INVITO A CAPIRE L’ARTE SACRA. Nota di LIBERATI Germano
La mia esperienza e quello che io ho sempre cercato nell’arte sacra, si possono compendiare in una espressione che suona così: la ricerca di un accompagnamento verso il divino e di una sua presenza. Nei miei studi e nelle mie riflessioni sono tanto affascinato da alcuni pensatori antichi e moderni, attenti su questo versante: da Plotino che nel riflettere sulla bellezza e sull’arte (V libro dell’Enneade) va oltre il contingente e si immette nel divino; a Schelling che, cassando drasticamente l’arida razionalità illuministica, non esita a dichiarare che l’esperienza dell’Assoluto è riservata all’artista e al mistico. Ed ai nostri tempi come trascurare Hans Urs von Balthassar che in una ricca e appassionata analisi della letteratura e dell’arte, vi coglie la grande manifestazione della gloria di Dio che è concessa all’uomo?
Ecco dunque che per me l’arte in qual si voglia forma, e l’artista di qual si voglia tempo, insieme al santo e al mistico, più di altri, accompagnano verso Dio, l’infinito, l’Assoluto, perché ci aiutano a percepirne la presenza. Mi sono chiesto costantemente e me lo chiedo ancora, osservando un’opera, e lo propongo agli altri: quale esperienza interiore ha animato l’artista, tale da poterla tradurre nell’opera? Cerchiamo in qualche modo di penetrarvi.
Se vogliamo esemplificare, chiediamoci, magari pensando ad opere d’arte che tutti conosciamo: quale esperienza ha guidato Giotto nell’offrirci la suprema visione della Storia della Salvezza tutt’intera, dai profeti al giudizio universale nella cappella degli Scrovegni, nel suo cominciar a “imbrattare” quei muri nudi, dall’arriccio e il tonachino ancor freschi? La risposta più convincente credo si possa trovare in quel lucido scrittore e finissimo critico che fu Piero Bargellini, quando la compendia in una sola frase: “Giotto è entrato in quella chiesina crisalide e ne è uscito farfalla”.
E che altro possiamo immaginare se non un’esperienza quasi mistica in Dante per poter scrivere certi passi del suo Paradiso o in Michelangelo in quella visione cosmica del divino nella Cappella Sistina; o in Caravaggio così inebriato da un furore struggente? E ai nostri tempi, quale esperienza interiore, ad esempio, invadeva l’anima di Chagall per offrirci le sue splendide vetrate? Allora domandiamoci: come metterci di fronte all’arte sacra, non accantonando ma oltrepassando il tempo, lo spazio, le epoche e gli stili per poterla intendere e penetrare al di là della contingenza della sua storicità?
Io credo che, in qualche modo, una risposta dobbiamo darcela, se vogliamo penetrare l’opera d’arte in modo da carpirne l’intimo. Vi posso abbozzare solo quello che cerco dentro di me dinanzi ad un soggetto sacro sia antico come può essere, per citarne uno, la Crocifissione di Haltdorfer, come ugualmente per uno recente come il Cristo giallo di Galuguin. Oh! Certo: l’artista è paradossalmente il più riservato e pudico degli uomini, ma anche proprio il più aperto: ha pudore nel farci penetrare nella sua esperienza interiore, tanto che nell’opera si direbbe quasi che voglia criptarla, e trasferendola in forme le più varie, dal simbolico all’astratto, dandocene magari un senhal che può essere un pass-wort; tuttavia nel medesimo tempo ce la getta in faccia quasi nel modo più sfacciato.
La fede, le esperienze o la ricerca del sacro sono proprio questo. Perciò analizziamo e disquisiamo pure su stili e storicità di un’opera d’arte; su contesti culturali e magari sulla biografia dell’artista, ma solo come propedeutica. Se ci fermiamo qui non attingeremo mai, come l’artista è riuscito o ha tentato di fare quel noumeno del divino che lo ha animato, certo in uno scontro impari, tradotto inevitabilmente in un balbettio di “rade e storte sillabe” (direbbe il Montale); che poi siano esse versi, pennellate o note non fa differenza. Allora?
Proprio questo è quel che ci rimane da fare e spesso non vogliamo, rifiutiamo. Non riusciamo a farlo per mancanza di simpatia con l’esperienza tradotta in opera e non ci lasciamo suggestionare da quanto ci vien dato. Questo lasciarsi andare invece è l’unico modo possibile per un autentico approccio con l’arte sacra e si chiama contemplazione. Per chi non crede è l’unico modo per percepire il già e non ancora di sé e la chiave di lettura della realtà, per mettersi in ascolto di una risposta e avvertire una presenza.
La contemplazione diventa preghiera; preghiera come quella del salmista: “Signore, il tuo volto io cerco, mostrami il tuo volto!”
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