Tesi di laurea all’università di Urbino anno 1970 “Economia e governi a Fermo nel primo Trecento”
La storia di Fermo è la storia di tutta una società che si costruisce, che avanza, che determina le sue scelte, che ha i suoi condizionamenti di carattere generale, che dal suo intimo si esprime in forme nuove, idee e attività che la collegano con tutto il moto progressivo della storia medievale italiana.
Cogliamo questo divenire in un momento particolarmente caratterizzante la società fermana medievale: quello del primo Trecento, quando è possibile vedere insieme un arricchimento economico, un’attività politica per la conquista della libertà, una espansione territoriale ed il passaggio con fasi alterne, dal Comune a reggenza podestarile alla Signoria, salda e fondamentale restando l’importanza delle strutture della società fermana. (Il primo Trecento è un’epoca di passaggio da una struttura sociale a un’altra e quindi presenta un rimescolamento, un confluire ed accumularsi di interessi economici che spesso determinano la composizione di gruppi senza alcuna interna omogeneità. Per la definizione di ceti chiusi è interessante lo studio dello Zenobi in un Comune vicino a Fermo: G.B. ZENOBI. La separazione di ceto in una terra della Marca: Montegiorgio nel sec. XVIII, in “Quaderni storici delle Marche”, n.6, Ancona, settembre 1967, pp.508-533)
In tale epoca di transizione, da un lato abbiamo la nobiltà feudale che, pur mantenendo i suoi antichi caratteri, subisce, coscientemente o per violenza, un parziale ridimensionamento di adeguazione; dall’altro lato invece si assiste a fatti nuovi, come il rinnovamento dei traffici, l’introduzione di fiere, la presa di contatti economici con terre e centri lontani (Venezia, la Dalmazia) e d’altronde permangono le strutture tipicamente comunali, quali le consorterie di arti e mestieri, a momenti forti e potenti, ed a momenti indebolite per situazioni interne difficili o pressioni esterne.
La documentazione sociale ed economica, per quanto riguarda Fermo, è piuttosto povera ed a nostro avviso vanno valutate in modo nuovo le vecchie fonti: ci pare proprio questo il fine della presente trattazione. E intendiamo riferirci a un’interpretazione sociale, che, del resto, è suggerita all’inizio del secolo dal Luzzatto, quando il grande studioso si accingeva a inquadrare il tipo di economia di alcuni comuni marchigiani (G. LUZZATTO. Le sottomissione dei feudatari e le classi sociali in alcuni comuni marchigiani nei sec. XII e XII in “Le Marche”, anno VI, 1906, pp.114-140).
Il nostro discorso non può prendere avvio se non da una ricognizione storico-geografica di Fermo che, all’inizio del sec. XIV, era il Comune più importante di tutta la Marca di Ancona (con il termine Marca di Ancona intendiamo riferirci al territorio compreso tra il Metauro ed il Tronto , nell’accezione con cui lo si trova negli atti di Governo del Rettore della Marca, anche se fu specificata con tre denominazioni distinte: Marca di Ancona, Marca di Camerino, Marca di Fermo). Arroccato sul colle Sabulo alla estremità della valle della Tenna, a pochi chilometri dal mare Adriatico, qui aveva il suo porto: Portus Firmi (oggi Porto San Giorgio). Aveva intorno a sé la zona Fermana, densamente popolata; in tutta la parte collinare che si estende tra il mare Adriatico e i Monti Sibillini, “castra”, terrae” e “castella” di ogni tipo erano appollaiati sulle alture delle valli dell’Ete e dell’Aso a sud, del Tenna e del Chienti a nord. In quest’area geografica, Fermo era il comune più ampio, più forte, l’unica “civitas” che faceva sentire l’influenza all’intorno. Era inoltre padrone di tutta la fascia costiera, dal Tronto al Potenza, con la conseguenza del monopolio delle merci, degli scali, dei dazi e delle dogane.
(Privilegio concesso dall’imperatore Ottone IV, nel 1211 (Archivio di Stato Fermo (A.S.Fe.): pergamena 397( traduzione). “redatto nell’anno 1211 dell’Incarnazione del Signore, regante Ottone IV imperatore romano, nel 14° anno del suo glorioso regno, anno 3° del suo impero. Dato presso l’ospedale di Subterra, il primo dicembre” I Fermani, come dimostrano altri documenti, furono assai gelosi di conservare sempre tale privilegio e vi riuscirono fino al 1860 per il litorale sud, mentre persero proprio nel secolo XIV quello al nord e del Chienti. Un caso molto importante e significativo: quando gli Ascolani avevano osato verso la fine del secolo XIII costruire un “castellum” sulle rive del Tronto, quasi sul mare, a poca distanza di San Benedetto del Tronto, i cittadini di Fermo dopo parecchie ammonizioni inascoltate, organizzarono una spedizione militare “con tutto il popolo Fermano nell’assediare gli Ascolani, sugli edifici del Porto presso San Benedetto, dove avevano costruito i detti Ascolani. (A. DI NICOLO’, Cronaca…. Ed. G. DE MINICIS, Firenze 1870 p.4) e demolirono il nuovo porto dalle fondamenta. Accenni di questo fatto si trovano anche in documenti del 1290-1298 nella lunga controversia col signore di San Benedetto, A.S.Fe. Pergamene 2247 e 857).
Attorno a Fermo gravitava un “comitatus” (contado) di attività economica prevalentemente agricola, costituito da un territorio collinare e vallivo, tra il Tenna a nord e l’Ete a sud, su cui la città esercitava un dominio diretto ed era considerato parte integrante del territorio comunale. Tutta la zona restante dell’antica Marca Fermana, costituita da “terrae”, “castella” e “castra” formava il “districtus” di Fermo.
(La distinzione tra “comitatus” e “districtus” è caratteristica del sec. XIV. In precedenza il territorio che in qualche modo era soggetto a Fermo era comunque detto “comitatus”, mentre nei documenti del ‘300 si trova netta tale distinzione tra “districtus” e “comitatus”. Nella bolla di Urbano IV del 1262 per tutto il territorio di Fermo si usava l’espressione “in Comitatu Firmano” ediz. GUIRAUD, La Badia di Farfa alla fine del secolo XIII in “Archivio della Società Romana di storia patria, XV, a. 1892, pp. 275-288).
In questa struttura geo-politica rileviamo Fermo nel sec- XIV, rimandando ad un successivo approfondimento, l’estensione precisa, le implicanze giurisdizionali, l’amministrazione stessa di tale vasto territorio, vediamo quale era la struttura sociale o meglio quali erano le strutture sociali della città.
Strutture sociali.
Un fenomeno che appare della massima importanza è quello della cerchia nobiliare fermana. La nobiltà fermana era costituita da un piccolo gruppo di famiglie, con diversi rami e parentele varie, e nel sec. XIV era alla ribalta della vita sociale e politica. L’origine di molte di queste famiglie probabilmente non era autenticamente fermana. Così i Brunforte erano stranieri, francesi o tedeschi, i Gentileschi erano di Mogliano, un castello a 40 km da Fermo. La nobiltà era tutta di origine feudale, inurbata man mano che Fermo cominciava a prendere consistenza, come entità potente e forte. I membri delle varie famiglie a testimoniare queste loro origini conservavano i feudi e i titoli che da tale possesso derivavano. Tra i Brunforte, solo per fare un esempio chiaro e documentato, troviamo nella prima metà del ‘300, Mercenarius de Monte Viridi (dal castello di Monteverde, suo feudo) (A.S.Fe., pergg. 2129-2123-2130-2131-179-213 e in molte altre), Raynaldus de Brunforte dominus Gualdi (Ibidem, pergg. 116-61-62-496-68-67-58), Fidesmidus de Massa (Brunforte anche lui) (Ibidem, perg. 2129), un altro Raynaldus de Brunforte chi aveva feudi sparsi qua e là (A.S.Fe., pergg. 65-76).
Si osserva un fatto interessante, che testimonia la potenza sempre crescente del Comune nei confronti della nobiltà che veniva costretta a lasciare i propri feudi e diventare nobiltà cittadina; questo lento processo, che altrove ci è testimoniato per il sec. XIII (G. LUZZATTO, Breve storia economica dell’Italia Medievale, Torino, 1965, p. 123 e segg.), a Fermo comincia alla fine di tale secolo, per diventare più imponente nel seguente sec. XIV. Il primo documento di cui si ha notizia è del 1283 a proposito del castello di San Benedetto. Tale atto ci riporta la vendita da parte di Riccardo di Acquaviva, della quarta parte del castello di San Benedetto ai Fermani, con la corrispettiva concessione fatta da questi all’ex signore di abitare nella loro città (A. S. Fe., pergg. 1688-1727-1729).
Sempre della fine del secolo, nell’anno 1290, il Theiner riporta una lettera di Nicolò IV al Rettore della Marca affinché non permetta che le comunanze nelle terre dei nobili si facciano a pregiudizio di questi: segno evidente del fenomeno in atto.
(A. THEINER, Codex diplomaticus dominii temporalis sancate Sedis. Roma 1861, Vol.1, n.CCCCLXXIII, p.307. Reg. An. III ep.127. tom.II, col.21. Nicolò verscovo (…) al diletto figlio nobiluomo (…) rettore della Marca Anconetana, salute (…) Riguardo a ciò per cui tu devi essere sollecito nelle cose affidate al governo della tua Provincia, in qualsiasi impedimento, si allieti di uno stato prospero e tranquillo. Di recente abbiamo saputo che alcuni di questa Provincia, non contenti e quasi desiderosi dello scandalo della patria, tabntano di fare comunanze nelle terre dei Nobili della stessa patria, con non lieve pregiudizio e gravame per questi Nobili. Pertanto con scritto Apostolico, ordiniamo strettamente alla tua discrezione che tali comunanze non portino turbamenti nella Provincia e che tu non permetta, senza speciale licenza e mandato della Sede Apostolica, che quelle siano fatte. Dato in Roma, a Santa Maria Maggiore, 7 maggio, anno terzo del pontificato”)
Nella Marca Anconetana dunque, soltanto ora si stavano verificando seri conflitti fra Comuni e signori feudali. Per quanto riguarda Fermo, nel sec.XIV, si possono addurre numerosi casi di acquisto di castelli dai signori locali: ne riportiamo due caratteristici; l’uno del 1319, nel quale Fermo ottenne la “consegna e concessione del Castello di Mercato e del suo Borgo con porte, vie, fonti e ripe”, dai signori Canzio Vinciguerra e Canzio Albertini dietro la contropartita di avere tutti i diritti e privilegi dei cittadini fermani (A. S. Fe. perg 1683); l’altro del 1317, nel quale si prometteva e si dava ad alcuni signori di Mogliano la cittadinanza fermana dietro la concessione al Comune di Fermo delle loro competenze sul detto castello
(A. S. Fe. perg. 1704. Non è escluso che il signore di questo castello possa essere proprio quel Gentile da Mogliano che nel 1340 diventerà signore di Fermo, in quanto nella perg. 1727 dell’A.S.Fe. si legge: “Sottomise e sottopose, trasferì, diede, consegnò e concesse a Matteo sindaco che riceveva a nome del comune e per questo, il castello di Mogliano e il suo territorio e distretto con ogni diritto e pertinenza per la parte che sino ad allora competeva ed era del signor Tommaso e del signor Gentiluccio del signor Gentile da Mogliano””. Va inoltre notato che a sottolineare l’origine feudale dei signori Gentileschi di Mogliano, altrove essi sono chiamati esplicitamente “Nobili contadini da Mogliano”. A.S.Fe., perg. 1688, dove quel “contadini” indica la residenza nel Contado).
La nobiltà feudale, divenuta cittadina, non sempre si adeguava alla vita comunale e non erano infrequenti gli accenni a contrasti e conflitti tra questa e il Comune. Così nel 1312 si concluse una lunga controversia giunta ai ferri corti, con uccisioni, condanne, e simili tra il Comune e Rainaldo da Brunforte.
In quella occasione il Rettore della Marca, fatto arbitro della situazione, condannò Rainaldo da Brunforte al pagamento della grossa multa di assoluzione e quietanza di mille libre.
