Quel passo “Veste stinta dal sole e dalla pioggia” non lo potevano digerire …
So però che alcuni giorni dopo i tecnici del Genio Civile vennero a prendere le misure, perché si sarebbe costruito a Torchiaro l’edificio scolastico, nuovo e grande.
RIGHETTO, PILLUCCU, QUARANTO’ E LE OCHE
Di giorno in giorno la vita si snodava con semplicità, nel lavoro, senza forti emozioni o rivelazioni; il palcoscenico paesano non mancava certo di presentare personaggi curiosi, vivi, parlanti, come: Quarantò; Righetto, un uomo pittoresco; Pilluccu, il poeta; Cucciulì.
Quarantò era un personaggio caratteristico; la parte più espressiva era il suo volto dal colorito sui generis, occhi volutamente un po’ socchiusi per risultare indecifrabili, amletici, naso a civetta e due baffoni a volte arricciati, a volte lisci, che coprivano labbra sottili. Il suo umore poteva leggersi proprio dai baffi; quando erano arricciati significava nervosismo, irritabilità, frecciate, chiasso, voglia di attaccar brighe; quand’erano lisci: buonumore, disponibilità, calma.
Un altro tipo curioso, emblematico era Pilluccu; si diceva poeta mancato, deluso, convinto che la sfortuna l’aveva preso di mira con avversità ed ostacoli; altrimenti … Passeggiava quasi sempre con il soprabito, cappello ed ombrello come un lord, guanti, anche se le sue scarpe lasciavano intravedere vita grama.
Righetto era un altro tipo simpatico e sornione; Cucciulì invece arguto, anche se malaticcio. Aveva delle battute salaci, pungenti; lo vedremo…
Nel paese non mancavano piccole storie di prepotenza, di invidiucce, di qualche infedeltà ben mascherata, ma anche di cose buone e schiette.
Don Costanzo organizzava momenti di svago. Ripeteva che il cristiano non è un “musone” non è chiuso in se stesso, non è disponibile solo al colloquio con Dio, ma, al contrario, sa esternare agli altri i suoi sentimenti, sa partecipare alla vita di chi sta accanto a lui, sa ridere con chi ride, come, condividere il dolore di chi piange.
A tal proposito scomodava addirittura Seneca citando il passo che “giova più alla società chi ride che chi piange” (Tranquillità dell’animo, XV, 3).
A Torchiaro si viveva il Carnevale con divertimento, con gioco, con gli scherzi; gli addobbi delle sale da ballo avvenivano con festoni e drappi spesso presi dalla sacrestia e che la confraternita con il permesso del parroco dava volentieri.
Il primo ad essere presente era proprio Don Costanzo che, anche lì, sapeva ricordare di non offendere il Signore: “Oh Pè, non strigne troppo!” “Dome, sarà meio che te reposi? Me pare che stai su de corda!” “Lui setta te converrà a de dà lu cambiu a sòrata?”.
Tutti pazientemente ubbidivano e le ardenti speranze o l’avida spavalderia si tramutavano in sorrisi, in sommessi borbottii o atteggiamenti prudenti.
“Poco cervello e troppo cuore combinano guai” ripeteva Don Costanzo alle giovani romantiche e svolazzanti sognatrici, che in mille modi cercavano motivi di attrazione.
“Semplici come colombe, prudenti come serpenti” questo dev’essere il vostro agire… ma spesso la giovinezza impaziente ed ardente non ascoltava le sue parole.
C’era poi il rigore purificante della quaresima; il mercoledì quanta cenere benedetta spargeva generosamente sul capo, soprattutto di alcune donne!
Era il suo modo elegante per dire di calmare le voluttà, per dare una tirata d’orecchi, per fare capire che lui certe cose le veniva a sapere, sempre. Le poverette, molto a disagio, cercavano di coprirsi il più possibile con veli e fazzoletti i capelli inceneriti al massimo.
* * *
Ricordo il buon profumo di pane fatto in casa dalle perpetue, che saliva fino all’aula scolastica e solleticava il mio buon appetito giovanile!
Sopra le belle pagnotte rotonde, troneggiava un bel segno di croce come per ringraziare il buon Dio di quel sacro dono e guai, se lo dimenticavano! C’era sempre una profumata pagnotta per me, il maestro, accompagnata dall’esortazione del buon curato: “Mangia, sei giovane hai bisogno di forza”.

GIOCONDE SERATE INVERNALI
Quando la nebbia fitta, la pioggia fredda, il vento impetuoso e proibitivo non mi permettevano il rientro in Vespa al mio paese, c’era pronto un letto per passare la notte.
Come poter dimenticare quelle lunghe ma allegre, gioconde serate invernali, trascorse giocando a carte, nella cucinona annerita, talvolta densa di fumo, della canonica?
Era un intreccio di odori più strani: lardo soffritto, salvia, rosmarino, odor di sigaro, odor di resina e di formaggio pastoso, invitante, che stuzzicava l’appetito; non mancavano grappoli d’uva un poco appassiti e pomodorini pendenti dalle travi del soffitto.
Ai vetri della credenza spiccavano santi, fotografie e ricordini vari.
Don Costanzo amava fare una partita; c’era poi la rivincita, ancora la rivincita della rivincita… e si andava per le lunghe…fino alle ore piccole.
Ogni tanto, si ricaricava sorseggiando vino cotto della Messa o fumando il suo sigaro toscano.
Una sera venne a trovare il curato un giovane del paese, che per ragioni di lavoro e di bisogno si era trasferito altrove. Sembrava scaltro, aveva imparato a rinnegare la miseria paesana ed ostentava cultura, interesse per i problemi più seri, specialmente religiosi verso i quali però manifestava dubbi e perplessità.
Il discorso andò a finire proprio sul mistero della Trinità. Don Costanzo si accalorava, gesticolava, spiegava: così, colà, perché, in fin dei conti… ma quello ostinato non riusciva a convincersi. Ad un certo punto dovetti per forza sollevare gli occhi dal giornale che stavo leggendo, perché il curato, con la sua solita spontanea inverosimile filosofia esclamò: “Ma senti un po’. Che gli devi passà a magnà tu alla Trinità?”
Una sonora risata dei presenti pose fine all’interminabile discussione, che ebbe come la conclusione di sempre, una bella bevuta di vino cotto.
* * *
Quando il fumo ed i fumi erano abbastanza, allora automaticamente sbottonava la tonaca nera, il più delle volte impadellata, lasciando intravedere una di quelle pesanti maglie di lana che, sinceramente, solo a guardarla, mi suscitava in tutto il corpo una sensazione di solletico e di prurito, che mi faceva ridere … a crepapelle.
Non ero un buon giocatore, per questo Don Costanzo ripeteva… con la sua voce nasale: “Sarai bravo, intelligente, però a giocare a carte sei una schiappa”!.
Spesso ricordava e raccontava fatti ameni, spassosi che lo avevano avuto come protagonista sagace ed astuto.
*
Un giorno, insieme, dovevamo raggiungere Ancona. La conversazione si snodava sulla mia esperienza scolastica, sulla produttività degli alunni, sul clima sociale della classe.
Don Costanzo, sull’esempio di don Milani, mi esortava a non aver fretta nel finire il programma, nel riempire i quaderni; mi diceva insomma di non spingere forte l’acceleratore, perché quello che contava non era tanto e solo l’efficienza, il fare, ma il prestare molta attenzione alla persona dell’alunno, perché ogni bambino era un mondo straordinario, sorprendente, ricco di idee, interessi, bisogni, aspettative e l’educatore doveva offrirgli giusti stimoli.
Proprio in questa circostanza mi raccontò una storia il cui protagonista era un bambino, mio alunno, una storia toccante ma semplice, che richiama quell’esortazione evangelica di essere “semplici e fiduciosi come bambini”.
Don Costanzo al catechismo aveva ripetutamente parlato all’angelo custode che protegge, illumina, guida. Parafrasando una poesia, forse della sua infanzia, aggiunse pure che l’angelo mangia nello stesso piatto, sta nello stesso banco….
Durante la notte, mentre cercava nel sonno restauratore sollievo alla stanchezza, (e ne aveva tanto bisogno, perché era andato e tornato da Roma) sentì squillare il telefono. Pensava già di dover uscire forse per una unzione degli infermi, quando dall’altra parte una vocetta un po’ assonnata gli chiede: “Ma curato l’angelo custode sta a destra o a sinistra?” “Ma chi sì?” “So’ Mariolino de…”. “Figliu de bona donna, proprio adesso te de’ venuto su problema? Non potevi spettà domani…”?
Mariolino però aveva fatto una scommessa con i compagni e se l’avesse vinta sarebbe stato felicissimo; in gara c’erano 100 figurine. “Bella gatta da pelà me so trovato” pensò il curato, che non sapeva come rispondere; poi sentendo il suo cuore battere un po’ più forte del solito (vuoi per la stanchezza, vuoi per essere stato svegliato) rispose “Tu dove hai il cuore? Beh, l’angelo sta a sinistra, dalla parte del cuore…”.
Aveva scommesso bene Mariolino, che esultante ringraziò, pensando alle figurine che avrebbero completato il suo album.
“Vedi?”, commentava Don Costanzo, “la spontaneità, la virtù della semplicità interiore dei bambini! È straordinaria!”
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Ricordare poi un altro episodio ugualmente significativo. Durante la settimana santa si usava rappresentare, sulla piazzetta avanti alla Chiesa, la scena del processo a Gesù, scena vivace e toccante…
C’erano le pie donne, i soldati romani, Pilato, Caifa, tutti nel costume dell’epoca. C’era Gesù con la corona di spine e la canna in mano… Certo non era Oberhammergau, cittadina tedesca dove per voto fatto per la guerra nel 1634 si ripetono le scene della passione di Gesù, ogni dieci anni. Eppure tutto il paese assisteva con animo partecipativo, sospeso, attento.
Unna volta, mentre iniziava il processo a Gesù ed uno del Sinedrio indignato gli dava uno schiaffo (come da copione), la scena fu talmente reale e commovente, che un bambino, saltato sul palco, con pugni, calci, graffiate e morsi si avventò contro lo schiaffeggiatore gridando “Gesù è buono, Gesù è buono non lo devi bastonare”. Ci volle del bello e del buono per convincerlo che era soltanto una rappresentazione, un rievocare l’avvenimento.
Anche da questa circostanza il curato traeva motivo per ricordarmi di coltivare negli alunni il sentimento, di entusiasmarli per far vibrare le corde del cuore, che, diceva, facilitano nei ragazzini l’emergere di motivazioni, percezioni ed atteggiamenti buoni, che rimarranno per tutta la vita.
Voleva veramente bene ai piccoli e quando non poteva accontentarli ne soffriva incredibilmente, come quella volta che un bambino, figlio di una ragazza madre, gli chiese se Gesù gli poteva far conoscere il suo papà… visto che compiva miracoli, considerando che lui veniva più spesso a servire la Messa.

