VAGNONI VINCENZO rievoca l’arte e i sentimenti di Adolfo De Carolis da Montefiore dell’Aso.
VINCENZO VAGNONI COMMEMORA ADOLFO DE CAROLIS A MONTEFIORE DELL’ASO L’8 GENNAIO 1974
NEL CENTENARIO DELLA NASCITA DEL GRANDE ARTISTA
Adolfo De Carolis nasceva a Montefiore dell’Aso il 6 gennaio 1874. La famiglia oriunda da Cossignano si era trasferita a Montefiore per motivi professionali da parte del Padre che diveniva medico condotto in questo Comune.
Adolfo è rimasto sempre legato al “Natio Loco” di cui sentiva e gustava la magnifica poesia dei colli ubertosi e delle ridenti pianure. Spesso dalla spiaggia adriatica, ove si recava annualmente a ritemprate le forze e ad attingere nuove ispirazioni per la sua arte nella contemplazione del «Mare Amarissimo», risaliva verso le alture della sua piccola patria, forse a riconfortare lo spirito nel ricordo dei suoi anni migliori.
Quivi infatti aveva assaporato le serene gioie dell’infanzia, delle prime amicizie mai dimenticate; mentre la visione della natura, che si apriva in tutto il suo splendore al suo occhio di bimbo intelligente, aveva affinato certamente il suo spirito alle sublimi creazioni dell’arte. Egli avrà pertanto scolpito più che negli occhi, nel cuore il bel panorama che ammirava estatico della sua Montefiore negli anni della sua prima fanciullezza, la digradante distesa delle verdi colline che si rincorrono sino al mare, la vallata che dal monte Castello, ricco di pini e di annose querce, tra balse e dirupi, declina verso il fiume tortuoso, dal nome pieno di maliosa leggenda; e quei tramonti d’oro, che animano dei più strani riflessi luminosi i campi, i piccoli borghi arrampicati su l’erte lontane ed imponenti vette dei Sibillini. Forse fu il ricordo di tanta bellezza che lo mosse a sottoscrivere qualcuna delle sue mirabili xilografie, col motto che era un richiamo della sua piccola patria «Adolfo de Carolis da Montefiore» o con l’aggiunta di un fiore al suo nome. L’affetto alla famiglia, che aveva respirato di tra le pareti domestiche insieme alle aure balsamiche del suo paesello natio, egli custodì come un sacro deposito nel suo nobile cuore e gli fu guida ed impulso fecondo nel faticoso cammino dell’arte.
Il babbo per la sua formazione morale ed intellettuale in un primo momento l’aveva affidato al Rettore del Seminario di Ripatransone. Allora i Seminari erano quasi gli unici che potevano dare una cultura anche umanistica seria ed il Seminario di Ripatransone allora con tutto il corso ginnasiale liceale e teologico dava sicura garanzia di una seria preparazione al Sacerdozio come alla vita professionistica.
Per sincerità di carattere, non sentendosi chiamato alla vita ecclesiastica, prima si iscriveva al primo anno di scuola di pittura alla Accademia di Bologna, guadagnando poi una borsa di studio dal benemerito Sodalizio dei Piceni, trasmigrava a Roma, ed entrava nel gruppo “In arte libertas”, cui faceva capo Giovanni Costa, studiando al Museo Industriale. Perfezionava i suoi studi artistici a Firenze. Ma mentre ivi completava la sua formazione artistica, arricchiva la sua cultura attraverso le correnti letterarie di quel tempo.
In un articolo pubblicato su “L’Osservatore Romano” del 23 aprile 1913 si legge tra l’altro: «Il 4 gennaio (1903) usciva il primo numero del “Leonardo” fondato e diretto dallo stesso Papini con la collaborazione di G. A. Borgese, Giuseppe Prezzolini e Giovanni Vallati ed altri meno noti. Assiduo frequentatore e collaboratore di Palazzo Davanzati, dove era nata la rivista, era uno dei giovani più attenti alle nuove voci del secolo, Adolfo De Carolis, che pur essendo amico del D’Annunzio, del quale era solito illustrare le copertine ed i romanzi, piaceva a Papini per il suo “berrettuccio celliniano di peluscio” oltre che per il suo valore artistico… ».
«La sua esistenza — scriveva il prof. Guido Guida — si riassume nella fede e nel lavoro. Non un giorno della sua breve giornata fu consumato in cose inutili. La sua famiglia, che tanta eredità di luce ha avuto da Lui, gli diede il sorriso. Ancora i ritratti della sua indimenticabile compagna e dei suoi diletti figli, sono tra le cose più belle che da Lui ci vennero. Egli nella sua arte aveva raccolto il profondo amore di padre e di sposo».
Le sue prime opere sono di ispirazione preraffaellista orientata al rinascimento fiorentino con le opere del Ghirlandaio e del Botticelli.
Le “Castalidi” come pure “La donna alla fontana” sono del 1898, mentre “II concerto” risale al 1900. La seconda maniera dell’arte del De Carolis ha una ispirazione eminentemente michelangiolesca con l’influenza del Veronese e del Correggio.
