GIOACCHINO ROSSINI E LA FONETICA MUSICALE. Studio del prof. Baglioni Silvestro nel 150° della nascita di Gioacchino Rossini a Pesaro <1792>
Se ancora vivesse il Maestro e sentisse che egli oltre ad essere il sommo musicista, fu anche un profondo conoscitore della fonetica musicale, tanto fine umorista quale era, avrebbe sorriso, incredulo, come quando nella celebre visita fattagli a Parigi da R. Wagner, questi parlandogli della sua musica d’avvenire quasi lo convinse che anche egli Rossini con le sue opere musicali aveva realmente aperto e coraggiosamente percorso una nuova via radiosa di musica d’avvenire, rivoluzionando l’arte musicale, da come l’aveva trovata all’esordio della sua attività. Stavolta avrebbe avuto ancora un altro motivo per sorridere, sentendo parlare della sua opera musicale da un profano dell’arte militante, sebbene scienziato cultore dei problemi fisiologici dell’udito e della voce <=lo stesso Baglioni scrivente>, ossia della fonetica applicata all’arte musicale.
La parola fonetica è stata, da qualche decennio; introdotta nel linguaggio aulico delle scienze letterarie per intendere quel vasto campo di nozioni, anatomiche e fisiologiche, scientifiche e artistiche, che riguardano gli organi del nostro corpo che armonicamente collaborano, con la loro attività funzionale, alla produzione della più bella ed elevata facoltà umana, quella del linguaggio parlato, ossia della parola, nel senso più ampio e più profondo. Molte sono le tradizionali discipline che hanno come oggetto del loro studio i vari lati del linguaggio, a cominciare dal sillabario alla grammatica, dalla filologia alla glottologia o linguistica, dall’oratoria all’arte drammatica e al canto. Per tutti questi diversi aspetti della parola sono sempre però gli stessi organi che provvedono con la loro integrità anatomica e con la loro attività funzionale, sia pure in modi diversi, alla produzione delle varie forme del linguaggio. Le discipline strettamente letterarie, quali la grammatica, l’etimologia, la glottologia, la filologia, e simili, si occupano degli elementi costitutivi ed essenziali, nella loro genesi e parentela delle varie lingue viventi e morte, considerate come prodotti belli e completi, suscettibili di essere suddivisi nelle sillabe che compongono le parole, queste che compongono le frasi e i periodi. Elementi ancor più minuti sono le vocali e le consonanti, la cui analisi si rese sempre più nota e perfetta con l’instaurarsi e il diffondersi della scrittura alfabetica, in sostituzione delle varie forme ideografiche. I vari caratteri delle vocali e delle consonanti, secondo la loro durata o lunghezza, il loro ritmo, la loro differente pronuncia, secondo le diverse zone o regioni articolatorie degli organi orali, ossia delle labbra, dei denti, della lingua, del palato, e altri, sono stati anche oggetto di studi grammaticali e linguistici, che hanno tra loro classificato i vari fenomeni secondo le diverse regioni articolatorie del complesso apparato orale, in cui si compiono. La fonetica fisiologica, servendosi dei mezzi scientifici o sperimentali fini ed esatti, si propone un’analisi ancor più profonda e sottile, cercando di stabilire i fattori più elementari ed essenziali funzionanti dei vari organi del corpo che collaborano alla produzione degli elementi del linguaggio parlato, dei fonemi.
