Dalle lezioni del prof. Mancini d. Dino
DANTE ALIGHIERI (Firenze 1265- Ravenna 1321)
– La spiritualità.
La spiritualità di una persona è costituita dal suo modo di intendere, di sentire, di vivere la vita. Parlando della spiritualità dell’Alighieri è necessario che esaminiamo le sue facoltà, che ne osserviamo le potenzialità naturali e lo sviluppo che ha saputo dare ad esse il poeta.
1. L’intelletto e la cultura dell’Alighieri
Dante ebbe un’intelligenza chiara, capace di affrontare molti problemi, ansiosa di approfondirli e di risolverli per dare solide basi al pensiero e all’azione. Egli accolse in pieno la concezione del reale e della vita che fu propria dello spirito medievale. Il centro di tutta la realtà è Dio e le creature muovono verso di lui spinte da una forza che potrebbe dirsi “istinto della Mèta”, l’Empireo, destinato all’uomo, dove Dio si manifesta più immediatamente e più chiaramente alle sue creature. Per attrarre a sé l’uomo Dio si serve di vari mezzi:
a – dell’amore istintivo al sommo Bene, per cui lo spirito umano, pur compiacendosi dei beni finiti, sente l’insufficienza e la limitatezza di questi ed anela alla conquista dell’Assoluto.
b – della Grazia, degli aiuti concessi gratuitamente all’intelletto e alla volontà dell’uomo affinché costui veda con chiarezza la verità (o la ritrovi dopo essersi smarrito nella selva oscura del peccato) e si decida a tradurla in azione. Dante, nel secondo canto dell’Inferno, immagina che l’iniziativa della sua salvezza sia presa da Maria, simbolo della Grazia preveniente coadiuvata da Lucia, simbolo della grazia illuminante, che si avvale della collaborazione di Beatrice e di Virgilio simbolo della ragione
c – della luce della fede, resa accessibile dalla teologia
d – della luce della ragione, resa accessibile e chiara dalla filosofia
e – della morale, cioè dei principi fondamentali dell’agire che indicano all’uomo la via migliore e più sicura per realizzare il suo perfezionamento naturale e soprannaturale
f – della scienza, la quale rivela l’ordine e la grandiosità dell’universo, insieme rivela la sapienza e la potenza del “Motore immobile” delle cose
g – dell’amore della donna-Angelo, che Dio manda dal cielo in terra per dare un raggio della sua bellezza e della sua bontà e per fare innamorare del buono e del bello Assoluto gli spiriti soverchiati dalla forza degli istinti deviati da false immagini di bene
h – dell’arte, che presentando il vero e il buono in forme splendide, ed attraenti educa ed eleva lo spirito
i – della Chiesa, che è la società in cui vengono organizzati e nutriti spiritualmente i cristiani
l – dell’impero, che è la società in cui i cristiani sono organizzati ed assistiti nel raggiungimento dei loro fini terreni, ed avviati attraverso la pace e il benessere temporale, verso i fini soprannaturali.
Questi due ultimi mezzi muovono l’uomo dall’esterno, con la disciplina religiosa e politica che gli impongono esternamente, così lo aiutano a saper ben valersi di tutti gli altri mezzi che operano dall’interno. In forza di questa concezione che riallaccia a Dio la vita dell’uomo e rapporta al problema religioso e morale tutti gli altri problemi, gli intellettuali del medioevo, particolarmente Dante, si occupano di filosofia, di teologia e di tutte le altre attività dello spirito che hanno rapporto con la filosofia e la teologia.
È raro perciò trovare, nel medioevo, un intellettuale che non abbia una buona cultura letteraria, scientifica, giuridica, filosofica e teologica. Non fa meraviglia che Dante abbia rivolto la sua attenzione a svariati problemi e di essi si sia interessato non con la superficialità di un dilettante, ma con l’impegno serio di chi sa che non avrà una formazione spirituale sufficiente finché non avrà risolto i problemi più importanti riguardanti la vita umana. Perciò l’Alighieri si preoccupò dei problemi teologici, filosofici, giuridici, politici, morali, scientifici, psicologici, letterari, e lo soddisfacevano le soluzioni date ad essi dal pensiero contemporaneo, specialmente dal tomismo. Inoltre egli ha cercato:
a – di chiarire le varie questioni fino ad eliminare, nei limiti delle sue possibilità, ogni dubbio, cosicché nel suo intelletto tutto fosse chiaro, tanto nel campo della ragione che in quello della fede; né si trova nel suo spirito alcuna traccia di scetticismo o di incertezza.
b – di approfondire i vari problemi cogliendone i motivi fondamentali ed osservandone l’estensione ai vari aspetti della vita individuale e collettiva, cosicché evita il superficialismo caratteristico dei dilettanti che fanno un po’ di tutto; ma non sanno fare, bene, niente.
c – di elaborare le cognizioni in modo che diventino persuasioni, convinzioni che alimentino lo spirito e non restino alle condizioni di pura erudizione ornamentale, fredda e priva di ogni funzione vitale.
d – di dare unità alle soluzioni dei vari problemi, rapportandoli a Dio, cioè unificando la sua cultura in un inquadramento religioso di tutto il reale.
Riassumendo le caratteristiche della cultura di Dante, si notano la vastità, la chiarezza, la profondità e serietà, la convinzione e l’unità.
.2. Il mondo affettivo dell’Alighieri.
Il temperamento dell’Alighieri è impulsivo e veemente, il suo cuore sente con ardore tutti gli svariati affetti. Sarebbe stato un uomo affettivo turbinoso e scomposto, se non fosse venuto a disciplinarlo e ad illuminarlo l’intelletto con il suo vigore e la serietà razionale.
Nell’animo dell’Alighieri si verifica una intercomunicazione meravigliosa fra intelletto e sentimento, le idee passano nel mondo affettivo e diventano convinzioni appassionate, gli affetti sono illuminati dalla luce dell’intelletto e diventano passioni ideali. Così la verità è professata con entusiasmo e con ardore, e la vigoria del temperamento impulsivo viene incanalata verso il vero e il bene ed è messa a servizio delle idealità superiori.
