Una riflessione di d. Alessandro Bellucci su don Biagio Cipriani (1884-1944) come intellettuale.
Era un intellettuale don Biagio Cipriani? Senza dubbio, era una persona molto intelligente. Ma se per intellettuale si volesse intendere un uomo che si dedica alla lettura e allo studio, che porta a fondo ricerche su questioni particolari, che esamina e passa al vaglio tutto ciò che è stato scritto su di un argomento, che tiene corsi di insegnamento o conferenze, allora no, don Biagio non era un intellettuale: era un uomo d’azione. Portava a fondo iniziative concrete, era sempre in attività, scriveva dieci lettere in un pomeriggio, non amava il lavoro di ufficio al quale dovette dedicarsi a Roma e che sempre controbilanciò con l’azione tra i giovani della parrocchia di Ognissanti; e questo non certo perché in quel delicatissimo lavoro di ufficio (istruttoria per la nomina dei Vescovi in certe regioni) egli non riuscisse bene, che anzi si vide offrire la nomina a delegato apostolico nel Canada col titolo di arcivescovo, ma preferì non accettare.
Non era uno studioso. Ma se per intellettuale intendiamo un uomo che vive nel mondo delle idee, e non nel mondo dei meschini interessi terreni, un uomo che non si pasce di formule pigramente accettate e ripetute, ma nella luce del pensiero guarda alla vera realtà e vede i problemi insorgenti e ne cerca e intuisce le soluzioni, allora senza dubbio don Biagio era un intellettuale. Non per niente amava Pascal e Rosmini.
La sua molteplice e instancabile attività non lo sommergeva: il suo pensiero vigile la dominava e se ne faceva strumento per la soluzione del problema apostolico come si presentava nel suo tempo e nella sua città.
Il mondo contadino, allora, era ancora attaccato alle antiche tradizioni cristiane, ma solo perché restava ai margini della vita sociale; il mondo operaio, invece, e il mondo dei professionisti si erano allontanati dalla Chiesa e dalla cultura cristiana, avvelenati da un anticlericalismo verboso e triviale, la scuola, dominata, come l’esercito e la magistratura, dalla massoneria imperante in politica, era piena di pregiudizi superficiali e faziosi, la città di Fermo e la sua diocesi erano ancora ritenute roccaforte dei preti; e tuttavia, o forse per questo, nel liceo-ginnasio di l’ermo imperavano un professore di filosofia e un preside, dediti all’alcool e al gioco, che facevano tra i giovani propaganda antireligiosa e. dichiaratamente massonica.
Il socialismo, diffuso nel mondo operaio fermano, rappresentava, più che un movimento di rivendicazione sociale, una rivolta contro la religione. I professionisti che andavano in chiesa si contavano sulle dita di una mano.
In questa situazione, il problema dell’apostolato cristiano era essenzialmente un problema di ripresa di contatto tra la gioventù e la Chiesa: e don Biagio, animato, sorretto, difeso da un grande arcivescovo come mons. Castelli, fu l’uomo di punta che ristabilì la conoscenza e la simpatia tra il mondo giovanile e il pensiero cristiano.
Il ricreatorio S. Carlo e le molteplici iniziative che da esso partirono, ginnastiche, filodrammatiche, alpinistiche, scautistiche, culturali, tutto questo immane lavoro non era, per don Biagio, che un mezzo per giungere a quello che gli importava: il colloquio personale spirituale con i singoli giovani, l’azione capillare di formazione culturale cristiana. Il suo studiolo era sempre gremito di giovani che domandavano e discutevano.
Il circolo di Gioventù Cattolica inserito nel Ricreatorio e intitolato a Silvio Pellico promuoveva conferenze culturali e pubblicava una rivista, “Cultura Giovanile”, nella quale, accanto ad articoli di alto livello, comparvero i primi scritti di molti giovani.
Direttore e anima della rivista era don Federico Barbatelli, professore di storia ecclesiastica in Seminario, già compagno di studi a Roma dell’attuale Segretario di Stato cardinale Cicognani. Uomo coltissimo, di straordinaria intelligenza e chiarezza di idee, egli era sempre pronto ad aiutare chi desiderava approfondire i massimi problemi. Una terribile malattia lo sottrasse troppo presto alla sua luminosa attività; ma il suo nome non deve essere dimenticato dagli amici di don Biagio.
Furono organizzate da don Biagio, insieme col fratello don Filippo, poi vescovo di Città di Castello, Settimane religioso-sociali, alle quali parteciparono giovani nostri che poi hanno assunto alte responsabilità, come Tozzi-Condivi, Tambroni, Elia, e per le quali egli chiamò da Roma altri, di poco più anziani ma già in vista, come Tupini, Cingolani, Martire, don Giulio de Rossi.