(A. S. Fe., perg.105, instrument di assoluzione, perg.848, instrumento di quietanza. Il documento 105 narra avvenimenti che l’Hubart nel transunto così sintetizza. “Instrumento di assoluzioni, di invalidazione e di cancellazione, di ogni e singula inquisizione, banno et condanna e sentenza fatti e dati contro ogni e singolo Cittadino Fermano, Raynaldo da Brunforte et chiunque altro vassallo della sua casa da parte de rettore della Marca Anconetana a motivo dei crimini ed eccessi”).
Tuttavia questi nobili divenuti cittadini fermani, oltre che mantenere i feudi come punti di forza economica, evitavano anche di perdere i contadini delle loro terre in quanto dopo divenuti essi nobili cittadini, era bloccata la fuga dei servi della gleba dalle campagne ormai divenute terre amministrativamente del Comune e sulle quali il Comune stesso aveva interessi che i contadini restassero.
Si ha perciò una situazione immutata per quanto riguarda questi servi della gleba. Ciò non toglie tuttavia che questa classe, l’unica forse che potremmo chiamare così, non si sia in parte assottigliata, dato l’enorme sviluppo che Fermo aveva registrato in questo, periodo. La popolazione cittadina era cresciuta; e anche se non abbiamo dei dati precisi ciò è testimoniato dall’ampliamento urbanistico della città, evidente dal confronto tra la vecchia cerchia delle mura innalzata, parte utilizzando la prima, parte interamente nuova e più ampia, alla fine del sec. XIII.
La servitù della gleba, pur con un certo assottigliamento, restava ancora al suo posto ed aveva per padroni quei vecchi feudatari che divenuti nobili cittadini, se avevano perduto per il momento il potere politico, conservavano quello economico. Diciamo per il momento, perché proprio in questa prima metà del sec.XIV, a Fermo si verificarono le prime signorie ed i protagonisti furono gli esponenti più in vista di questa nuova nobiltà cittadina. Non è escluso infatti che la concentrazione del potere economico avesse permesso ad essa un una tale ascesa, quando cause di diverso genere, sia interne che esterne, politiche, militari, giuridiche, crearono l’occasione favorevole.
Quel che ora conta rilevare è proprio la singolare posizione nuova in cui si venivano a trovare i servi della gleba. Essi prima d’ora sottoposti in tutto e signori feudali, vedevano ora esercitata sulla loro terre e su di loro stessi una doppia autorità, con una relativa doppia dipendenza: l’autorità dei nobili cittadini e la relativa dipendenza economica nei loro confronti; l’autorità comunale e relativa dipendenza da Fermo nel campo politico ed amministrativo.
È interessante notare che questo doppio esercizio d’autorità non era ben delimitato, in quanto la distinzione tra proprietà privata e pubblica giurisdizione è molto posteriore. Elementi di questo dubbio sono proprio i termini del passaggio di proprietà dei castelli con i relativi territori dai signori feudali alla città di Fermo. Talora infatti nei documenti di trapasso di proprietà leggiamo affermazioni di questo tipo: “diedero, consegnarono, trasferirono e concessero al sindaco
Ad una diversa configurazione giuridica della servitù della gleba, era corrispondente una immutata condizione economica. Ciò almeno nella grande maggioranza dei casi, perché occorre precisare che i documenti riportano anche il segno di attività economica libera, di uomini dediti all’agricoltura ed alla pastorizia, come risulta dai libri del mercante-banchiere, Antonio Paccaroni. Così infatti si trova citato un tal “Petronclo e Mocturano” che il Paccaroni chiamava “mio pechoraro”, con il quale divise certi introiti per la vendita della lana (A. S. Fe. Liber 1019, carta 37). Ma proprio questo fatto sta a dimostrare come un’attività diversa e più libera fosse possibile ai contadini, solo quando essi si fossero trovati alle dipendenze non della nobiltà cittadina, ma del mercante e dell’artigiano sufficientemente ricchi da poter investire nell’acquisto di proprietà terriere.
Tuttavia va aggiunto che nei documenti d’acquisto delle proprietà feudali e dei castelli, vi sono clausole che fanno pensare ad un esodo marcato da parte di piccoli proprietari terrieri che, mantenendo il possesso della loro proprietà, potevano trasferirsi a Fermo e di godere di tutti i diritti come “cittadini fermani”. Così nell’atto di sottomissione di Mogliano compiuto dai Signori del Castello, il procuratore (sindaco) di Fermo, deputato per questo atto, fece delle importanti concessioni in questo senso: “ Matteo sindaco, e nella qualità di sindaco, ricevette….come Cittadini e distrettuali della stessa Città [di Fermo] e ai benefici, onori et dignità, offici, comodi, esenzioni et libertà del Comune di Fermo […] sicché tutti quelli che volevano abitare e abitassero di continuo nel detto castello con tutta la loro famiglia sotto la giurisdizione della città di Fermo siano considerati come gli altri cittadini” (A. S. Fe., perg. 1727, 14 novembre 1317).
Per il castello di Montottone, oltre alle clausole già accennate, se ne trova una ancor più precisa per il sindaco [procuratore di Montottone] “che tutti [i castellani] liberamente e impunemente possano andare, ritornare come tutti gli altri cittadini alla città di Fermo e al suo distretto” (A. S. Fe. perg. 1885, 10 luglio 1314). È chiaro che in base a queste possibilità concesse agli abitanti del contado, Fermo veniva a porsi come al centro di tutta la loro attività e quindi assai spesso come luogo di residenza per un più agevole svolgimento di ogni attività artigianale e commerciale.
Non ci dilunghimo più oltre sulla popolazione agricola del distretto fermano in quanto pensiamo che la condizione non dovette essere diversa da quella che risulta in altre zone dell’Italia, soprattutto perché finora non abbiamo in mano documenti per un maggiore approfondimento.
Tra gli strati della popolazione comunale che destano in questo periodo un certo interesse è da collocare la “parte prevalente” degli abitanti del centro urbano che, non nobili di sangue per una mancata discendenza feudale, né d’altra parte servi della gleba, si trovavano a metà di una ipotetica scala sociale, compresa fra questi due estremi. Il termine con cui questa parte della popolazione cittadina era designata, è quello di “popolo” o “uomini della città di Fermo”, senza nessuna ulteriore specificazione. In verità, di quali elementi sociali fosse precisamente composto questo “popolo”, non è mai detto con chiarezza nei nostri documenti. Possiamo affermare che col termine “popolo” si comprendessero tutti gli uomini liberi del Comune, che pagavano le imposte e potevano esercitare i loro diritti politici. Questa accezione generica fa escludere dalla sua comprensione però, sia i servi che, come si sa, non godevano diritti politici, sia i nobili di qualunque origine, che talora, in specificazione di maggior dettaglio, venivano detti “nobili militi” o “militi” semplicemente, accanto all’onnipresente “popolo” e quindi distinti da esso. D’altra parte il Luzzatto, su questo problema, prospettando più una intuizione che (non) dandone una dimostrazione, comprende col termine “popolo” tutta quanta la popolazione libera delle città e del castello, eccezione fatta di “militi” (nobili), di clero e di nullatenenti (LUZZATTO. Le sottomissioni, p. 126).
Cercando ora di entrare ancor più nel dettaglio di questa massa di popolazione cittadina dobbiamo ravvisare in essa gli artigiani, i mercanti, i piccoli proprietari terrieri ed un gruppo di notevole cultura nella forma del così detto “Studio Fermano”.
Nel sec. XIV a Fermo gli artigiani e la popolazione cittadina in genere risultano essere associati in consorterie o “arti” come comunemente si sogliono chiamare. La denominazione delle arti e il fatto della loro esistenza ci danno una panoramica chiara delle attività economicamente più rilevanti della città. Nel libro dei consigli della città di Fermo nella parte che certamente non è della seconda metà del sec. XIV, ( A.S.Fe. Concilia et cernitae, verbali I, c. 55. Nella c. seguente alla 55 si legge la data 1380) leggiamo uno stralcio: “ Inoltre poiché lo stato pacifico e popolare per lo più riceve maggiore sostanza dagli “artefici” (addetti alle arti) e quanto più sono governati, tanto più sono accresciuti e resi più ricchi, pertanto stabilirono e decretarono ecc. che le arti qui scritte debbono avere il Capitano delle Arti, nel modo e nell’ordine seguente.
Per primo il Collegio dei Giudici, dei Procuratori e dei Notari abbbia il Capitano.
Il Collegio dei Medici, delio Speziali, degli orefici e dei Sellari.
Il Collegium dei Mercanti.
Il Collegio dei Birrari, dei Caseolari, dei Barbieri, dei Maestri del legname, dei Fabbri e dei Corazzari.
Il Collegio dei Calzolari, dei Molendinari, dei Fornaciari, dei Tavernari, degli Ospitatori, dei Mulattieri.
Il Collegio dei Sartori, dei Pellicciari, dei Maestri delle pietre.
Se nel 1380 o giù di lì, questi “collegia” furono ordinati sotto un Capitano delle Arti, ciò significa che essi erano diventati potenti a tal punto da chiedere ed ottenere un proprio rappresentante politico. E questo spiega come solo in rarissimi casi, nei verbali dei consigli degli anni precedenti, si trovano nominati i “Priori delle Arti”: nella prima metà del ‘300 le arti non erano ancora organizzazioni tali da poter rivendicare come tali una particolare distinta posizione politica. Tuttavia, se nel 1380 le arti raggiungevano anche un potere politico, la loro esistenza doveva certamente essere precedente. E la particolare situazione politica della città (1321-1340: signoria accentrata di Mercenario da Monteverde e Gentile da Mogliano con il governo dispotico: 1346-1355), ci riporta automaticamente alla prima metà del sec. XIV.
(Una ulteriore riflessione ci chiarisce questa tardiva acquisizione del potere politico delle arti a Fermo. Le signorie infatti sottintendono un potere politico ed amministrativo nell’ambito della città da parte della nobiltà immigrata. Ci conforta nella nostra ipotesi un’osservazione fatta en passant dal Luzzatto a questo riguardo: “ a Fermo, hanno una parte importante dell’amministrazione cittadina i priori: ma non è detto che si tratti di priori delle arti”. LUZZATTO, La sottomissione p. 115, nota 2. Che non siano priori delle arti è chiarito dalla espressione usata nei documenti dell’epoca: “priori del popolo” e dal fatto che questi priori sono cinque, secondo le contrade della città. Esse erano sei: Campoleggio, Pila, Florenzia, S. Martino, S. Bartolomeo e Castello; da ognuna d’esse si eleggeva un rappresentante: cinque di questi formavano il collegio dei priori, il sesto veniva eletto Capitano di Giustizia.)
Un’analisi più approfondita del documento ci porta ad altre considerazioni che, suffragate e integrate da altri testi, ci forniscono un quadro più dettagliato. Innanzitutto il fatto che, soltanto nel 1380 le arti ebbero, in quanto tali, il loro rappresentante politico, chiarisce che esse non dovevano comprendere elementi della nobiltà, come era invece capitato in Firenze e in altre città italiane, e quindi i termini con cui erano designate rispecchiano esattamente le attività dei singoli iscritti.
I Collegi dunque erano veri e propri raggruppamenti di artigiani, mercanti e professionisti, i quali esercitando il loro mestiere o professione, vivevano in raggruppamenti collegati e senza concorrenza reciproca. Il documento riportato è quanto mai importante anche per renderci edotti delle principali attività commerciali, economiche e artigianali dei membri del Comune. Tra le arti sono nominate alcune le quali non hanno riscontro con quelle di altri comuni italiani: Caseolari, Molendinari, Tavernari, Mulattieri. Da qui una doppia riflessione: da un lato le attività erano per lo più connesse con l’agricoltura e la pastorizia e con i trasporti dei rispettivi prodotti; in secondo luogo si qualificano come specchio e conseguenza della fisionomia economica di questo Comune e della sua origine rurale.
Tra le “arti” merita di essere presa in considerazione quella dei “Calzolari”. L’arte della calzatura è stata una tradizionale attività delle nostre zone fino ad essere divenuta ora l’industria principale, a livello internazionale. Che poi l’attività calzaturiera fosse di antiche tradizioni è testimoniato anche dallo statuto sull’arte medesima nell’archivio di Monte Giorgio.