Il poeta sentì in modo vivace e intelligente l’amore mistico e anche l’amore sensuale per la donna “pietra”(simbolo), sentì odio per i malvagi e per i suoi nemici personali (ad esempio Bonifacio ottavo) e provò disprezzo per i vili, i vanitosi e gli ignari (Filippo Argento); sentì pietà per le sciagure materiali e morali dell’uomo (Paolo e Francesca; Ciacco; Pier della Vigne); sentì la gioia della verità e del bene, come sentì anche il disagio della vita nel peccato. Fu comprensivo ed intollerante, superbo ed umile, vagheggiatore appassionato di tutte le forme di virtù, ed esperto delle debolezze umane. Insomma il mondo affettivo dell’Alighieri è vastissimo e densissimo: i più svariati sentimenti del cuore umano furono da lui vissuti con virile intensità.
I momenti dell’evoluzione del suo mondo affettivo sono principalmente tre: anzitutto la giovinezza riscaldata ed illuminata dal sole dolcissimo di Beatrice, piena di gaudi sereni nell’amore e di soddisfazioni nell’arte di cui è espressione la “Vita Nova”; poi il periodo tempestoso delle lotte politiche esterne e delle passioni intime, (periodo della “selva oscura”) durante il quale rivela la sua impulsività e la sua fierezza quasi barbarica; ed infine il periodo dell’esperienza matura, dell’ascesi meditativa ed eroica durante il quale rivive, con mentalità superiore, i ricordi del passato ed esercita il suo spirito nell’acquisizione di uno stile che lo prepari alla vita fra i Beati nella “candida rosa”.
Così dalla gentile e luminosa spiritualità giovanile, passa a quella tempestosa e tenebrosa della prima virilità, e giunge a quella pacata, seria e ardente degli ultimi anni di vita, nei quali compose la Divina Commedia. In tutti le tre fasi troviamo la caratteristica della “affettività vigorosa e lucida”.
.3. L’energia volitiva
In forza dell’agile intercomunicazione tra le sue facoltà dello spirito, l’Alighieri non poteva arrestare la passione nel mondo del sentimento, ma la trasferiva immediatamente nella vita vissuta e ne faceva programma per la sua indomita volontà.
Il vero e il buono non sono stati oggetti di pura contemplazione intellettuale, né di ozioso sentimentale vagheggiamento affettivo, ma costituiscono programmi di azione per la volontà, nella quale va a confluire tutto il moto dello spirito. L’Alighieri ebbe dalla natura una volontà indomita con cui servì eroicamente l’ideale, opponendosi anzitutto alle meschinerie ed alle riluttanze della sua natura ed alla malignità degli uomini o all’avversità della fortuna.
Si troverà, in seguito, nel Petrarca, l’uomo che vuole e non vuole, l’uomo che non sa decidersi; e nell’Alighieri troviamo l’uomo d’acciaio, il lottatore. Negli ultimi anni della sua vita, egli ebbe la sensazione di essere una specie di profeta mandato da Dio a illuminare l’umanità cristiana in crisi. Di questa missione e gli si fa dare l’investitura dell’eroico Cacciaguida e da san Pietro, e per essa egli è deciso ad affrontare le reazioni della parte avversa dell’umanità.
.4. L’azione
Tanta è l’energia, nella spiritualità dell’Alighieri, che il programma, una volta formulato, non resta nel mondo dei progetti. È naturale che come uomo dall’intelletto vivace e sicuro, dal sentimento ardente, dalla volontà vigorosa, egli sia anche l’uomo d’azione.
L’ Alighieri nel periodo della giovinezza, da stilnovista, partecipava a due imprese militari: alla battaglia di Campaldino e all’assedio del castello di Caprona. Dal 1295 egli era iscritto all’arte degli speziali; nel 1300 fu priore della città di Firenze; nel 1301 fu ambasciatore a Roma ove conobbe Bonifacio ottavo e trattò con lui; nel 1302 fu bandito in esilio e fino al 1304 insieme con altri fuoriusciti fiorentini, prese parte a numerosi tentativi per ritornare in patria; e da questo anno 1304 si distaccò dalla “compagnia malvagia e scempia “ e andò cercando ospitalità, fino alla morte, attraverso varie parti dell’Italia e provò “ quanto sa di sale lo pane altrui e come è duro calle lo scendere e il salire l’altrui scale” (Paradiso XXII, 58-60). Quando nel 1310 scese in Italia Arrigo VII, con il proposito di restaurare l’autorità imperiale, Dante cercò in vari modi, con gli scritti e con l’azione, di appoggiare l’opera del pacificatore nel quale vedeva una garanzia di felicità per l’Italia discorde e tempestosa. Il programma di Arrigo fallì e allora l’Alighieri pensò di contribuire alla rinascita della “respublica christiana” e specialmente dell’Italia con la sua Commedia che fu la più efficace e la più gloriosa delle imprese di Dante. Dall’esercizio della vita attiva e specie dall’esperienza dell’esilio l’Alighieri trasse i seguenti vantaggi:
a ) Ebbe modo anzitutto di sperimentare direttamente la psicologia umana e di rendersi conto in modo tangibile dei bisogni spirituali dei suoi contemporanei; conobbe varie forme di vita e fu in grado di descriverle con concretezza ed evidenza.
b ) Rafforzò i suoi ideali e le sue decisioni, o li corresse a contatto con una realtà che suggeriva maggiore prudenza e calma; smorzò le angolosità aspre di certi suoi atteggiamenti spirituali.
c ) Imparò ad essere intransigente contro i maligni, ma comprensivo con i deboli; intollerante con gli egoisti, e pietoso con i generosi soverchiati talvolta dalle passioni.
d ) Ampliò gli orizzonti del suo spirito e le finalità dei suoi programmi, superò i limiti della sua vita individuale, quelli della città di provenienza, e venne a contatto con l’umanità intera.