IL BURLONE
Ad un Don Costanzo educatore, sensibile, ricco di nobili sentimenti, debbo però associare l’altro Don Costanzo, quello burlone e macchiettista, che in alcuni momenti ti regalava buon sangue, con le risate che suscitava. Una sera si trovava a transitare sul rettilineo Cupra Marittima – Grottammare; un po’ la fretta, un po’ la fame Don Costanzo premeva l’acceleratore…
Un fischio lo richiama al dovere… La polizia stradale … Nessuno gli avrebbe tolto la contravvenzione per eccesso di velocità. Cosciente della colpa, con voce quasi supplichevole, prega i poliziotti di capirlo… quelle donnine ai bordi, sono una vera tentazione… la carne è debole… bisogna fuggire le occasioni… correre…
I poliziotti si guardano, sorridono, poi lo lasciano andare… mentre don Costanzo dice a se stesso “Per questa volta è andata!”.
In un’altra circostanza vidi il curato segnarsi ripetutamente col segno della croce; meravigliato, perché d’intorno non c’erano né chiese, né cimiteri, né statue di santi, chiesi spiegazione. Mi indicò allora un deposito di auto rotte, incendiate aggiungendo, “è il cimitero delle macchine figlio mio, non vedi?”.
*
Un racconto ricorrente nelle conversazioni del curato era il compito che aveva affidato alle oche; il loro starnazzare un tempo a Roma aveva salvato il Campidoglio; il loro starnazzare poteva ancora salvare il salvabile… (almeno lo sperava).
Sotto la canonica, infatti, c’era un orto, ma vicinissima si innalzava una vegetazione folta, un boschetto tranquillo, dove talvolta, nottetempo, sostavano coppiette di innamorati. L’amore, si sa, non conosce località, è vivo non solo nelle grandi città, ma anche nelle piccole modeste località; nessuno sfugge alle frecce di Cupido!.
Solo che, mentre nelle metropoli il caos, la vita frenetica, il non conoscersi tutti, permettono maggiore libertà di movimento, d’incontro, di anonimato, in un piccolo paese tutti sanno o vengono a sapere, tutti guardano, commentano, giudicano, scoprono.
Abbracciarsi, baciarsi nell’immediata vicinanza della canonica, era ritenuto, ieri, quasi un piccolo scandalo, quindi Don Costanzo pensò bene di servirsi delle oche. Le perpetue, servendosi di una brava chioccia, fecero covare diverse uova, che, schiuse, aprirono la vita a sei o sette ochette.
L’espediente originale ed ingegnoso fu di sistemarle proprio vicinissime al boschetto, così i poveri innamorati erano spesso disturbati e, credendo che arrivasse qualcuno, scappavano a gambe levate.
In realtà, qualche volta, Don Costanzo richiamato dallo starnazzare, controllava dalla finestra del suo studio e se i colpevoli venivano riconosciuti, ricevevano lavate di capo o buoni consigli, a seconda del caso.
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Un giorno Don Costanzo venne chiamato al capoluogo di Regione; era una chiamata urgente e, dato che la vecchia auto Balilla, dove si rifugiavano le galline durante la canicola estiva per godere di un po’ d’ombra, era dal meccanico, vi andò con la corriera.
Era una di quelle corriere mastodontiche e maestose; fungeva da tram tra i vari centri della zona; fermava alla stazione ferroviaria di Civitanova e al capoluogo di Regione.
Don Costanzo con la veste pulita, nuova fiammante, salì sull’automezzo. Era affollato e la conversazione verteva sulla campagna elettorale in atto e sulle prossime elezioni.
Qualcuno sonnecchiava; qualcuno fumava. Vi era però tra i viaggiatori una donna molto disinvolta e tremendamente ciarliera. Ce l’aveva con tutti, col Governo, con l’Amministrazione comunale del suo paese, con la cognata, ecc., ecc… Allorché il discorso cadde sulle elezioni, squittì:
“Oggi non sono molti quelli che votano per la D.C., anzi sono pochi o per meglio dire poche: le monache e le prostitute”.
Don Costanzo la guardò, ma non disse nulla. La osservava e da tutto il contesto si vedeva che aveva dei requisiti non dubbi da essere collocata e con sicurezza, tra le donnine allegre; il suo atteggiamento, il suo modo di vestire, il comportamento la indicavano come tale. Certissimamente non era una suora.
Giunti vicino alla stazione, prima di scendere, Don Costanzo, con fine ‘savoir faire’, la guardò, si levò il cappello e rivolto a lei: “Grazie signora per il voto che darà alla Democrazia Cristiana”.
Gli astanti si guardarono l’un l’altro. Don Costanzo, serio, scese.
Lei… capì e come, l’antifona, ma finse di non aver recepito la portata della frecciata ed esclamò: “Che strani questi preti! ”.
*
Un’altra volta Don Costanzo dovette salire sulla corriera, al ritorno dalla capitale al suo piccolo centro. Erano le belle e sfreccianti corriere, che in quattro ore allacciavano Roma alla zona del Fermano.
Verso la metà del viaggio, salì una signora sulla quarantina, sofisticata, impomatata con aria di sussiego. Appena si accorse del prete fece un certo tipo di scongiuri. Don Costanzo se ne accorse e non aspettò a dire la sua. “Signora, le disse, sapevo che il rosso faceva male ai tori, ma non sapevo che il nero faceva male alle vacche .”
I viaggiatori si voltarono; molti che avevano notato il gesto della “venere” salita poco prima, si guardarono e ammiccarono divertiti. La vipera, colpita, sprofondò più che poté nel sedile senza aggiungere parola.

LE VOTAZIONI, LE ELEZIONI IN PARADISO
A proposito di elezioni Don Costanzo, con fine umorismo e carica di allegria, era solito narrare una storia-barzelletta che aveva la seguente trama.
San Pietro, visto che gli uomini avevano indetto le votazioni, pensò di fare la stessa cosa in Paradiso, per vedere se veramente tutti gli eletti del Signore, fossero concordi e coerenti con i principi che li governavano.
Fece gli avvisi, preparò le sedi con le varie sezioni, si diede un gran da fare, tanto che alla sera si sentì stanco morto. In un giorno votarono tutti quanti: Beati, Santi, Angeli, Arcangeli, tutta la gerarchia, la Madonna.
Lo spoglio incominciò subito; San Pietro, telefono alla mano, ascoltava attentamente i risultati, e se li appuntava con precisione su un grande foglio; ogni tanto faceva una piccola tirata di pipa.
La democrazia era padrona incontrastata: tutti i voti erano suoi! Per un giorno tutto filò liscio come l’olio; San Pietro orgogliosamente si sentiva onorato, quando ad un certo punto… (qui la voce del curato cambiava tono, divenendo sospesa, quasi a chiedere all’interlocutore una domanda) ad un certo punto, non esce fuori una scheda comunista? Inutile descrivere l’animo di San Pietro, che rischiava un infarto; non si sapeva capacitare come quel comunista fosse entrato, visto che alla porta del Paradiso c’era stato sempre lui. Diceva: “Ma da dove è passato questo impertinente?”.
La notte non chiuse occhio: preoccupazione, ansia, attanagliavano il suo animo. “Che sia entrato con falsi documenti?” Non vedeva l’ora che venisse il giorno per chiarire la situazione. (Qui, da parte di Don Costanzo, c’era la seconda pausa, che gli permetteva di intabaccare il naso, poi subito riprendeva con più vigore…).
Dopo l’alba, tutti i votanti del Paradiso furono chiamati a raccolta; San Pietro con voce chiara e vibrante lesse i risultati della Democrazia Cristiana, poi variando il tono della voce aggiunse: “Mi piacerebbe però conoscere chi ha votato comunista, come ha avuto il coraggio di farlo, deve avere anche il coraggio di confessarlo apertamente”.
Ma non fece in tempo neppure a terminare la frase, che avanzò San Giuseppe. San Pietro, quando lo vide rimase quasi ammutolito e poi, ripreso un po’ di fiato, chiese: “Ma proprio tu Giusè?”.
E San Giuseppe senza scomporsi gli rispose: “Sì, proprio io; chi difende i miei diritti, gli assegni, la pensione? Qui lavoro solo io, gli altri godono da signori, tutti benserviti”.
San Pietro intimò subito il silenzio al falegname, e poiché continuava a lamentarsi gli gridò: “Il Paradiso te lo sei bello che giocato”.
Di rimando Giuseppe esclamò: “Beh, vado via, non m’importa …” poi rivolto alla Madonna: “Maria, dove stai? Trova il bambino, raccogli i pochi stracci, perché andiamo via”. Maria obbedì subito, e mentre stavano sulla porta per uscire, Giuseppe riguardò San Pietro e puntando il dito verso i presenti, gridò con forza: “Voglio vedere un altr’anno sul presepio chi ci mettete!!”.
A conclusione della barzelletta c’erano sempre sonore risate, accresciute dalla conclusione del curato, che declamava “Padre nostro che sei nei cieli, resta pure lì, che quaggiù c’è la D. C.

LA PESCA E LE BIGOTTE
Un episodio che il curato evitava sempre di raccontare, ma che circolava in paese era una pesca “miracolosa”. Senza voler minimamente profanare il passo evangelico, il fatto assunse questo titolo, perché proprio con una pesca di beneficenza ha avuto origine.
Personalmente, don Costanzo me la raccontò un giorno che era in vena di confidenze. Quella volta si era recato nel capoluogo di provincia per sbrigare alcune pratiche di pensione; passando per una via secondaria notò la scritta “Pesca di Beneficenza”, un modo semplice per raccogliere offerte a favore di associazioni, enti, ecc..
Don Costanzo non si tirava mai indietro, quando c’era da dimostrare solidarietà, aiuto, comprensione. Entrò e giocò, o meglio pescò nella grande damigiana di vetro due biglietti.
Col primo ebbe una graziosa bambolina, col secondo un oggetto intimo femminile: ironia della sorte! !
Le addette, due suore laiche, prontamente avrebbero potuto e voluto sostituire i premi, ma il curato senza molto scomporsi disse: “Perché? Troverò a chi regalarli, non dubitate. A qualcuno dovete pur darli!!”. Mise il tutto in borsa e ripartì per il paese. Il giorno seguente, vedendo sulla piazzetta giocare Alice, figlia dei vicini di casa, si ricordò della bambolina e volendo regalargliela pregò una delle perpetue di aprire la borsa e di prendere il giocattolo. Ma insieme alla bambolina venne fuori anche il reggiseno vinto, ancora nel suo elegante sacchettino di nylon; Scoppiò lo scandalo per la cosa orribile per chi la vede e per chi l’ascolta. Inutilmente il povero Don Costanzo cercò di chiarire, spiegare ogni dettaglio… la cosa da Peppina passò a Pasqualina, da questa a qualche altra bigotta, dal paese ai paesi vicini…
Per fortuna, dopo un paio di mesi, mentre tirava fuori dalla borsa tutte le sue cianfrusaglie, uscirono i due biglietti della pesca, ancora fermati dagli anellini di pasta, e che si era tenuti per ricordo.
Li mise in un piattino ed il giorno seguente, alla prima messa, li posò sulla balaustra, poi rifacendosi all’episodio evangelico di Tommaso l’incredulo, chiamò le presenti ad una ad una, fece toccare e vedere i biglietti che portavano il numero e il timbro dell’associazione, che aveva organizzato la pesca.
Questo fatto ispirò una composizione dialettale che Don Costanzo amava spesso declamare, o ascoltare e che ha avuto un enorme successo, è la seguente, tradotta dal dialetto in italiano:
LE FALSE BIGOTTE
Ci sono alcune santocchie in questo paese \ che occorre vederle in tutti i momenti \ a battersi il petto nelle chiese \ ed a ricevere i santi sacramenti. \ Ma non finiscono a far la penitenza, \ e subito iniziano la maldicenza!
Se le senti a dir male della gente \ non c’è persona che non tocchino; \ le sparano grosse, senza badare a nulla \ ed hanno ancora il caro Dio in bocca. \ Però a loro non importa se ciò è peccato; \ le raccontano al prete e tutto è perdonato.
. Se ci sta da appiccicare qualche calunnia \ a qualche donna sposata o a qualche ragazza, \ inventano cose ripugnanti \ da far venire il sudore. \ Si divertono a calunniare la gente, \ dato che al caro Iddio non importa nulla.
Le senti bisbigliare dentro la chiesa: \ “Giovanna fa l’amore di nascosto, \ Checco s’è innamorato di Teresa, \ si dice che la sposa entro agosto; \ Maria invece, poveretta, non ha fortuna, \ eppure è bella e non la vuole nessuno!”
Ave Maria, gratia piena, Christus Jesus, \ Dominus tecum, benedicta tu …. \ “Si dice che Ninetta sposa adesso \ e Filomena non si sposa più; \ perché ha fatto baruffa con Nicola; \ poveretta!… quella ha faticato a ufo!”
Gloria al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo… \ “Sai?… ha fatto ricamare la biancheria, \ ha il corredo che le costa molto, \ adesso che ne fa?… lo butta via?…” \ Su un po’… Requiem aetemam dona eis Domine … \ Va a capire un po’ come sono fatti gli uomini!
“Oh comare, lo sai il fatto di Rita? \ Pacifico le fece perdere la pazienza!… \ Ma te lo acchiappa tutta inviperita \ e si fece sposare di prepotenza. \ La vedi? Va un po’ a toccarla adesso?… \ ” Ave Maria grazia piena Cristo Gesù.
Annunziata?… Che ne dici di Annunziata!… \ Pure lei ne ha fatto quattro per un paolo (soldo)… \ “Sì le fa pure adesso che è sposata, e ne combina più lei che il diavolo! \ Si tinge gli occhi, si dà il rossetto alla bocca, e, al marito, guai a chi gliela tocca!”
“La moglie di Giovanni, quella sfacciata?… \ ma quante gliene ha fatte al marito. \ Una volta dice che l’ha sorpresa \ a fare “l’erba” là nel canneto… \ Beh, che le ha detto?… Niente, comare mia; \ un fascio più, uno meno, che vuoi che sia?’
Il nome di Gesù sia benedetto, \ lodata sia la Vergine Maria… \ Nena, sta sempre sola con Luigetto; \ quelli commettono qualche corbelleria, \ capisci tu, la gioventù di oggi \ te la fa sotto gli occhi, e non te n’accorgi!
‘Per il padre e la madre è sempre un peso”. \ “Quelli si fidano troppo, comare mia!” \ Ave Maria grazia piena, Cristo Gesù… \ Lodato Gesù Cristo e così sia! \ “Me ne vado, Ci rivediamo, comare Rosa”. \ “Arrivederci, non abbiamo detto nulla!”
Non han detto nulla, e hanno detto peste e coma. \ Che potevano dire di più queste malcreate? \ Volevano attaccare i Santi e la Madonna \ oppure chi le ha generate? \ E poi il giorno dopo vanno a messa \ fanno altre maldicenze e si confessano!