(Montegiorgio, castello sulla media Val Tenna a 25 km da Fermo, benché non sia stato sotto Fermo, se non per brevissimi momenti durante le lotte tra i vari signori della Marca di Ancona, esso però risentì economicamente della vita comunale di Fermo con il quale nel 1299 aveva stipulato dei patti di buon vicinato)
Questo statuto del 1344 e si presenta come una copia di un precedente statuto cui sono stati apportati diversi ritocchi (Il codice, ancora inedito, merita che sia trascritto e fatto conoscere, data l’importanza. Anche nella vicina Macerata, secondo gli studi del Colini-Baldeschi, la corporazione più numerosa e importante era quella dei “calzolai”. COLINI BALDESCHI, Vita pubblica e privar maceratese nel ‘300 in Atti e memorie della deputazione di storia patria per le Marche vol. VI, 1903 p. 155).
Una particolare attenzione richiede l’esame di quel nutrito gruppo di cittadini iscritti alle singole arti, i quali, essendo piccoli proprietari terrieri, pur esercitavano, dopo la loro urbanizzazione, una qualche attività artigiana o mercantile. Certamente il benessere di questi lavoratori deriva più che dal mestiere, dalla loro maggiore o minore proprietà terriera.
(Il Luzzatto, per le Marche in genere, aveva ravvisato lo stesso fenomeno. Egli porta testimonianze che si riferivano a Osimo, Recanati e Fano, ma l’indagine ha chiarito che il fenomeno è presente e spiega la situazione fermana. Le sue conclusioni perciò possono essere quasi totalmente accettate: “nella maggior parte dei casi, le carte di sottomissione e di aggregazione non permettono dubbi, e lasciano facilmente capire che i rustici affrancati e ammessi ad abitare in città, seguitavano a coltivare i loro antichi poderi e a corrispondere o al vecchio signore o al Comune che gli si è sostituito, una parte dei censi dovutogli per contratto o consuetudine”. LUZZATTO, Le sottomissioni p. 137. Circa i censi dobbiamo soltanto far notare che a Fermo non sono più pagati ai “vecchi signori” ma al Comune. Un esempio chiaro valga per tutti: “Da ora in poi possano usare e fruire dei benefici delo statuto come diritto ex consuetudine per quelli che vengono a ricevere la cittadinanza della città di Fermo (…) soltanto che dello stesso fumante (tassa di focatico) (…) Manfrido sindaco [del castello che si sottomette] promise che fopo fatta l’accoglienza di essi come cittadini
Qui possiamo scoprire a Fermo il significato della mancata organizzazione e potenza delle arti. Esse ebbero poca importanza perché il Comune di Fermo era ad economia prevalentemente agricola. Il mancato passaggio di questa ad una più industriale e commerciale non fu soltanto derivazione delle particolari configurazioni geografiche, bensì, si dovrebbe attribuire alla mancata fiducia, se così possiamo esprimerci, degli artigiani e mercanti nel loro mestiere, che non assurse mai ad attività primaria.
Resta che i più, salvo poche eccezioni, avevano la maggior fonte di guadagno dalla proprietà terriera, che nel contempo avevano conservato e sulla quale riponevano la maggiore speranza. Fare l’artigiano, avere una bottega o un fondaco, esercitare il commercio era per essi un impiego collaterale ed accessorio e mai valutato come di primaria importanza.
Nel documento già citato, del 1380 circa, sulle corporazioni, ben si nota la presenza di un “Collegio di Giudici, di Procuratori e di Notari”, una presenza numerosa di uomini di legge, che esige una illustrazione. Senza questo documento sarebbe impossibile pensare che in un comune rurale come Fermo ciò potesse verificarsi. Ma c’è di più: nel più antico libro delle cernite pervenutoci leggiamo il lungo elenco dei componenti di tale corporazione.
(A. S. Fe. Consigli, Registro dei Verbali, I, cit., anni 1380-1382, cartt. 56-57. Nel nome dei Signore. Amen. Anno del Signore 1381 indizione terza, a tempo del santo padre in Cristo, signor Urbano Vi per divina provvidenza, giorno 4 del mese di ottobre. I signori priori, il vessillifero e i riformatori insime riuniti, stando nell’udienza consueta degli stessi, all’unanimità e concordemente, senza alcun dissenso, fecero, nominarono, crearono e ordinarono i seguenti Collegi nei quali vollero che ci fossero le seguenti persone, in modo particorare e distinto, come in seguito viene espresso per ordine Ecco i loro nomi. Nomi di Avvocati della contrada Castello: Dominus Antonius Antonii Philippi, D. Thomas dni Mactoy [Spinucci], D. Iacobus Mag. Francisci, S. Puctius D. Iacobi, D. Dectalleve Colae [Vinci]. Nomi dei Procuratori della detta Contrada: Ser Lucas Mancini, Ser Cola Iohannis Michelutij, Ser Vannes Bernardi, Ser Vagnoctius Antonii D. Dominici. Nomi dei notariorum della detta Contrada: Ser Dominicus Vannuccij, Ser Antonius Andreutij, Ser Batholomeus Simonis, Ser Vicus Massutij, Ser Cola Bartholomei Spinelli, Ser Cicchus Vannuccij, Ser Benedictus Massutij, Ser Simontinus Iacobutij Carosi. Nomi degli Avvocati della contrada Pila: D. Massius Simonicti, D. Vannes Mag. Iacobi, D. Dominicus Mag. Iacobi. \ Procuratori: Ser Stephanus Ricciardi, Ser Vagnoctius Nicolutij. \ Notari: Ser Georgius Mathei, Ser Franciscus Anselmi, Ser Colutius Guillelmij Anselmi Thomae, Ser Salvus Corradi, Ser Colutius Pacipiti, Ser Thomas Fermani, Ser Dodonus Bartholomey, Ser Cola mag. Dominici, Ser Anthonius Donati, Ser Donatus Simonis. Nomi degli Avvocati della contrada San Martino: D. Franciscus D. Falchi, D. Cola D. Iohannis, D. Angelus Bernardi. Procuratorum: Ser Cicchus D. Francisci, Ser Colutius Dominici Stephani. \ Notari: Ser Colaus D. Angeli, Ser Antonius D. Angeli [Morroni], Ser Vannes Cicchi Iacobini, Ser Lucas Angeli, Ser Vannes Angeli, Ser Augustinus Antonii, Ser Antonius Baroncelli, Ser Vannes Dominici Petri, Ser Anthonius Puctij Palmerii, Ser Manfredutius Amorosi, Ser Antonius et Ser Massius D. Francisci D. Falchi, Ser Marinus Dominici, Ser Cola Pasqualis. Nomi degli Avvocati della contrada Florenza: D. Vannes Vannini, D. Anthonius D. Angari, D. Anthonius et D. Angelus Golputij [Morroni]. \ Procuratori: Ser Puctius Mag. Simonis, Ser Anthonius Rubey, Ser Iacobus D. Gentilis, Ser Clericus Brunicti, Ser Stephanus Nicoluctij, Ser Ciccarellus Vanninij. \ Notari: Ser Vannes Nicole, Ser Antonius Nicole [Vinci] Ser Venantius Simonicti, Ser Matheus Macchi, Ser Trasmundus Egidii, Ser Andreas Anthonij de Atria, Ser Vagnotius Raymaldi, Ser Marinus Dominici, Ser Cola Pasqualis. Nomi degli Avvocati di S. Bartholomeo: D. Franciscus D. Iacobi, D. Iohannes Nicole, D. Anthonius Cicchi, D. Mannus D. Iacobi, D. Anthonius D. Manni, D. Petrus D. Alexandri, D. Lucas Magistri Nicole. \ Procuratori: Ser Cicchus Mag.Nicoluctij, Ser Anthonius Berardi, Ser Vannes Berardi, Ser Vannes Andreutij. \ Notari: Ser Dominicus Petri, Ser Antonius Ser Cicchi, Ser Colaus Vagnoctij Seretij, Ser Iacobonus D. Petri, Ser Iacobus Dominici, Ser Antonius Cicchi, Ser Gratius De Narnia. Nomi degli Avvocati di Campoletio: D. Vannes Simonis, D.Monnutius Philippy. \ Procuratori: Ser Anthonius Iacobutij, Magister Phylippus Mag. Dominici, Ser Anthonius Bartholomey, Ser Blasius Dominici, Ser Antonius Andree, Ser Cola Mag. Francisci. Ser Antonius Gentelutius Francisci. Notari: Ser Anthonius Anthonii, Ser Anthonius Michelutij, Ser Anthonius Simonis, Ser Andreas Massutij, Ser Anthonius Ricchitempi, Ser Vannes Servidei, Ser Matheus Rictij, Ser Colaus Augustini, Ser Guillelmus Anthoni Rocchi, Ser Cola Dominici Bartholomutij, Ser Vannes Anthonj, Ser Anthonius Pasqualis, Magister Philippus de Turris Sacti Patritij, Ser Dominicua Anthonii, Ser Vannes Gualterutij, Ser Anthonius Anthonii Mag.Macthei, Ser Elpidius Sancte, Ser Petrus Vannutij, Ser Dominicus Bartholomutij de Ponzano, Ser Franciscus Pauli, Ser Vicus, Ser Vannis, Ser Anthonius Iohannis de Offida, Ser Ioannus Mag.Bartholomei”.
Era un folto ed assai importante collegio di giureconsulti cui era demandato in esclusiva il compito di redigere atti pubblici in Fermo e nel suo distretto, secondo la precisa prescrizione degli statuti: “ I Notari o tabellioninon osino in alcun modo né presumano fare pubblici instrumenti o rogazione alcuna di qualsiasi contratto o testamento o scrivere e far note in questi, se non sono iscritti nella matricola deri notai della città di Fermo, e prima non siano stati approvati nel pubblico collegio”.
(Statuta Firmanorum, lib.III, rub.XXIII. Questa disposizione ci fa capire come i documenti del sec. XIV siano sempre rogati da notai fermani. Quel “di Firmo” che si trova di seguito al nome del notaio non è perciò soltanto l’indicazione domiciliare o d’ufficio, ma indica la appartenenza alla Universitas Firmanorum e il fatto d’essere membro del collegio cui risulta regolarmente immatricolato.)
Un collegio che nel 1380 contava ben 27 avvocati, 26 procuratori, 77 notai lascia presupporre una lunga tradizione. Alcuni indici ce la confermano: l’esistenza attestata nel 1366, nella chiesa Metropolitana di un altare di San Giovanni Evangelista, qui (come a Firenze) protettore di questa corporazione (CATALANI, De Ecclesia Firmana. p.33 – TREBBI F.-FILONI GUERRIERI, L’erezione della chiesa cattedrale di Fermo a metropolitana … 1890, p.101). Illustri giureconsulti fermani sono presenti ed operanti anche fuori della città: Giovanni Ruffo, poeta e giureconsulto distinto, fu nel 1272 giudici generale della Marca (CASTELLI, L’istruzione nella provincia di Ascoli P. 1898, p.532); Gerardo da Fermo, è registrato tra gli uomini illustri dell’Università di Bologna nel 1280; Brunichi Filippo, Agidiucci Antonio, Francesco Giuliani, Anzovino Di Filippo, Cola di Vanni, risultano i compilatori dello Statuto Fermano del 1330.
Questa tradizione giuridica Fermo è dall’Ottinelli, che scrive nel secolo XVI, proclamata come esistente da tempo immemorabile: “Esiste in questa Città il Collegio dei Giureconsulti, ornatissimo già da tempo immemorabile, e insigne per numero e per valentia dei Dottori e ancor oggi vi si trovano iscritti più di 70 Dottori.”
(OTTINELLI C. De Firmo, picenti urbe nobilissima, elogium ad Xystum Quintum, p.10, B. C. Fe., Fondo Ottinelli, n.1, 1586, trad. italiana di Domenico Giordani a stampa, Fermo, 1870)
L’importanza di questa tradizione di studi giuridici fu tale che nel sec. XIV sorse uno studio per notai anche a Montegiorgio, castello della media Val Tenna, e fu certo ad opera o per lo meno a imitazione di quello fermano.
(Archiv. Comun. Montegiorgio. – A. D. perg.57, serie II, 6 ottobre 1308).
Cerchiamo ora di far luce su questa tradizione. C’è chi vuole, come il Cordella, che lo studio di giureconsulti fosse stato potenziato in seguito alla erezione dell’Università di Fermo.
