FALERONE Elaborazione di notizie desunte da MORONI, Gaetano, Dizionario di erudizione storico ecclesiastica. (Roma 1845) vol. XXIII pp. 16- 20
FALERIA, o FALERIONA, O FALERONE. (P. 16) Sede vescovile del Piceno, dal secolo VIII a metà del secolo XIX castello della delegazione apostolica di Fermo nello stato Pontificio, situato sopra uno de’ colli, che fra le due valli dei fiumi Tenna, e dell’Ete (Leta) morto. Acquista sempre maggior celebrità per i tesori archeologici che nasconde. Infatti tutto fa pensare che l’antica cittadina di Falena Picena, chiamata pure Falaria, Falerio e Falerione, fosse fiorentissima colonia romana, e ch’esistesse nel territorio del moderno Falerone, dalla parte orientale e meridionale di questo castello, e non molto lungi dalla sinistra sponda del fiume Tenna. Tanto provano le molteplici iscrizioni rinvenute, che fanno menzione de’ duumviri, dei quadrunviri, del collegio degli augustali, degli auguri, della curia, de’ centonari, de’ dendrofori, degli edili, de’ decurioni, insigni magistrature ed ordini propri solo delle colonie. Gli scavi incominciarono sotto Clemente XIV, e si proseguirono sotto Pio VI, e nei tempi posteriori, come si legge nelle note erudite ad un’ Ode pindarica, detta nell’ accademia faleriense in onore dell’arcivescovo Cardinal de Angelis, e pubblicata colle stampe. In questo opuscolo si noverano anco i principali oggetti rinvenuti, e riportasi 1′ iscrizione del suo campidoglio, di cui andiamo a far parola.
Dopo l’anno 1777 Pio VI vi fece fare escavazioni, col prodotto delle quali si aumentarono i pregi del museo vaticano, ove, quasi rimpetto alla porta della biblioteca, in un’iscrizione faleriense si fa memoria del campidoglio di Faleria, del foro pecorario, del vico lungo, e di una via nuova costruita a spese dei possidenti, mercanti, e sodalizi, e ciò ne dimostra lo splendore. Tra le altre cose esistenti nel museo vaticano, e trovate in Faleria, sono a rammentarsi una tigre con bel meandro, un lupo e un bacco, tutti in mosaico, ed un superbo candelabro di marmo pario. Già il Cardinal Pietro Aldobrandini nipote di Clemente VIII, nel 1604 divenne possessore della celebre tavola di bronzo scavata in Faleria nel 1593, ed ora conservata nel museo capitolino, rimanendo nel palazzo comunale di Falerone una copia fusa in bronzo, e dal Cardinale donata. Essa contiene il celebre rescritto di Domiziano imperatore, emanato dalla sua villa di Albano, sulla questione dei ‘Subsecivi o Subsicivi dell’agro faleriense con i vicini fermani, difesi in quella lite da Plinio il giovane, sebbene soccombessero; cioè una lite nata tra i due popoli per i confini, facendosi ivi ricordo di una lettera di Augusto, che portando grande amore ai soldati della quarta legione, li esortava a (p.17) riunire i subsicivi ed a venderli. Appoggiato a questa lettera Domiziano nella sua sentenza favorì i faleriensi.
Assai più degli stimoli e degli sforzi pubblici poté nella colta e benemerita famiglia De Minicis di Falerone l’amore lodevole del suolo natale. Per le dotte cure dell’avvocato Gaetano de Minicis, assai versato nella letteratura, e nelle scienze archeologiche, onde attinse, al dire degl’intendenti, il grave e vetusto suo stile epigrafico anche nell’italiana favella, vedemmo illustrato con la Memoria sopra l’anfiteatro ed altri monumenti spettanti all’antica Faleria nel Piceno, stampata in Roma nel 1833, il bello anfiteatro faleriense posto nel Piano di Tenna, ad un miglio da tal fiume, edificio di vasta mole, e per lo intero isolato di muro laterizio, di figura ellittica, del perimetro di palmi mille duecento, con dodici porte all’esterno, e con tre ordini di gradinate, che si dice eretto al tempo dell’ imperatore Adriano. A duecento passi di distanza dall’anfiteatro vi erano le vestigia dell’antico teatro faleriense in un fondo della famiglia Olivieri: tanto bastò perché i De Minicis s’invogliassero dell’acquisto, onde avessero campo più libero le ricerche su quello, e sulle vicine terme. Lo scavo di ripulitura ebbe un felice successo superiore ad ogni aspettativa. Il teatro si trova quasi tutto intero con i suoi sedili, scale, precinzioni, vomitori, pilastri, colonne del portico, e scena; cose tutte ch’erano sotterra, e ricoperte da roveri ed altri alberi, cresciuti a ridosso nel volgere dei secoli. Vi si rinvennero parecchie bellissime statue, però mutilate (p.17) ma quel che fu più mirabile, è il rinvenimento d’un frammento di lapide, che si trovò perfettamente combaciare con altro brano trovato ab antico nel terreno stesso, e già riportato dal Muratori e dal Colucci. Il frammento rinvenuto i De Minicis erano giunti a possederlo, e lo avevano collocato nel loro privato museo Fermano. Vedi in questo dizionario all’articolo FERMO. Divenuta così la lapide intera, fa indubitata fede della costruzione del teatro, di forma rettangolare, elegante e magnifico fu dedicato all’ imperatore Tiberio Claudio nell’anno 43 dell’era cristiana, da Guidacilio Celere, e dal figlio C. Ottavio della romana tribù Velina, come erano ad essa aggregati quei di Falerio. Quindi il lodato avvocato De Minicis illustrò i pregi di sì fatto importante monumento con erudita memoria, che pubblicò colle stampe, avendo il suo opuscolo per titolo: Sopra il teatro ed altri monumenti dell’antica Faleria nel Piceno, Roma 1839, con due tavole del teatro di Falerone, e delle sculture in esso rinvenute, riportando a pag. 29 la celebrata iscrizione riunita nei due frammenti, e già esistente sull’arco di uno de’ vomitori del teatro.