CONFIDENZA: L’OLIO E I PROSCIUTTI
Fu proprio durante questa confidenza, che vidi negli occhi di Don Costanzo amarezza, delusione, sconforto. “Il prete, mi disse, è poco capito, spesso schernito, spesso calunniato. Il nostro è un destino meraviglioso e tremendo; non riesci ad accontentare tutti, né a convertire tutti.
Se fai l’omelia lunga dicono che sei ricco di parole e non di fatti; se ti muovi per necessità parrocchiali con l’auto, ti accusano di essere un capitalista; se nella liturgia penitenziale ti attardi, sei curioso, interminabile, noioso; se sei giovane non hai esperienza, quindi ti ascoltano poco; se sei vecchio, sei rimbambito, quindi sei fuori dalla realtà, ti ascoltano ancora meno.
Se vai nelle famiglie, sei l’amico di qualcuno, o girovago; se stai in canonica sei misantropo, asociale, distaccato; se chiedi qualche offerta pensi solo ai soldi; insomma sei sempre criticato, caro maestro e…” ricordo batteva con calore la sua mano sulla mia spalla, per aggiungere poi…
“Non sanno però che, nonostante il sacramento, restiamo anche noi uomini, che spesso la solitudine ci rode il cuore, così come i fardelli logorano le nostre ossa”.
Ricordo vivissime queste parole, perché una lacrima, che gli bagnò il viso, mi scrisse “la segreta pena del suo cuore”.
*
Un altro fatto su cui Don Costanzo era molto abbottonato, ma non con me, era quello del lume ad olio. In una contrada del paese si ergeva una cappellina di pochi metri quadrati; qui c’era una sacra immagine del Cuor di Gesù e dinanzi ad essa una signora aveva dato disposizione che sempre, giorno e notte, ardesse un lumino ad olio.
L’impegno Don Costanzo l’aveva passato ad un contadino tutto fare, che svolgeva di solito le mansioni più varie. Una sera però, la signora, passando in auto, notò la cappella al buio. Riferì immediatamente il fatto al curato, che a sua volta chiamò il contadino, ma questo naturalmente subito negò.
Don Costanzo, non soddisfatto ed alquanto dubbioso, la sera seguente si diresse verso la cappellina, ma tutto era regolare. Ci tornò il secondo, terzo giorno, poi sospese il sopralluogo, per ritornarci dopo una settimana.
Era rimbrunire: il lumino era regolarmente acceso, mandava il suo chiarore all’immagine. Sentì un rumore, allora si nascose dietro l’altare: era il contadino che avvicinatosi al lume, prima fece una genuflessione, poi soffiò sulla fiamma dicendo: “Gesù l’olio è caro! Tu ce vedi bene lo stesso, i figli miei no”.
Da quella volta però il contadino ogni mese si vide arrivare un bottiglione d’olio: ne’ Don Costanzo lo rimproverò mai, perché la miseria, diceva, è una brutta bestia ed aggiungeva anche che, chi dà riceve e che ci sfamerà solo il pane che avremo dato, così come ci vestirà solo il vestito che avremo donato.
*
Un altro ricordo ricorrente era la burla alle guardie daziarie. Durante la guerra c’era il calmiere ed era proibito trasportare alimentari soggetti a dazio, senza pagare la relativa imposta. Don Costanzo con il suo calesse, trainato dalla cavalluccia, quella sera trasportava due prosciutti e tre lonze. Si avvicinò al corpo di guardia, disse ai “doganieri” che l’indomani sarebbe passato con alquanti salumi e prosciutti. Chiudessero un occhio e poi, … ci avrebbe pensato lui. Puntualmente, l’indomani, alla stessa ora, troneggiando, a bordo del calessino, Don Costanzo ripassa! “Alt!” Intimarono i dazieri: “Stavolta te l’abbiamo fatta: fuori i prosciutti, sei in contravvenzione”! “Chi? Io?” “Si, lei”.
“Pupi! i prosciutti ed i salumi li trasportavo ieri sera”.
Così anche quella volta riuscì a farla franca.

IL CARDINALE MIMMI
Un ricordo particolare che illuminava il volto di Don Costanzo, ogni volta che sulle ali della memoria glielo proponevano, era quello di aver salvato dalla fucilazione un uomo. Ne taceva il nome, ma evocava tutti i particolari del caso, aggiungendo quel bel passo di Sant’Agostino dove dice “Quando canti l’alleluia devi porgere il pane all’affamato, vestire l’ignudo, ospitare il forestiero. Se fai questo non è la voce che canta, ma alla voce si armonizzano le mani, in quanto alle parole seguono le opere”.
Raccontava. “Si era durante la guerra, (negli anni 1941-’43); un mio parrocchiano in servizio per la difesa della Patria, vuole coronare il suo sogno d’amore e si sposa. Ottiene la regolare licenza matrimoniale di quindici giorni, ma o l’ebrezza e la dolcezza della luna di miele, o il terrore di tornare in guerra, fatto sta che rimase a casa un mese. Un giorno si presentano i Carabinieri, lo prelevano e in men che non si dica viene processato come disertore.
Le leggi di guerra sono ferree. Dovrà essere fucilato. Appena la moglie lo sa, si dispera; il suo uomo, doveva morire e solo per aver prolungato la stagione d’amore. Disperata, con i capelli scarmigliati, corre urlando da Don Costanzo. “Me lo devi salvare, me lo devi salvare, se no mi ammazzo”. Povero marito mio, povera me”.
Don Costanzo burbero, ma benefico, ne fu commosso. La donna insisteva, urlava, lo abbracciava ripetendo: “Don Costanzo me lo devi salvare. Tu solo lo puoi”. E lo stringeva a sé, quasi per costringerlo a fare…la grazia. Don Costanzo non sapeva come districarsi da quelle strette… Un po’ abbracciò anche lui, ma poi ebbe il sopravvento il pensiero della sua missione sacerdotale. Promise che avrebbe fatto del tutto. La donna asciugandosi le lacrime, pur fra i singhiozzi, tornò a casa.
Don Costanzo ebbe un lampo di genio. Il suo parrocchiano doveva essere giudicato dal Tribunale Militare di Bari. Andò in chiesa e si prostrò davanti al Santissimo; invocò lo Spirito Santo.
Dicevo che era parroco a modo suo, originale e talvolta fantasioso, ma spesso ricordava il passo di San Paolo: “ Cercate le cose del cielo. Abbiate sapore delle cose del cielo” lo diceva spesso.
Mentre era in preghiera, ebbe un’illuminazione. Si alzò di scatto, prese penna e scrisse: “Eminenza Reverendissima,
il suo cognome è Mimmi, ma io vorrei parafrasarlo in Mamma. Un mio parrocchiano “ e … con grafia nitida e decisa raccontò il fatto al Cardinale Mimmi, che era arcivescovo di Bari (dal 1933 al 1952, poi cardinale nel 1953, dieci anni dopo questo fatto).
Si commosse tanto e alla fine qualche lacrima cadde sul foglio bianco immacolato intestato “Parrocchia de’ Santi, Simone e Giuda” di Torchiaro. Ripensò alla battuta: “Ho due santi sempre spicci che fanno le grazie a chiunque le chiede, perché nessuno ce li sa”.
Stavolta la grazia era forse al di sopra delle possibilità dei due Santi così per un momento pensò Don Costanzo, ma poi dentro di sé, rigettò quel pensiero come se fosse stata una sfiducia verso i protettori della sua Torchiaro. Portò la lettera davanti alle statue di San Simone e Giuda, quasi per scusarsi, o discolparsi della momentanea interruzione di fiducia nei loro confronti. Si recò personalmente nella città vicina per spedire la lettera raccomandata. La lettera viaggiò per Bari. Ci furono giorni di trepida attesa.
Un bombardamento alleato ad un treno fece pensare che forse non sarebbe mai arrivata, forse era andata distrutta… Don Costanzo, il burbero bizzarro, quasi si disperava, quando un giorno eccoti il postino con una lettera raccomandata nel cui retro si scorgeva uno stemma che sembrava cardinalizio, con un cappello rosso contornato da molti fiocchi. (… da metropolita) Una bella busta così a Torchiaro non s’era mai vista. Era il cardinale Mimmi, che rispondeva. Nel retro della busta c’era il suo stemma. Come si vede, Don Costanzo l’aveva “promosso” cardinale dieci anni prima della creazione pontificia…
Firmato per ricevuta e consegnata la lettera, che aveva meravigliato non poco il postino, questi indugiava e non aveva intenzione di andarsene. La curiosità lo tratteneva.
Voleva appagare il suo desiderio, la sua bramosia di conoscere, di sapere. Don Costanzo gli offrì un bicchierino e diplomaticamente lo congedò; appena uscì e fu chiusa la porta, Don Costanzo chiamò le sue perpetue … ”Una di voi vada a chiamare La..” “Che je’ devo di?” chiese subito Pasqualina, ma il curato al pari di Don Abbondio, disse e non disse … Tutti sapevano in paese della vicenda dello sposo novello ed in un momento si sparse in paese la nuova che era stato fucilato. Scarmigliata, terrea in volto, come un razzo giunse a casa del parroco la moglie del suddetto.
Don Costanzo nel frattempo aveva letto e si era commosso. Al vederlo così, la giovane sposina gridò subito: “L’hanno ammazzato quei porci” e, quasi per aggrapparsi ad uno scoglio di salvezza, abbracciò Don Costanzo. L’emozione e la commozione erano al superlativo assoluto. Lei piangeva di disperazione, Don Costanzo di commozione e nell’onda delle opposte emozioni non riusciva a spiegarsi. Ripresosi, urlò con quanta voce aveva: ”Ma che piangi, che urli; è salvo, è vivo”. Peppina e Pasqualina che assistevano alla scena piangevano anch’esse, ma non sapevano, se di gioia o di commozione.
Don Costanzo mostrò la lettera. Lesse con il cuore in gola. Il marito era salvo, era vivo, anzi sarebbe tornato per una breve licenza prima di recarsi al fronte. L’accostamento, quasi omonimia “Mimmi, Mamma” aveva fatto un certo effetto. Immediatamente si sparse la nuova in paese; tutti accorsero a casa di Don Costanzo. La signora non cessava di piangere, ma si vedeva che erano lacrime di gioia piena. Il postino spiegava che era merito suo aver portato la lettera con i fiocchi rossi. Quasi quasi era stato lui a salvare dalla fucilazione quell’uomo! Quando Don Costanzo raccontava il fatto si esaltava e declamava così: “ Era tanta la mia gioia, ma tanta la mia preoccupazione delle moglie che si appoggiava su di me disperatamente.”
Inutile dire che in giro si sparse subito la notizia. Poi a Torchiaro fu un accorrere di gente per ottenere i più impensati favori. Chi chiedeva il ritorno del marito dalla prigionia; chi di avere notizie di un congiunto disperso in Russia; chi lo invitava a scrivere a qualche vescovo o cardinale dell’Australia, perché o marito o figlio o cognato erano prigionieri in quel continente e da tempo non scrivevano più.
Per qualcuno la cosa andò bene. Non sapeva l’inglese, ma con il suo latino Don Costanzo ottenne miracoli di riattivazione della corrispondenza; ed anche tra fidanzati divisi dal Moloch della guerra. Anzi, finita la prigionia e tornata la pace, molti fidanzati l’uno là prigioniero, l’altra qui, vollero che il loro matrimonio fosse benedetto da Don Costanzo.
I suoi interventi, o presso la Croce Rossa, soprattutto grazie ad interessamenti episcopali salvarono o ricongiunsero molti. Pensate che riuscì a far cercare un prigioniero, suo parrocchiano colonnello dell’esercito, che si chiamava DEL PAPA. Non si sa bene, se il vescovo australiano interpretasse quel Del Papa, scambiandolo forse con un parente del Santo Padre; fatto sta che la sua visita al campo di concentramento fu provvidenziale e miracolosa, perché quel paesano colonnello passava proprio in quel periodo un brutto momento di sconforto e di abbattimento.
*
Un ricordo che lo adirava era il seguente. Un giorno si presentò una signorina forestiera, che sprizzava vitalità da tutti i pori. Chiese di potersi confessare; Don Costanzo era lieto di offrire il suo ministero e non si fece pregare, anzi ringraziò il Signore che gli offriva un’occasione di far del bene. La serie di peccati era lunga, dettagliata, circostanziata precisa. “Questa sì che è una buona confessione pensava il curato”… Ma quando uscì dal confessionale e fece un giro di ricognizione nella chiesa, non tardò ad accorgersi che tutte le cassette delle elemosine erano state vuotate con ladresca maestria. Ecco perché ogni tanto la signorina tossiva o si soffiava forte il naso. Erano segnali o coperture per lo scassinatore!
Questa truffa gli rimase per molto tempo come un magone sullo stomaco. “Che tempi! Che gioventù ci vengono incontro” esclamava severo. “Che tempi, che gioventù” facevano immediata eco Peppina e Pasqualina.
Le due erano l’ombra di Don Costanzo e non dissentivano mai dalle sue considerazioni; lo ricolmavano di cure, sembravano non stancarsi mai, né adombrarsi di fronte alle prove quotidiane, ai rimproveri. Zappavano l’orto; seminavano; allevavano galline, conigli, rammendavano, stiravano, badavano alla sacrestia, accompagnavano il coro nel canto domenicale e nelle messe da morto. Il tutto con un impegno costante; ci mettevano tutte se stesse, sempre ossequenti.
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Peppina e Pasqualina ebbero il loro momento curioso di gloria rendendosi protagoniste di un “comunicato stampa” per conto di Peppe il macellaio ed ecco come. Subito dopo la festa patronale dei santi Simone e Giuda Taddeo che cade il 28 ottobre (data fatidica nei tempi passati), il curato si era recato per un breve periodo di riposo dagli Agostiniani nella vicina Fermo. Sarebbe tornato per il primo novembre Festa di tutti i Santi; il due novembre, si sarebbe recato con le Confraternite al Camposanto.
Al mattino del 30 ottobre, bussava trafelato alla porta della parrocchia Peppe il macellaio del paese. Doveva comunicare alla clientela che la macelleria restava chiusa il primo novembre ed aperta il due.
Peppe aveva frequentato sì e no le scuole elementari e per essere sicuro della ortografia del comunicato chiedeva “lumi” a Don Costanzo. Ma non lo trovò. Peppina e Pasqualina cercarono di provvedere loro e così dalla spremuta concentrica dei cervelli delle tre P: Peppina, Pasqualina e Peppe, si cercò di “sopperire alla bisogna” ma non veniva fuori granché. Pasqualina, che da piccola era stata presso le Suore, ebbe però una repentina “illuminazione”. Andò nella scrivania di Don Costanzo prese la carta intestata della Parrocchia, la girò e trionfante, scrisse a stampatello:
“ AVVISO AI CLIENTI
LA MACELLERIA RESTA CHIUSA PER I SANTI
E APERTA PER I MORTI.”
Anche Peppina volle avere il suo momento di protagonista. Fece subito notare che i Santi doveva essere scritto con la maiuscola e i morti pure… Cosa che fu attuata nell’ “edizione definitiva”.
Don Costanzo tornato dalle “ferie spirituali”, vide il manifestino e sorrise di gusto, proprio perché era quanto mai originale e aveva attirato tanti sguardi e suscitato battute ironiche.