(Sulla Istruzione Pubblica e Università degli Studi in Fermo, memoria storica compilata dai deputati della città, Arcidiacono Bartolomeo Cordella e Giuseppe Conte Sabbioni, Prefetti agli studi, Roma, per Vincenzo Poggiali stampatore comunale,1824, p.5, Bibl.. Com.. Fermo , fondo, Sabbioni, busta n.2 coll.4 r 10/6. Forse ci si riferisce all’università carolingia dell’anno 825 perché l’Università di Fermo è stata fondata nel 1393 da Bonifacio IX.
La tradizione che risale fino all’epoca carolingia, ma da questa epoca non si può prendere in considerazione l’esistenza del collegio, certamento in tale epoca si può affermare l’esistenza di uno “studio” che impartiva l’insegnamento giuridico. A questo riguardo è illuminante riportare una pagina di Alessandro IV Borgia., arcivescovo di Fermo dal 1724 al 1764, da cui la tradizione storiografica prende l’avvio e prosegue con gli studi del Mecchi (F. E. MECCHI. Della coltura scientifica e letteraria degli antichi fermani. Fermo, 1860), dei citati Cordella – Sabbioni, del Fracassetti (C. FRACASSETTI Gli Studi a Fermo – L’antica Università, in CASTELLI, op. cit., pp. 517-530) infine del MARANESI F. Il r. liceo classico di Fermo. Fermo 1942. Il Borgia si riferisce al MURATORI di Rerum Italicarum Scriptores, tomo I, parte seconda, p. 151, o al MURATORI di Annali d’Italia, Milano, 1744, tomo IV, p.546.
“Lodovico Pio spedì Lotario suo figlio, in Italia a fine di regolare gli affari di questo regno… volle anche in Italia deputare Maestri, che insegnassero in vari luoghi, ed annoverando poscia in quel Capitolare le Città, presso cui due dovevano concorrere a studiare gli Scolari anche delle città vicine, incominciò da Pavia…e segue a dire Ivrea…. Poscia ordina, e in questa nostra città di Fermo vengano a studiare quei del ducato di Spoleti: In Firmo de Spoletinis civitatibus conveniant. E queste ottime ordinazioni di Lotario Imperatore per provvedere alle lettere del Regno d’Italia o fossero delle 829 o poco dopo, mostrano abbastanza in quanto pregio forse allora ritenuta la nostra città dall’Imperatore e quanto venisse destinata opportuna per tali studi, e siccome non vediamo assegnata altra città del Piceno per la sede delle scuole, così ci conviene dire, che il solo Fermo avesse quei tempi un concorso di studenti fuor di modo numeroso…..”
(ALESSANDRO IV BORGIA. Omelie dettate in varie Funzioni Pontificali nella stessa Città dall’anno MDCCLIII fino alla Festa dell’Assunta del MDCCLVIII, Fermo MDCCLIX, omelia VIII, nella festa del S. Natale 1754, pp.XCIII-XCV. A quanto il Borgia afferma aggiungiamo un commento del Mecchi: “I Duchi nuovi ed i Conti, che in quei tempi tenevano il reggimento di Fermo o per il re d’Italia o pe’ Duchi di Spoleti [sic], custodirono e resero non vieppiù fiorente questo Studio Generale. Né si dee passar sotto silenzio che la prima cattedra di Teologia in Italia fu aperta in questa città, dicono, per opera dei suoi vescovi” – MECCHI, op. cit., p.21).
A parte la funzione didattica e il tono erudito, la pagina del Borgia, unita al complesso di elementi desunti da altre fonti già citate, ci porta a concludere per una vitalità culturale non indifferente a Fermo, che, nel sec.XIV, divenne particolarmente accentuata in concomitanza e sorretta da una espansione politica ed economica. Questo fatto mette in rilievo come il collegio di giureconsulti oltre che una consorteria nell’ambito delle arti del Comune, sottintenda la presenza di un movimento culturale non indifferente. Certo non è possibile delinearlo nella sua reale portata sociale, ma è molto importante darne quei dettagli, che, seppur pochi e sintetici, testimoniano un ambiente tutt’altro che arretrato come certi aspetti economici potrebbero far supporre. Illustri fermani in tutti i campi erano presenti qua e là per ogni dove, in Italia, alla fine del secolo XIII e nel sec. XIV
(Citiamo semplicemente l’elenco, rimandando per le notizie su di essi alle erudite raccolte del Porti e del Castelli: (PORTI, op. cit., tav.IX; CASTELLI, op.cit. pp.532-533).
Scienze e Belle Arti: Aceti Antonio, giureconsulto, lettore di legge nell’Università di Fermo nel 1396.
Azzolino Stefano, giureconsulto, giudice della Marca nel 1306.
Giustiniani Giovanni, giureconsulto, Governatore di Orvieto e Vicario di Albornoz nel 1367.
Mancini Giambattista, giureconsulto, lettore all’università di Padova nel 1359.
Morici Bertrando, Dottore nell’Università di Bologna nel 1302 e Lettore di Belle Lettere,
Poeta (iscritti sono alla Bibl. Vaticana, cod. Urb. 697 e in due codd. Barberini e Chigi
(CASTELLI, La vita e le opere di Cecco d’Ascoli, Bologna 1892, pp. 91-92).
Palmieri Giacomo, insigne scultore. Scolpì nel rosone della cattedrale nel 1348.
Governatori di altre città: citiamo i più rappresentativi:
Pietro da Fermo podestà di Orvieto, 1302
Luppi Montenero podestà di Perugia 1312
Senigardi Corrado podestà di Perugia 1314
Luppi Tommaso podestà di Foligno 1314
Senigardi Giustinello podestà di Perugia 1316
Marci Andrea podestà di Foligno 1317
Ottinelli Antonio podestà di Perugia 1343
Formoni Guido podestà di Firenze 1360
Ottinelli Ludovico podestà di Pistoia 1378
Si affiancava a questa schiera d’uomini di cultura, tutto un movimento artistico interno, che testimonia il fervore sociale e culturale della città. Gli scambi con Venezia, il Nord dell’Italia, la Dalmazia avevano anche un esito culturale ed artistico. Si trattava tuttavia di un movimento che nei vari settori delle arti è stato messo in rilievo in pregevoli e accurati studi che rilevano la portata del fenomeno. Molte delle più importanti vicende artistiche fermane si conclusero e si iniziarono proprio nel secolo XIV. Accenniamo al compimento verso la metà del sec. XIV, della splendida cattedrale gotica, che rinnovata nei primi del Sec. XIII per le mani di Giorgio da Como, veniva terminata nel 1348 da Giacomo Palmieri, scultore-architetto fermano che realizzava il magnifico rosone sopra il portale centrale. (L’esercito dell’imepratore Barbarossa aveva danneggiato gravemente il tempio romanico-alto medievale. Della ricostruzione, sul portale laterale leggiamo la seguente epigrafe in caratteri gotici A(nno) d(omini) MCCCXXVII bartolomeus mansionarii hoc opus fecit p(er) manus magistri georgii de episcopatu com(acensi). Nel 1327 fu fatta quest’opera da Bartolomeo mansionario per mano di Giorgio della diocesi di Como. Altre due epigrafi: 1)- i(n) no(min)e d(om)ni: M:CCC:XLVIII indit(ione) p(rima)/t(em)p(o)re d(omini) pp.VI: hec rosa fuit facta t(em)p(o)re muroni/operarius ecce iste. Nel 1348 indizione prima al tempo del papa … VI questo rosone fu fatta … operaio Murone. 2)- m(uronus) Palmierius fecit hoc opus. Murono Palmeri fece quest’opera. L’antichità della famiglia Palmieri è testimoniata Fermo da altri illustri membri: di un Magistri Iacobi Palmerii esisteva un sepolcro nell’antico Duomo (cfr. DE MINICIS R. Iscrizioni Fermane, Fermo 1857 iscr. 47, p.32); un Vannes Johannis Palmerii vicario della Rocca di Montefalcone nel 1389).
Fecondi di apporti culturali ed artistici furono gli scambi commerciali con Venezia e la Dalmazia. “Le due città scambiano operai e maestri; Fermo riceve pietra d’Istria per costruire la sua Cattedrale. L’insigne architetto di scultore dalmata Giorgio da Sebenico progettò e scolpì in gotico fiammeggiante il portale di Santa Maria Novella della Carità. E sempre in questo secolo “nei suoi templi monumentali intanto, le pareti si coprivano di affreschi, di stile bolognese e toscano (VALENTINI A. La pittura a Fermo e nel suo circondario. Fermo, 1967, p. XI). È riconosciuta a Fermo e nel suo distretto la presenza di artisti come Andrea da Bologna, Francescuccio Ghissi, Giuliano da Rimini, Iacobello da Bonomo, Iacobello del Fiore, Paolo Veneziano, Lorenzo Salimbeni ed altri ignoti che vanno con il nome di Maestro di Offida e Maestro di San’Elsino (Ibidem, pp. 4-75).
Accanto a queste imponenti manifestazioni artistiche e culturali della società fermana nel secolo XIV vanno notate altre manifestazioni di carattere tipicamente sociale: si tratta delle opere di pubblico beneficio, delle attività caritative e assistenziali che in questo tempo segnarono la manifestazione più alta, con la istituzione dell’Ospedale di Santa Maria della Carità. Il documento del 1341, pubblicato dal Catalani ci aveva attetato l’esistenza di questa importante istituzione. Altre notizie di hanno nell’Archivio di Stato, nella sezione Archivi Storici delle Opere Pie di Fermo, che è tutta da studiare.
((CATALANI. De eccl…. cit., pp. 375-376, doc.LXXXIII) Il materiale pergamenaceo delle Opere Pie a Fermo, decorre dal sec. XIII al XIV; è raccolto in 5 cassette di legno ed inventariato senza un ordine cronologico generale, comprende atti privati e pubblici, bolle e privilegi, contratti e donazioni che spesso poco hanno a che fare con le Opere Pie; ma non lo si è voluto smembrare, per lasciare intatta la sezione, tenendo conto della sua unica fonte di provenienza. Non è escluso che possiamo aver tralasciato notizie interessanti al pari di quelle qui riportate. Spesso contratti o donazioni strettamente private avrebbero potuto racchiudere indizi utili per il nostro lavoro).
Il documento già noto e più importante del 10 maggio 1341, fa sapere che il vescovo di Fermo concesse alla Confraternita di Santa Maria Novella della Carità di erigere un “ospedale” a scopo caritativo. Egli infatti aveva ricevuto in tal senso una supplica da tale Confraternita.
(Documento tradotto.\ Frate Jacobo, … vescovo e principe di Fermo, ai nostri diletti in Cristo, sindaco e persone della Fraternità di santa Maria novella della Carità della città Fermana, salute nel Signore. È stata presentata a noi, da parte vostra, l’umile richiesta di fondare un ospizio. Vi dite accesi dal fervore dello spirito della Carità, … per comodità dei debilitati, e dei poveri di Gesù Cristo, degenti in ogni parte, voi desiderate fondare un ospedale e costruirlo e dotarlo di quanto necessario per il sostentamento e per la quiete di questi poveri, in una generale ospitalità, e desiderate erigere nell’ospedale l’oratorio con altari … La vostra supplica chiede che ci degniamo di concedere e dare l’autorizzazione a costruire ed erigere l’ospedale nella città, in contrada San Bartolomeo, o altrove, e in questo ospedale ed oratorio della fraternità stessa, …i lasciti che sono stati fatti e che si fanno e si faranno in futuro, possano essere richiesti e conservati e distribuiti per migliorare l’ospedale e per le necessità dei poveri e per le persone debilitate ecc. e di poter acquisire il pane attraverso la città o fuori, con il sacco o la bisaccia, o senza, per la vita e per il sostentamento dei poveri e delle persone che stanno nell’ospedale, che a tutti coloro che lasceranno qualche cosa e saranno di aiuto per voi, sia da noi concessa l’indulgenza; inoltre che … noi ci degniamo d’autorità che siano esentati dalla porzione diocesana sui beni lasciati. Volete pagare a noi ed ai nostri successori, ogni anno, il censo, per compensazione della porzione canonica, nella festa di santa Maria di agosto, 12 libbre della moneta che sarà in corso nell’epoca … Concediamo l’autorizzazione, trattenendo per noi e per i nostri successori quel che deve essere dato nella festa dell’assunzione della beata Vergine per compensazione della canonica porzione con le 12 libbre di moneta usuale … Ai benefattori … concediamo l’indulgenza di 40 giorni, lucrabile ogni giorno, sulla penitenza a loro impartita, fidando nella misericordia dell’onnipotente Dio, della beata Vergine Maria alla quale deve esser intitolato questo ospedale e dei beati apostoli Pietro e Paolo e dei gloriosi martiri Claudio e Savino nostri patroni. 10 maggio 1341. A. S .Fe., Opere Pie, cassetta 3, perg.123, anno 1341).