L’esilio, distaccandolo dalla famiglia e da Firenze, lo rese profeta di tutta la “respublica christiana.“ Sotto questo aspetto si può dire, che nella vita di Dante, l’esilio gli sia stato provvidenziale. Comprese la necessità di principi religiosi, morali e politici ben definiti, su cui basare la vita pratica individuale e collettiva: Comprese come si inseriscono le soluzioni teoriche nelle esigenze concrete della storia. La meditazione filosofica, teologica e politica non costituiva solo un rifugio ideale per lui esule, ma un alimento sostanzioso della sua azione. Pensiero ed azione formavano il binomio inscindibile del programma dell’Alighieri: l’ideale e il reale diventavano una cosa sola e la poesia dell’Alighieri ebbe il grande vantaggio di poter esprimere pensiero, passione e vita in una sintesi lucida e concreta, più unica che rara.
In conclusione, la spiritualità dell’Alighieri è la più complessa ed unitaria, è la più illuminata ed appassionata che sia stata registrata nella storia della letteratura italiana. L’espressione di questa spiritualità è la “Commedia” in cui i motivi e i problemi più svariati sono svolti con ispirazione chiara, con ardore di sentimento, di fantasia ricca e concreta, con linguaggio pieno ed efficace.
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Dal “Convivio” alla “Commedia”.
L’Alighieri nei primi tre anni dell’esilio, per risollevare la dignità della sua persona umiliata dalla sventura, si propose di dar saggio della sua cultura e delle sue capacità artistiche e decise di comporre il “Convivio”, un complesso di trattati costituiti, ciascuno, di una canzone e di un commento a questa in prosa, in cui fossero esposte le teorie più comuni intorno ai più importanti problemi di filosofia e di scienza. Tuttavia, arrivato al quarto trattato, l’Alighieri interruppe il suo lavoro, e lo fece, con molta probabilità, perché il Convivio, così come era stato ideato, non lo soddisfaceva. Infatti il convivio presentava i seguenti difetti:
1) l’opera risultava slegata, in quanto fra l’uno e l’altro trattato non v’era alcun legame né interiore, né esteriore;
2) l’esposizione rimaneva nel campo teorico e non prendeva contatto con la vita dell’umanità;
3) la forma rimaneva costretta nello stile arido del didascalismo: le verità erano sviluppate come in un ragionamento in versi; era reso quasi impossibile l’intervento della fantasia e del sentimento;
4) non poteva realizzare la promessa, fatta al termine della sua opera “Vita nova”, di esaltare Beatrice in modo degno della beatissima;
5) in una esposizione didascalica più o meno oggettiva e impersonale, il poeta non poteva presentarsi direttamente con il complesso delle sue passioni, delle sue aspirazioni, dei suoi programmi di rigenerazione personale e universale; non poteva rivendicare il suo onore umiliato dagli avversari e messo in dubbio da chi ancora non lo conosceva a fondo.
Insoddisfatto dal “Convivio”, il poeta ideò allora la sua “Commedia” la quale veniva benissimo incontro alle esigenze della sua spiritualità quale gli era venuta maturando in seguito alle esperienze e alle meditazioni dell’esilio, da quando aveva imparato a pensare concretamente, a cogliere l’ideale nel reale, a rapportare la vita alla verità, ad inquadrare i suoi problemi personali nel grandioso complesso dei problemi dell’umanità. La “Commedia” offriva all’Alighieri innumerevoli vantaggi dal punto artistico:
1) Anzitutto, nell’Inferno, presenta il quadro dell’umanità che ha rifiutato la verità e il bene assoluto; nel Purgatorio presenta il quadro dell’umanità che pigramente si è dedicata al servizio del vero e del bene, e, nel Paradiso, il quadro dell’umanità che con slancio ha militato sotto la bandiera dell’Assoluto: il poeta ha modo di illustrare la storia terrena, rievocata nel mondo extra temporale, con la luce delle verità teologiche, morali, filosofiche, scientifiche.
Così i problemi inscritti in questi tre quadri della vita umana, (fuori dalla loro astrattezza) vengono ricollegati concretamente alla vita vissuta; così la sapienza cessa di essere erudizione per passare al servizio della vita; così gli ideali religiosi e morali sono colti nel loro sviluppo storico, nelle loro crisi e nelle loro vittorie; e si evita la solitaria meditazione in un mondo astrattamente dottrinale.
2) L’esposizione delle verità può assumere le forme più svariate, tutte le forme, eccetto quella “raziocinativa” astratta: la verità è trasfusa nelle descrizioni dei luoghi, nella psicologia dei personaggi, nella distribuzione delle pene e dei premi, negli accenti vivaci delle invettive, nelle rievocazioni storiche e in quelle leggendarie. E il poeta penetra nell’intelligenza del lettore attraverso le vie della fantasia e del cuore.
3) Beatrice promuove la salvezza del suo fedele e lo eleva fino a Dio, diventa maestra di alta sapienza, attira lo spirito del poeta dall’atmosfera soffocante della terra e lo conduce a spaziare nelle regioni della verità e dell’amore, delle quali ella conosce i segreti e nelle quali si muove con sicurezza ed agilità.
Così l’Alighieri, divenuto edotto, può soddisfare le esigenze del suo cuore che brama vagheggiare sì la donna bella, ma soprattutto vivace di spirito e sapiente; così il sentimento dell’amore diventa sapienza e la sapienza diventa amabile quasi ripetendo la vecchia concezione di Platone.
4) Incontrandosi con i personaggi che concordano con le sue idee e altri che sono a lui avversi, il poeta ha la possibilità di mettere in evidenza il suo modo di pensare, le sue aspirazioni, i suoi odi, le sue simpatie, ed ha possibilità di rivendicare l’onore della sua persona umiliata dalle condanne. La sua liberale comprensibilità, la sua vivace fierezza, la sua magnanimità sdegnosa, i suoi entusiasmi, le sue sublimi aspirazioni possono essere messe bene in evidenza in colloqui che assumono i toni ora aggressivi, ora solenni, o estatici. Da Brunetto, da Cacciaguida, da san Pietro, da san Giacomo, da san Giovanni si fa elogiare come perfetto cittadino e come perfetto cristiano, e spesso, incontrandosi con i cittadini di Firenze e parlando della patria sua, mette chiaramente in luce la sua innocenza, la sua rettitudine, e il suo amor di patria.
Dante nei tre regni.
La Divina Commedia descrive il viaggio di purificazione e di elevazione compiuto dall’Alighieri dalla selva oscura fino a Dio.