La parola si rivela come una complessa manifestazione di attività di organi neuromuscolari eccitati e regolati da particolari centri nervosi, atti a produrre una complessa serie di fenomeni acustici, che l’udito, nella sua altrettanto complessa attività fisiologica, avverte, controlla, percepisce ed apprezza, come manifestazioni psicologiche di sentimenti ed emozioni dell’anima. E poiché l’arte musicale nel canto mira a raggiungere gli stessi scopi, servendosi degli stessi organi, facendo loro subire particolari modificazioni, che permettono loro di trasformarsi quasi in magnifici strumenti musicali, aumentando nell’ambito delle altezze e regolandone diversi gradi di intensità e di durata, si può giustamente parlare di una vera fonetica musicale. Questa differisce dalla fonetica del linguaggio o parola delle altre diverse forme artistiche, dell’arte drammatica e dell’oratoria, essenzialmente per il fatto che la musica mira alla conoscenza e all’educazione dei vari organi vocali adibiti o capaci di essere adibiti come strumenti musicali. Quasi solo le diverse vocali si possono usare come veri e propri suoni, si possono ottenere o far durare nella stessa altezza per un tempo indeterminato, e si possono intonare, come un perfetto strumento, nei vari intervalli delle scale musicali. Ai vari fattori od elementi che compongono la prestanza e la meravigliosa efficacia della parola, con tutti i mezzi espressivi della naturale facondia, si uniscono e si fondono i non meno meravigliosi ed efficaci fattori od elementi dell’arte musicale, per far della parola, nel canto, il mezzo più espressivo e profondo dei sentimenti più elevati e più intimi dell’anima umana, in tutte le sue manifestazioni di preghiera, di devozione religiosa, di amore divino ed umano, di dolore, di rimpianto, di aspirazione, e simili.
Pertanto, la fonetica musicale è quella scienza ed arte che mira a conoscere gli elementi strettamente musicali che intervengono nel linguaggio parlato, per poterli rimettere in maggior rilievo ed evidenza, talora anche a scapito degli altri elementi più strettamente verbali. Il fine, per così dire massimo ed esclusivo, a cui tende l’arte musicale del canto, sarebbe di trasformare gli organi vocali in un vero e proprio strumento musicale. Tra gli altri aspetti, resta importante la parola, che per la sua essenza naturale mira ad esprimere, in forma e veste comprensibile agli ascoltatori, i sentimenti dell’anima, mediante la retta pronuncia di tutti gli elementi fonetici di vocali e consonanti. Non meno importante è il fine proprio della fonetica musicale. Questo fine, peraltro, fu perseguito e raggiunto nel ‘700, nell’epoca del bel canto, in cui ai meravigliosi recitativi, seguivano le arie, nelle quali non raramente si esagerava, con i gorgheggi, i trilli, le cadenze, tanto da gareggiare col canto degli usignoli o col suono del flauto o del violino, lasciando spesso all’arbitrio o al capriccio dell’esecutore cantante di sfoggiare in virtuosità. Fu, come è noto, uno dei primi meriti del Rossini l’avere abolito questo abuso col prescrivere e fissare le fioriture del canto, senza abolirle e talora neanche moderarle. “Il Rossini – scrive il biografo Radiciotti, – volle por fine ad una consuetudine, che sottoponeva l’opera creatrice del compositore al capriccio e dall’arbitrio dell’esecutore; e deliberò di scrivere, come parte integrante del canto, le fioriture, di cui voleva ornate le sue melodie. La prima opera, in cui mise in pratica il suo disegno, fu l’Elisabetta, composta (per il San Carlo) l’anno dopo che il celebre sopranista Velluti gli aveva, alla Scala, sovraccaricato di abbellimenti le melodie dell’Aureliano in un modo da svisarle completamente. Al pittore De Sanctis, che gli chiese il motivo di questa innovazione, rispose: “In antico, i cantanti facevano le fioriture, di loro capo, con pessimo gusto; per evitare un tale sconcio, pensai scriverle io stesso in forma più consentanea alla mia musica”.