La richiesta del sindico della Fraternitatis di Santa Maria novella della Carità a Fermo, confraternita a scopo caritativo che esisteva in precedenza e aveva dei fondi a disposizione.
(TREBBI-FILONI, op. cit., p.198 parla di nobili ch costruiscono un tempio sotto tale titolo. Del resto era costumanza nel tempo, dei persone arricchite di riparare ai loro peccati con opere di carità e di elemosine A. SAPORI, Studi di Storia economica, Firenze, 1955, vol.II, La beneficenza delle compagnie mercantili del Trecento, pp. 839-858).
Che cosa fosse questa istituzione, era un edificio con tutte le strutture connesse, per accogliere gli infermi, gli orfani, i poveri, i pellegrini e vaganti bisognosi di aiuto, ospitatilità generale. In parole moderne si potrebbe oggi chiamare un ospizio. Oltre che a sovvenire alle necessità materiali, l’ospizio aveva il compito di impartire un’assistenza religiosa. Le vicende della sua erezione decorsero per un decennio (1341-1351): è del 1351 infatti un rescritto del Vescovo Bongiovanni (Bongiovanni di Piacenza, eletto da Clemente VI vescovo di Fermo nel 1349 fino al 1369. Durante l’episcopato ebbe parecchie mansioni politiche: Uditore (giudice) in cose Spirituali (o rettore in Spiritualibus) della Marca Anconetana; legato papale a Venezia; prefetto della Compagnia Marittima. Cfr CATALANI, De Ecclesia, pp. 213-217) con il quale dà licenza, per privilegio, ai capi di Santa Maria della Carità di erigere tale istituzione e cercare elemosine (A. S. Fe., Opere Pie, cassetta 3, perg. 126, anno 1351). L’ospizio doveva essere edificato oltre che con il denaro e le rendite della Fraternità anche con le pubbliche elemosine.
Queste facoltà di recepire donazioni e di raccogliere elemosine venne riconfermata nel 1351 Matteo Bonconte nel 1348 redasse il suo testamento lasciando erede l’ospizio (Ibidem, cassetta 1, perg. 1, anno 1348), lo stesso fece il sacerdote Federico Palmieri nel 1361 (Ibidem, cassetta 1, perg.2, anno 1361). Il Priore degli Agostiniani , fra Tommaso, concesse a Santa Maria Novella della Carità la partecipazione di tutti i beni spirituali che si facevano dagli Agostiniani (Ibidem, cassetta 5, perg. 223, anno 1341).
Per completare il quadro delle strutture sociali occorre accennare ad una colonia ebraica. Nella società fermana comunale era presente un gruppo di ebrei i quali si trovavano in rapporti speciali con le autorità comunali. La loro presenza è attestata ad alcuni atti di prestito in cui compaiono come creditori (A. S. Fe., A. C. Fe. pergg. 1338,792, 1193,829, 1121). Tale presenza nella terra fermana non era isolata, confermata com’è dall’esistenza di una comunità minore in Montegiorgio (A. C. MG. – A. D., pergg. 661-662-663-665. Tali documenti sono stati pubblicati dal Pace (F. PACE, Gli Ebrei a Montegiorgio, in “Rivista Abbruzzese”, Lanciano, 1900), ma lo scrivente, che ha fatto ricerche personali in proposito per una storia di Montegiorgio, ha constatato (numerosi) errori di lettura nel testo del Pace, per cui esso necessita di un’accurata revisione). Essa è da collegarsi principalmente coi particolari contatti che Fermo aveva con le terre dell’Adriatico orientale, donde potrebbe spiegarsi la loro provenienza (Si tratta di una ipotesi che per noi più concorda con quanto dice il Laras per la comunità ebraica di Ancona (G. LARAS, Intorno al “jus Cazacà” nella storia del Ghetto di Ancona, in “Quaderni storici delle Marche”, Ancona, 1968, n.7 pp. 27-55. Ma sembra contraddire coi collegamenti riscontrati per la comunità montegiorgese , che aveva relazioni commerciali soprattutto con Firenze).
Non sappiamo la loro entità numerica, che però doveva essere notevole per poter ottenere uno “status” giuridico particolare. In uno dei contratti sopra citati, si legge infatti che esso si intende stipulato “secundum formam pactorum factorum inter commune Firmi et Judeos” (A. S. Fe., A. C. Fe., perg. 1338). Più difficile è stabilire la natura di questo “status” giuridico. Si possono fare delle deduzioni sulla base della situazione generale degli ebrei nei domini della S. Sede e particolarmente nella vicina Ancona . Sappiamo infatti che nel sec. XIII era sorta in Europa una lotta antisemitica con una conseguente rigidezza di trattamento, avallata da documenti papali e conciliari. Il III e IV Concilio Lateranense (1176 e 1215) avevano emanato una complessa legislazione nei confronti degli Ebrei (Cfr. I. D. MANSI, Sacrorum Conciliorum nova et amplissima collectio, Venezia, 1778. Per il III lateranense, t.XXII, coll. 1054-1058, capp.LXVII-LXX). Onorio III nel 1221 aveva rinnovato l’interdizione politica per motivi di ordine religioso ed anche politico; nel 1244 Innocenzo IV aveva affermato la necessità di rapporti tra cristiani ed Ebrei cessassero (A. MILANO, Storia degli Ebrei in Italia, Torino, 1963).
Ma di fronte a questa recrudescenza rispetto ai codici di Teodosio e di Onorio, come afferma il Laras, “tali disposizioni, in verità, facevano sentire i loro drastici effetti più nella lontana periferia che nel centro della cristianità da cui erano state emanate (LARAS, op. cit., p. 31). E se dunque “erano lungi dall’estrinsecasi così clamorosamente negli stati della Chiesa, in cui avevano avuto origine. Proprio qui, …. essi [Ebrei] vivevano pacificamente in mezzo ai cristiani senza portare visibile segno discriminatorio e assumendo manodopera cristiana o prestando ai cristiani il proprio servizio a seconda delle rispettive posizioni sociali. Liberi di commerciare in ogni genere di mercanzia, possedevano beni mobili e immobili…..” (LARAS, op. cit., p. 32).
Questa situazione già particolarmente favorevole, a Fermo dovette essere non solo riconosciuta di fatto, ma anche di diritto, in forza dei patti già accennati tra il Comune e la comunità ebraica. Non è improbabile che tali accordi comprendessero anche clausole di carattere finanziario, riguardanti i prestiti. Del resto dai documenti a nostra disposizione, risulta che oltre a privati, il Comune si rivolgeva agli Ebrei per prestiti e mutui. Un esame dettagliato di tali atti ci consente di essere più precisi. In essi troviamo che da parte ebraica i contraenti firmatari girano sempre intorno ad una costante rosa di nomi (una quindicina circa) che stipulano il contratto di prestito “in solidum”, segno evidente che formavano una valida comunità economica, una sorta di compagnia commerciale e bancaria, si potrebbe dire, e che tutti erano corresponsabili “in solidum” delle operazioni di credito. Il giro e la disponibilità di denaro liquido dovevano essere piuttosto alti: nel 1306 prestavano la somma rilevante di 6600 libbre ravennati (La rilevanza di tali somme si ricava analizzando il potere di acquisto della libbra. Un rubbio di lana costava 4 libb. (A. S. Fe., cod.1019, carta 1); l’affitto annuo di una casa, una libra e 5 soldi (Ibidem, cod. 1013, carta 2); un’armatura completa 8 libb. e 10 soldi (A. C. MG. – A. D., perg. 77 II serie); un cavallo 60 libbre (Ibidem, perg. 54, II serie) in due contratti distinti: l’uno di libbre 5000, l’altro di libbre 1600 (A. S. Fe. – A. C. Fe., perg. 1193 e 829); e questo per i due atti che ci restano di quell’anno, ma che certo non dovettero essere i soli né unici.
Dove gli Ebrei prendessero tanto danaro da poter dare a prestito, non ci è dato sapere, ma non ci sembra discostarsi dal vero se affermiamo che essi dovevano esercitare la mercatura. Del resto il fatto che si consegnassero il denaro in fiorini, in ducati e in altri “coni”, senza nessun particolare motivo, all’infuori della disponibilità del momento, può essere una conferma di qualche valore. Ad essi si rivolgevano, come abbiamo detto, sia il Comune che i privati. Così leggiamo che “priores populi de Firmo et Iacobus Act (Act: non si leggono con chiarezza che queste lettere, il resto è illeggibile nel documento) notarius de contrata Pile, quilibet eorum…. promiserunt et convenerunt dare, reddere, ac restituire” (A. S. Fe. – A. C. Fe., perg. 1121, 16 novembre 1305) la somma di 225 libbre ravennati ricevuti in prestito da “Dactalo domini Moysi, Vitali domini Ley, Vitali Benjamini, et Bonaventure Dactali Vitali Judeis recipientibus et stipulantibus pro ei set eorum sotiis judeis” (Ibidem).
Talora sono gli uomini stessi delle singole contrade (probabilmente anche qui i priori, che erano eletti uno per contrada e che rappresentavano gli abitanti di ciascuna di esse ) a stipulare l’atto : “Andreas Phylippi de contrata Castelli, item Palmerius Thebaldi de con.ta Pile, item Thomas Guillemi, olim de Murro, de con.ta Sancti Martini etc. quilibet ipsorum…. promiserunt et convenerunt….” (A. S. Fe., A. C. Fe., perg.1338, 4 ottobre 1310) Talora è un magistrato a nome proprio: “Nobilis vir dominus Rogerius Servideis de Parma capitaneus populi Firmi non ut capitaneus populi Firmi set (sic) tamquam dominus Rogerius de Parma”.
La più importante ci sembra però la richiesta fatta da un gruppo di mercanti, 12 in tutto, che chiese un prestito di ben 1600 libbre ravennati. Data la notevole somma, gli Ebrei “Vitalis Ley de contrata Sancti Bartolomei ( E’ l’unico ebreo di cui si precisa la contrada di residenza), Vitalis domini Banjamini, Vitalis Dactali et Angelectus Foschi, commorantes Firmi” chiesero una grossa garanzia; si fecero garanti le magistrature comunali per cui ad un tratto, dopo l’elenco dettagliato e nominale di esse, leggiamo: Dominus potestas et dominus Andreas vicarius tamquam rectores et offitiales civitatis Firmi promiserunt et convenerunt per se suosque successores, et predicti priores et prenominati mercatores de supradictis contratis civitatis Firmi promiserunt et convenerunt per se principaliter suosque erede et succssores, dare, solvere, ac resituere….” (A. S. Fe.. , A. C. Fe., perg.1193, perg.1193, 4 maggio 1306, per la sua importanza e le sue caratteristiche il documento sarà riportato totalmente nell’appendice dei documenti).