La purificazione avviene attraverso tre gradi:
1)- l’orrore del peccato suscitato dalla visione della tremenda punizione a cui sono sottoposti i peccatori;
2)- la detestazione dello stile del peccato che si rivela, ad un dato momento, come stile irrazionale e meschino;
3)- l’assimilazione di uno stile razionale, la conquista della libertà interiore, l’armonia delle facoltà.
La fase della purificazione comprende due momenti: uno negativo nell’Inferno in cui il poeta concepisce orrore della colpa per la paura della pena; un secondo momento positivo nel Purgatorio, quando il poeta smentisce il peccato come irrazionalità, si libera da esso come da un impaccio che affatica e logora la vita, aderisce spontaneamente e sinceramente alla virtù.
Nell’inferno Dante compie il primo passo della purificazione in quanto concepisce l’orrore del peccato, alla vista delle tremende pene con cui esso è punito.
Nel Purgatorio ascolta le anime che sconfessano le forme irrazionali e deplorevoli della loro vita terrena, e allora egli smentisce certe forme deplorevoli della sua vita personale, a cui per irrazionalità è attaccato; e nello stesso tempo ascolta le anime che esaltano la virtù ed anelano a soffrire per poter realizzare la loro unione con Dio. Dante acquista un criterio di valutazione delle cose umane del tutto improntato alla saggezza, alla prudenza, alla nobiltà. Così al termine del Purgatorio viene proclamato da Virgilio re e pontefice di se stesso, persona libera.
“Tratto t’ho qui con ingegno e con arte;
lo tuo piacere omai prendi per duce:
for se’ dell’erte vie for se’ delle arte.” (Purgatorio XXVII, 130.132)
\ “Non aspettar mio dir più né mio cenno;
Libero, dritto e sano è tuo arbitrio,
e fallo fora non fare a suo senno:
perch’io te sopra te corono e mitrio.” ( Ivi 139-142)
Il poeta che andava cercando la libertà finalmente è riuscito a liberarsi da tutte le forme dell’irrazionalità sotto la guida di Virgilio. Allo stile irrazionale della mente e del cuore e della volontà, ora subentra una forma spirituale di interiore chiara razionalità, che permette allo stesso poeta di aderire al bene senza difficoltà, cioè con libertà piena. Il mondo interiore del poeta, purificato, è sistemato in armonia: la ragione indica la strada, il cuore la intraprendente con entusiasmo, la volontà lo percorre con decisione: ogni moto interiore è agile e pronto.
Virgilio può quindi annunciare con piacere al suo discepolo, nell’atto di lasciarlo, che ormai egli è re e pontefice di sé stesso e non ha più bisogno di guida; ossia che egli, in forza della sua razionalizzazione, è divenuto “persona”, cioè uomo capace di dirigere il suo mondo interiore, senza risentire più di alcun influsso deviante. Così si compie il perfezionamento “naturale” del poeta, in quanto egli realizza la sua vera natura di uomo che è la razionalità. È da ricordare che tale perfezionamento avviene sotto la guida di Virgilio che è simbolo della ragione e quindi della filosofia. L’elevazione si realizza attraverso: a)- la conoscenza della grandiosità del reale alla luce della sapienza divina; b)- inoltre attraverso l’amore di Dio, cioè la concordanza dello spirito umano con il bene sommo.
Nel Paradiso, a colloquio con i beati che tutto sanno perché vedono in Dio ogni genere di verità, il poeta è illuminato specialmente da Beatrice, dolce e cara guida. E Dante spazia con l’intelletto nel mondo vastissimo dell’essere, ne scorge l’ordine, si sente inondato da una gioia ineffabile, non cura più la terra che gli pare “globo dal vil sembiante”, non vede l’ora di completare il suo cammino terreno per cenare alle “nozze dell’agnello”.
Infine dopo aver spaziato per lo “gran mare” dell’essere finito, egli può fissare il suo occhio nell’essere infinito in cui scorge il mistero della Trinità e dell’incarnazione. A questa visione suprema dell’intelletto è connessa una tale infusione dell’amore che egli, al termine della visione, si sente investito da quel ritmo grandioso di ordine e di armonia con cui si muove l’universo che è l’espressione più evidente di Dio nel creato.
“Ma già volgeva il mio desio e il velle,
sì come rota ch’igualmente è mossa,
l’amore che move il sole e l’altre stelle. (Paradiso XXXIII, 143-145).
Come la razionalizzazione della volontà cioè la conquista del dominio di sé stesso o l’affermazione della personalità, ha costituito il termine del perfezionamento naturale, sotto la guida di Virgilio, così la trasumanazione della volontà per opera dell’amore divino che permea e vivifica lo spirito del poeta, costituisce il termine del perfezionamento soprannaturale sotto la guida di Beatrice. Come si vede, tanto il perfezionamento naturale, quanto quello soprannaturale, si concludono nella volontà la quale è mossa dalla ragione al termine della prima fase, e parimenti è mossa dalla grazia al termine della seconda fase. Nella volontà, infatti, cioè nell’azione (secondo San Tommaso e Dante) si conclude ogni moto dello spirito; e ciò sta ad indicare che la sapienza filosofica (simboleggiata da Virgilio e acquistata nelle fasi di purificazione e di razionalizzazione attraverso l’Inferno e il Purgatorio), e la sapienza teologica (simboleggiata da Beatrice e acquistata nella fase di elevazione soprannaturale attraverso il Paradiso) non hanno fine a se stesse ma sono al servizio della vita.
È in conclusione Dante nell’Inferno concepisce orrore del peccato per paura delle pene; nel Purgatorio deplora il peccato come stile irrazionale, ed acquisisce lo stile della virtù. Nel Paradiso, libero da impacci irrazionali, spazia per l’infinito ed acquisisce lo stile del pensiero e della volontà che sono propri dei cittadini del regno di Dio, cioè stile soprannaturale.
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La Divina Commedia – contenuti.
La “Divina Commedia” di Dante Alighieri è un poema narrativo, lirico, didascalico in cui vengono presentati i tre regni dell’oltretomba che il poeta stesso immagina di aver visitati.