Nel palazzo comunale di Falerone, che fu già della famiglia Eufreducci, si vedono due belle statue colossali, rappresentanti una Cerere, ed un console con mirabile panneggiamento; non che copia della lapide, che rammenta gli antichi vanti faleriensi, e della tavola summentovata contenente il rescritto di Domiziano; ivi è pure (p. 18) un moderno teatro. Nel paese si vedono sparse qua e là delle iscrizioni, collocate sulle soglie e sulle facciate esterne di molte case, come ancora diversi sepolcri, tempietti, e mosaici; il teatro, l’anfiteatro, le terme, ed altri edifici pubblici, tutti avanzi della città dai Goti distrutta verso l’anno 405, ovvero dopo la morte di Alarico loro re, avvenuta l’anno 507, e per opera di altri Goti che invasero nuovamente le città del Piceno: essendo anche probabile che sì fatta distruzione l’operassero i Longobardi dopo la metà del sesto secolo, secondo il racconto scritto da s. Gregorio I Papa.
Qualcuno opina che Faleria fosse distrutta da Unni; altri datano questo eccidio all’anno 593 ed ai Longobardi. Inoltre da lapidi, medaglie, e rottami di sculture si trova sparso il suo territorio, altronde fertilissimo, e copioso d’ogni maniera di alberi fruttiferi. La via provinciale di Falera modernamente costruita, comunica da un lato colla Fermana, e dall’altro attraversata da Sant’Angelo in Pontano, e da Caldarola, si unisce alla Romana, presso la stazione postale di Valcimarra. Vi sono più chiese, e in quella de’ francescani, che abitano il contiguo convento, si osserva un vago dipinto di Carlo Crivelli; mentre nella chiesa rurale di santa Maria degli Angeli, già spettante ai religiosi Clareni, vi è uno stimato affresco, dal Pagani eseguito nel 1547. Inoltre un monastero di monache francescane, alcuni stabilimenti, il monte di pietà, tre monti frumentari, un ospedale, oltre la scuola pia per le fanciulle povere, fondata dalla famiglia De Minicis, che la dotò di un fondo rustico pel mantenimento delle maestre. Il CALINDRI nel Saggio statistico storico dello Stato Pintificio, dice che Faleria fosse colonia militare, e che si chiamasse Fallerà, Falleriona e Tignio e che con i Longobardi fu soggetta a Trasbuno duca di Fermo. Il ch. Castellano, nel suo applaudito Specchio geografico-storico- politico, ci dà copiose notizie su Faleria e Falerone, dicendoci che dopo essere stata distrutta barbaramente dalle armi straniere, nel medioevo, Falerone, che la rimpiazzò, ebbe al pari degli altri paesi d’Italia i suoi particolari signori, che si trovano nominati nella transazione fatta da Annibaldo di Trasmondo rettore della Marca, e nipote di Papa Alessandro IV, transazione <1356> che al dire del Colucci, nella sua Treja oggi Montecchio, qui confermò. Da tali signori discese il beato Pellegrino, discepolo di s. Francesco di Assisi. Il b. Pellegrino, s. Fortunato vescovo, e s. Sebastiano martire sono patroni di Falerone.