IL PRESEPIO, MISS KODAK E … IL MORTO
La compagnia del curato era distensiva, simpatica; alcune sue trovate evidenziavano una fantasia inesauribile, come quella volta che ne fece una cosa sorprendente a Natale.
All’approssimarsi di questa festività, gli alunni erano investiti da un sentimento di gioiosa attesa… Tutti dovevano raccogliere il musco e portarlo al parroco, che allestiva il presepe in chiesa; questa era la tradizione, guai a non rispettarla!
Grande però fu la mia sorpresa, quando un lunedì, rientrando a scuola, trovai sulla cattedra uno scatolone contenente malconce statuine del presepe.
Un alunno mi trasmise subito il categorico messaggio del curato; bisognava aggiustarle tutte. Incominciai a tirarne fuori qualcuna, ma…all’angelo mancava un’ala, al Bambinello una manina benedicente ed un piedino, allo zampognaro s’era staccata la zampogna…
La testa cominciò a ronzarmi; non ero proprio fatto per quel lavoro… come uscirne fuori? Che giustificazione addurre?
Per fortuna l’ingegnosità, la creatività, l’operatività degli alunni mi furono di grande aiuto e così, per nostra pace, ma soprattutto per la gioia del curato, portammo a termine i restauri…
In men che si dica, il presepe fu allestito… e poi non tanto male; montagne, valli, fiumi, laghi… un vero paese! Aggiungiamo, però, che non mancò un allagamento del pavimento della chiesa, dovuto allo straripamento del fiume e del lago del presepe, una domenica sera, quando Peppina si dimenticò di chiudere il rubinetto che alimentava il fiume e il lago …
Tutta la gente, lì in chiesa davanti al presepe, viveva momenti d’incanto; tutti sembravano presi da un immenso entusiasmo, perché il curato presentava ad una ad una le statuine come fossero persone conosciute; la gente si faceva il segno della croce, baciava il Bambinello come fosse di carne vera!
Nell’archivio del mio cuore, quell’atmosfera suggestiva, colma di semplice, autentica umanità, di quella folla raccolta, profondamente unita nell’intensa esperienza religiosa, spesso ritorna con suoni e voci… Già: nel cuore nessun luogo è lontano; il ricordo è sempre vivo; non è schiavo del tempo e dello spazio!
*
L’inverno intanto si faceva sentire; non mancavano i grandi fuochi con ciocchi di quercia, o di castagno per chi poteva permetterseli, anche fuochi con semplici sterpi o rovi, raccolti qua e là, uno dopo l’altro lungo le siepi e i greppi. “I poveri si scaldano con poco, si scaldano con l’amore divino”, soleva ripetere il buon Don Costanzo (qualche parrocchiano era molto devoto a Bacco, e “di.vino” assumeva un duplice, birichino significato).
Ma quando la neve scese con eccessiva abbondanza, il paese rimase isolato, privo di comunicazioni; occorrevano medicinali, coperte, viveri… La situazione era diventata grave; bisognava chiedere l’intervento del Prefetto… Per comunicare con gli uffici provinciali, necessitava però raggiungere un centro vicino più grande; a Torchiaro non c’erano né l’ufficio postale, né quello telegrafico. Don Costanzo chiamò a consiglio le menti pensanti del paese; le due perpetue Peppina e Pasqualina, il mezzo sacrestano Quarantò, Pilluccu, Cucciulì e… anche me. Fu deciso che solo lui, con la sua antica e forte auto Balilla poteva affrontare tale difficile percorso.
Fu una vera odissea. L’auto rimessa sotto un fatiscente capanno, era diventata l’abitazione momentanea di galline, pollastre, galli ed oche… Le due perpetue, furono incaricate di trasferire i gallinacei; qualche forzuto del luogo ed io con i miei alunni, dovevamo essere pronti a spingere. Il freddo era intenso e la scassata auto non partiva; fu inondata di acqua bollente per riscaldarla, ma niente da fare; occorreva spingere…
Chiamai quei pochi alunni che, nonostante la neve, avevano raggiunto la scuola ed unito a loro spingemmo quella benedetta carcassa; “Dai! dai, spingi!”… All’improvviso, la macchina partì, scattò veloce, trascinando a terra, sulla neve, le due perpetue che si erano unite alla turba per maggior forza.
Don Costanzo raggiunse il paese vicino; fu spedito un vibrante telegramma; “ S.O.S. Torchiaro isolata, urgono: viveri, medicinali, coperte!”. L’allarme ebbe effetto immediato; dopo un solo giorno l’elicottero, ripetutamente, sorvolò il paese, lanciando viveri, medicinali, coperte… una vera manna esattamente come aveva chiesto il furbo parroco.
Alla vista di quel ben di Dio non mancarono motti, detti, ed esclamazioni. Ognuno sentenziava la sua “È vero! Bussate e vi sarà aperto”. “Volere è potere”. “È meglio andare, che cento ‘andremo”. “Necessità aguzza l’ingegno”. “A chi nulla tenta nulla riesce”. “Dove voglia è pronta anche le gambe sono leggere”. “L’ingegno è il capitale dei poveri!”.
In realtà questa gente semplice, esprimeva sinteticamente tutta una cultura popolare sulle grandi potenzialità umane, che però per venire alla luce richiedono volontà, impegno, coraggio, entusiasmo, spirito d’iniziativa. Feci tesoro di questa lezione di saggezza, di fiducia nella vita; la interiorizzai. La vita spesso insegna più dei libri.
Occorreva tuttavia ringraziare il Prefetto, che aveva mandato l’elicottero. Fui impegnato in prima persona. “Maestro, adesso tocca a te!” Capii l’antifona e mi accinsi a stilare la lettera di ringraziamento, ovviamente a nome di Don Costanzo e dei paesani. Scrissi una sentita lettera. Don Costanzo approvò con grande lode. Egli stesso volle consegnarla personalmente al Prefetto. Già, dimenticavo di precisare che questo buon curato trovava tempo per moltissimi impegni.
Conosceva bene gli animi, le miserie umane ed intelligentemente evitava certe bigotterie, o regole imposte dall’antica usanza. Voleva andare incontro a tutti, accettare tutti, buoni e peccatori, calmi o tumultuosi. Era fratello, padre, consigliere, farmacista, notaio, legale a seconda delle necessità. Quando una tremenda grandinata devastò il frutto del lavoro di un intero anno di molti parrocchiani, lo vidi piangere. Così come sapeva gioire intensamente del clima festoso di un matrimonio, di una nuova creatura che veniva al mondo, della prima comunione dei bambini, soffriva con chi soffrisse.
Ma torniamo al suo impegno di recarsi al capoluogo di provincia per ringraziare della solidarietà ricevuta nell’emergenza neve. Quel viaggio rimarrà proprio nella storia, perché parte di esso il curato lo fece a bordo di un carro funebre. Ecco come. Nell’andata, tutto bene! Congratulazioni e complimenti del Prefetto per la bella lettera. Tanta la gioia di Don Costanzo. In quell’occasione fece bella figura… Tutta la Prefettura di Ascoli P. volle conoscere quel simpatico curato.
Il ritorno da Ascoli si prospettò difficile, anzi difficilissimo. La neve cominciò a cadere come mai si era visto negli ultimi cinquant’anni. Un taxi, chiamato per riportare Don Costanzo a Torchiaro, nonostante un prospettato doppio pagamento, non volle cimentarsi. Il cammino era lungo ed neanche con le catene si aveva un certo affidamento. Il curato aveva premura di ritornare a Torchiaro…
Entrò in una chiesa: si stava celebrando un funerale. Quando vide che il carro funebre era targato Ancona; Don Costanzo ebbe un lampo di genio. “Dovrà ripassare per l’Adriatica” pensò; tanto disse e tanto fece, che convinse l’autista e l’aiutante; ma non trovandosi altra soluzione poteva solo venir issato a bordo … al posto della salma, portata pochi minuti prima all’eterna dimora. Accettò.
L’autista, e l’aiutante non avevano opposto rifiuto alla richiesta della sistemazione; Don Costanzo era piuttosto grosso. Il suo peso unito a quello degli autisti avrebbe fatto aderire maggiormente le gomme e le catene sulla neve. Il che era positivo!
Ma qualcuno, lungo il tragitto si accorse del “defunto-vivo”. Anche se coperto dal mantello nero, ogni tanto Don Costanzo si muoveva. Misericordia! Un morto risuscitato! Se lo telefonarono l’un l’altro. Si chiamò la Polizia. Ma, con quel tempo, chi poteva muoversi? Arrivati vicino al fiume Aso, fecero una sosta; gli autisti scesero, scese pure il “morto” e andarono al bar. Delle bollenti chine calde, fecero risuscitare i vivi e il “morto”.
Sorbite le bevande, con disinvoltura e naturalezza il “morto” tornò nel suo “loculo” senza farsi notare e i suoi guidatori nell’abitacolo. La macchina procedeva a velocità moderata. Ma presso il fiume Ete il carro funebre dovette fermarsi per il fatto che un incidente aveva bloccato la strada. Indaffarate e incappucciate, diverse persone erano lì all’aperto. Molti, incuriositi, si avvicinarono allo pseudo-morto. Qualcuno si fece il segno della croce. Don Costanzo fece scongiuri. Il giorno dopo lo seppero in Prefettura e risero di cuore. o stesso Prefetto rideva sotto i baffi, dignitosamente, elegantemente.
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Dopo questo viaggio però, Don Costanzo forse per il freddo, forse per un virus influenzale si ammalò. Inutile esprimere le angosce delle perpetue; Peppina e Pasqualina che si alternavano con impiastri, mattoni caldi, infusi per la tosse, trabiccoli fumanti; anche i paesani manifestavano la loro generosità. Chi poteva, portava: pecorino profumato, ricotta, uova, ciambelle fatte in casa, conigli, polli ruspanti.
A dire il vero, in quel periodo io stetti bene. Dato il fatto che il curato non aveva molto appetito, mi invitava spesso, perché con la mia voglia di mangiare lo contagiassi.
Dopo un po’ di tempo, sul lindo, grazioso paesino si abbatteva la falce della morte. Tra i più assidui parrocchiani che si erano recati a visitare Don Costanzo c’era stato anche Cucciulì, minato già da una grave malattia, ma dotato di gran voglia di vivere. Pareva non fosse nulla, ma dopo cinque o sei giorni di febbre altissima stava per andarsene. Cucciulì viveva in campagna, vennero a chiamare Don Costanzo per gli ultimi sacramenti. Io lo accompagnai con la mia Fiat 600, che nel frattempo, grazie allo stipendio, aveva sostituito la mia Vespa. Salimmo le scale, si parlò del più e del meno, Cucciulì si confessò. Era piuttosto sereno, ben conscio di dover morire “Don Costanzo, non ci vedremo più; stavolta l’ora della chiamata è vicina”.
“Beato te che andrai a cena con il Signore” rispose Don Costanzo e Cucciulì dal letto di morte, con arguzia contadinesca gli chiese: “Curato, non potresti venire anche tu alla cena con il Signore?” – “Io la sera non faccio cena, prendo solo una tazza di latte” fu la risposta pronta. Era tanta la confidenza e la cordialità che, moribondo e curato, scherzavano anche nell’ora tragica e suprema del trapasso.
*
C’è da considerare che quando la morte bussava prematuramente a qualche porta, o qualcuno soffriva, Don Costanzo era sempre presente a condividere pianto, preoccupazioni, disavventure.
A proposito di dolore, spesso l’ho sentito narrare questa leggenda, che amo tantissimo e che a mia volta ho raccontato ad altri, compresi gli alunni.
\ In Paradiso c’era uno spirito bello e felice, ma fece uno sbaglio e fu scacciato temporaneamente dall’Angelo del Signore. Mentre usciva, lacrimante, dal luogo beato, l’Angelo gli disse: “Potrai varcare di nuovo questa porta, solo se porterai un dono straordinario, gradito a Dio. Solo allora sarai perdonato”.
Lo spirito fu subito rassicurato da tale promessa e prontamente iniziò a pensare… e disse: “Se io mi riempissi di luce?” Volò tra gli spazi, rapì i raggi alle stelle più luminose, alla luna e si vestì di tanto splendore, poi raggiante si ripresentò alla porta del cielo.
Ma l’Angelo così gli rispose: “Attraverso quel folgorio di luci la tua macchia appare ancora più vistosa”. Lo spirito triste piegò il volto a terra e ripartì.
Nell’aria brillava primavera, freschi fiori sbocciavano odorosi e profumati! Ne colse di belli, si adornò la fronte, il collo, le vesti e salì di nuovo per entrare nel Regno. Ma anche questa volta fu respinto, perché il profumo dei fiori non copriva il disgusto della sua colpa.
Lo spirito allora cercò nelle profondità del mare e raccolse pietre preziose. Ma quelle ricchezze furono ugualmente rifiutate, perché non coprivano completamente la sua povertà.
Lo spirito era veramente desolato: cosa portare? Ad un certo momento vide un figlio brutale percuotere sua madre e questa piangere, piangere lacrime amare.
Lo spirito raccolse quelle lacrime con rispetto dentro “il calice” di un fiore e risalì verso la porta dove l’Angelo lo stava aspettando e subito gli domandò: “Cosa porti questa volta?” Mostrò il calice ed esclamò: “Le lacrime del dolore”.
Allora l’Angelo spalancò la porta, chinò il capo in segno di riverenza e disse: “Entra, al dolore Dio apre sempre la porta del Paradiso”. \
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Don Costanzo soffriva, ma non piegava mai la testa; così come non voleva né accortezze ingannevoli né falsità. Se qualcuno del luogo si faceva onore era felicissimo, ma ripeteva al fortunato: “Quando sali tutti spingono su, ma se scendi tutti spingono in giù e ti fanno precipitare sempre più in basso…”
Anticipando i tempi, commentando qualche articolo di giornale soleva ripetere “Il consumismo a forza di consumare consumerà pure le idee e ci ritroveremo tra tanti pappagalli o tra tante pecore…”
La presentazione però, che non dimenticherò mai, fu quella di un vedovo. Guardandomi al di sopra degli occhiali ed ammiccando un po’ disse: “Vedi, quello è un condannato, che inaspettatamente ha ricevuto la grazia”. In una frase sintetizzava la storia di una vita.
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Don Costanzo aveva occhio di lince e non sbagliava quasi mai sull’identità della persona.
Torchiaro, o meglio la sua chiesa, qualche volta, veniva scelta da coppie riparatrici per celebrare il matrimonio.
Raccontava spesso, con risate capaci di rimettere a nuovo una persona, il seguente avvenimento.
Dopo la cerimonia, un giovane sposo gli chiede: ”Padre, quanto debbo per la benedizione delle nozze?”.
“Ragazzo mio, non c’è tariffa, mi dia un’offerta in rapporto alla bellezza della sposa!”.
Senza pensarci due volte, quel giovane diede a Don Costanzo mille lire.
Il parroco guardò attentamente lo sposo poi frugando in tasca, tirò fuori cinquecento lire di resto. Ogni commento a questo punto è inutile.
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Non sopportava la preghiera a “spizzichi” o “interessata”, fatta cioè di tante candele accese.
Accusava allora la superstizione, la paura, la necessità. Diceva che era una preghiera troppo facile, comoda… ma scomoda per lui, che doveva provvedere all’acquisto continuo di candele, soprattutto in periodi di scrutini e di esami. Molte mamme del luogo infatti, accendevano candele davanti alla Madonna, o Santi particolari, perché l’anno scolastico si concludesse nel migliore dei modi. Quel gesto le rassicurava, forse le faceva sentire meno sole nell’attesa.