Secondo quanto lo stesso Dante scrive nel “De Vulgari Eloquentia” la sua opera è intitolata “Commedia” perché la narrazione inizia con visioni tristi, paurose, e termina con visioni liete e consolanti, inoltre perché essa presenta varietà di motivi, e di toni sia nell’ispirazione che nel linguaggio, motivi tristi e lieti, tragici e comici, orridi e sereni, toni patetici e sdegnosi, solenni e umili, gioviali e appassionati.
Il linguaggio è il volgare ilustre e il volgare popolare.
Secondo l’Alighieri, ogni narrazione che abbia inizio triste e fine lieto è variata nei motivi, nei toni, nel linguaggio e da lui viene definita “commedia”. Inoltre l’aggettivo “divina” fu attribuito, a questa opera dantesca, dal Boccaccio nel trattatello intitolato “In laude di Dante”. E le prime edizioni a stampa, del secolo XVI, alla parola “Commedia” aggiunsero “divina”. Ecco il contenuto del poema.
1 ) La Commedia è il poema in cui viene esaltato Dio, come centro di tutto il reale e vengono illustrati i mezzi di cui si avvale la sua Provvidenza per attrarre a sé le creature umane. Nell’Inferno, nel Purgatorio, nel Paradiso, sulla terra e nei cieli, si sentono l’onnipotenza, la sapienza, la giustizia e la bontà di Dio il quale, come “Motore immobile”, luce inaccessibile, dirige, dal suo sublime Mistero, il movimento del reale con uno stile grandioso e perfettissimo, sia quando effonde il suo sdegno contro i ribelli, sia quando inonda di dolcezza e di luce i fedeli.
La Provvidenza ha disposto vari e meravigliosi mezzi per attrarre a sé l’uomo. Di essi alcuni operano dall’interno, altri dall’esterno.
Forze che operano dall’interno. – Impulsi e le luci vengono allo spirito dell’uomo direttamente da Dio per mezzo della grazia preveniente ed illuminante. Sono luci che rivelano il bene sommo e il rapporto che lo legano all’uomo, provengono dalla Rivelazione elaborata e resa accessibile dalla teologia, di cui è simbolo Beatrice. Altre luci vengono all’uomo dalla ragione rettamente sistemata entro le forme della filosofia, di cui è simbolo Virgilio. E altre luci, infine, vengono all’uomo dalla scienza, che gli rivela l’ordine mirabile dell’universo materiale, opera della sapienza creatrice dell’Altissimo.
Le inclinazioni naturali e le norme morali orientano l’uomo nel cammino che più direttamente e più facilmente va verso il suo ‘porto’ che è l’Empireo. Queste luci intellettuali e norme morali non sono sufficienti a sollevare l’uomo a Dio. Il sollevamento è opera dell’amore e la donna-Angelo, come Beatrice, guida “le ali per l’alto volo”(Paradiso XXV,50).
L’Arte fonde (nella parola o nel colore o nelle forme o nel suono) la luce del vero ed il caldo dell’amore. Essa, in forma intuitiva, sintetizza le energie nascoste nelle mirabili realtà provvidenziali, solleva lo spirito umano ad un’atmosfera ideale, lo “trasumana”, in quanto rende visibile all’uomo l’infinito nel finito.
Forze che operano dall’esterno. – Dio ha costituito la Chiesa come guida autorevole delle anime e questa associa sulla terra i figli di Dio in una organizzazione in cui essi trovano gli alimenti soprannaturali e le sollecitazioni per camminare diretti verso la Meta ultima.
In collaborazione con la Chiesa, ma in una sfera tutta propria, c’è l’Impero, a cui è affidato il compito di reprimere i vizi che sono le cause di tutte le sciagure individuali e collettive. L’Impero garantisce la pace e la felicità terrena dei cristiani attraverso l’uso della legge e della forza. Le creature umane, difese ed aiutate dall’Impero, hanno la possibilità di attendere con impegno e con calma alle più belle attività naturali e soprannaturali.
La Grazia, la teologia, la filosofia, la scienza, la morale, l’amore alla donna-Angelo, l’arte, l’Impero, la Chiesa sono i motivi più superbi e più appassionati della celebrazione magnifica del piano della Provvidenza.
2 ) La Commedia contiene il passaggio nei tre regni ultramondani: nell’inferno oscuro e orrido; nel purgatorio sereno, ma aspro; nel paradiso tutto luce.
3 ) Nel contenuto dell’opera si notano le condizioni degli uomini che hanno compiuto il cammino della vita e sono giunti in uno dei tre luoghi: o al luogo dove sono tutti i mali dell’universo, in quanto nel periodo della prova i dannati hanno scelto l’errore e il male, rifiutando il vero e il bene; o al luogo ove, attraverso l’espiazione e la meditazione, i salvati assimilano quello stile soprannaturale che hanno trascurato di acquisire quando erano in vita, oppure sono beati, giunti al porto dell’umanità che è la felicità dell’Empireo.
4 ) Nella Commedia Dante fa le rievocazioni di episodi storici, di leggende connesse con il ricordo dei vari personaggi che incontra nei tre regni. Per il poeta le rievocazioni non sono solo l’occasione per dar prova delle sue capacità descrittive, soprattutto gli danno motivo per giudicare e per interpretare, alla luce delle verità religiose e morali e dei principi di umanità, le azioni o turpi o lodevoli, compiute dai personaggi della storia a lui contemporanea e di quella passata o da personaggi mitologici. Non si tratta, dunque, di rievocazioni pittoriche o decorative, ossia di rievocazioni limitate a pura arte descrittiva, ma di storie e di leggende richiamate ed interpretate nel loro significato più intimo cioè nel loro significato morale ed umano.
