Lettera suora Maria Eletta Sani clarissa monastero Falerone al padre spirituale -cc. 6- 7-

Maria Eletta Sani Diario epistolare cc. 6-7
Viva Gesù e Maria
A gloria di voi, mio Dio, e per obbedienza del vostro Ministro, scrivo. Che gran rossore provo, o mio Dio, ma a voi sono ben note le mie operazioni imperfette, ricolme di vizi e di difetti. Temo che, in punto di morte, non abbia da darmi confusione anche delle opere di esercizio delle mortificazioni che appariscano buone. Ohimé, quante imperfezioni e difetti mischiati insieme. Credo che vedrò se (da) tutto il seme della mia vita altro non ci ricavo che rammarico e confusione del mal vivere in confronto di tante misericordie; e la mia pessima corrispondenza ed ingratitudine verso il mio buon Dio. Già gli accennai negli altri fogli da me scritti che la chiamata di Dio fu dalla piccola età. Nel crescere negli anni sempre riconoscevo che Dio mi voleva a sua serva. Ma infedele io sono stata. Ah! Si, buon Padre. Mi incominciai ad esercitare nella mortificazione di me stessa in tutto. All’età di diciassette anni circa, così mi pare, di privarmi in alcuni cibi che a me piacevano, ma non sempre lo facevo nel venire avanti; mi privai del vino … Siccome Dio non mancava di usarmi misericordia, come gli accennai che voleva che io portassi la Croce con Lui ed io incominciai a fare strumenti di penitenza: una croce di punte; un cuore di punte formato il nome SS.mo di Gesù, in altro cuore il nome di Maria SS.ma, in altro cuore ci formai le sette spade che trafissero il cuore di Maria Addolorata, tutte di punte; una corda di nodi per portarla alla cinta. Mi inventai una disciplina fatta a mio genio e questa la facevo, alcuni tempi, ogni notte a sangue, secondo la licenza del mio confessore. Una volta dopo la comunione, Dio mi fece vedere un cuore tutto fuoco di amore e vi era tutta la passione distinta, le impronte di tutti (gli) strumenti che Gesù soffrì ed io la richiesi al mio buon Dio: mi fece capire che il Cuore se veramente amerà, così deve essere. In questo modo Dio mi fece intendere e subito feci il ritratto di quel Cuore, tutto di punte che mi prendeva tutto il petto, quando l’obbedienza (ore cinque) me lo permetteva di portarlo. Trovai catenelle ed altre discipline per mettere in opera. Mi esercitavo di ‘invitare’ Gesù al Calvario con una croce in spalla, la corona di spine, una corda al collo ed a tutti e due i capi che avevo legati due mattoni, la bevanda di aceto, sale e fuliggine.
Questo mi era di consolazione e nel fare la disciplina mi sentivo accendere di un odio e disprezzo: disputavo contro questo mio vile corpo (e) alle volte di certo avrò passato il tempo destinato dall’obbedienza. La portavo più a lungo senza che io mi accorgessi della mancanza e del tempo per eccessivo sdegno di me stessa. Nel principio mettevo tavole nel luogo dove dovevo dormire e mi legavo i capelli in un chiodo per svegliarmi e fare orazione. Dopo incominciai a non andare mai più al letto. Mi gettavo sopra a una cassa ed ormai sarà da undici anni che non stavo più al letto. Mi esercitavo nella mortificazione delle delicatezze. Bev(ev)o acque sporche, tenevo la lingua in luoghi dove avevo difficoltà. Cercavo di mortificare (i) sentimenti nel vedere curiosità, nel sentire e nell’odorato dove avevo più nausea, nell’operare dove avevo qualche difficoltà. Li superavo e lo facevo con giubilo; gli uffici più vili cercavo di farli io. Avevo gusto di trattare con i poveri, ma con libertà, di nascosto dai miei genitori, per poter fargli qualche carità. Provavo gran pena se non potevo sovvenirli; ma quel che potevo rubare in casa, tutto davo per carità; questo mi dava somma consolazione. Se potevo ottenere la licenza, digiuna(vo) a pane e acqua le vigilie della Madonna e vigilie delle novene; la carne meno