L’attività degli Ebrei a Fermo, come prestatori di denaro, era cospicua ed evidente. Sarebbe e di notevole portata a affrontare il problema dell’interesse o “usura”, come veniva considerato nel Medioevo. Che esso dovesse essere richiesto dagli Ebrei, non è il caso di metterlo neppure in dubbio (Si trattava di una prassi comunemente accettata, anche se tacitamente, perché il Conc. Lateranense IV aveva deliberato che gli Ebrei potevano esigere l’interesse, che le somme non fossero “graves et immoderata” (MANSI, op. cit., t.XXII, col.1054, cap.LXVII); ma l’identità, le oscillazioni, i criteri di riscossione non sono assolutamente valutabili determinabili sulla base dei nostri documenti, perché – come si sa – essendo l’interesse considerato illegale e immorale (SAPORI, op. cit., pp. 181-189 e 223-243), non appariva nei contratti ufficiali, ma costituiva una specie di contratto registrato parte e sottinteso a voce, ovvero garantito da un pegno (Si potrebbe dedurre gli interessi anche dalle somme prestate: 6000 e 600 libbre (= 6000+ 600 di interesse); 225 libbre (=100+25 di interesse); 1600 libbre (=1500+ 100 di interesse). Ma si tratta di pura illazione, presumibile, ma non confermata in alcun documento). Potremmo sospettare addirittura che qualcuno dei contratti in nostro possesso possa essere un falso prestito e copra in realtà una riscossione di interesse, ovvero che l’interesse sia già stato computato e aggiunto alla somma totale che figura prestata ed è da restituire. Tuttavia ci rendiamo conto che questo è un discorso puramente ipotetico e non possiamo assolutamente valutarlo nella sua reale attendibilità.
Quello però tra i fini della nostra indagine possiamo far rilevare, è che la “colonia” ebraica fermana, se numericamente non eccessivamente folta, era però economicamente assai importante e costituiva una presenza di tutto rispetto nella vita comunale
Ed in forza di tale capacità economica, vantaggiosa al Comune, le autorità avevano preferito stabilire con la comunità ebraica una pacifica convivenza con patti espliciti, onde fossero garantite la tranquillità degli Ebrei e una fonte finanziaria su cui il Comune potesse in ogni evenienza contare.
Economia e commercio.
Il Comune avesse una economia fondamentalmente rurale pastorale che gli derivava dalla origine stessa del Comune e dall’avere inglobato tutti i castelli e territori la cui principale attività era quella agricola.
Abbiamo anche già accennato come le piccole industrie parallele all’agricoltura sono tenute in gran conto. Fermo infatti più di una volta nell’acquisto dei castelli teneva a specificare l’esistenza dell’uso dei “molendina”. Essi rappresentavano il mezzo primario dell’utilizzazione dei prodotti dell’agricoltura, specie i cereali. (Dato l’enorme interesse che aveva lo scorrimento regolare dei fiumi, presso i quali erano collocati i “molendina”, gli statuti si occupano particolarmente della perfetta conservazione del letto dei fiumi. Negli “statuta” leggiamo: “Nullus cuiscunque gradus, et conditionis, sudeat, vel praesumat facere seccas in flumine Tennae vel Letae, sub pena XXV lib. Den. Pro quolibet contrafaciente, et vice qualibet…. Hoc autem intelligatur usque ad passum Sancti Epidii ad mare, a quo passu tenendo versus mare omnibus impune liceat in praedicto flumine Tennae seccas facere” (B.C.Fe., Statuta, lib.V, rub. 138). Per il fiume Tenna è comprensibile tale limitazione perché dal passo di S. Elpidio a Mare, fino alla foce si apre un’ampia pianura per la quali i documenti non ci attestano l’esistenza di nessun molino. I mulini infatti erano collocati soprattutto nel medio corso, tra Servigliano e Fermo soprattutto nella zona detta “Bovara” (A. C. Mg. – A. D., perg. 98, serie II, 29 dicembre 1312). La stessa preoccupazione era restata nel documento 150 per i mulini sul fiume Aso. A dì 12 ottobre dell’anno 1321 (o 1322?): “Dominus Bonjhoannes Smeraldi habuit et recepit a Morrono Johannutii bancherio Comunis Firmi pro uno die quo ipse una cum Thoma Amidi Jacobi, Frederigo domini Natalis Jacobi et Matheo Francisci Cambii iunt (sic) pro ambaxadores dicti dominis ad terram Montis Rubiani et ad flumen Axii [Aso] ad vitandum et examinandum conventiones vivanda inter nobilem virum Burdonem Amselmuctii et Homines de Monte Rubiani ex una parte, et Comunem et nomine de Monte Florum ex altera, Occasione clusis atque molendinorum…” (A. S. Fe. , A. C. FE., perg. 150).
Gli statuti della città ci ragguagliano sulle principali produzioni agricole del Comune. Nel lungo elenco dei generi soggetti a gabella erano compresi: Granum vel alterum bladum, legumina, semen lini et nucum, horreum, spelta, ficus, castanae, olivae. A questi generi sono da aggiungere altri minori: fabae, cicera et alia legumina (B. C. FE. Statuta Firmanorum, lib.VI, rub. 14)
Un posto particolare occupava la produzione del vino, cosa questa non nuova per la verità, perché fin dall’antichità sia Plinio che Columella avevano annotato l’”ager palmensis” (l’odierno territorio a sud di Fermo) come particolarmente ricco di vini anche pregiati (Statuta, lib. XI, rub. 44; Plinio, Nat. Hist.; Columella, De Re Rustica).
La produzione agricola locale era pressappoco quella che abbiamo descritta; ad altri generi di essenziali si provvedeva con una importazione che veniva regolata dalla legislazione statutaria. Alla produzione vinicola si affiancava quella dell’olio che doveva essere anch’essa notevole. In una carta ferrarese della fine del sec. XIII, riportata dal Muratori, i Marchigiani potevano pagare il rivatico con “unum orceolum olei de viginti quinque libris” (L. MURATORI, Antiquitatis Mediii Aevi, II, p.30 e seg.). È un segno evidente della disponibilità di questo genere, tanto più che nel prosieguo della stessa carta tale concessione è ripetuta anche per gli abitanti della Puglia, di un territorio cioè dove notoriamente tale prodotto era abbondante.
L’artigianato e la piccola industria erano in mano alle arti di cui ripetutamente abbiamo parlato. Su quest’attività primaria, ad eccezione di poche notizie assunte dall’archivio comunale, non abbiamo altre fonti se non gli statuti. Le attività delle arti, che maggiormente avevano peso nella economia cittadina erano quelle connesse con l’allevamento del bestiame che doveva essere particolarmente consistente, se il mercante Paccaroni ne computava i proventi in un libro a parte (A. S. Fe. cod. 1019).
La produzione della lana e del formaggio era piuttosto forte. Così il 25 maggio 1350 il detto mercante vendette 5 rubbia e XXV libbre di lana; il 26 ottobre dello stesso anno 5 rubbia e X libbre, il 21 aprile dell’anno seguente 8 rubbia e IV libbre (A. S. Fe., cod. 1019, computum pecorariorum domini Johannuctii Pacharoni, foll. 37-38).
Al pari della lana era importante la produzione del formaggio. Anche qui il Paccaroni, nello stesso libro, ci ragguaglia in gran parte. Il 28 aprile 1351 furono prodotte e vendute libbre 287 di cacio ad un tal Petruco Casollato (Caseolario) (Ibidem).
A queste forti produzione di formaggio pecorino vanno aggiunte quelle delle ricotte di cui si fa cenno ripetutamente con le espressioni “caxo fresco per jj (=2) dì” e caxo fresco per j (=1= dì (Ibidem). Dai documenti poi risultano anche diversi nominativi di coloro che dedicavano a queste attività: il figlio di un tal Spicica (A. S. Fe. , cod. 1048. fol.1, ante), Petronclo a Mucturano ( A. S. Fe. cod. 1019, fol. 37), Traurisio (Ibidem), Johanne de Ghualdo (oggi Gualdo) (Ibidem, fol.38), Petruco Casellario (Ibidem, fol.42, retro). Anthonio de Bartholomeo de la Pena (Penna S. Giovanni) (Ibidem, fol.43, retro).
Su questa attività avremmo potuto avere un ragguaglio strettissimo e minuto con la possibilità di formulare anche un’andamento della produzione annua, se il libro del Paccaroni non fosse mutilo per la maggior parte (Di questo codice 1019 restano infatti soltanto i fogli numerati da 37 a 45 con qualche abrasione e il foglio 46 totalmente rovinato ed illeggibile. Ciò non ci permette in una datazione esatta che però pensiamo doversi aggirare intorno al 1350, né il numero esatto di fogli che certamente doveva essere cospicuo).
Un’altra produzione importante era quella del sale di Fermo fino al 1316 aveva dovuto importare dalla Dalmazia. n questo anno infatti la città acquistò il castello di S. Angelo in Pontano ed in parte poter risolvere il problema del sale. S. Angelo infatti era l’unico castello della zona che, in una località del suo contado, ai confini con il territorio di Penna S. Giovanni, possedeva delle saline (Ancor oggi, scomparse le saline, il borgo che ivi sorge, trasferito al territorio comunale di Penna San Giovanni, si chiama “Saline”). Negli atti che sancirono un tale acquisto, un notevole rilievo è dato all’organizzazione di tali saline. L’8 maggio del 1316, il Comune di Fermo eleggendo “ Justinianum Thome domini Rynaldi Thoselgardis….scindicum [sic], autorem, factorem, gestorem, procuratorem et nuntium specialem vel si alio modo, nomine, melius de jure dici seu censeri potest, ad emendum et recipiendum nomine et vice dicti comunis” (A. S. Fe., perg. 2285) il castello di S. Angelo; nell’ambito di tali facoltà stabilisce tassativamente: “ad emendum, accipiendum et recipiendum a dictis nobilibus, a qualibet praedictorum, omne et quolibet jius salinarum ipsarum quod antecessorum eorum actenus haverunt [sic] et nunc ipsi habent, tenent et possident et habere et tenuere potuerunt et posuent vel debentur habere in salinis et in jure percipiendi, habendi et accipiendi, faciendi, de dictis salinis fructus, redditus et proventus qui potuerunt et possunt percipi et haberi quaquanque ratione vel causa ex dictis positis atque sitis in territorio ac districtu castri predicti iuxta flumen Salini et territorio terre Penne et alios quascunque veraciores confine set alibi ubicunque cum omnibus et syngulis juribus et actionibus pertinentibus ad res positas et quascunque earum et cum introitibus et exibus suis usque in vias publicas” (A. S. Fe. perg. 2285).
Nell’Instrumentum venditionis del castello medesimo, al 20 maggio seguente si ritornò sull’argomento con altrettanta precisione: ”Dicti nobiles dederunt, vendiderunt, tradiderunt et ad propriatatem concesserunt et cesserunt….. jura omnia et syngula salinarum ipsi nobilibus seu alicui eorum competentia et fructus, reditus et proventus dictarum salinarum cum omnibus et syngulis adredis [sic] et strumentis utilibus et necessariis et percipiendiet renitendi fructus, reditus et ractiones habendi fructus reditus et proventus salinarum predictarum et cuiscunque ipsarum et percipi faciendi et jus utendi et fruendi salinis predictis et qualibet predictarum salinarum et positarum in districtu et territorio castri predicti Sancti Angeli infra hos fines: ab uno latere flumen Salini al alio latere terena [sic, per terrena] et saline hominum castri Penne Sancti Johannis cun suis aliis finibus veratiotibus [sic] si quas habent etc.” (A. S. Fe. Perg. 2287).
Una tale insistenza, ampiezza e minacciosità di dettagli e sovrabbondanza di terminologia giuridica non fanno che sottolineare la importanza di tale acquisto per la vita economica di Fermo. Tuttavia tali saline non dovettero determinare la saturazione del mercato nella copertura del fabbisogno locale, perché continuarono le importazioni da Venezia e dalla Dalmazia (A.S.Fe., cod. 1040: Paccaroni fece venire da Sebenico 45 ducati di sale (24 marzo 1348), perg. 1236).
A questa attività possiamo aggiungere quella delle calzature, e dei panni; ma quest’ultima era quasi esclusivamente diretta alla confezione di panni “grossi” con particolare incoraggiamento del Comune. Gli statuti infatti prescrivevano una gabella di 12 denari il rubbio per la lana, mentre soltanto 6 per i panni grossi, con l’evidente intendimento di incoraggiare la trasformazione “in loco” della lana grezza e la produzione di manufatti. Da queste annotazioni possiamo accorgerci come l’artigianato non fosse molto sviluppato e tutta l’economia fermana vivesse sulla produzione agricola e le attività di piccolo-industriali ad essa collaterali e connesse.