Tutta la sua arte mirò così a ristabilire una continuità tra lo stile smagliante del Rinascimento e l’epoca contemporanea e questa sua nobile aspirazione lo tenne lontano dalla scuola estremista: cubismo, futurismo, impressionismo. Della sua quotidiana fatica di artista, lo ricordiamo per gli affreschi, dove la tenuità del colore è in contrasto col disegno possente, la decorazione del salone della prefettura di Ascoli Piceno eseguita dal ’16 al ’19; quella dell’Aula Magna della Sapienza di Pisa lavoro che va dal ’22 al ’24; e l’altra del Salone del Consiglio Provinciale di Arezzo, dove svolge il tema “II lavoro dei Campi”. Ma la creazione artistica che occupa, l’ultimo periodo della sua breve vita, sono gli affreschi eseguiti nella sala dei Quattromila a Bologna, dove vengono raffigurati “I Comuni”, “Il Cristianesimo”, “La Rinascita”, “Galli e Romani”, “La fondazione di Felsina”, “Re Enzo” i cui cartoni oggi sono esposti a Montefiore nella sala De Carolis. Lavoro questo che lo tenne impegnato dall’ 11 al ’28 anno della sua morte. Sono anche da ricordare i lavori eseguiti nella Cappella di San Ginesio dedicata ai Caduti e quelli della Cappella di S. Francesco nella Basilica di S. Antonio di Padova a Padova.
Ma non possiamo dimenticare come il suo nome sia indissolubilmente legato alla rinascita della xilografia in Italia. Cominciò incidendo per la “Figlia di Iorio” del D’Annunzio, per il quale aveva già disegnato costumi e scene, deliziosi legnetti di sapore cinquecentesco. Continuò ad illustrare numerose opere dall’Abruzzese, del quale fu amico, fra cui “La Fedra ed il “Notturno”. Poi sempre dando impulso alla decorazione del libro per lo Zanichelli “I classici Greci”, tradotti dal Romagnoli. Dell’opera sua di xilografo ricordiamo ancora i due forti e suggestivi “Autoritratti” (1904-1924) e il “Dantes Adriaticus” (1920) che ornava lo studio del Vittoriale, di cui un esemplare è nella sala municipale di Montefiore. Non mancarono numerosi discepoli e collaboratori, fra i quali merita di ricordare lo Spadini, Antonello Moroni, Diego Pattinelli e Bruno da Osimo.
L’Artista era anche il ricercatore entusiasta delle tradizioni, leggende, dei costumi della nostra terra marchigiana e particolarmente della provincia alla quale si gloriava di appartenere e per la quale affrescò il sontuoso palazzo del Governo di Ascoli Piceno. Di questa provincia conosceva i luoghi più pittoreschi, gli angoli più suggestivi, quasi lembi di terra librati nel cielo a specchio dell’Adriatico e ad essi la sua arte attinse senza posa i motivi supremi di bellezza. Tutta l’antica storia della terra picena tornava così alla mente pensosa; mentre fantasmi di pura luce gli illuminavano lo spirito nella sublime visione dell’arte.
E per un’anima talmente aperta alla luce, non poteva rimanere estranea la fonte della ispirazione cristiana. Egli sentì il Cristianesimo con francescana semplicità e l’arte sua toccò davvero nelle composizioni sacre e particolarmente nella illustrazione dell’epopea dantesca per la chiesa di S. Francesco di Ravenna, la sua piena maturità di artista. Basta rileggere la limpida sua relazione con cui accompagnava i suoi cartoni danteschi, per persuadersi della sua potenza creativa, del sublime lirismo che aveva saputo rilevare ed infondere in quei cartoni. «Mi parve che fosse necessario, Egli diceva, conservare in qualche modo l’unità e la simmetria dantesca, quasi che nelle pareti della grande navata, dovesse essere dovunque presente l’onnipotenza di Dio che in ogni parte impera. Bisognava che alla parete delle pene, fosse contrapposta quella della luce celeste che di fronte all’eterno dolore splendesse la rosa sempiterna, che tra l’inferno e il paradiso, corresse come un ponte il cammino graduale verso la perfezione e fosse rappresentata nel paradiso terrestre la processione mistica. Nell’abside l’Empireo, la Rosa dei Beati, dove nel mezzo sta Maria la Mediatrice, non solo per Dante, ma per tutti gli uomini, che solo per mezzo della Vergine possono aspirare a vedere Iddio». La visione dantesca, mirabile per la sua potenza estetica, non aveva distrutto la virtù creativa dell’artista, che anzi la ripensava e la riviveva nell’intimo dello spirito, per trarne nuove sublimi concezioni di bellezza.
Montefiore pertanto gioisce di avere dato all’arte una personalità così eccezionale. In Adolfo De Carolis, vede giustamente continuate le nobili tradizioni della sua gente modesta e dignitosa, semplice e fattiva. Tradizioni che risalgono ai tempi migliori della sua libera vita cittadina, quando nei secoli d’oro del medioevo, uno dei suoi più illustri figli, il Cardinale Gentile Partino, faceva risuonare glorioso il nome d’Italia e della sua piccola terra natale in Ungheria, ove in veste di ambasciatore supremo del pontefice di Roma risolveva una spinosa questione di successione al trono, e dettava con romana maestà, sapienti leggi, che ben presto entrarono far parte del CORPUS IURIS UNGARICI. Allora il montefiorano Gentile scrisse certamente una delle più interessanti pagine della storia del cardinalato e della stessa storia della Chiesa.
E questi due grandi figli, ha voluto Montefiore ricongiungere in un ricordo solo per perpetuarne i nomi ad incitamento ed esempio. Nel suo bel tempio francescano, che serba tante memorie dell’illustre Cardinale di fronte al monumento quattrocentesco, dalla linea maestosa ed austera, Montefiore ha voluto degnamente comporre le ceneri di Adolfo De Carolis, di questo meraviglioso artista del nostro tempo, che tanta poesia di luce e di colori trasse anche dalla sua terra natale, mai da lui negletta o dimenticata. Qui nella pace serena dalla morte, le glorie presenti e remote di Montefiore si riavvicinano in una sublime continuità ideale. VINCENZO VAGNONI