Don Biagio fu un anticipatore in tutto. Introdusse tra i giovani una sana educazione sessuale, utilizzando i pochissimi libri esistenti allora sull’argomento, e scritti da autori stranieri. Introdusse nella cappellina del Ricreatorio la Messa dialogata in italiano e l’uso di libri ispirati ai testi liturgici. Ricordate, amici, 1′ IXOYS di un altro anticipatore, il romano don Virgilio Valcelli, anche lui amico dei giovani, per i quali aveva organizzato il Collegium Tarsici!, con la basilichetta di via Pietro Cavallini? Anche l’altare della cappellina del Ricreatorio era rivolto verso il popolo, e la veste sacerdotale era un’ampia casula: due cose troppo nuove, che, partito don Biagio per Roma, subito scomparvero.
Egli era un anticipatore, e come tutti gli anticipatori fu amato dai giovani, ma poco capito e troppo tardi imitato dai colleghi. La gran massa è conformista e tiene per criterio di verità il costume e l’opinione generale. Oggi quelle che allora erano ardite novità sono diventate norma, e la massa gregaria non solo le applica, ma ne esagera l’importanza, insistendo, come allora, nell’antico errore che pone i mezzi al posto dei fini; don Biagio seppe vedere il problema del suo tempo, e seppe usare i mezzi opportuni, superando i vecchi stanchi metodi di azione pastorale. Oggi, per tante ragioni, e non foss’altro per la presenza dell’insegnante di religione nelle scuole pubbliche, il rapporto tra la Chiesa e i giovani è ampiamente ristabilito, i problemi sono altri, e se don Biagio tornasse egli probabilmente non imiterebbe i suoi imitatori, andrebbe oltre.
Don Biagio ha lasciato in testamento un’opera alla quale si dedicò con ardore nello scorcio della vita, forse presago della prossima prematura fine, e che volle portare a termine con immensa fatica anche quando la tremenda malattia cominciò a limitarlo nei movimenti e gli tolse la possibilità di scrivere: il suo catechismo.
Vi raccolse tutta la sua esperienza pedagogica, tutte le novità che il suo spirito aperto aveva compreso di dover introdurre nell’insegnamento della religione di fronte alle esigenze nuove. Era la dottrina cristiana, tutta intera, senza alterazioni o attenuazioni, ma tradotta in linguaggio moderno, facile, comprensibile, concreto. Si intitolava “Catechismo del ragazzo”; adottava la vecchia forma dialogica di domanda e risposta, ma era un catechismo nuovo nell’impostazione, nelle prospettive, nelle espressioni, e poteva esser letto con profitto da tantissimi adulti.
Come l’autore avvertiva, nella prima pagina, il lavoro mirava con particolare attenzione agli scopi educativi del catechismo, cercando di penetrare profondamente nell’anima del ragazzo; e perciò, per motivi di efficacia formativa e didattica, preghiere, liturgia, dottrina e narrazioni dei libri Sacri si presentavano ordinate organicamente nella loro unità vitale.
Questa fusione vitale della dottrina con la liturgia, con la Sacra Scrittura e con la vita spirituale, per cui la prima pagina partiva dal fatto del Battesimo ricevuto dal ragazzo per accennare, già nelle prime righe, alla Trinità nell’unità, alla Vita divina in noi, alla legge dell’amore, era un’anticipazione dell’atmosfera del Concilio. I grandi temi ricorrenti erano la Chiesa corpo di Cristo, lo Spirito Santo vivente in noi, la Grazia che ci dà la forza per le opere buone, e che, mancando queste, resta senza frutto, la legge cristiana che è legge di carità e che, con gli aiuti della grazia, diventa un giogo soave e un peso leggero.
Il libro uscì alla fine del 1942, con una luminosa prefazione del nostro arcivescovo Mons. Perini, da poco venuto tra noi; ma non ebbe il successo che meritava. I “competenti” che lo giudicarono non avevano forse mai avuto il tempo di capire i giovani, e perciò non lo capirono. Regnava la convinzione che nessuno dovesse staccarsi dalle prospettive e dalle parole stesse del vecchio catechismo di Pio X.
Oggi, dopo il Concilio, gli eredi dei conformisti di allora, con lo stesso gregarismo infantile, continuano a non aver tempo di aggiornare la presentazione della fede, perché preferiscono aggiornare, e cioè cambiare, la sostanza stessa della fede.
Ma Fermo nostra non ha paura di epidemie straniere; la nostra tradizione cristiana è piena di intelligenti e coraggiose iniziative anticipatrici, ma è anche sostanziata di “ferma fede”, secondo l’antico motto. Non sarebbe vera fede, se fosse conformista; non è fede negli uomini, ma in Dio.
Don Biagio era un innovatore, e viveva di fede. Chi gli ha servito qualche volta la Messa, sa con quale accento egli chiedesse a Gesù, nelle orazioni prima della Comunione: “Non permettere che io possa mai separarmi da te”. Amici, vogliamo tentar di rilanciare il Catechismo di don Biagio?
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