DON OTTAVIO DE ANGELIS riformatore dello studio delle lingue classiche. Notizie desunte da uno scritto di don Rolando Di Mattia
Il prof. don Ottavio De Angelis, esimio docente di lettere classiche è ben degno di essere annoverato tra le figure illustri del clero fermano.
Don Ottavio De Angelis nacque a Carassai (AP) il 16 Giugno 1876 da Barnaba e Maria Utrek. A dieci anni entrò nel Seminario di Fermo dove si distinse per intelligenza e impegno negli studi.
Nel 1900, ancora diacono, partì per Buenos Aires come segretario particolare di Mons. Sabatucci, internunzio in quella capitale, e fu ordinato sacerdote il 14 maggio 1900, durante il viaggio.
Tornato in patria nel 1903, andò cappellano a Monte S. Giusto, e da lì, nel 1905, ancora cappellano della parrocchia di S. Lucia di Fermo. Seguì con interesse le vicende del movimento di don Romolo Murri che tra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900 agitarono la Diocesi di Fermo.
Intanto approfondiva lo studio delle lingue classiche, ricavandone un metodo che informerà i manuali di grammatica e sintassi poi pubblicate tra il 1926 e il 1936 mentr’era docente di lingue classiche nel liceo classico a Fermo in Seminario, dal 1928. In seguito, dal 1940, docente in città al liceo classico statale.
Nel 1929 veniva nominato canonico della Metropolitana di Fermo. Nel 1946 fu colpito da trombosi meningea. Resse alla malattia con la consueta virile e cristiana serenità, fino alla morte avvenuta il 1 giugno 1961 festa del Corpus Domini.
Attingo ai ricordi di scuola ancora ben vivi, benché lontani negli anni, e pieni di fiducia, perché cresciuti e maturati nella vita. Siamo stati alla sua scuola per sei anni scolastici consecutivi: dal 1927/28 al 1932/33, e per diverse discipline: lingua francese negli ultimi anni del nostro ginnasio; lingua greca nel ginnasio superiore; triplice lingua e letteratura italiana, latina, e greca nei tre anni di liceo: un bel complesso di “studi dell’umanità (humanitatis)”. Tratteggerò alcuni aspetti della venerata figura.
IL PROFESSORE.
Il prof. De Angelis, nel 1926, pubblicava, con l’editore Carabba di Lanciano, il suo “Nuovo modo di esporre la morfologia greca elementare”; ad esso, nel 1927, seguiva il “Corso di esercizi greci in conformità alla grammatica dello stesso autore con un facile e rapido corso per apprendere i vocaboli greci”; e ad integrare il tutto, nel 1928, la “Sintassi greca elementare o guida per tradurre dal greco”.
In quarta ginnasio nel 1928/29 era il nostro professore di greco. E il suo metodo era veramente nuovo. Il professore ci riempì di meraviglia quando, alla prima lezione, ci disse che la grammatica non serviva o serviva poco; che noi avevamo imparato a parlare l’italiano senza sapere la grammatica la quale c’era stata utile più tardi per prendere chiara coscienza della lingua. L’importante era conoscere i vocaboli che ci avrebbero permesso se non di parlare in greco, certamente di leggere gli autori greci comprendendo il senso dei testi; che il tutto sarebbe stato più facile di quanto noi potevamo immaginare! C’era da crederci?
Il professore che era ben esperto in materia e ci confidò poi che stava preparando un vocabolario della lingua greca consono al suo metodo di insegnamento. Era persuasivo. Ci mettemmo al lavoro con entusiasmo.
Il libro degli esercizi presentava 150 radici di vocaboli, portatrici di concetti fondamentali: attorno ad ognuna di esse si snodava una bella sfilza di 10/15/ 20 vocaboli che di quel concetto davano le articolazioni e le sfumature: prefissi e suffissi arricchivano il patrimonio, e il processo di “gradazione vocalica” lo incrementava ancora con il passaggio dal significato originario ad uno affine.