Provetto e squisito cantante egli stesso, e compositore di genio, chi meglio di lui sarebbe riuscito in una simile impresa? Egli, infatti, ha scritto la più bella musica vocale che si conosca. Per l’arte di far risaltare i pregi delle voci, da nessuno, neppure dallo stesso Mozart, è stato eguagliato”. Ne ebbe larghissimo successo; ma non è solo per questa riforma che il Rossini rinnovò l’arte del canto teatrale. Una profonda e perfetta conoscenza dei mezzi naturali e della loro più adatta educazione per ottenere dalla voce le più espressive virtù musicali, Rossini mostrò di possedere, oltre che nella nota pubblicazione, fatta nel 1827, per il Pacini, dal titolo: “Gorgheggi
“Purtroppo il bel canto è ormai perduto senza speranza di ritorno. Per gli artisti dei nostri giorni il canto consiste in uno sforzo convulso delle labbra, da cui esce, specialmente nei baritoni, un tremolo molto simile al ronzio che mi produce all’orecchio il traballìo del pavimento all’approssimarsi del carro del mio birraio; nel mentre i tenori e le prime donne si abbandonano, gli uni a vociferazioni e le altre a gargoillades, che con le vocalizzazioni e le roulades vere non hanno in comune altro che le rime. Non parlo poi dei portamenti di voce, di questa specie di ragli, che scivolano dall’alto in basso, e di barriti, che scappano dal basso in alto. Non bisogna confondere, come si suol fare da molti, il bel canto con le fioriture. Esso consta di tre elementi: lo strumento, (cioè la voce, lo stradivarius); la tecnica, (cioè i mezzi di servirsene); lo stile, che risulta dal gusto e dal sentimento. La natura non crea, purtroppo, un organo perfetto di tutto punto. Come è necessario un liutaio per costruire uno stradivarius, così occorre che il futuro cantante si fabbrichi lo strumento di cui deve servirsi. E come è lungo ed arduo un simile lavoro! Un tempo, in Italia, al difetto di compiacenza da parte della natura, si suppliva fabbricando i castrati. Veramente il mezzo era eroico, ma i risultati erano meravigliosi. Ricordo di averne inteso qualcuno nella mia gioventù: la purezza, la meravigliosa flessibilità di quelle voci e soprattutto l’accento profondamente penetrante mi commuovevano e mi affascinavano al di là di ogni espressione. Che ingrato lavoro era quello della formazione della voce, allora! Si cominciava col pensare esclusivamente all’emissione pura e semplice del suono; l’omogeneità dei timbri, l’uguaglianza tra i vari registri, costituivano il fondo (base) della scuola, su cui si basava tutto il seguito degli studi. Questo insegnamento pratico richiedeva, al minimo, due anni di esercizio. Quando, abbandonato il teatro, ritornai a stabilirmi a Bologna ed accettare la nomina di consulente onorario di quel liceo musicale, presi a cuore in special modo l’insegnamento del canto. Ecco qui un modello di esercizio da me prescritto per lo sviluppo dell’uguaglianza del timbro in tutta l’estensione dell’organo, e dal quale ottenni meravigliosi risultati. È tanto semplice che l’alunno dotato di un buon orecchio poteva essere anche il proprio correttore:
“Questo esercizio si ripeteva, per mezzi toni ascendenti, sino al limite della tessitura della voce. A certi alunni, la cui emissione risultava viziosa in conseguenza di una conformazione dell’organo poco appropriato, il maestro imponeva una ginnastica speciale di contrazioni gutturali, che doveva eseguirsi senza emettere alcun suono. Questa ginnastica puramente afonica poteva durare per mesi e mesi. Quando l’organo aveva acquistato la flessibilità e l’eguaglianza volute, cioè quando il futuro cantante era in possesso del suo stradivarius, allora soltanto cominciava ad imparare la maniera di servirsene: la tecnica, che comprendeva l’impostazione, la tenuta del suono e tutti gli esercizi di virtuosità: vocalizzi, gruppetti, trilli, e simili. Dopo cominciava il lavoro delle vocali. L’impostazione dei suoni bei vocalizzi si eseguiva dapprima isolatamente su ciascuna delle vocali a, e, i, o, u, poi ci faceva sfilare queste alternativamente, tutte cinque sulla medesima nota tenuta o sul medesimo passo; così per esempio:
“Questo sistema si usava su tutte le note tenute su tutti gli esercizi, che si complicavano all’infinito. Lo scopo era quello di ottenere che il suono, per quanto era possibile, non variasse né di timbro né di intensità, nonostante i movimenti della lingua e lo spostamento delle labbra, causate dalla successione delle vocali, ora aperte ed ora chiuse. In tal modo si otteneva che le o non sembrassero usciti da un portavoce; le e non assomigliassero al rumore della raganella. Era questa una delle parti più sottili dell’insegnamento. Allo studio delle vocali succedeva quello dei dittonghi, delle consonanti, dell’articolazione, della respirazione, ecc.. Si cercava soprattutto che il suono si diffondesse con l’aiuto del palato. È questo, infatti, il trasmettitore per eccellenza della bella sonorità. In ciò bisogna convenire che la lingua italiana ha il privilegio di favorire l’effusione del bel canto. Amàre, bèllo; questo mà, questo bè posti al palato e così ripercossi, non sono già per se stessi una musica? La terza fase dell’educazione del cantante comprendeva la messa in pratica, nell’insieme, di tutto ciò che si era studiato in particolare durante un periodo minimo di 5 anni per le donne e di 7 anni per gli uomini; dopo, a capo di un ultimo anno, a questo alunno (che in classe aveva eseguito appena qualche cavatina) il maestro poteva finalmente dire con orgoglio:”Ed ora vai pure; tu puoi cantare tutto ciò che vuoi”. Egli, infatti, era capace di cantar tutto. E nondimeno gli restava ancora qualche cosa da imparare: una cosa, senza la quale la virtuosità più perfetta resterebbe sempre simile ad un organismo dalla vita latente in attesa di un caldo raggio di sole per acquistare moto, forza, magnificenza e seduzione. Questo caldo raggio era lo stile, la tradizione, i cui segreti il giovane novizio doveva sorprendere nel canto dei grandi artisti, modelli perfetti, consacrati tali dalla fama. Le tradizioni sfuggono all’insegnamento della scuola; solo il modello in azione può inculcarle e trasmetterle. Se i depositari delle grandi vere tradizioni scompaiono senza lasciare discepoli, l’arte loro vien meno e muore. De profundis! Ora, ai miei tempi, erano tuttora in vita non pochi virtuosi incomparabili, alla cui scuola i nuovi adepti potevano iniziarsi al gusto, all’eleganza, all’uso giudizioso di tutti gli effetti vocali, allo stile, insomma. In quanto ai pregi dell’espressione, di sentimento, di grazia, di fascino, di intelligenza scenica, essi non sono che un dono della natura. In conclusione: oggi che non vi è più una scuola, che non vi sono più modelli né interpreti capaci di eseguire come si faceva una volta, per esempio, la “Casta Diva” o “Pria che spunti” del Matrimonio segreto, bisogna convincersi che il bel canto è perduto senza speranze di ritorno. Come volete che resusciti ciò che è morto, ciò che è meno di una mummia?”
Prescindendo dalla pessimistica conclusione del maestro, che può anche oggi apparire non esagerata, limito l’attenzione agli elementi didattici da lui illustrati, secondo le nostre odierne conoscenze. Nettamente egli distingue nel complesso organo vocale tre fattori essenziali e fondamentali: quello che egli chiama stradivarius, che deve precedere ed essere anzi il fondamento dell’educazione del cantante principiante, e che è la voce; gli altri due la tecnica, e lo stile, seguono come completamento e coronamento dell’arte del canto. Colla parola stradivarius egli alludeva al violino di prima classe, come erano e sono ancora i violini del celebre liutaio cremonese che recavano quel nome. Secondo Rossini quindi il primo e fondamentale compito del futuro cantante consisteva nella formazione della voce, ossia nel fabbricarsi personalmente il proprio perfetto strumento, dal quale poi trarre i suoni, ossia il patrimonio sonoro da utilizzare nel canto. Con quale metodo e per quale via si poteva raggiungere praticamente, Rossini, dopo aver sottolineato che anche allora era un ingrato lavoro, e pel quale si richiedevano almeno due anni di esercizi, ci dice che si cominciava col pensare esclusivamente all’emissione pura e semplice del suono, cercando di ottenere l’omogeneità dei timbri e l’uguaglianza tra i vari registri. Egli non chiarisce meglio il suo concetto; né ci dice in che modo l’allievo era chiamato ad emettere il suono dei suoi organi vocali.