5 ) La Commedia contiene, inoltre, il processo che l’Alighieri, spirito severo ed appassionato di giustizia, (cristiano convinto della legittimità e della bontà delle due istituzioni, del Papato e dell’Impero) intentò alle supreme autorità del mondo cristiano responsabili della rovinosa decadenza della Respubblica Christiana (Papi, Imperatori, Principi):
“Questo tuo grido farà come il vento,
che le più alte cime più percuote” (Paradiso XVII, 133s)
Numerosi sono gli spunti di critica spregiudicata contro le negligenze e le cattiverie dei capi del popolo cristiano. Famosa nel canto VI del Purgatorio è l’invettiva contro il Papa e contro l’Imperatore, responsabili dei mali dell’Italia. Terribile nel canto XXVII del Paradiso l’invettiva di San Pietro contro i pontefici Bonifacio VIII, Clemente V e Giovanni XII che avviliscono la santità della Chiesa. Ma si tratta soltanto di invettive contro i titolari dei supremi poteri, perché l’autorità, in quanto tale, viene rispettata dall’Alighieri, anzi venerata come sacra. Il poeta, nel canto XIX del Purgatorio, si inginocchia davanti al papa Adriano V: ”per vostra dignitade”.(Purgatorio XIX 131) Similmente nel Purgatorio al canto XX in Bonifacio VIII, perseguitato dal re di Francia, fa riconoscere Cristo. E nel canto XXI del Paradiso, dopo aver celebrato la potestà imperiale come espressione della volontà divina e come oggetto di cure particolari da parte della Provvidenza, inveisce contro i guelfi e contro i ghibellini che non si vergognano di esautorarla.
Nell’antipurgatorio riserva ai principi negligenti il soggiorno nella valletta amena tra erbe e fiori per rispetto all’autorità che essi rivestirono in vita.
6 ) La Commedia contiene anche l’espressione più piena dello “stil nuovo” e si potrebbe perciò definire il poema anche “stilnovistico”, in quanto Beatrice, benché entri in azione solo negli ultimi canti del Purgatorio, è il personaggio che muove, in nome di Dio, tutta all’azione destinata a salvare il suo fedele: è lei che invia Virgilio, è lei che garantisce la riuscita del difficile viaggio e ritempra le speranze del buon duca nei momenti disperati; è lei che dà le ali a Dante per “l’alto volo” e lo conduce fino all’Empireo.
Tutti i motivi più belli e più soavi, già svolti nella “Vita Nova “, ora nella ”Commedia” vengono rielaborati, vengono interpretati alla luce di un’esperienza più profonda e più vasta e di una cultura più seria e più solida, vengono inquadrati in una visione, più serena e più completa, delle realtà umane, naturali e soprannaturali. Beatrice non è soltanto la donna che beatifica con il suo sorriso e con il saluto, è anche colei che salva il poeta che l’ama tanto (Inferno II,104). “Tu m’hai di servo tratto a libertà” (Paradiso XXXI, 85). E’ la donna sapiente che insegna verità naturali e soprannaturali; la donna saggia che si è impegnata ormai al trionfo della verità e del bene cioè del regno di Dio, lei alimenta e fortifica in Dante la preoccupazione di impegnarsi per il risanamento della “respublica christiana”; lei è, infine, madre pietosa,
“ond’ella, appresso d’un pio sospiro,
li occhi drizzò ver me con quel sembiante
che madre fa sovra figliol deliro” (Paradiso I, 100-102).
Tuttavia la caratteristica fondamentale di Beatrice resta sempre quella di donna innamorata, di donna bella, affettuosa, la cui visione attrae, come in un’estasi, il poeta ansioso (dopo tante esperienze tempestose) di godere le ineffabili gioie dell’amore mistico, gustate nella giovinezza.
Il poeta avverte la presenza di lei nel paradiso terrestre, e sente lo sgomento che lo invade da quando giovanetto, si trovava a lei vicino; da lei si fa rimproverare come bambino cattivo rimproverato severamente dalla madre; come un amante traditore è rimproverato dalla sua donna onesta e fedele; ed egli si compiace di piangere sotto la sferza dell’aspra parola della donna giustamente risentita.
Dante, dotto in filosofia, teologia, scienza, arte, politica si compiace di ascoltare, estasiato, le spiegazioni che la sapientissima donna illustra con “sorrise parole”: la scienza e l’amore realizzano il loro luminoso connubio nella Beatrice della Commedia. E siccome è fiamma che sorge dall’idea, l’espressione più piena e più intima dei rapporti rinnovati fra Dante e Beatrice è costituita dai frequenti deliziosissimi incontri degli occhi innamorati:
“poscia rivolsi gli occhi a gli occhi belli” (Paradiso XXII, 154);
\ “ per che tornar con li occhi a Beatrice
nulla vedere ed amor mi costrinse.
Se quanto in fino a qui di lei si dice
fosse conchiuso tutto in una loda
poco sarebbe a fornir questa voce
la bellezza ch’io vidi si trasmoda
non pur di là da noi, ma certo io credo
che solo il suo fattor tutta la goda “ (Paradiso XXX, 14-21)
\ “poscia rivolsi a la mia donna il viso,
e quindi e quindi stupefatto fui;
ché dentro a li occhi suoi ardea un riso
tal, ch’io pensai co’ miei toccar lo fondo
della mia grazia e del mio paradiso” (Paradiso XV, 32-36)
Anche lo stile e il linguaggio con cui nella Commedia viene espressa l’ispirazione amorosa sono molto più ricchi e molto più agili che nella “Vita nova.”
7 ) Dante nella Commedia è il personaggio principale: è lui che compie il viaggio immaginario nell’oltretomba di cui il poema non è che la relazione.
Nel suo viaggio il poeta conserva tutte le caratteristiche dell’uomo preoccupato da svariati problemi, agitato dalle passioni più ardenti, ricco delle esperienze più vive, oppresso dal peso morale di un esilio non meritato e dalla vergogna di dover mangiare il pane altrui e di dover scendere e salire per le altrui scale.
È naturale quindi che la sua Commedia debba essere considerata anche come poema lirico, se per lirismo intendiamo l’espressione immediata dei sentimenti dell’autore: tanto è vero che alcuni hanno detto che la Commedia potrebbe essere chiamata addirittura “Danteide”.
Il poeta ci rivela le sue simpatie e i suoi odi, la sua magnanimità, la sua elevata concezione della vita, le sue miserie morali, le sue fatiche durissime, le sue umiliazioni, le sue incertezze e le sue speranze. Ma due cose, soprattutto, egli vuol mettere in evidenza riguardo a se stesso:
a – che i suoi concittadini hanno condannato ingiustamente l’uomo più degno di Firenze, e che essendo essi deplorevoli sotto ogni aspetto, non potevano fare a meno di cacciare in esilio un discendente ormai unico, più che raro, della santa semente dei Romani. Perciò egli ha il diritto di dichiararsi “esule immerito”, “Fiorentino di nazione non di abitudini” e di affermare orgogliosamente che considera per sé un onore l’esilio datogli.