Nel giro di pochi mesi eravamo in possesso di 1500/2000 vocaboli e ci muovevamo con passo sempre più spedito nella lettura di favole e poi di brani di prosa dalla struttura man mano meno semplice, mentre il professore ci somministrava le dosi di grammatica, e più tardi di sintassi, necessarie per il nostro lavoro. Più che tradurre, noi “leggevamo” i testi.
La cosa ci entusiasmava e si lavorava di buona lena! Continuando con questo metodo e moltiplicando le letture di opere intere, al termine del liceo, chi voleva, leggeva correntemente prosatori e poeti. Lo stesso procedimento e gli stessi risultati per il latino.
Il professore Ottavio De Angelis, nel 1930, pubblicava “Le sintassi italo-latina comparate” per ginnasi superiori e licei, e nel 1936 gli “Esercizi di sintassi e di stilistica latina in conformità della sintassi italo-latina comparata dello stesso autore”.
Il professore sempre era comprensivo e pretendeva da ciascuno in rapporto alle sue possibilità, per cui con lui la scuola era stimolante sempre, odiata mai!
IL ‘MAESTRO’
Don Ottavio De Angelis offriva una lezione di rara densità in cui ci veniva aperto il senso e sottolineato il valore dello studio dei classici delle varie letterature. Era uno studio che non si doveva ridurre, per ciascun autore, a sapere “dove nacque, quando visse, cosa fece, cosa scrisse e che giudizio i dotti danno degli scritti ch’egli lasciò”.
Dovevamo cogliere con intelligenza, e vagliare criticamente il messaggio umano dell’autore: la sua visione dell’uomo e della vita, del mondo e della storia, e la influenza esercitata nella generale evoluzione della mentalità e del costume: il tutto perché riuscissimo a vivere il nostro tempo con la chiara coscienza della ricchezza di motivi, problemi, prospettive in esso maturati per l’apporto di quegli autori, di quelle culture.
Questi criteri, vissuti nella nostra scuola, sono efficacemente illustrati nella “Lettera-prefazione didattica” indirizzata ai “cari giovani” e datata “Fermo, 1956” che il prof. De Angelis ha voluto premettere a “Idee generali e quadri della letteratura italiana”.
Si tratta di un bel volume di “appunti, giudizi, sintesi” che dovevano certamente servire per una stesura definitiva dell’opera, resa poi impossibile dall’aggravarsi della malattia e dalla successiva morte del professore. Bene ha fatto il nipote, Aw. Ottavio Albanesi, a pubblicarli a Fermo nel 1971, ad onorarne la memoria e a rispettarne la volontà che era quella di aiutare i giovani studenti.
Gli innumerevoli autori di cui sono ricche le letterature, radiografati dal nostro Professore, hanno contribuito largamente a farci scoprire ed analizzare i molteplici aspetti della vita umana privata e pubblica: dall’angoscia del dubbio ad una granitica visione di fede, dalle tenerezze dell’amore al sorriso scettico e beffardo, dal desiderio di solitudine alla passione politica e civile, dall’attenzione al “particolare” alla visione unitaria di interi cicli storici.
Naturalmente il Nostro aveva i suoi autori preferiti e li presentava a noi con entusiasmo: autori diversi per indole, tematiche, tempi e ambienti culturali, e passione. Il Professore condivideva e commentava Orazio con gusto. Ne apprezzava l’equilibrio superiore che guarda le cose dall’alto e le governa. Equilibrio che egli aveva raggiunto e doveva essergli costato non poco con un temperamento tutt’altro che flemmatico ed in una vita non priva di vicissitudini.
Il Maestro sentiva profondamente l’elemento drammatico della vita e lo rivelava con la sua passione per il Pascoli. Aveva stabilito un rapporto epistolare con la di lui sorella Mariù. Del Pascoli il Nostro apprezzava il senso della natura e del mistero, il fine intuito che gli faceva cogliere analogie inedite tra le cose e i sentimenti, ma apprezzava soprattutto la dolorante nostalgia di un bene perduto come tra i “I poemi conviviali”: “L’ultimo viaggio” di Odisseo e all’ascolto noi sentivamo lo scorrere inesorabile della vita.