Il commercio ed i traffici si svolgevano in prevalenza all’interno e con le città marine dell’Adriatico. Il commercio interno era in prevalenza costituito dallo scambio dei prodotti agricoli e quelli da essi derivati. Per il contado era Fermo il centro degli scambi più proficui anche perché gli statuti prescrivevano norme piuttosto accentrative in questo senso. (Statuta, lib.VI, rub. 28: “De mercantiis non mittenti vel extraendis nisi per portase Civitatis”). Né questo deve far meraviglia, in quanto le provvigioni, specie di generi primari, era necessario che fossero innanzitutto fatte per Fermo che, con la maggior popolazione, afflusso di forestieri e soldati, aveva le maggiori esigenze.
In genere i prodotti locali erano tutti di libera estrazione, senza necessità di alcuna tassa speciale, se non la normale gabella prevista per la loro vendita che restava invariata, sia che tale contratto fosse stipulato fra abitanti del Comune e dei castelli, sia con forestieri. Questo fatto è facilmente riconducibile alla condizione sociale del Comune, cioè alla mancanza di un largo ceto di consumatori cittadini e la prevalenza del Comune di una popolazione che traeva le fonti di vita dalla coltivazione dei campi. Soltanto in alcuni generi particolari vigeva un regime, per così dire, protezionistico, come nel caso “De lignamine novo et veteri laborato, quod non extrahatur de Civitate” (Statuta. Lib.VI, rub.19). Per altri generi esisteva un vero e proprio calmiere. Gli statuti ci informano che su alcuni generi di primaria necessità (farina, orzo, legumi), i priori avevano facoltà di porre settimanalmente un calmiere (“Domini Priores, qui pro tempore erunt, habeant auctoritatem, una cum Regolatoribus, providendi, ut comitativi semel in habdomeda mittant terinam, hordeum, et vitualias in platea, et vendant ad culmum…” (Statuta, lib. V, rub. 145). Oltre al commercio incentrato sulla città, grande era la cura del Comune per i mercati e fiere, dove le venivano convogliati i prodotti dell’agricoltura. Due i centri maggiori di questi mercati: S. Claudio al Chienti e Belmonte (Per la fiera di San Claudio al Chienti, abbiamo molti documenti nell’archivio comunale di Macerata, riportati dal COMPAGNONI, Reggia Picena, cit., pp. 171-267, dal CATALANI, De Ecclesia Firmana, p. 198. Per quella di Belmonte cfr: A. S. Fe., codd. 1040, 1019 e Statuta, lib.VI, rub. 73).
È importante innanzitutto ricostruire i motivi geografici e storici di queste due fiere.
S. Claudio (CATALANI, De Ecclesia…. cit., pp. 43,138,140,183,198,265; OTTINELLI, Elogio….cit.; COLUCCI, Delle Antichità, vol.XVII) era una zona sulla valle del Chienti a sud-est di Macerata, feudo del Vescovo di Fermo, e quindi il centro naturale di uno scambio commerciale per gli prodotti agricoli della valle del Chienti, del territorio fermano e di quello maceratese.
Durante la riorganizzazione dei domini della Santa Sede ad opera del card. Albornoz e dell’abate Andruino di Cluny, precisamente nell’anno 1357, il territorio passò amministrativamente a Macerata, per concessione dello stesso Andruino, con lettera del 20 aprile (XII Kal. Maj) (Il documento era riportato quasi integralmente dal COMPAGNONI (Reggia… cit., p. 220, “Datum Caesena XII Kal. Maj, Pontif. D. Innocentii pp. Sexti Anno Sexto”. Circa questo documento però c’è da chiarire esattamente che si trattava di fiere di Macerata città o di S. Claudio.) Alla fine del secolo poi (1396) in un’altra carta maceratese è chiaramente indicata la fiera di S. Claudio (Doc. LXVIII, die 22 dec., 1398, in COMPAGNONI, op. cit., p. 267. “Fesum Ascensionis D. N. Jesu Christi, in quo propter Nundinas S. Claudii possunt aperiri apothecae et stationes et mercari, ac mercantias portari, ac victuali ut hactenus existit usitatum, propter dictas nundinas, et idem intelligatur et fieri possit impune intus et extra in dicta civitate die Dominica prima, post diem festum Ascendionis Domini, propter indulgentiam ecclesiae S. Iuliani”).
L’importanza di questa fiera, nata per motivi geografici e soprattutto all’ombra e protezione del vescovo di Fermo, in un luogo dove un’antica abbazia benedettina aveva creato un importante centro produttivo e di smistamento, certamente non è da mettere in dubbio. Tanto più che essa fu una fiera locale, ma aperta a tutta la Marca di Ancona [la presenza dei Maceratesi ne è la testimonianza]. Essa, come risulta dai documenti, si svolgeva nel mese di maggio, periodo oltre che stagionalmente buono, anche favorevole per il mercato ortofrutticolo e per quello dei prodotti della pastorizia. Effettuandosi nei fondi vescovili, era lo stesso vescovo di Fermo, che ricavando il maggior frutto dai dazi e riscuotendo le gabelle, aveva il compito e la giurisdizione di organizzarne il regolare svolgimento. Nel 1317 ad esempio, dovette verificarsi una grave controversia tra i commissari vescovili e gli uomini di Macerata, durante lo svolgimento della fiera, che creò un “casus” piuttosto grave; esso sarebbe certamente degenerato, se i Maceratesi non avessero inviato (di 7 gennaio, 1318) al vescovo e le magistrature di Fermo “tabellae procurationis… in quibus gravi animi dolore nonnullorum conterraneorum impudentiam detestantur, qui cum ad S. Claudii ecclesiam nundinarum tempore se contuliassent, nonnulla undisque gesserunt in eos Firmanos cives, quod Albericus episcopus (Albericus secundus, Vicecomes, vescovo di Fermo dal 1301 al 1314 (cfr CATALANI, De Ecclesia…cit, pp. 194-199), nundinarum paefectos constituerat. Id vero patrati sceleris ab episcopo ac Senatu Firmano veniam supplices petunt, ac quid quid pro illius expiatione injunctum fuerit, ac libenti animo impleturos esse, pollicentur (CATALANI, De Ecclesia…cit.. 198).
Circa l’importanza della fiera di S. Claudio il Catalani aggiunge ancora che “eas nundinas cum magna populi frequentia celebratas fuisse documenta apud nos sunt, et apud Maceratenses” (CATALANI, De Ecclesia…cit., p.198. I documenti consultati dal catalani sono tutt’oggi irreperibili, ma non v’è alcun motivo di doverne negare la sua affermazione).
Un dubbio può sorgere dalla lettura dei libri dei conti del Paccaroni in cui la fiera non è mai nominata; ma ciò non deve trarre in inganno. Tali libri decorrono dal 1349 in poi, gli anni cioè della Legazione dell’Albornoz e delle più travagliate vicende politico-militari della Marca di Ancona. È ragionevole pensare che in quegli anni la fiera non si fosse potuta effettuare, data la precarietà della situazione generale. Il suffragio la già citata lettera del 1357 (La data era specificata nella lettera di richiesta dei Maceratesi; lettera che non possediamo) dell’Abate Andruino di Cluny, nella quale leggiamo si gli permette di ristabilire la fiera “cum a iam die prefate Nundine, in dicta Civitate tum propter guerram, quam propter Tyrammiam, sub qua ipsa civitas hactenus subiacebat, non fuerunt celebrate….(COMPAGNONI, op. cit., p. 220).
L’altro centro commerciale, luogo di mercati di fiere, era, come abbiamo detto, Belmonte. Certamente questa località assurse al privilegio di un luogo di scambio per la sua posizione geografica. Il castello di Belmonte collocato nella media Val Tenna, a 25 km da Fermo, alla sommità di un criminale che lo spartiacque del bacino del fiume suddetto e dell’Ete. Il “castrum” veniva dunque a collocarsi in posizione mediana tra la montagna e la marina, tra le valli del Tenna e dell’Ete, vicino ad un castello non fermano, ma assai potente, quale era quello di Montegiorgio e quindi punto naturale di incontro di tutta l’economia agricola locale.
L’origine della fiera doveva essere assai antica, ma quel che è certo, essa era importante e fiorente nel sec.XIV. Gli statuti ce ne permettono una esatta descrizione (Statuta, lib.VI, rub. 73). Il mercato aveva luogo tutti i martedì, e si svolgeva in una località appositamente deputata, il “forum”; ma data la sua limitata capienza, si spandevano le merci anche nelle vie d’accesso: “in aliqua strata per quam itur ad dictum mercatum”).
I mercanti arrivavano il giorno prima (die lune) e ne partivano il giorno appresso (die mercurii). Alcuni di essi, i più affermati e abituali frequentatori, avevano addirittura dei caseggiati (cassina vel capanna) per conservare le loro merci. Al mercato non giungevano però solo mercanti con mercanzie locali, perché alcuni di essi erano “forenses” cioè forestieri (Lo statuto contemplava il trattamento speciale circa i dazi per coloro che avevano già pagato la gabella nel Porto di Fermo e comperavano “causa vendendi et extrahendi per mare”).
Una serie di provvedimenti speciali garantiva sia la sicurezza delle merci che quella dei mercanti: “Item cuilibet liceat die lune precedenti in dicto die fori et die Mercurii sequenti, undecunque sit, venire cum mercantiis et rebus quibuscunque et bestiis ad dictum mercatum, et ibi stare salve et secure; et nullus possit offendere in persona, vel rebus, se in eundo, stando et redendo sit liber et securus et absolutus, non abstantibus aliquibus represaliis et conditionibus”. Tuttavia il luogo non godeva di immunità perché si faceva presente che ciò era concesso a tutti “exceptis exbannitis, et condemnatis Communis Firmi, qui in predictis non includantur”. Il luogo godeva anche di una certa franchigia: “Non possint etiam in dicto foro conveniri, vel cogi pro aliquo debito alibi contracto, sed solum pro debitis contractis in causis vertentibus et emergentibus ab eodem”.
L’economia fermana, secondo quanto si è detto sulle norme che regolavano la estrazione delle merci e secondo alcune disposizioni doganali esposte qui di seguito, si presentava come una economia aperta. Per facilitare gli scampi con terre al di fuori delle “districtus” erano contemplate alcune particolari agevolazioni doganali e di gabelle. Coloro che avevano pagato la dogana del Porto di Fermo erano esenti dalla gabella sulle merci che vigeva al mercato di Belmonte, e così anche coloro che l’avrebbero dovuta pagare nell’atto di imbarco delle merci acquistate e che intendevano esportare.
Al mercato di Belmonte concorrevano mercanzie di ogni sorta; da quelle nominate negli statuti possiamo dedurre che esse però fossero soprattutto costituite da prodotti tessili, grezzi o lavorati, bestiame vivo e macellato, prodotti cerealicoli: questi ultimi variavano in quantità e genere secondo i diversi momenti stagionali.
Un’ultima considerazione: mentre la fiera di S. Claudio subì, come abbiamo avuto modo di vedere, momenti floridi e momenti difficili, persino interruzioni di attività, il mercato di Belmonte fu invece di gran lunga più continuo e costante; negli anni stessi della difficile situazione politico-militare, durante la Legazione di Albornoz, continuò ad effettuarsi ed in modo assai efficiente, se il Paccaroni negli anni 1350-52 riusciva a collocare in quantità notevoli di lana e formaggio (A. S. Fe. cod. 1019).
Mentre il commercio locale si svolgeva in queste due piazze, lusinghieri e importanti erano i centri del commercio “estero”. Le principali zone di scambio di Fermo erano il litorale romagnolo e la Romagna in genere, Venezia e la Dalmazia. La Romagna perché, distanza a parte, era a Nord e con le Marche. Essa insieme a Venezia era la regione di passaggio delle merci marchigiane che per mare e per terra raggiungevano le città dell’Italia settentrionale. Le vie di accesso erano l’una per mare fino al litorale ferrarese e da questa attraverso la valle del Po; la seconda per terra attraverso le antiche vie consolari, Flaminia ed Emilia (Per un’abbondante disanima cfr COLINI-BALDESCHI, op. cit., p. 120e segg. Un accenno alla Toscana e precisamente a Firenze lo si trova nei libri del mercante Paccaroni in cui si annota la spesa di 61 libbre e 10 soldi per l’acquisto di “reffe” (refe) a Firenze. A. S. Fe. cod. 1005). Talora i prodotti locali raggiungevano anche la Toscana, come testimoniano alcune carte montegiorgesi interessanti degli Ebrei (A. C. MG. – A. D., perg. cit.). Ma questo genere di scambi era assai piccolo, sia per volume che per guadagno, perché i prodotti agricoli di Fermo erano quasi identici con quelli delle suddette regioni; e ciò spiega anche la mancanza di scambi con le regioni del sud; Abruzzo e Puglie. Di gran lunga più importanti erano gli scambi con Venezia.