Basandomi specialmente su quanto poi dice per certi alunni, la cui emissione risultava viziosa, e pei quali si “ imponeva una ginnastica speciale di contrazioni gutturali, che doveva eseguirsi senza emettere alcun suono”, ginnastica, che, “puramente afonica poteva durare per mesi e mesi”, io credo che egli alludesse a quella educazione che ho indicato come rinofonia, e che consiste nel far eseguire tutti i suoni e i corrispondenti intervalli, in una perfetta linea melodica, con la voce puramente nasale, o come si dice a bocca chiusa. In tal modo l’allievo riproduce esattamente la successione dei suoni, senza emettere alcun suono vocalico, servendosi cioè del complesso dei suoi organi vocali, come di un vero e proprio strumento musicale, quasi come di un violino (stradivarius, dice Rossini), acquistando la flessibilità, l’omogeneità dei timbri e l’uguagliamento dei registri. Questo metodo, che io non vedo ricordato in alcun trattato didattico di canto, né antico, né moderno, come ho potuto constatare da una lunga e diligente esperienza personale, dà effettivamente i migliori risultati pratici. Che d’altra parte, Rossini intendesse realmente a un siffatto metodo, mi pare si possa dedurre anche da quanto egli dice nel seguito della sua improvvisata conferenza. Quando il futuro cantante era in possesso del suo stradivarius, ossia quando l’organo aveva acquistato la flessibilità e l’eguaglianza volute (dopo almeno due anni di esercizi) si passava ai veri e propri vocalizzi, ossia allo studio della produzione delle vocali, isolatamente dapprima, e alternatamente poi, nelle diverse altezze dei suoni, nelle diverse durate, agilità, ecc. Ciò conferma che gli esercizi dei primi due anni, dedicati alla vera formazione della voce, non erano compiuti su vocali, ossia sulla voce articolata, ma solo inarticolata, ossia come oggi diciamo colla sola risonanza laringo-faringo-nasale (Nel mio opuscolo “Udito e Voce: elementi fisiologici della parola e della musica” (Roma 1925) ho ampiamente sviluppato i concetti qui accennati, sulla voce nasale (cap. VI, pag. 284-293,), sui suoi rapporti colla ordinaria voce nasoriale e sulla possibilità di servirsene, come mezzo per l’insegnamento del canto. G. Silva, Il maestro di canto, (Torino, F.lli Bocca, 1928) accoglie sommariamente questi miei concetti, riportandone anche gli schemi figurativi (fog. 15 e 16, pag.50 e 51; fig. 42, pag.291) senza tuttavia indicarne la fonte.)