Egli approfitterà di tutte le occasioni che gli offriranno gli incontri con i più svariati personaggi per mettere in luce la sua rettitudine, il suo amor di patria, la sua innocenza, la sua dignitosa e decorosa fermezza contro i “colpi di ventura”. Più volte egli immagina di incontrarsi con i più illustri e stimati uomini di Firenze, ancor vivi nei ricordi dei loro concittadini, e ogni incontro è un confronto di sé con essi e da ogni incontro egli esce superiore, sia per la vivacità della sua personalità, sia per il suo senso di umanità, sia per la sua rettitudine, sia per il suo amor di patria.
Ma egli non è soltanto il cittadino di Firenze, è il cittadino della Chiesa e dell’Impero cioè della ‘Respublica Christiana’, perciò, specie nell’ultima cantica, l’Alighieri si presenta ai lettori e a tutto il popolo, e particolarmente alle supreme autorità della ‘Respublica Christiana’, come profeta inviato dalla Provvidenza divina a rigenerare, con il suo grido di rettitudine e di giustizia, l’umanità credente che sta declinando verso le forme di civiltà riprovevoli sia dal punto di vista naturale che soprannaturale.
Brunetto Latini, il suo vecchio maestro, lo rassicura che seguendo “sua stella non può fallire al glorioso porto”. Cacciaguida, per eliminare ogni sua incertezza, per incoraggiarlo ad affrontare le durezze dell’esilio e le reazioni delle coscienze fosche, gli preannuncia l’immortalità e gli fa vedere l’importanza morale e politica della sua opera; gli fa considerare quanto sia onorevole colpire con vento impetuoso le cime più alte.
Nel canto XXVII del Paradiso Dante si fa affidare da San Pietro l’incarico di smascherare le colpe degli ecclesiastici e di invitare le alte gerarchie della Chiesa ad attendere con piena dedizione alla guida del popolo cristiano:
“ e tu, figliuol, che per lo mortal pondo
ancor giù tornerai, apri la bocca,
e non asconder quello ch’io non ascondo.” (64-66)
b – L’Alighieri, inoltre, spirito sincero e forte, più volte nella Commedia si confessa pubblicamente, si critica e si umilia, con la stessa magnanimità con cui riconosce le straordinarie doti di natura e i doni della Grazia a lui concessi:
“ Non pur per ovra delle rote magne,
che drizzan ciascun seme ad alcun fine
secondo che le stelle son compagne
ma per larghezza di grazie divine ( . . .)
questi fu tal nella sua vita nova
virtualmente, ch’ogni alito destro
fatto avrebbe in lui mirabil prova. (Purgat. XXX, 109-112;115-117)
\ “ o gloriose stelle, o lume pregno
di gran virtù, dal quale io riconosco
tutto, qual si sia, il mio ingegno” (Paradiso XXII, 112-114)
\ “……………………se per questo ceco
carcere vai per altezza d’ingegno” (Inferno X, 58-59)
\ “o Muse, o alto ingegno, ora m’aiutate” (Inferno II, 117)
\ “all’alta fantasia qui mancò possa” (Paradiso XXXIII, 142)
Nel canto IV dell’Inferno immagina di essere accolto amorevolmente dai grandi poeti dell’antichità a far parte del gruppo loro, sicché si dice “sesto tra cotanto senno” (v. 102). Con la stessa franchezza con cui egli dichiara le sue doti, confessa anche le sue colpe:
“……………………………le presenti cose
col falso lor piacer volser miei passi,
tosto che il vostro viso si nascose” (Purgatorio XXXI, 34-36)
Egli riconosce di essere superbo e già prevede che nel Purgatorio dovrà fare lunga sosta nel girone dei superbi:
“………..tuo ver dir m’incora
bona umiltà, e gran tumor m’appiani” (Purgatorio XI, 118-119)
\ “ Troppa è più la paura ond’è sospesa
l’anima mia del tormento di sotto,
che già lo ‘ngarco di la giù mi pesa” (Purgatorio XIII, 136-138)
In tutto il Purgatorio il poeta assume gli atteggiamenti interiori ed esteriori del penitente contrito ed umiliato: egli riconosce di essere uno schiavo che va cercando libertà.
Se, infine, il poeta riconosce di avere le tre virtù teologali: fede, speranza e carità (Paradiso XXIV- XXV- XXVI) dichiara anche che tale possesso è da attribuirsi alla grazia di Dio.
L’Alighieri, specie quando ideò la Commedia e ne condusse la composizione con una dedizione veramente eroica, ebbe la sensazione di essere un prediletto di Dio, un figlio di grazia, prescelto ad un’opera gloriosa a vantaggio dell’umanità cristiana:
“Poi che per grazia vuol che tu t’affronti
lo nostro imperatore, anzi la morte,
nell’aula più segreta co’ suoi conti,
sì che , veduto il ver di questa corte,
la speme, che di là giù bene innamora
in te e in altrui di ciò conforti.” (Paradiso XXV, 40-45)
Così il carattere dell’Alighieri si rivela ammirevole e simpatico, perché cosciente dei suoi difetti e dei suoi pregi, della sublimità della sua missione e delle gravi responsabilità che la Provvidenza gli affida, umile e generoso, egli offre il contributo della sua opera al benessere della “ Respublica Christiana.”
8 ) La Commedia, infine, contiene le trattazioni di numerosi problemi teologici, filosofici, scientifici, politici che in un primo tempo il poeta si era proposto di illustrare nel “Convivio”. Il fatto che Dante interruppe il Convivio significa che egli si propose di svolgere quegli stessi argomenti in un’opera che gli avesse permesso di inquadrarli in una visione piena dell’universo e in cui egli potesse presentare Beatrice come maestra di alta sapienza. Specie nell’ultima cantica, il poeta si impegna in una poesia altamente dottrinale, cosicché all’inizio si sente in dovere di avvertire i lettori di saggiar bene le loro forze prima di avventurarsi dietro la navicella del suo ingegno:
“O voi che siete in piccioletta barca,
desiderosi di ascoltar, seguiti
dietro al mio legno che cantando varca,
tornate a riveder li vostri liti:
non vi mettete in pelago, ché, forse,
perdendo me rimarreste smarriti.