I rapporti di indole commerciale tra le Marche e Venezia erano antichissimi (Un accenno si incontra già in un diploma di Carlo III del gennaio 880 in SCHIAPPARELLI, Diplomi di Berengario I n.3 e in M.G.H., Diplomata, I, 482. Ma un vero e proprio trattato fu quello del 1141 riportato in appendice da LUZZATTO, Dei più antichi trattati tra Venezia e le città Marchigiane, Venezia, 1906, p. 43). La situazione commerciale tra Fermo il Venezia quale si svolge nel sec. XIV risulta già fissata nel secolo precedente, sia per i trattati specifici intercorsi tra le parti, sia per le vertenze economiche tra la Serenissima e Ancona per la concorrenza commerciale, sfociata in azioni militari e di rappresaglia.
A questo riguardo non crediamo opportuno ripetere un’indagine già fatta accuratamente dal Luzzatto e ci limitiamo a riportarne per sommi capi le sue conclusioni (LUZZATTO, Dei più antichi… cit., pp. 13-40 passim). Il primo documento che interessa direttamente Fermo e quello del 1261 (LUZZATTO, Dei più antichi…cit., pp. 13-14. Così egli si esprime: “Di quell’anno ci rimane un trattato, per molti lati importante, concluso con quelli di Fermo. I rapporti cordiali, che fino a poco innanzi erano esistiti fra le due città dovevano essersi rotti per cause essenzialmente commerciali, e molto probabilmente anzi per interessi privati, di cui fa esplicita menzione il testo medesimo del trattato, parlando di danni recati da Fermo a navi e mercanzie di Veneti, e da Veneziani a quelli di Fermo, danni questi che si solevano per lo più arrecare, come rappresaglia per crediti non riscossi. Ma ben presto si venne agli accordi, ed un inviato di Fermo messer Giacomo di messer Giovanni, venuto a Venezia con procura di quel podestà e del consiglio del Comune, dopo pochi giorni si concludeva non solo la pace, ma un trattato di piena amicizia politica e commerciale, a condizioni che sono – in apparenza – di piena uguaglianza fra i due contraenti. L’uno e l’altro si garantivano il risarcimento dei danni patiti, la rinuncia alle misure proibitive contro l’importazione e l’esportazione delle merci dai propri territori, e la piena libertà reciproca dei commerci, con esenzione quasi totale dei dazi”). Con esso si rinnovò una serie di fatti già esistenti, ma che erano venuti a decadere dopo che tra mercanti vi erano stati danneggiamenti reciproci, atti di violenza e rappresaglie.
Secondo il Luzzatto, chi guadagnava di più da questo trattato era Venezia: “ chi era maggiormente interessata alla conclusione del trattato e ne ritraeva un vantaggio reale, era Venezia, la quale aveva bisogno di trovare porti dell’Adriatico e poter esportare da Fermo, grano, olio e vino ed altri commestibili, che le facevano difetto…..” (LUZZATTO. Dei più antichi… cit, p. 14). “Oltre a ciò, Venezia, già molto avanti nei progressi industriali, poteva scambiare quelle materie di prima necessità o i prodotti della propria industria e a tutto questo poteva aggiungere il profitto dei trasporti, che nell’Adriatico si esercitavano quasi esclusivamente con navi veneziane….” (Ibidem). “Il vantaggio massimo per gli uomini di Fermo consisteva nel vedersi assicurato lo smercio dei loro prodotti agricoli e a questo vantaggio essi tenevano certamente assai, specialmente per il vino; ma ad essi non sfuggiva però che da questa libera esportazione, concessa in un’epoca di economie chiuse ed esclusiviste, poteva provenire il pericolo di un aumento enorme del costo della vita; e perciò si riservavano almeno il diritto di proibire ai soli cittadini l’estrazione del frumento, quando esso nella città di Fermo e nelle vicinanze superasse il prezzo – per quei tempi altissimo – di 30 soldi lo staio (LUZZATTO, Dei più antichi…. cit., p. 15).
Negli anni successivi le acque non restarono calme, perché Fermo tentò di imporre gabelle sulle merci veneziane e i nuovi inceppi diplomatici furono risolti temporaneamente nel 1269, quando il Comune di Fermo mandò un suo ambasciatore a Venezia per chiedere “quod pro mercantis sive mutuis que de cetero fient per nomine veneciarum cum hominibus Firmi contra Comune vel nomine Firmi pignora vel represalia non debend dari vel concedi” (A. S. Ve., Maggior Consiglio – Deliberazioni-Comune I, n.LIII, in LUZZATTO, op. cit., p.14).
Durante le vicende militari che furono conseguenza dell’azione per la supremazia commerciale veneziana nei confronti di Ancona (LUZZATTO, op. cit., pp. 16-18 passim.
COLINI-BALDESCHI, op.cit, pp. 118-121 passim. Il Baldeschi dell’esito di questa guerra così scrive: “Gli Anconetani non solo commerciavano direttamente in levante, ma fondarono una colonia ad Ancona ed un’altra a Bisanzio; ebbero rapporti commerciali con Cipro; e per quanto i Veneziani si studiassero di tenere le altre città dell’Adriatico lontanne…. Tuttavia non poterono impedire ai Ragusani e agli Anconetani di navigare su proprie navi e commerciare con l’Egitto”. Ibidem, p. 119), Fermo che di nuovo aveva posto restrizioni doganali alle merci veneziane fu messa a tacere dalla minaccia veneta di proibire “severamente l’importazione di qualunque merce proveniente da Fermo, sotto minaccia di confisca totale” (LUZZATTO, Dei più antichi… cit., p. 19). Così il 13 aprile 1288, furono inviati a Venezia due ambasciatori, “ i quali non solo riconfermarono completamente il patto del 1260, ma promisero di pagare, entro 7 mesi, 55 lire, come restituzione delle gabelle esatte indebitamente ad alcuni mercanti veneziani (Ibidem).
Coi rapporti commerciali sanciti dai due trattati esaminati, del 1260 del 1288, si apre il sec. XIV che per tutta la prima metà non fece registrare alcun mutamento. Né trattato, né rappresaglia o tentativi di qualche sorta si ripeterono e le cose procedettero nello status quo ante. Dal punto di vista strettamente mercantile, più di una volta Venezia ricorre nei libri di Antonio Paccarroni. Da questi risulta che Fermo vendeva sul mercato veneziano olio e riportava “mercadantia” non meglio specificata e sale (A. S. Fe., cod. 1005): Del resto queste annotazioni del Paccaroni non fanno che confermare che la natura degli scambi agricoli da parte fermana e mercanzia varia, probabilmente merci orientali e prodotti industriali, da parte veneziana.
L’altro termine di riferimento del commercio estero fermano era la Dalmazia. Fino ad ora alcuni ricercatori come il Munster (L. MUNSTER, Medici e Chirurghi firmani al servizio della Repubblica di Venezia nei secoli XIV e XV, in “Atti della II Biennale della Marca e dello Studio Fermano”, Fermo, 1957, pp. 29-41), il Gremek (M. DRAZEN GREMEK, Medici e farmacisti fermani nei sec. XIV-XV al servizio di alcune città della Dalmazia, in “Atti della III Biennale della Marca e dello Stdio Fermano”, Fermo, 1959, pp. 37-41), ed il Santoro (M. SANTORO, Medici della Marca fermana, trasmigratori, nei secc.XIII-XIV-XV, Roma, 1970), basandosi, il primo suo informazioni desunte da altri archivi, gli altri sul fondo pergamenaceo dell’ex Archivio di Santa Maria della Pietà di Fermo, ora presso l’archivio di Stato, avevano concluso dover essere numerosi ed importanti gli scambi tra Fermo e le città della Dalmazia. Messici su questa strada dalle loro ricerche, abbiamo voluto venire a capo di una documentazione più probante. A questo riguardo perciò durante le nostre ricerche ci siamo imbattuti in accenni precisi con Sebenico nei libri del Paccaroni (A. S. Fe. cod. 1005, passim) e poi con Zara in una carta, mai letta prima d’ora, che contiene il testo di un importantissimo trattato tra Fermo e la città dalmata, l’unico che si conosca tra Zara e qualche città delle Marche (La storia di questo nostro ritrovamento è curiosa. L’Hubart all’anno 1309 registra una carta in questo titolo “firmum et Jadra”. Di fronte a questo strano toponimo abbiamo cercato di effettuare una più esatta precisazione, ma inutilmente e così penso possa essere capitato a quanti prima di noi hanno letto lo stesso regesto. Per maggior scrupolo abbiamo preso la carta e sulla base del protocollo in cui si nomina il doge Pietro Gradenico, e dell’escatocollo in cui, come testi rogati, apparivano nomi assai inconsueti, abbiamo pensato ad una città della Dalmazia. Geografi antichi, tra i quali il MERCATORE (Hatlas, Amsterdam, 1629, Tomo III, p. 320) non riportano il toponimo che poi invece abbiamo trovato nell’Atlante Storico del Fraccaro alla tavola 30. La ricerca filologica ci ha aiutati: Zara (in serbocroato Zadar) era ritta nel greco-bizantino “Iadera o Iadra” e nel tardo romano Jader, Iadera, e anche Jadra, come nel nostro documento). Il trattato nella censura con cui lo abbiamo rinvenuto, risale al 15 aprile 1309, ma è il rinnovamento di uno preesistente – poi ivi incorporato- del 5 luglio 1288 (A. S. Fe., perg. 1236. Il documento riportato interamente nell’appendice dei documenti).
L’analisi di queste due date è assai importante. Il primo trattato, risalente al 1288, può far capire l’esistenza dei rapporti commerciali tra Fermo e le città della Dalmazia; ma d’altra parte, il rinnovamento del patto del 1309 senza il benché minimo rimaneggiamento, ci convince che esso fu dettato da nuove reali necessità commerciali che potevano essersi create solo a causa di un aumentato volume di scambi inoltre rinnovare il patto così com’era, significava affermare che le relazioni tra Fermo e la Dalmazia non erano sostanzialmente mutate nel sec. XIV. Il patto che in se stesso consisteva soprattutto nel creare reciprocamente, Fermo e il suo distretto per gli Zaratini, Zara e il suo territorio per i Fermani, zone di libero scambio dove potessero agire gli “nomine Jadrenses et districtus caricando et discaricando de suo proprio, ubi eis placuerint, in predicto districtu absque aliquo dacio, thalomo, cabella, maleablato seu exactione quacunque”; così pure i Fermani potessero esercitare liberamente il loro commercio. Inoltre, sempre con concessioni paritetiche e reciproche, i due contraenti si sarebbero considerati “ut amicos, emendo et vendendo liberi et securi, tam in civitate quam in eius districtu”.
Unico prodotto soggetto a gabella specifica era il sale con le rispettive clausole. Per Fermo “excepto dacio salis Francisci Lundenti [?] quod tam nomine Jadrenses quam eius districtu solvere sicut alii nomine tenebuntur” (Ignoriamo a che tipo di gabella particolare si riferissero le clausole anche perché non ci è stato possibile reperire l’unico autorevole saggio in proposito, quello del Bauer (C. BAUER, Meneianische Salzhandel politic bis zur Ende del XIV Jahdrunderts in “Vierte jahrschrift fur Sozial-und-Wirtachaftgeshichte”, 1930). Circa la clausola “dacio salis de Pago” si può affacciare qualche ipotesi. Pago era una cittadina della Dalmazia: gli Zaratini volevano riferirsi alle condizioni doganali esistenti per il mercato del sale a Pago ? Pure ad un trattato tra Fermo e Pago in cui le condizioni doganali del sale erano ben specificate ? È difficile dirlo).
Altra importante clausola era quella riguardante il commercio del vino. Gli uomini di Zara non potevano portare vino a Fermo (“Aliqui homines jadrenses et districtus civitatis eiusdem non possint vinum ducere seu adportare ad portus civitatis Firmi et eius districtus vendendum vinum ipsum” – A. S. Fe. p. 1236).