L’epilogo: “Solo mi resta un attimo. Vi prego:
ditemi almeno chi son io! chi ero!
E tra due scogli si spezzò la nave.”
E la conclusione sconsolata: “Non esser mai! Non esser mai! più nulla,
ma meno morte, che non esser più!”
La lettura finì nel silenzio attonito di noi ascoltatori! Ma il travaglio (oggi lo diremmo esistenziale) del Pascoli non era l’ultima parola del nostro Maestro. Il suo “autore” era Dante. Il “poema sacro” per il Nostro era l’universo: non un universo medievale, ma l’universo. Veramente vi avevano “posto mano e cielo e terra”. Nei tre anni del liceo Egli ci ha fatto leggere tutti i cento canti della Commedia; ce li ha commentati.
Ce ne ha letti non pochi con quella sua lettura appassionata che era efficace più di un commento. Il Maestro dava rilievo ed efficacia ad ogni lettura, e riusciva a farci gustare la soffusa luminosità delle balze del Purgatorio o a rivelarci l’incanto degli sfavillanti splendori del Paradiso nella ineguagliabile efficacia di indimenticabili versi.
Non possiamo però non dire che il Maestro ci allargava gli orizzonti dello spirito mettendoci dinanzi alla grandiosità e alla potenza della visione unitaria che Dante ha della vita, del mondo e della storia.
Ci apriva alla comprensione della terza cantica dove dominano la luce e lo sguardo, la bellezza e l’amore, il fulgore del volto dei beati e gli occhi di Beatrice nei quali traluce la perfezione crescente dei vari cieli, tal che Dante contemplando quegli occhi ottiene “la sua vista più sincera” (3,33,52) e si eleva fino all’empireo dove la Vergine da “li occhi da Dio diletti e venerati” implora per lui la visione di Dio “il punto che raggiava lume”, “L’Amor che move il sole e l’altre stelle”. Era il nostro Maestro! E la nostra vita diventava più “sincera”.
DON OTTAVIO SACERDOTE
Il Prof. De Angelis era canonico del Duomo celebrava al Carmine, viveva in casa sua. Eppure noi percepivamo, in tutto il suo agire, la carica dello zelo sacerdotale e la percepivamo anche in quel suo cercare i migliori aspetti della vita e del mondo ecclesiale.
Era zelo sacerdotale tutta l’attività di Maestro. Nella “Lettera-prefazione didattica” già citata, così si esprime: “Autori e critici accreditati riconoscono come il fattore spirituale cristiano- cattolico, innestato sul classicismo, è elemento efficacissimo in un’opera d’arte”. I surrogati spirituali di questo e quell’autore “sono mutuati dalle esigenze dell’anima ‘cattolica in potenza’”.
Con Papini e De Luca (in Prose di cattolici italiani d’ogni secolo del 1941) avverte “gli storici e i critici e gli eruditi” “che non si può fare storia integrale ed esatta della letteratura italiana senza tener conto di quella maestosa e profonda fiumana di fede che la permea tutta, più o meno visibile e ampia a seconda dei terreni e delle stagioni, ma che non si è interrotta e inaridita mai, neanche quando parve ridotta a fil d’acqua tra i sassi o a polla sotterranea”.
Sono testi e citazioni da cui è facile dedurre in modo chiaro quale fosse lo spirito con cui animava la scuola. Il nostro Professore considerava l’anima cristiana in potenza. Le sue lezioni non erano frutto dell’entusiasmo di un letterato colto e raffinato; erano contributi sostanziosi che un sacerdote dava alla educazione “cristiana per naturalità” di tutti, compresi i giovani che si formavano a vivere da persone adulte.
