Grassi Antonio beato UOMO UMILE. Notizie del gentile amico sacerdote Giuseppe Cecarini
«La vera strada d’esser grandi appresso Dio è la santa umiltà». Apprezzava tanto questa virtù il beato Antonio, che cercava di essere vero discepolo di san Filippo che l’aveva raccomandata ai suoi figli nel suo testamento spirituale.
Il beato Antonio, definendosi «pretazzuolo», indicava l’abituale vilipendio di se stesso. Da questa bassa stima di sé scaturiva il bisogno di chiedere sempre il parere dei confratelli prima di prendere una decisione importante.
Non cercava mai i primi posti e preveniva sempre gli altri nel saluto. Lo si sentiva spesso ripetere queste parole che san Filippo aveva inserito nelle costituzioni della sua congregazione: ‘Ama di essere sconosciuto’ poiché considerava l’umiltà come passo fondamentale nel progresso dello spirito. Antonio raccomandava spesso: «Bisogna far buon fondamenti nell’umiltà» per cui si rammaricava quando veniva onorato e difendeva l’umiltà da praticare con dire: «Povero me, mi sarà detto: “Hai ricevuto durante questa vita la tua mercede”.
Attribuiva le lodi provava a favore di san Filippo, dicendo: «Non fanno questo onore a me, ma a san Filippo e alla congregazione, per l’abito che porto». Nonostante fosse il superiore dell’Oratorio, non usava espressioni di comando e chiedeva una cosa come si trattasse di un favore.
Anche quand’era molto anziano, serviva i confratelli a mensa come fosse un semplice novizio. Andava anche ad attingere per loro l’acqua dal pozzo. Se in casa c’era qualche infermo, approfittava di ogni occasione per poterlo servire anche nelle cose più umili.
Per se stesso non chiedeva nulla: spazzava la sua camera, si rattoppava i vestiti. Diceva che l’umiltà «ci apporta la quiete e la pace; dalla superbia nascono le discordie e le risse; ma chi si umilia sta sempre quieto: onde l’umiltà è chiamata via della pace».
Con calma accettava anche gli ingiusti rimproveri che gli venivano rivolti. Non amava che i confratelli, attraverso le votazioni, lo eleggessero e lo riconfermassero superiore dell’Oratorio. Dopo ogni votazione si ritirava a piangere in camera, reputando che la Congregazione non avrebbe fatto progressi con lui superiore. I confratelli pensavano ben altro e agivano convinti del grande profitto che sarebbe venuto da lui superiore.
Pur appartenendo Antonio a una famiglia del patriziato fermano, con titolo di conte, nella sua umiltà mai ne ha fatto cenno. Non voleva che altri glielo ricordassero. Se qualcuno, forse distrattamente, lo chiamava col titolo di conte, faceva finta di non sentire. E così, piano piano, nessuno si azzardò di chiamarlo conte perché in caso contrario non riceveva risposta e il dialogo appena iniziato finiva.
LA SUA AFFABILITA’
Quanti hanno frequentato il beato Antonio gli hanno riconosciuto una grande affabilità. Questo suo atteggiamento scaturiva dal suo spiccato senso di giustizia. San Tommaso diceva che l’affabilità è una virtù speciale che appartiene alla giustizia e che porta l’uomo, in tutte le sue conversazioni, a comportarsi in modo che ciascuno se ne vada con la dolcezza nel cuore. Per questo quelli che incontravano Antonio ritrovavano grande profitto e sperimentavano la validità di questa affermazione di san Tommaso d’Aquino: «E’ sapienza che alle persone con cui ci si intrattiene si dia affetto».
Antonio cercava di consolare quelli che erano tormentati da ogni specie di afflizione, aiutandoli con i consigli e con le sue preghiere, tanto che tutti se ne partivano dall’incontro con lui ben diversi da come erano andati.
I cronisti raccontano di un signore di Camerino che era pieno di affanni interiori, e quando un laico lo consiglio di rivolgersi al p. Antonio Grassi, accolse questo consiglio, si incontrò a Fermo col beato che l’accolse con grande affabilità, ascoltò il racconto dei suoi travagli e lo consolò con parole così dolci che se ne ritornò a casa tutto tranquillo. Tornò da lui poi dispose per testamento di mandare ogni anno ad Antonio un regalo come segno di gratitudine per il bene ricevuto.
Benché Antonio fosse per natura parco di parole e molto amante del silenzio, quando si trattava di far del bene a una persona, sapeva usare le parole più dolci e delicate da infondere gioia e mansuetudine nell’interlocutore, poiché dal suo volto sprizzava tanta tranquillità.
Se nell’Oratorio qualche padre o fratello laico si lamentava per il cibo, egli con gentilezza lo consolava, dicendo che «buon pane e buon vino bastano per il mantenimento umano» e di consolarsi pensando che tante persone «stanno senza pane e senza vino».
Non accettava che alcuno credesse di progredire nella vita spirituale con un atteggiamento triste e malinconico e diceva che «falsa è l’opinione che il darsi alla vita spirituale sia cosa malinconica fatta con mestizia; il Signore non vuole malinconia né tristezza, non vuole che ci turbiamo ma che conserviamo pace, allegrezza e quiete».
Vedendo un confratello triste gli diceva: «State allegro, perché san Filippo in casa sua vuole allegrezza». Per far conoscere i danni che vengono dalla tristezza, diceva: «Per lunga esperienza di tanti anni di vita ho osservato che su cento persone ben novantanove muoiono di travaglio e malinconia». Quando una persona si presentava nell’Oratorio, veniva accolta da Antonio con volto lieto e giocondo.
Tollerava i difetti degli altri con inalterabile affabilità, ricordando che siamo uomini di creta debole. Se vedeva qualcuno litigare, era solito dire che «in queste cose vince chi perde». Diceva ancora: «La preziosità del tempo non ha prezzo; la tranquillità dell’animo e del cuore non può stimarsi: e perciò chi per sua quiete lascia di litigare e d’inquietarsi, sempre vince».
Essendo superiore dell’Oratorio, se veniva invitato ad assumere un atteggiamento severo e rigoroso, egli dimostrava di esserne incapace, tanto che i presenti pensavano che in lui la dolcezza era una virtù naturale. Antonio voleva essere sempre sereno e la sua tranquillità si rifletteva e si viveva nell’Oratorio, come risulta da tutte le testimonianze fatte. Egli disse che questo suo comportamento era frutto della convivenza a Roma con padre Consolini, diletto figlio di san Filippo.
A padre Luca Brancadoro, divenuto reggente della Congregazione di Fermo, egli scrisse: «Come mi dice il beato padre Pietro [Consolini], nello spirito della serenità cerchi guadagnar tutti, farsi gli animi benevoli più con la dolcezza che con l’asprezza ed anteporre si deve la carità ad ogni cosa». E sembrava impossibile come potesse Antonio riuscire a unire insieme dolcezza e santo zelo e riuscire a mantenere una grande disciplina.
Antonio aveva un grande concetto dell’amicizia. La manteneva anche attraverso la corrispondenza. Distruggeva però le lettere se contenevano notizie che non era bene comunicare agli altri. Le sue lettere erano frutto di carità, con cui sollevava quanti erano turbati da varie afflizioni. Nessun ostacolo poteva fermare Antonio quando si trattava di fare del bene. Poneva la carità al di sopra di tutto.