Anno 920 giugno 30
Berengario imperatore richiesto dai monaci farfensi Giovanni e Campo conferma i privilegi e alcuni beni monastici.
(Regesto di Farfa III, pp. 77-79 doc. 371 e Chronicon Farfense I pp.310-312)
Nel nome del Signore Dio eterno. Berengario imperatore augusto per favore della divina clemenza. Elargiamo opportuni benefici alle giuste e ragionevoli richieste dei servi di Dio per amore del culto divino, non dubitando che saremo ricompensati con il premio della nostra eterna remunerazione. I monaci Giovanni e Campo venuti alla nostra presenza dal monastero della santa Madre di Dio sempre vergine Maria, sito in Italia in località Acutiano, ci hanno presentato il precetti degli imperatori, del proavo Carlo imperatore serenissimo, inoltre del genitore Ludovico piissimo augusto e di suo fratello Lotario ; inoltre di Ludovico nipote di Carlo, nei quali contiene che essi, e i loro antecessori Liutprando, Ratgisio, Astolfo e Desiderio, re dei Longobardi, avevano sempre tenuto sotto la loro tutelare difesa questo monastero a motivo dell’amore divino e della riverenza verso la santa Madre di Dio Maria. Con motivazione della stabilità della cosa, i predetti religiosi monaci, per mezzo dell’intervento e della supplica del nostro fedele carissimo reverendo vescovo Ardengo, richiesero che noi confermassimo di nostra autorità i precetti di quegli imperatori e disponessimo di concedere un precetto di immunità per il predetto monastero, e noi, favorevoli alla loro richiesta per la supplice raccomandazione del predetto venerabile presule Ardengo, volentieri, per amore di Dio, consentimmo a quanto ci era stato richiesto e abbiamo decretato che tutto debba essere concesso e confermato. Per cui comandiamo con precetto che nessuno dei nostri fedeli, chi viaggia come nunzio, chi ha autorità giudiziaria sulle chiese, celle, luoghi, ville “curtes” <=agglomerati aziendali fondiari>, terreni, campi o altri possedimenti che il venerato monastero possiede al presente, o possederà e acquisirà in seguito per dono di qualsiasi fedele nella Langobardia, nella Romania, nella Tuscia e nel Ducato di Spoleto, presuma in alcun modo imporre tributi o riscossioni per udire le cause, neppure per fare viaggi o parate, o togliere fideiussioni, o tenere occupati gli uomini del monastero “ingenui”, servi, livellari, uomini o donne con “aldio” <=libertà>, o chierici o ‘cartulati’ <=contratto scritto> o “offerti”, dimoranti nelle terre monastiche; neppure costringerli a fare da guardie pubbliche, né requisire le rendite per qualsiasi occasione, mai si presuma fare le cose predette. Confermiamo allo stesso monastero i beni dati da Lupo e Giovanni suo nipote, posti in luogo detto “Ad Cupencum” sotto le mura della città di Rieti, presso il fiume Mellino, ed i beni siti nel Contado Ascolano con la “curte” chiamata Offida che il chierico Giovanni, figlio di Garitrude offrì al predetto monastero per la salvezza della sua anima, e inoltre ogni cosa che Geroardo e Deodato e il marchese Alberico donarono insieme al detto monastero nel Comitato Fermano, con atto scritto. Tutti i privilegi dei pontefici con tutti i beni dati da uomini diversi, permute, donazioni, offerte ed i beni tutti con pertinenze loro che sono pervenuti al monastero per mezzo di scritti su carte. Chi temerariamente presumesse agirere contro, decretiamo che venga sottomesso in qualsiasi modo per la colpa di infedeltà. Ammoniamo pertanto la fedeltà vostra che quando nei “ministeri” l’abate o monaci o il loro avvocato verranno ad esigere giustizia, nel ducato o nel contado in cui viene riconosciuto il bene posseduto dal monastero, il duca o il conte del momento, i difensori e uditori intervengano pienamente a che non sia permessa a nessuna persona d’autorità la violenza o l’invasione nei beni spettanti al monastero. E se dal monastero fosse intentata una causa qualsiasi, si inquisisca la verità della cosa o per mezzo di persone di medio ceto o per mezzo di uomini più nobili e veraci, come da parte nostra. All’avvocato del monastero non sia chiesta alcuna “mallatura”, né si esiga in alcun modo il nostro “bando” per qualsivoglia causa del monastero. Agli abati nel tempo del monastero sia lecito possedere i beni e i possedimenti monastici con quieto ordine sotto la difesa della nostra immunità. Se qualcuno osasse temerariamente intervenire contro questo comando della nostra autorità e tentasse fare qualcosa di quello che proibimmo contro questo monastero, sappia che, secondo la costituzione nostra e dei nostri predecessori, dovrà esser multato di seicento soldi a favore del monastero. Stabiliamo così riguardo alle famiglie e per ogni luogo o bene spettante al monastero. Comandiamo che siano date alla porta del monastero le decime e le riscossioni “teloni” dei mercati e dei ponti. Vogliamo che siano annullate le ‘prestarie’ <=concessioni> e le permute fatte ingiustamente senza pena di soluzione correlata. L’abate nel tempo ed i monaci abbiano licenza di richiamare dentro al monastero le persone “offerte” ad esso, dovunque siano, senza che queste possano andare girovagando. All’occorrenza, il duca, o il conte del tempo, le faccia tornare al monastero. Tutto ciò che il nostro fisco potrà acquisire dai possessi di detto monastero, noi lo concediamo ad esso monastero, per l’eterna ricompensa, affinché sia a vantaggio nell’alimentare i poveri e nel migliorare la vita dei monaci, ivi, nella familiarità con Dio e nell’avvantaggiare il nostro futuro, in quanto ciò persuade più volentieri i predetti servi di Dio a invocare la clemenza <divina> per noi e per la stabilità del nostro impero. E quando l’abate migrerà da questo mondo, essi eleggano <abate> tra loro monaci di questo monastero, colui che troveranno più utile. E affinché quanto di sopra abbia più ferma autorità e sia meglio conservato in futuro, firmiamo di nostra mano, con apposizione del nostro sigillo, segno di Berengario Firma di Berengario imperatore. <Scrive il> Cancelliere Giovanni vescovo, nelle veci dell’arcicancelliere Ardengo vescovo. Dato il giorno prima delle calende di luglio anno DCCCCXX del regno di Berengario anno XXVIII, del suo impero V. Indizione ottava. Nella “curte Olonna”.