che sia possibile, se la necessità mi incontra(va) per non dare a vedermi che non mangiavo. Nelle malattie del prossimo, quel che potevo fare con tutto genio e carità, di tutto cuore lo facevo; nell’esercizio di servire tutti di casa come vera serva, così mi sono esercitata. Mi creda che agli occhi (di) Dio, o ! quanti magari saranno i difetti e le man(canze) che l’esercizio delle mortificazioni. Il desiderio di patire era grande: alle volte mi sentivo accendere d’una brama di patire i martìri delle sante vergini, di darmi a divorare ai lupi e alle fiere; ma non potevo soddisfare all’accesa brama. Il desiderio di servire Dio (ci) fu quasi sempre. Nel venire avanti nell’età cresceva il desiderio di essere Religiosa e di amare il mio Dio; era un amore acutissimo di desiderio che mi disfaceva e mi sentivo accendere di impeti di amore … Tutte le creature viventi amate il mio Dio. Sarei voluta andare per le città e contrade strillando che si amasse il mio vero amore. Mi pareva impossibile che non avessi amato Gesù. Che spade e coltelli erano al mio cuore il non poterLo amare come desideravo!
Dopo che io mi ‘comunicai’ per più volte, Dio mi usava misericordia perché mi incominciò non solo il desiderio dell’amore e dell’amato, ma mi si accendeva un desiderio e calure e fuoco nel petto e nel cuore che mi struggevo come la cera al fuoco; questo era tanto sensibile che dopo avere fatto orazione e anche dopo la Comunione era tanto il calore del fuoco nel petto che sopra il busto si sentiva il calore, come accadde che la mia amica e confidente un giorno nel parlare insieme mi volle accostare la sua mano sopra al busto e si sentiva il calore come di fuoco e dal cuore usciva abbondantemente e faceva prova di distruggermi tutta in amore; era tanto alla parte sinistra che tutto il corpo ne partecipava. Questa mia (amica) monaca sempre mi diceva che vole(ssi) parlare con Lei, ma il Signore permise che si parlasse in tempo che non poteva, in fine della vita la monaca già defunta D(onna) Leonora Teresa Baltuda, siccome ci avevo preso confidenza, essendomi veramente stata fedele e vera amica, questa fu la cagione che mi dispiacque la sua morte. Insomma io provavo due acutissime spade nel cuore di amore: una era il desiderio insopportabile, e l’altra era il fuoco nel cuore che mi distruggeva in smanie insoffribili e mi sentivo accendere di una brama che tutti avessero amato il mio Gesù. Desideravo che le creature mi avessero aiutato ad amare il vero amore. Se mi incontravo a trattare con persone che gli piaceva il discorrere di Dio, oh! quanto mi accendevo di amare Dio nel cuore … Davo segno del desiderio che tutti avessero amato Gesù, né mai mi saziavo di discorrere, ci passavo ore e ore senza accorger(mi). All’incontro, se mi (im)battevo con persone del mondo e secolari che capivo che le cose spirituali le mettevano in ridicolo, io perdevo la favella e non sapevo più parlare. Mi scordai di scrivere che l’impulso e genio che Dio mi diede fu, dopo i quattro anni, di sovvenire i poverelli e di esercitarmi nella carità come infatti facevo: tutto quello che potevo avere, davo per carità e mi sentivo distruggere il cuore quando sentivo e vedevo la povertà e non potevo soccorrerli e dargli alloggio e cibarli del migliore cibo, non di dargli le cose più ’inferiori’. Nel crescere negli anni Dio così mi dava impulso e anche mi parlava e mi diceva che avessi ‘invitato’ i suoi veri servi, cioè i santi e le sante. “Ora – mi diceva – Maria, se mi vuoi essere vera serva ‘invita’ la carità e le virtù di queste mie spose: santa Rosa, santa Caterina da Siena, santa Chiara, santa Scolastica, santa Teresa di cui hai il nome e santa Maria Maddalena dei Pazzi . Oh questa sì che mi amava e si esercitava nei cortei”. Così Dio mi parlava nell’orazione anche nelle