IL ‘SANTO’ NUOVO
I primi annunci primaverili venivano festeggiati in paese con processioni religiose mattutine; era come voler chiedere e sperare una maggiore vitalità fertile per la campagna, per le coltivazioni in genere e per tutto il nostro organismo, un rigenerarsi per proiettarsi verso la vita.
In realtà, come ci insegna la storia, questo bisogno è talmente innato nell’uomo che presso tutti i popoli veniva festeggiato il risveglio della natura con riti di purificazione, con feste, cerimonie, quasi che l’uomo ne sentisse necessità particolari. Basti pensare che i nostri antichi progenitori, i Piceni, sciamarono dalla conca reatina nel Teramano e a nord del Tronto, proprio per voto di primavera sacra.
Durante una processione religiosa (detta delle Rogazioni) un bambino, svegliato in anticipo frignava o piagnucolava assonnato… Don Costanzo in paramenti sacri, senza pensarci due volte, gli si avvicinò calmo, con il grande reliquiario, lo abbassò all’altezza del piccolo. “Zitto, se no ti faccio mangiare dal momò”. Il piccolo sgranò gli occhi, si aggrappò alla gonna della mamma e tacque; non potemmo neanche questa volta frenare una sonora risata all’intimazione dello spauracchio.
La processione cominciava a snodarsi lungo il strada principale del paese con la statua mariana. “Ti salutiamo, o Vergine, colomba tutta pura / nessuna creatura è bella come Te!”. Tale era il canto per la Madonna, il suo splendore e la sua angelica beltà.
Un’altra processione che ricordo con simpatia è quella in onore di Sant’Antonio dalla barba bianca, protettore degli animali, santo temuto ed amato dai nostri contadini. Secondo il curato, tale festa, doveva competere e distinguersi da quelle dei paesi vicini, con un rapporto di competizione e di curiosità. Questa ricorrenza era piena di abitudinarietà e di superstizione, ma molto coinvolgente…
Le campane suonavano a distesa e richiamavano campagnoli, che ben rasati e tirati a lucido gremivano la chiesa oltre l’inverosimile. “Tengono più a Sant’Antonio, che al buon Dio” ripeteva Don Costanzo; sulla piazzetta, davanti la chiesa, portavano le loro bestie strigliate, infiocchettate, per ricevere la benedizione solenne. La statua di Sant’Antonio campagnolo, con il lungo bastone e il porcellino era piena di luci e di offerte…
“Già, era lui, che allontanava le calamità dalle stalle, che proteggeva le nascite dei torelli, o il latte delle mucche… Credo proprio che il buon Dio avrà senz’altro sorriso molto di questo torto o sgarbo dovuto alla popolare credenza!