Non meno importante dal punto di vista della fonetica musicale è quanto egli sommariamente ed incisivamente dice dei successivi gradi dell’insegnamento del canto. Il fine precipuo era quello di produrre una serie omogenea di suoni musicali, invariabili di timbro e di intensità, nonostante i vari movimenti degli organi della cavità orale, ossia della lingua, delle labbra, ecc., che sono indispensabili per la retta pronunzia delle diverse vocali e consonanti. Per raggiungere tale difficile compito, si cercava soprattutto che il suono si diffondesse con l’aiuto del palato: “è questo, infatti, il trasmettitore per eccellenza della bella sonorità”. Per intendere chiaramente questo progetto è anche qui necessario interpretare correttamente l’ufficio fonetico del palato, attribuitogli dal Rossini. Tale chiarimento è facile dedurre dall’esempio che egli dà nel seguente periodo, riconoscendo alla nostra lingua il privilegio di favorire il bel canto, col possedere fonemi, come le sillabe mà e bè di amàre e bèllo, che posti nel palato e così ripercossi son già di per sé una musica. Evidentemente egli intendeva la particolare sonorità che proviene direttamente dal contributo di risonanza del cavo nasale, che in queste sillabe forma l’attacco, ossia la brevissima frase con cui si inizia e in cui consiste la consonante esplosiva. Senza che io più oltre mi soffermi nel commentare i precetti che Rossini indica, per le successive fasi dell’educazione del cantante come messa in pratica, nel loro insieme, di tutto ciò che aveva imparato elementarmente, in un periodo di almeno 5 anni per le donne, e di 7 per gli uomini (tale notevole differenza era giustificata sia dalla maggiore difficoltà opposta dai maschi, sia forse anche le maggiori requisiti imposti ai cantanti), con un altro anno di studio (quindi in tutto sei e otto anni di attento scrupoloso studio), non posso a meno di rilevare che era soltanto in quest’ultimo anno che l’allievo, come coronamento di tutto il suo studio, era ammesso ad eseguire un brano di insieme, come un’aria o un recitativo, a differenza di quanto oggi (con grande discapito dell’arte), già nei primi anni, i compiacenti maestri permettono agli inesperti allievi eseguire arie brani musicali, talora di notevoli difficoltà. Neanche compiuto un così lungo e diligente tirocinio, alla fine del quale il maestro poteva dire all’allievo: “Vai pure; tu puoi cantare tutto ciò che vuoi”, Rossini credeva che fosse finito lo studio. La capacità di cantare era solo una possibilità in fieri. Doveva seguire un non meno diligente ed attento studio per acquistare lo stile e il gusto. Questo programma che Rossini ricordava vigente ai suoi tempi antichi, era già dimenticato ai tempi in cui parlava; e ciò lo rattristava dovendo concludere che il bel canto italiano era per sempre tramontato. Purtroppo i tempi che seguirono alla sua scomparsa forse non hanno che confermato il suo pessimismo. E se vogliamo che risorga una nuova era di bel canto in Italia, non ci resta che tornare all’antico (come voleva un altro nostro grande maestro), corroborato e consolidato dalle nuove conquiste scientifiche della fonetica fisiologica musicale.
Prima di chiudere questa rapida e necessariamente sommaria rivista del merito che dobbiamo riconoscere al grande Maestro anche nel campo della fonetica musicale, avendo parlato dei suoi insegnamenti teorici e pratici come maestro di canto (che notoriamente ebbe una numerosa nobilissima schiera di cantanti d’ambo i sessi, italiani e stranieri), debbo aggiungere che anche nella sua meravigliosa opera di compositore, specialmente nel suo secondo e terzo periodo di attività, fedele osservante ai suoi principi di fonetica musicale, affidando alle voci maschili e femminili, in tutte le sue melodie, tanto arie che recitativi, assolo e insieme, quelle note che meglio si prestano nei vari registi ed estensioni, tanto nei valori tenuti, come nelle agilità, delle più belle perfetti voci umane, aborrendo dalle note troppo acute (dagli strilli o urli, come egli li chiamava) che imponevano all’artista un eccesso di sforzo atletico. Un bell’esempio di questo suo stile o indirizzo e, oltre che nelle sue opere teatrali, nelle deliziose liriche da camera che egli compose nel suo ultimo periodo, per lo studio del canto italiano, per voce sola o duetto, con accompagnamento di piano, come potrete giudicare dalla viva esecuzione di due di esse, che ho pregato due gentili artisti di voler preparare per rendere meno arido e nel contempo per illustrare ad aures il mio discorso.= Il 18 agosto 1942 furono eseguite: Il Rimprovero e La partenza, su parole del Metastasio, facenti parte della Soirée Musicale di G. Rossini: Otto ariette e quattro duetti per lo studio del canto italiano. Dell’ultima, La partenza, si eseguì, per far risaltare dal confronto il diverso stile, la stessa poesia musicata da Bethoveen. \