Alcune notizie storiche di questo luogo si leggono ne’ Cenni istorici e numismatici di Fermo del medesimo Gaetano De Minicis, e sono le seguenti: Ruggero da Falerone, nel secolo XIII, provò d’impadronirsi della signoria di Fermo. Nel secolo XIV quando il Cardinal Albornoz mosse
Faleria nel Piceno, diversa da Faleria città di Etruria, e da altre di egual nome, sino all’anno 711 di Roma, o sino dai tempi di Augusto imperatore fu colonia romana, e sulla metà circa del V secolo ebbe la sua sede vescovile, come si rileva da una lettera riferita dal Cardinal Deusdedit, e scritta da Papa s. Gelasio I nell’anno 492 ai vescovi Respetto e Leonino, e si legge nell’Ughelli, acciò lo informassero dei portamenti del vescovo di Faleria, il quale era accusato di aver usurpato alcuni predi, che alla sua chiesa aveva donati il di lui predecessore. Il Cardinal Baronio nelle note al Martirologio romano, citato dallo stesso Ughelli, asserisce al dì 12 agosto, che il vescovo di Faleria nel Piceno intervenne al concilio Romano celebrato il 13 ottobre del 649 dal Pontefice s. Martino I, ciò che confermano altri scrittori. Tal concilio si compose di cento cinque vescovi per la maggior parte italiani, tra’ quali figura per XVII il vescovo di Faleria chiamato Caroso. L’Arduino, Concilia. Collect. t. II, col. 928, prosegue nell’indice geografico ad enumerare altri vescovi: Faleritanus in Piceno, olim Faleroni, Crescentiusius…. Harduinus …. Joannes Falerinus; ed il Fontanini attribuisce a Faleria un altro vescovo chiamato Giovanni. 11 p. Mamachi, de episcopatus Hortani antiauitate, dimostra che i vescovi chiamati Faleritani appartengono a Falerone Piceno. È noto, che ne’ primi secoli della Chiesa era regola universale, che la diocesi vescovile fosse compresa nel solo territorio di quella città, ove teneva residenza il vescovo, acciò le autorità ecclesiastica e civile avessero gl’ istessi confini. In quanto a quelli dell’agro Falerionense, abbiamo dal ch. De Minicis, Del teatro di Falerone, che la città aveva un perimetro di due miglia circa, non compresi i sepolcreti ch’erano fuori di essa; che il territorio di Faleria si estendeva sino al mare Adriatico, come si ha da Balbo (agri)mensore di Augusto: da altra parte confinava colla colonia fermana, come si deduce dal citato rescritto di Domiziano, e dalle altre due parti confinava colla colonia ascolana e urbisalviense. Ciò dimostra la notabile estensione della città di Faleria, la quale fu definitivamente e del tutto distrutta nel secolo IX. Un’iscrizione esistente nell’odierno Falerone, risale ai tempi di Desiderio re de’ longobardi, e che dal Muratori si riferisce all’anno 770, 769> e da altre memorie. Fra tanta disparità di opinioni la rovina di Faleria, come dicemmo, si attribuisce da alcuni ad Alarico, da altri a Totila, ovvero ad Alboino, o agli Unni, o ai Finni; ma la più verosimile epoca è il sesto secolo, sebbene il Colucci sull’appoggio della lapide di Tasbuno duca di Fermo, pensi che ai tempi del re Desiderio, nell’VIII secolo, Faleria fosse ancora in piedi, e che anzi la sua rovina debba cercarsi nel secolo X.
Non più risorta Faleria , la sua diocesi fu aggiunta a quella di Fermo, come ha scritto Michele Catalani nel libro De Ecclesia Firmana pp. 13 e 96, il quale stabilisce che la chiesa vescovile fu riunita alla Fermana sul principio del VII secolo, e co’ ruderi di quella città incendiata fu costruito nel monte vicino il castello di Falcione. Essendo Faleria situata in una pianura presso il fiume Tenna, le incursioni de’ barbari consigliarono ai popoli di ripararsi ai luoghi eminenti, onde i faleriensi allora si rifuggirono nel poggio vicino alla distrutta città, ove sorse il moderno Falerone, dipendente dal governo di Montegiorgio. Vedi Giuseppe Colucci Sulle antiche città picene Falera e Tiglio, Fermo 1777, la cui Appendice si stampò in Macerata nel 1778 e l’Ughelli Itala Sacra, tomo X pp. 92-93. Per la prima visita che l’arcivescovo di Fermo, Cardinal Filippo de Angelis, fece nell’anno 1843 in Falerone, dai magistrati civici, essendone priore Vincenzo de Minicis, furono pubblicate a stampa le bellissime ed affettuose epigrafi ed iscrizioni latine ed italiane, dettate con amor patrio dal nominato avvocato Gaetano de Minicis , per celebrare, che dei sedici Cardinali che furono vescovi o amministratori della chiesa Fermana, tre di essi nell’ ottava della festa del Corpus Domini, ivi portarono in solenne processione il ss. Sacramento; cioè il Cardinal Peretti, poi Sisto V, il 19 giugno 1576; il Cardinal Brancadoro nel 1804; e il Cardinal de Angelis il 15 giugno 1843. < C. T. >
Per la storia della diocesi Fermana: CATALANI, M. “De ecclesia Firmana … trad. e note di E. TASSI. Fermo 2012.
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