comparse visibili, in questo stesso modo che ho descritto. Non posso e non so spiegare l’accesa brama e desiderio e impulso ed effetti che mi causava questo insegnamento che la misericordia di Dio mio usava. Mi sentivo un desiderio acceso che mi distruggeva perché non potevo fare tutto quell’esercizio di virtù di quelle sante: vedevo la mia impotenza e l’essere legata sotto al genitore e non avevo libertà di poter operare secondo l’accesa brama della mortificazione, della penitenza e della carità. Mi sforzavo e usavo ingegno e di nascosto del genitore mi privavo del cibo per darlo a una poveretta che di continuo veniva in casa e la ripulivo e gli facevo tutto quello che potevo, gli levavo di dosso gli animali che se la mangiavano, e nelle malattie delle poverette uscivo di casa di notte e di giorno, per assisterle e fare quel che bisognava, e gli portavo da mangiare e anche da fare il fuoco per riscaldare. Mi dispiaceva se non mi comandavano alcune cose vili, ma io le pregavo, con tutta libertà, come se io gli fossi stata figlia: “Nello stesso modo abbiate confidenza in libertà con me” e così vincevo le loro difficoltà perché io lo facevo con tutto l’affetto del cuore: era tanto il giubilo che provavo, mi sentivo distruggere quanto non potevo andare ad assistere gli ammalati ed i moribondi.
Se mi poteva riuscire, uscivo di notte e ci andavo e mi sono trovata anche alla morte e le vestivo con gran giubilo. La carità che io gli richiedevo era che per amore di Gesù e di Maria non mi palesassero e mi tenessero segreta, acciò (che) i miei genitori non lo sapessero, il che mi spaventava acciò (che) non lo ‘penetrassero’ nei malati e prossimi. Richiedevo al Signore con tutto il cuore la loro salute e che contraccambiasse a me il male e (li) facesse guarire da quei mali. Io lo desideravo perché bramavo il patire. Nel servire ai miei domestici, nella carità e assistenza nel male, l’ho fatto con più vivo affetto e contenta, ma solo richiedevo che Iddio mandasse a me il male e facesse ritornare la sanità ai miei parenti. Siccome Dio mi dava questo continuo stimolo di esercitarmi nella carità verso il prossimo, di continuo mi ci sono esercitata in tutto a modo, fuori di casa e in casa: l’ho fatto con genio e senza difficoltà.
Solo nel tempo del travaglio e della tentazione, allora non potevo operare con quella facilità e carità e zelo, ma con odio e avversione alle virtù. Ma tanto mi forzavo e facevo la carità di servire il prossimo, ma con difficoltà e priva di speranza che faticavo e pativo senza dare gusto a Dio, così mi persuadevo per vedermi in sì miserabile stato, come gli è noto il mio mal vivere. Mi esercitavo nell’obbedienza, ma credo di averci mancato, sentendo i miei genitori che si lamentavano delle mie disobbedienze; molte erano involontarie per vari motivi: avevo sollecitudine di far le cose di casa per tempo acciò mi fosse riuscito di fare la carità di servirli, ed anche di trovare il tempo di fare orazione e starmene con Dio. Siccome i miei genitori volevano che io dormissi e mangiassi e non facessi pazzie, così dicevano, onde credo di aver disubbidito perché nel sentirli lamentare di me, mi causavano rimorsi di coscienza. Nella mansuetudine procuravo di stare sottomessa non solo ai miei genitori ma anche alle mie sorelle; molte volte però le ho sgridate e (ho) detto qualche ragione e sentimento, ed i miei genitori l’hanno preso al contrario e si ‘disturbavano’, perciò non sarà stata vera mansuetudine la mia. L’umiltà: mi ci sono esercitata con fare l’ufficio di serva a tutti di casa. Pazienza: la esercitavo con avere pazienza con tutti, ma molte volte sentivo la passione dell’impazienza e della collera, la ruminavo, ma non sempre.
Richiedo la sua santa Benedizione.

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