A proposito di Sant’Antonio c’è un fatto curioso con una venatura leggermente “blasfema”. Da tempo era venerata in chiesa una statua di detto santo, ma tarlata, fatiscente e non più atta al culto. Si pensò allora di sostituirla con una nuova e Pasquale, attivista delle festa, si offrì di farla fare a sue spese. Mise a disposizione un tronco di pero del suo podere e si Impegnò a pagare lo scultore.
Per quanto riguarda la “materia prima” non costituì per lui un sacrificio. L’albero non aveva mai dato frutti. Era sì un tronco possente e robusto di pero e per ricavarne la statua ci volle del bello e del buono, ma alla fine sotto le mani esperte dello scultore venne fuori una statua solenne e maestosa e al solo guardarla imponeva rispetto e riverenza.
L’aspetto solenne e ieratico era così imponente che si dovette cambiare anche il cavallo. Per dare un’idea approssimativa delle proporzioni, la statua era come un granatiere in mezzo ai soldati di fanteria di statura inferiore a quelle dei granatieri.
Posta la statua alla venerazione dei fedeli, Pasquale si recò a pregare con fervore per il fatto che nella sua stalla una giovane mucca era malata e si sarebbe perso un capitale di guadagno e di lavoro. Desiderava che il santo, dopo il suo dono, avesse a fare la grazia della guarigione. Ecco che si sente battere alle spalle. Era suo figlio! “O babbo, la manza è morta!” disse con voce rotta.
Pasquale esclamò a forte voce e collera. “Il peggio viene dopo. Tu sei come il veterinario che per guadagno si mette d’accordo col macellaio”. Aggiunse riferendosi al legno, materia prima della statua: “Tu non hai fatto nemmeno le pere?”
Il fatto era accaduto tempo prima. Evidentemente quell’enorme statua è stata sostituita con altra di dimensioni comuni. Ma il fatto fece tanto scalpore che per vario tempo girò per il paese una poesia dialettale carina ed efficace al riguardo e che s’intitolava appunto “Lu santu novu”.

I FUNGHI E LA PROVA DEL GATTO
In occasione di un’altra festività, mi sembra Pentecoste, il curato chiese ed ottenne l’aiuto di alcuni frati per le confessioni generali.
Proprio il giorno precedente, un montanaro, aveva portato in dono a don Costanzo un cestino di funghi. Secondo il parere delle perpetue avrebbero profumato e reso più gustose le tagliatelle, ma chi garantiva veramente sulla loro non velenosità?
“La cosa era semplice; secondo don Costanzo, bastava intingere un po’ di pane nel sugo e farlo assaggiare ad uno dei tanti gatti in giro per la canonica. Se fosse sopravvissuto…”. Così fu fatto e non ci fu responso negativo.
A pranzo mangiavano con gusto; gli stessi frati furono entusiasti… sul loro desco non sempre avevano l’opportunità di avere cibi così succulenti… Erano alla fine, quando, come una saetta, Peppina, che era scesa in cantina a prendere il vino cotto, si diresse verso il curato e gli farfugliò all’orecchio qualcosa.
In cantina aveva visto il gatto che miagolava e si contorceva… quindi i funghi erano velenosi; avevano evidenziato i loro effetti con ritardo, ma non c’era dubbio, erano velenosi…
Lascio immaginare al lettore il parapiglia e lo sgomento di quel momento: che fare? Bisognava interpellare subito un medico, chiamare il pronto soccorso, assumere del latte, vuotare immediatamente lo stomaco…
Il frate più anziano, però, si volle far accompagnare in cantina per controllare di persona il gatto e constatare la gravità dell’avvenimento, ma quale non fu la sua sorpresa nel vedere due bei micetti nati da poco. La gatta (e non il gatto) si contorceva, ma per il parto…
Passato lo spavento, ci risero sopra, ma questo fatto ancora oggi viene raccontato, soprattutto in convento.

*GRANDE EVENTO
L’avvenimento che coinvolse entrambi, curato e maestro, fu l’arrivo dei bersaglieri. Don Costanzo mi esortava spesso a far cantare canzoni patriottiche agli alunni, perché attraverso queste c’era l’assimilazione della storia, c’era l’interiorizzazione e la personalizzazione della conoscenza.
A far nascere la forte curiosità in tutti i bambini di conoscere da vicino, dal vivo i bersaglieri fu proprio una di queste canzoni: “Quando passano per via, gli animosi bersaglieri…” inoltre fu la guerra di Crimea, studiata con gli alunni di quinta classe (in quell’epoca un unico insegnante aveva affidate cinque classi; c’era la famosa e deprecata pluriclasse) e furono le famose figurine Liebig, che riportavano immagini di giovani bersaglieri con i bei cappelli piumati.
Potevo deludere questo desiderio più che naturale degli alunni? Ne parlai con il curato che, impegnato oltre l’inverosimile con ritiri per il clero, con commissioni economiche, mi diede il suo pieno consenso per ogni iniziativa, che volevo prendere a riguardo, mi offriva il suo sostegno morale, ma lasciava al mio estro ogni decisione da prendere.
Fu spedita subito una lettera al colonnello dei bersaglieri, che prestavano servizio nel capoluogo di provincia, anzi, gli alunni acclusero anche la cifra di cinquecento lire ricavate dalla vendita di uova. Chiedevano di poter vedere, di parlare, di fotografarsi con due bersaglieri, per intervistarli e sapere alcuni dati importanti del loro servizio e della loro vita; la somma era per la spesa-viaggio che avrebbero sostenuto.
Il colonnello, sensibile e carico di grande umanità, non ci fece attendere molto la sua risposta. Non solo sarebbero giunti in due ma ne sarebbe venuto un plotone. L’arrivo a passo di corsa, con trombe squillanti fu d’un godimento unico; festoni, striscioni, bandierine abbellivano l’avvenimento, che toccava tutti nel profondo dell’animo.
Che dire degli alunni? Il loro cuore aveva accelerato il battito, il sorriso sprizzava gioia, le mani s’intrecciavano con forza ed entusiasmo. La notizia diffusa prontamente dalla radio richiamò sul luogo tantissima folla festante, applaudente, attenta.
Fu per tutti, me compreso, uno shock rivitalizzante ed arricchente. Gli stessi superiori: Provveditore, Ispettore, Direttore mi inviarono lettere di plauso e di consenso. Ne parlarono molto i quotidiani, riportando anche aneddoti curiosi, come quello di un contadino, che, per non perdere l’occasione di ammirare i bersaglieri, falciò il suo grano, giunto a maturazione, per tutta la notte.
Chi però gioì in segreto, senza far pesare i consigli dati, senza apparire in prima persona, né nel comitato organizzatore, creato per l’occorrenza, né tra le personalità in vista, fu proprio Don Costanzo. Quando si spensero le luci della festa, quando ritornò il silenzio, e stavo raccogliendo i fogli delle declamazioni dei bambini… chi vedo alle mie spalle? Proprio lui, il curato, che, abbracciandomi fraternamente, era felice per me e con me. Aveva voluto lasciare a me solo l’onore ed il vanto dell’iniziativa.
Chiesi il perché di tale comportamento, ma con semplicità e sincerità mi rispose: “Ti meriti questo ed ancor di più”. Dice Sant’Agostino: “Avanza, non ti smarrire, non tornare indietro, non arrestarti. Canta e cammina”.
*
ASCOLTO E SOLIDARIETA’
In confessione ascoltava tutti con discreta comprensione e sufficiente bontà, soprattutto quelli che, saputo della sua generosità, raggiungevano Torchiaro da distante, per scaricare cannonate morali. Ripeteva: “Non sono io che perdono, ma quel povero Cristo, che ha sofferto ed è morto in croce per questi”:
Se però un o una penitente sceglieva orari sbagliati, spesso sentiva rimproverarsi “Figlio mio, o figlia mia, proprio adesso t’è venuto il pentimento? Spicciati, devo andare alla Mutua o al Consorzio, Nostro Signore sa… tutto. Alla fine impartiva la benedizione e l’assoluzione.
Aveva una grande avversione per le suocere che confessavano le loro animosità verso le nuore; spesso chiudeva loro lo sportello in faccia, o le rimbrottava dicendo: “Vergogna, sei invidiosa.” La penitente si dileguava celermente.
Famosa è rimasta qualche confessione di penitenti che non potevano raggiungere il confessionale. Andava il prete e una volta usò come grata uin corbello; altre volte col setaccio per non mettere in difficoltà il penitente.
Oggi, tutto è semplice e facile, anche le confessioni “a viso aperto”, ma a quei tempi… c’era un grande timore per il viso scoperto.
*
Don Costanzo viveva pienamente la solidarietà, la gioia del dono; ogni giorno a suo modo scriveva una pagina di bene, senza ricorrere a molte parole. Ho davanti agli occhi quel povero spazzacamino, che ospitò nella sua canonica con amicizia fraterna. Lo aveva incontrato a Fermo. Lo spazzacamino gli aveva offerto in vendita un almanacco; era il “Barbanera di Foligno”. Don Costanzo, quel giorno, aveva dimenticato a casa il portamonete e non aveva il becco di un quattrino; non osò chiederli in prestito, perché nessuno gli avrebbe creduto. Giunto a casa, vidi delle lacrime rigargli il viso. Mi chiese di andare in città a rintracciare lo spazzacamino. Certo non fu facile, ma ci riuscii con l’aiuto di alcuni volenterosi. Lo portai a Don Costanzo. Lo spazzacamino non credeva ai suoi occhi; viveva in un’atmosfera di irrealtà; abituato alla solitudine, all’attesa, selvaggio e randagio, stentava a credermi. Giunti a casa del curato i suoi occhi si bagnarono di commosso stupore. Vi rimase per una settimana. Il commento di Don Costanzo fu solo: “E stata una vera grazia! Cristo cammina ancora scalzo e nudo per le strade”.