Egli dava le coordinate della vita per inquadrare la complessità dei problemi che noi giovani avremmo dovuto affrontare nel lavoro di animazione cristiana della vita del popolo, con un atteggiamento di libertà responsabile, a proposito della quale, nei discorsi del Professore, era possibile avvertire un contrasto garbato con chi quelle coordinate avrebbe volute più anguste.
Elaborò il corso di letteratura cristiana latina e greca, con notevole fatica. In questo studio il Professore ci faceva penetrare nella visione e nella prospettazione che della fede cristiana avevano dato catecheti ed apologisti, storici e teologi, oratori e poeti. Notava il vigore apologetico di Tertulliano, la delicatezza di Prudenzio, la smagliante oratoria di S. Giovanni Crisostomo e soprattutto le appassionate analisi interiori di S. Agostino nelle “Confessioni” e la sua grandiosa visione della storia nel “De civitate Dei”.
Grande l’interesse che si era creato in noi per i contenuti della fede e per la dirompente efficacia che essi avrebbero potuto avere su la evoluzione civile del popolo, se presentati nella giusta luce ed in intelligente adesione alle esigenze dei tempi. C’era nel professore un’ansia di modernità e di progresso che ci avvinceva, anche se in altri suscitava qualche perplessità.
Egli si era interessato alla formazione ecclesiastica dei seminaristi fin da giovane sacerdote. Nel 1908, pubblicava a Fermo un opuscolo intitolato “Da Gesù” tre discorsi popolari, in cui tratta della religione come mezzo di educazione individuale in vista del miglioramento sociale. Il tema della formazione del sacerdote viene allargato in vista della sua funzione sociale.
I temi sociali avevano appassionato il Nostro fin dagli anni della sua formazione giovanile. Ve lo spingevano il suo temperamento esuberante, unito all’intelligenza della situazione sociale e delle attività molteplici del Movimento cattolico allora fiorente in Diocesi sotto la guida di Mons. Artesi.
L’interesse si intensificò con il soggiorno in Argentina dove il De Angelis poté conoscere le misere condizioni dei nostri immigrati. Sotto lo pseudonimo di Mario Utrek (la madre di Don Ottavio si chiamava Maria Utrek), pubblicava una lettera “Agli operai italiani della Repubblica Argentina” intitolata: “La simpatia dell’operaio: i due garofani” e tratta del garofano bianco simbolo dello stato democratico propugnato dal Movimento cattolico e dalla Democrazia Cristiana, e del garofano rosso simbolo dello stato socialista totalitario.
Una seconda lettera era dedicata “Al mio povero Padre”, con il titolo: “Operai, chi vi ridusse alla strada? Organizzatevi!”. La trattazione sviluppa questi tre temi: “1°. Operaio, leggi attentamente e vedrai chi ti fece venire schiavo per la seconda volta. 2°. Che cosa insegnano i sacerdoti di Gesù Cristo, il Papa, la Chiesa su la condizione dei lavoratori. 3°. A chi devi ubbidire e che devi fare se vuoi rimediare ai mali tuoi. Buenos Aires, 28 ottobre 1901. Mario Utrek.
Il modernismo di don Ottavio è tutto qui, in questa ricerca di giustizia, di libertà e di riscatto degli oppressi. Egli pensava che questo compito appartenesse alla Chiesa. E propugnò anche la organizzazione degli operai.
Egli vi contribuì non come combattente di prima linea, ma con la riflessione, gli scritti e l’azione educativa dei giovani che furono alla sua scuola. Noi gliene siamo profondamente grati!
Della integrità della sua fede, del suo spirito sacerdotale, del suo disinteresse altruista è testimone inequivocabile un testo di poche righe, scritte di suo pugno nel 1952. Le riportiamo: “Alla scuola di Leone XIII, … conseguito il sacerdozio missione sociale, sdegnò carriera diplomatica e pinguissima prioria. Disilluso
In realtà dà una magnifica testimonianza di vita. Ave, pater dulcissime!
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