IL PRETE NERO E IL ‘MADONNARO’
La novità di un viso nero (“Musonero” lo chiamavano i curiosi) a Don Costanzo suggerì un’idea brillante. Da un po’ di tempo, la frequenza alla Messa domenicale lasciava a desiderare. Nella vicina Fermo, i missionari della Consolata avevano un sacerdote indigeno del Kenia, di pelle nera. Allora lo invitò a celebrare la Messa domenicale. Avvisò puntigliosamente tutti e, vuoi per il missionario nero, vuoi per la curiosità, nessuno sarebbe rimasto a casa.
Se non che, il sabato morì Lisa, a 99 anni, quando già si stavano preparando i festeggiamenti per il compimento del secolo. I funerali occorreva celebrarli proprio la domenica. Ormai i parrocchiani sapevano del prete nero; non si poteva tornare indietro, la credibilità costanziana sarebbe scaduta. La domenica, la chiesa era affollatissima; il prete nero rivestito anche dei paramenti neri, mettendo in mostra una chiostra di denti bianchissimi, celebrò la messa funebre. Va bene che Luisa aveva 99 anni e mesi, quindi la sua morte era quasi un fatto naturale, ma vedere, quel sacerdote africano, con i paramenti neri, cantare le esequie, pronunciando un latino stentato, molto diverso da quello di Don Costanzo, fece sì che il fervore, la commozione passassero in seconda linea…
Don Costanzo approfittò della circostanza per dare alcuni avvisi, ma soprattutto mise in risalto che perché era venuto un nero, le loro “anime nere” erano tornate all’ovile…
*
ESORCISTA. All’inizio di questo mio racconto di diario sostenevo che Don Costanzo era un po’ di tutto: sacerdote, consigliere, veterinario, fratello, giudice…ed anche esorcista.
Ai più intimi raccontava spesso un episodio strano: salsicce e salami che, in una casa, di notte, compivano giri strani o salti da una stanza all’altra. Don Costanzo andò, benedì ripetutamente, confessò i componenti della famiglia, fece distribuire le salsicce ai poveracci e finalmente ritornò pace e tranquillità.
Quell’esperienza, per tre giorni, gli aveva tolto lo scilinguagnolo, il cuore gli batteva come una foglia sotto la tramontana. Ci volle vino e vino per rimettergli un po’ di calore nel sangue!
CHI DIPINGEVA MADONNE. Un giorno Don Costanzo incontrò un “madonnaro”. Uno di quelli che dipingono Santi e Madonne con gessetti colorati sulle piazze, sui marciapiedi. Era magro, allampanato. Se lo portò a casa. A Torchiaro non c’erano grandi superfici lisce per dipingere; la piazza era un acciottolato, le vie sconnesse e dissestate, forse anche l’animo di Don Costanzo era ruvido e ruspo, ma era quello del burbero benefico ed il “madonnaro” lo capì e ne fu commosso!
Non lasciò alcun suo lavoro, ma promise che, a Dio piacendo, sarebbe ripassato forse tra un anno… o due… Chissà?
*
TRASFERIMENTO. L’anno scolastico volgeva alla fine; Don Costanzo che aveva riposto in me non so quali arcani disegni, seppe dalla stampa che ero stato trasferito in una sede scolastica più grande e più vicina a casa mia. Ne fu addolorato anche se, onestamente, capiva che era umano ambire ad un riavvicinamento. “Adesso chi mi scriverà le belle lettere come sapevi fare tu? Chi mi terrà compagnia nelle partite?”
Intanto il nuovo edificio scolastico stava diventando una realtà; Don Costanzo si sentiva felice, realizzava un sogno accarezzato da tanto tempo ed anch’io ero orgoglioso di avere contribuito in qualche modo a questo.
Il distacco dal paese sarebbe stato meno amaro; lì lasciavo qualcosa di mio. Ero lusingato anche perché gli alunni avevano preso a studiare volentieri, a leggere, a ricercare, senza molte difficoltà; avevano scoperto che il sapere può essere fonte di gioia e di conquista.
*
L’ultimo giorno di scuola non mancarono foto-ricordo; anche qui ci fu una nota curiosà; la piazzetta era popolata da piccioni grigio piombo, che volavano in gara a stormi intorno al campanile…
Uno, planando come un aliante, poco educatamente lasciò cadere un piccolo rifiuto sul viso di un bambino che naturalmente scattò… Di conseguenza prese un bel ceffone dal curato il quale, però, non avendo dosato bene la forza, lo fece sbattere col compagno vicino creando così un parapiglia… e costringendo il fotografo a ripetere diverse volte la messa in posa… che sembrò un’eternità.
In quell’occasione, vidi ai piedi di Don Costanzo un paio di scarpe nuove, fiammanti… come se dalla foto si fossero potute notare…; “Beata semplicità” mormorai tra me e me…; seppi poi che tutto era stato orchestrato da Peppina e da Pasqualina, che non volevano si ripetesse “il fattaccio” riportato dai giornali quando era venuto Gronchi. Infatti, anche la veste di Don Costanzo aveva qualcosa di diverso: era stata passata pezzo per pezzo con un’erba che possedeva le virtù di ridare alla stoffa lucentezza e pulito, erba di certo superiore agli attuali detersivi.
Ci fu anche un pranzo di saluto con squisite tagliatelle alla papera, agnello scottadito, profumato, fatto su brace ardente, forte “acqua dell’Aso” cioè un mistrà casereccio in uso dalle nostre parti.
Non mancò il discorso di saluto di Don Costanzo, che pubblicamente mi fece promettere di ritornare spesso colà. Giurai che volentieri sarei tornato; ormai Torchiaro era, come scrisse Silone in un suo romanzo, “il paese della mia anima”. Lì infatti avevo trovato amicizia vera, felice, autentica: avevo trovato una mia seconda famiglia e poiché ero orfano avevo trovato in lui anche un padre, con affetto vivo, delicato ed educante.
Da Don Costanzo avevo imparato ad essere con gli altri, a vivere con gli altri, a comunicare insieme; avevo imparato ad amare la solidarietà, la gratuità, perché avevo capito che nessun uomo è un’isola, ma una parte viva, una cellula rigeneratrice di tutta l’umanità.
Dice un proverbio orientale: “Se hai un amico, vai spesso a trovarlo, perché le spine e le erbacce invadono il sentiero che non viene percorso…”. Io feci proprio questo.
Anche dopo il mio trasferimento, continuai a mantenere i contatti con alcune famiglie dei mie ex alunni e con Don Costanzo.
*
Tornavo a trovarli nei giorni di vacanza, o in occasione di festività. Una di queste era la Sagra del Paese, in onore dei Santi Simone e Giuda, protettori di Torchiaro. Secondo Don Costanzo, questi concedevano molte grazie, perché nessuno ce li sapeva; erano santi “disoccupati”, senza tanti “clienti”.
“Una parrocchiana, dopo essersi rivolta a S. Antonio da Padova per sistemarsi, pregando poi i Santi suddetti aveva trovato subito marito…” raccontava il curato. Invenzione, caso, fortuna? Chissà!
La festa era un lieto ritrovarsi, un fare baldoria insieme. Le giovani rinnovavano il guardaroba, i giovani aspettavano questa occasione, per presentare calde dichiarazioni d’amore. C’era la banda, poi i fuochi artificiali, la tombola, il palo della cuccagna… Non mancavano stornelli, saltarelli, che facevano accorrere gente anche dai paesi vicini.

DON COSTANZO E IL PREFETTO
La vita scorreva lenta, inframezzata da gustosi episodi, che sarebbe lungo raccontare, così come sempre vivaci e salaci erano le battute del curato.
Un giorno capitò il Prefetto; era di passaggio nei dintorni, e così fece un’improvvisata a Don Costanzo. Lo aveva conosciuto nel famoso avvenimento del “soccorso per neve” e gli era rimasto piacevolmente impresso.
Il curato ne fu felicissimo; mobilitò subito le perpetue che, in un baleno, sparsero in paese la notizia e raccolsero un po’ di gente.
Il Prefetto visitò la chiesina, e con curiosità sostò presso la lapide ai Caduti, ai piedi della quale un cannoncino, più giocattolo che strumento bellico, faceva bella mostra di sé.
Chissà dove era stato ripescato? Ogni volta che si chiedeva la sua provenienza la risposta era evasiva…. e ciò rientrava nel carattere proprio di Don Costanzo, se decideva di nascondere qualcosa. Il Prefetto visitò l’edificio scolastico e si complimentò per l’impresa riuscita. In canonica accettò un semplice thè, servito questa volta in elegantissime e pulite tazzine, e sostò alquanto a conversare…
Don Costanzo gli mostrò subito la sua maxi fotografia con Gronchi e le pile dei giornali che ricordavano il fausto evento.
La conversazione fu piacevolissima; si toccarono molti temi anche quello del celibato ecclesiastico. Don Costanzo, senza scomporsi, se ne uscì con una pepata esclamazione e ripeté: “Se era una cosa ben fatta, far sposare i preti, crede lei, eccellenza, che la Santa Madre Chiesa non l’avrebbe permesso?”. Di rimbalzo il Prefetto, quasi per stuzzicarlo commentò: “Ma, caro Don Costanzo i preti sono in… estinzione.
Don Costanzo che stava fumando il solito sigaro fece una lunga tirata poi, lanciando in aria una nuvoletta di fumo, con tono scherzoso sentenziò: “Noi siamo come la gramigna…più la sradichi più quella cresce”. Poi: “La Chiesa è cosa divina! Noi preti in duemila anni di storia non siamo riusciti a distruggerla…”
In una battuta sottolineava genuinità, analisi e ciò che è l’intero universo ecclesiale, arieggiando la promessa divina: “Non prevarranno!”
Qualche volta gli si scopriva una cultura insospettata. Infatti il discorso col Prefetto scivolò su tematiche alimentari, sulla salute e sui cibi genuini ecc. Don Costanzo sciorinò in proposito una cultura eccezionale, citò, nell’originale, molti precetti della scuola salernitana. Li sapeva tutti a memoria in modo sorprendente: (Se tu incolume vuoi mantenerti sano, rendi estraneo il prendere ogni preoccupazioni e arrabbiature) Si vis incolumen si vis te reddere sanum / curas folle graves, irasci crede profanum… e andò avanti per un bel pezzo… Voleva fare, e fece, bella figura!
Verso la fine della conversazione il Prefetto disse: “Reverendo, ho saputo che ogni anno fate la rappresentazione della Passione e mi ha commosso il fatto di quel ragazzino che è schizzato sul palco a difendere Gesù dagli schiaffeggiatori. Mi ha commosso davvero! Buon sangue non mente.. Ma mi dica, capisco che per arruolare i personaggi della Passione non trova difficoltà, ma ciò per tutti? Ad esempio, per i due ladroni, quali i criteri di scelta?”
“Eccellenza, sono ladroni di casa… dilettanti, ma in fondo buoni, e poi nella nostra rappresentazione non si salva solo quello di destra; io faccio salvare anche quello di sinistra!”
Ribatté: “Ma come don Costanzo? Lei va contro quanto dice il Vangelo? Solo uno si salvò e quello di destra!”
“Ma Dio, Eccellenza, è misericordioso e quindi…. e poi il Vangelo non dice se era la destra guardando la croce o guardando dalla croce… Ora però è facile trovare i ladroni… pochi sono i dilettanti, oramai sono tutti professionisti… e come!!”.
Stavano per salutarsi e si era già agli ultimi convenevoli, quando, ad un tratto, il Prefetto rivolto a Don Costanzo “Speriamo di rivederci, caro Don Costanzo”, disse: “speriamo di rincontrarci quanto prima”. “Venga presto Eccellenza”, sarà mio piacere ospitarla. “Verrò sicuramente, a meno che…” e, dopo una pausa, “a meno che non mi rapiscano… Viviamo in tempi di cattiverie. Mala tempora currunt, caro Don Costanzo, anche per i Prefetti! …”
“Ma chi vuole che la rapisca, Eccellenza; un uomo così bravo ed importante. Ed il Prefetto: “Non si sa mai”; poi con aria birichina… “In caso di rapimento, caro Reverendo, lei contribuirebbe alla spesa del mio riscatto?…”
Don Costanzo sorridendo “Come no, Eccellenza!”.
“Grazie della solidarietà, caro Don Costanzo! Potrei sapere la cifra?”
Don Costanzo rimase alquanto pensieroso e poi subito: “Vanno bene quattrocento lire?” (= 20 centesimi Euro).
“Don Costanzo ma così poco? Io mi aspettavo di più…”.
“Ma Eccellenza” ribatté Don Costanzo, e scandendo le parole “Nostro Signore Gesù Cristo è stato venduto per 33 denari… “Tenuto conto della svalutazione, della Divinità, dell’lVA, ecc. penso che 400 vadano bene…”
Un fragoroso scoppio di ilarità pose fine alla conversazione di saluto ed il Prefetto, sorridente e soddisfatto, salì in macchina che, rombando, si diresse verso il capoluogo di provincia…

BUONE SERVENTI
Una mattina sentii bussare alla porta: erano Pilluccu e Righetto: Mi portarono delle uova fresche, odorose fragole e formaggio pecorino.
Leggevo però nei loro occhi qualcosa di misterioso… Ad un tratto apparve il breviario di Don Costanzo, era ancora quello tutto in latino.
Si era sparsa – come accade spesso – qualche chiac-chieretta sul curato, anche se poi subito smentita e rientrata. Tuttavia Pilluccu e Righetto volevano vederci chiaro; ogni tanto facevano qualche scherzo a Don Costanzo; un giorno addirittura gli appesero grappoli d’uva sulle antenne del suo apparecchio televisivo, tanto che la gente guardava e rideva commentando “Don Costanzo è fortunato; anche le antenne gli fanno l’uva… bianca e nera contemporaneamente”. Stavolta gli avevano fatto fuori il Breviario ed ecco il perché: sfogliandolo, Pilluccu, il poeta, aveva letto questa frase: Euge, serve bone et fidelis… Le “serve bbone?” Allora era vero! Ed era pure… scritto…
Mi squadernarono davanti il “corpo del reato” raccomandandomi di tenere per me la faccenda… Spiegai che non si trattava di donne, né di “serve bbone”; il significato diceva: “vieni, o servo buono e fedele…”. Ci rimasero male; poi Righetto a Pilluccu: “Te l’avevo detto, tu sbagli sempre”. Pilluccu con quell’atto si era atteggiato “a difensore della morale, si scusò: “Tutti possiamo sbagliare, no? Vero maestro?” Miei simpatici amici, mi considerate vostro consulente, anche in … materia di fede!
*
Alla fine di maggio si preparava la solenne chiusura del mese mariano. Don Costanzo mi invitò alla cerimonia. Peppina e Pasqualina prepararono una buona cena. Per ricambiare, portai a Don Costanzo una scatola di sigari Avana, avuti in dono da un amico capitano di vascello. La chiusura del mese di maggio fu carica di buone ispirazioni e di profondi sentimenti. Era sì la festa della Madonna, ma anche della mamma, della donna…
La manifestazione ebbe luogo nell’aula magna del nuovo edificio scolastico. Don Costanzo, con arte raffinata, presentò la Vergine come donna vera, donna dell’accoglienza, del consenso totale, della fedeltà assoluta; la calò concretamente nelle situazioni, nelle occupazioni e preoccupazioni, nelle vicende di tutti i giorni, lasciando nell’animo di ogni partecipante presente, un’idea di bellezza, di trasparenza, di luminosità, di calore.
Ricordo ancora la conclusione: “Voi donne siete le creature predilette da Cristo… voi, quando gli apostoli ed i discepoli, timorosi, lo abbandonarono eravate con Lui ai piedi della Croce, lo avete seguito fino al Calvario… mai, ripeto mai, Gesù si è scagliato contro di voi, invece lo ha fatto con noi uomini… La stessa gioia della sua Resurrezione l’ha comunicata proprio ad una donna: la Maddalena: siate quindi orgogliose, gelose, della vostra femminilità”.
Non mancarono frecciatine alle fumatrici, ai vestiti corti, scollati, che lasciavano veder troppo… facendo ribollire il sangue nelle vene a coloro che guardavano.

DON COSTANZO STA MALE.
Col passare del tempo Don Costanzo cominciava un po’ ad incurvarsi; ogni cosa, anche semplice lo preoccupava….
Io intanto, superato il concorso di Direttore Didattico, ero stato nominato dirigente della scuola elementare di una zona poco lontana da Torchiaro. “Corsi e ricorsi storici” della vita direbbe qualcuno! Già La vita spesso lega passato e futuro, persone, mondi, cose…
Un triste giorno però, verso le 11 fui raggiunto da una brutta telefonata: Don Costanzo stava male, molto male… Già dal mattino un forte vento di scirocco, accompagnato da intervallati rovesci di acqua mi aveva agitato e innervosito, quasi a profetizzare un evento nefasto; così fu…
Quando entrai nella canonica, il parlottare sommesso dei presenti mi convinse subito che la situazione era grave; il curato infatti era entrato in agonia… Un ictus, in un baleno, aveva paralizzato il suo corpo; mi avvicinai; gli presi la mano e lui quasi avvertendo la mia presenza, aprì per un attimo gli occhi e mi guardò… il tempo di abbozzare un sorriso poi… sospirò fievolmente e reclinò il capo da una parte…
Dal profondo salirono ai miei occhi copiose lacrime; in quell’istante come in un film rividi i momenti e gli avvenimenti vissuti accanto a quel vecchio, caro amico! Ricordando i manifesti “didattici” di Giulio Cesare e di Napoleone, mi chiesero di prepararli per Don Costanzo… Mai avrei pensato che fosse toccata a me tale dolorosa mansione. Ma, per Torchiaro, per noi tutti Don Costanzo era più importante di quei condottieri.
*
I funerali furono solenni; mai vista tanta gente. Vennero molti confratelli; il paese era inondato di fiori. La folla convenuta era raccolta, silenziosa, commossa. Tanti si avvicinarono; si chinarono sulla bara, chi per lasciare un fiore, chi una carezza, chi un arrivederci. Nonostante la presenza di tanti preti, il vescovo invitò me a commemorare Don Costanzo.
Accettai. Non ricordo cosa il mio cuore mi dettò. Tutti piangevano ed io ero “come colui che piange e dice” per dirla con una reminiscenza dantesca. Ricordo però un episodio significativo; quando il vescovo, ricordando Don Costanzo ripeté le parole in latino del Vangelo “Vieni servo buono e fedele: Euge serve bone et fidelis”, si udì un forte singhiozzare…era Righetto che aveva letto già quelle parole. Nessuno sapeva la ragione profonda di quelle lacrime… io sì. Ci guardammo un istante e tacitamente incrociammo lo sguardo di Pilluccu, che abbassò gli occhi e pianse.
Le campane continuavano con i loro tristi rintocchi; davano tristezza ed insieme speranza in Cristo. “Chi crede in me, vivrà in eterno”. Quel giorno fu dichiarato lutto cittadino. Molti i telegrammi, fra essi, uno, commoventissimo, del Prefetto.
*
Ad un mese dalla morte, nel trigesimo, proprio nel luogo che più era appartenuto a Don Costanzo, la chiesa, trovammo una sorpresa. Il “madonnaro”, ripassando da queste parti, seppe la notizia e volle contraccambiare la generosità ricevuta. Sul pavimento della chiesa, lavorando alacremente per l’intera nottata con i gessetti colorati, aveva disegnato l’immagine di Don Costanzo.
Il volto aveva un’espressione quasi celestiale… come se la morte l’avesse divinizzato. Il gioco dei colori, reso ancor più efficace dai raggi che filtravano da una finestra, conferiva a quell’effigie fascino e mistero; sotto di essa in caratteri cubitali spiccava una scritta: Don Costanzo!
Intorno ad essa, si addensarono care memorie! La folla si dispose intorno; ebbe luogo la Messa di suffragio. Forse da quel momento Torchiaro, oltre ai due protettori, ne aveva un terzo: San Costanzo.
Durante la celebrazione dall’organo si levò un coro di voci: ‘Jubilate Deo’, inneggiate al Signore.
L’effigie, immagine vivente di Lui, rimase a lungo sul pavimento della Chiesa.
In paese e nelle vicinanze si parlò per tanto tempo di Don Costanzo; quel canto solenne e maestoso, è rimasto nell’archivio di ogni cuore presente: ‘Jubilate Deo!’ Gioia nel Signore.

RITORNO
Il tempo è passato! Sono trascorsi degli anni, ma il ricordo della mia prima sede scolastica, di Don Costanzo, delle sue perpetue Peppina e Pasqualina è rimasto vivo nel mio cuore. Tante volte nelle vicissitudini della vita in varie parti della penisola, dove per lavoro scolastico sono stato mandato, ho ripensato al piccolo, lindo paesino.
Nell’anniversario della scomparsa di Don Costanzo, mi sono recato con la mia Fiat Punto (diretta discendente dei miei mezzi di locomozione di cui il capostipite era stata la “Vespa”), al piccolo cimitero del paese. L’ho parcheggiata proprio davanti al cancello d’ingresso, dove il parroco soleva rivolgere l’ultimo saluto alle salme dei suoi parrocchiani prima che entrassero nel sacro recinto luogo del riposo eterno.
Sopra l’ingresso, in alto, campeggia la scritta ‘Resurrecturis’ cioè a coloro che risorgeranno. L’avevo letta tante volte, ma oggi ha un significato diverso, pregnante di promessa di vita eterna.
Mi sono recato davanti al loculo che raccoglie le spoglie mortali di Don Costanzo … Ho sostato a lungo davanti alla sua effigie: serena, precisa come quando era vivo. A fianco, vicine l’una all’altra, riposano anche Peppina e Pasqualina, qui venute a pochi anni di distanza.
Un giro tra le tombe e i loculi mi ha fatto rivedere Righetto, Quarantò, Cucciulì; più in là, elegante e quasi parlante, Pilluccu il poeta mancato.
D’improvviso si sono affollati nella mente fatti ed eventi vissuti; come in un film ho rivisto il primo giorno di scuola: Don Costanzo che era là ad aspettarmi per augurarmi buon lavoro; ho rivissuto emozioni, stati d’animo, situazioni…
Dal mio cuore allora è sgorgato un grazie sincero: caro Don Costanzo, quante lezioni di vita mi hai impartito! Ai tuoi consigli debbo qualche affermazione professionale compreso il modo di parlare al pubblico, la tecnica del porgere. (Forse superiore all’Arte Poetica di Orazio!)
I tuoi consigli sono stati efficaci, producenti, anche là oltre Oceano, quando, grazie ad una borsa di studio, mi sono recato per affinare e potenziare la mia cultura linguistica e a proseguire la strada della ricerca storica che ha dato i suoi buoni frutti. Grazie soprattutto dell’ottimismo di vivere, di lottare per la verità e la giustizia, che mi hai inculcato e trasmesso ed io ho ritrasmesso ai miei figli!
Tutto in quel periodo con te è stato bello e determinante per la mia esistenza futura, soprattutto il tuo sostegno, che in me orfano di padre, è stato un cardine di forza morale.
*
Immerso profondamente nelle mie riflessioni sarei rimasto lì chissà per quanto tempo, se mia moglie, venuta con me per curiosare e conoscere i luoghi dei miei ricordi, non mi avesse riscosso con il suo richiamo. “Dai, il buon curato ci guarda dal Paradiso”, esclamò.
Allora sono tornate alla mia mente le considerazioni che Don Costanzo faceva spessissimo sul buon ladrone, l’espressione che usava per incoraggiare i morenti, “Oggi sarai con me”; “Appendi alla croce le tue brutte storie e Cristo le pulirà con il suo sangue”; oppure quella sua curiosa affermazione: “L’importante è non perdere l’ultimo tram di corsa… per giungere al capolinea”.
*
Sistemati alcuni fiori, rossi per la precisione, perché egli amava questo colore, scendemmo verso il paese e ci fermammo proprio davanti alla chiesa.
Entrati, notai subito un’aria di pulito, di ordinato, di lucido. Il rumore della porta richiamò l’attenzione del nuovo parroco che mi si fece incontro per chiedermi se avevamo bisogno di qualcosa. Mi presentai e presentai mia moglie. E appena udì il mio nome, fece un’esclamazione di meraviglia. Aveva sentito tanto parlare del “maestro”, poi divenuto professore, poi direttore.
Per molti del paese, ero un benefattore per eccellenza!
Mia moglie (sottovoce) mi fece: “Aspetta e tra poco ti ritrovi con l’aureola in testa da vivo”.
Parlammo con il parroco, anziano anche lui, destinato lì quasi per riposare, perché la parrocchia ormai contava poche anime. Passai in rassegna molti dei miei ex-alunni ormai uomini maturi. Pochi in verità erano rimasti in paese; molti, raggiunto il diploma all’Istituto Industriale, si erano trasferiti a Milano, a Bologna, Torino, Venezia. Altri si erano arruolati nei Carabinieri, nella Guardia di Finanza; uno, il più vivace, era entrato in convento.
“Chi, Daniele?” Fui proprio meravigliato, perché era un bel furfantello… Ricordai quella volta che per fare uno scherzo buttò le chiavi della chiesa dentro un pozzetto; un’altra volta aveva chiuso dentro un barattolo alcune api e l’aveva aperto davanti al viso di Peppina e Pasqualina che ne furono punte…
Naturalmente parlammo di Don Costanzo… Il nuovo curato mi invitò nella canonica e mi mostrò tutte le foto dell’epoca, che aveva sistemato in una bacheca come archivio degli avvenimenti importanti del paese. Ricordo la meraviglia di mia moglie, nel vedere quelle immagini un po’ ingiallite, ma così significative. Sotto ogni foto infatti aveva inserito una didascalia che specificava, data, avvenimento, protagonisti.
C’erano anche le foto dell’edificio scolastico, dalla prima pietra fino al completamento dei lavori. Dinanzi ad esse il mio cuore ebbe un tuffo, come se qualcuno mi riaprisse un antico libro, per rileggere quei versi pascoliani che sintetizzano questa mia storia, che potremmo definire familiare.
Infatti proprio qui ho trovato la mia seconda famiglia, qui ho posto le radici della mia professione. Li cito così come li ricordo:
“Rivedo i luoghi dove un giorno ho pianto. Un sorriso mi sembra ora quel pianto. \ Rivedo i luoghi dove un dì ho sorriso oh! come lacrimoso è quel sorriso! Questi versi “fotografano” una vicenda umana, uno squarcio di vita paesana, la mia cronaca familiare, intensamente vissuta ed amata.

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