L’acqua ch’io prendo già mai non si corse:
Minerva spira, e conducemi Apollo
e nove Muse mi dimostran l’Orse.
Voi altri pochi che drizzaste il collo
per tempo al pane delli angeli, del quale
vivesi qui, ma non sen vien satollo,
metter potete ben per l’alto sale
vostro navigio, servando mio solco,
dinanzi all’acqua che ritorna equale” (Paradiso II, 1-15).
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L’unità della “ Divina Commedia “
Con il pretesto di descrivere il suo viaggio ultramondano – dice qualche critico – l’Alighieri ci ha parlato di quel che ha voluto. Sebbene egli si sia sforzato di dare un certo ordine esteriore ai vari argomenti, tuttavia manca nella Commedia una vera e propria unità; cioè manca un fulcro di ispirazione a cui si riallaccino i vari motivi trattati, una sorgente da cui emanino, sebbene in modi diversi, i singoli episodi e le svariate rievocazioni in cui si articola la materia dell’immaginario viaggio.
A questa osservazione di critica si può rispondere:
1) Il poeta ha voluto rappresentare i tre regni dell’oltretomba, cioè ha voluto darci di essi un’idea esatta il più possibile: ebbene, al termine della lettura delle singole cantiche, noi abbiamo un concetto assai vivo e completo di ognuno dei tre regni ultramondani. Questa unità ci indica che il poeta ha svolto bene le tre parti del suo poema. Ad esempio, se l’Alighieri ci dà un’idea dell’Inferno sufficiente o addirittura esatta, a noi interessa poco di quali mezzi egli si sia servito (viaggio o altro) basta che il fine sia stato raggiunto. Come dire che se un critico, per trattare gli stessi termini, sa proporre un mezzo più efficace, ossia più idoneo a realizzare l’unità della composizione, si provi a far meglio di Dante.
2) Il tema vero della Commedia non è né il viaggio di Dante, né la descrizione dei tre regni ultramondani, ma è la vita umana osservata e giudicata da un punto di vista extra temporale, eterno e assoluto, cioè la storia umana interpretata con la mentalità mistica del medioevo. I personaggi dell’oltretomba danno al poeta l’occasione di rievocare e di giudicare la vita terrena, e la concretezza della storia dà più verosimiglianza alla materia oltremondana: il vero soggetto del poema è, quindi, l’umanità, e il tema del viaggio con i suoi spunti descrittivi non sono che mezzi per illustrare poeticamente quel tema.
3) Qualcuno afferma che l’unità della Commedia è garantita dal personaggio principale del poema che è l’Alighieri stesso, il quale è sempre presente in tutti i momenti dello sviluppo con la sua costante fisionomia spirituale. Ma questo argomento non sembra assai probativo, perché è la stessa osservazione dei critici, ripetuta senza confutarli. Infatti, se i critici dicono che il motivo di un viaggio non dà unità ad episodi, a rievocazioni, a considerazioni slegate e senza rapporto di struttura fra loro, non è legittimo rispondere che l’unità sia garantita dal fatto che il relatore del viaggio è la stessa persona che ha udito e veduto quello che è narrato. Tanto meno è opportuno considerare come fattore di legame l’unità di tono, cioè l’immutabile mentalità e lo stile del poeta protagonista. L’unità di tono non è l’unità di contenuto. Si tratta di due cose che per quanto connesse fra loro, sono tuttavia distinte.
IL PURGATORIO DI DANTE
Il Purgatorio è il luogo dove gli spiriti espiano la pena temporale che non hanno voluto espiare in vita ed acquistano la mentalità delle virtù. È il luogo della penitenza, intesa non solo come espiazione, anche nel senso evangelico di cambiamento di mentalità. Le anime, prima di separarsi dal corpo, hanno riconosciuto di avere sbagliato e quindi si sono salvate; ma si sono trovate, nell’altra vita, senza la mentalità della virtù, che non hanno esercitato bene. Ecco le note che caratterizzano la psicologia del Purgatorio:
1 – riconoscono di avere sbagliato
2 – accettano umilmente la pena inflitta
3 – meditano sulle irrazionalità dei vizi e sulla bellezza della virtù
4 – sono sostenute dalla speranza e dall’amore di Dio.
Il tono generale della psicologia del Purgatorio è la serenità nel soffrire: i discorsi sono seri e dolci nello stesso tempo. Anche l’ambiente materiale risponde alla tonalità psicologica: in una montagna aspra illuminata dal sole
Che cosa acquistano le anime del Purgatorio?
Qui gli spiriti conquistano la libertà. Il poeta lo afferma nel primo canto.
Libertà va cercando, ch’è sì cara
come sa chi per lei vita rifiuta (Purgatorio I, 71-72)
La libertà giunge come conseguenza della razionalizzazione totale dello spirito, a cui le anime giungono attraverso la meditazione sulla virtù e sul vizio. Bisogna ricordare che, in generale, la liberazione dell’anima (precisamente di quella di Dante) dal male, avviene attraverso due fasi:
1 – attraverso la paura delle pene eterne dell’interno;
2 – attraverso la persuasione razionale in Purgatorio.
Nel Purgatorio il poeta pertanto ci fa ascoltare dagli spiriti i discorsi e saggi sulla stoltezza del vizio a cui si abbandonarono in vita, e sul decoro e sulla beatitudine che sono connessi con la virtù. Sono questi, forse, i passi più commoventi della seconda cantica, che, dal punto di vista psicologico, è certo la meglio riuscita. Infatti, mentre nell’Inferno la psicologia del dannato spesso è evidente; nel Purgatorio, invece la psicologia del convertito è resa nel modo più perfetto.
Parti del Purgatorio:
Il Purgatorio è una montagna che si trova nel centro dell’emisfero australe tutto acqueo, agli antipodi di Gerusalemme che è al centro dell’emisfero boreale, opposto. La montagna si è formata nel seguente modo: in un primo tempo la parte abitata della terra era l’emisfero australe. Ma, quando Lucifero cadde dal cielo, dalla parte dell’emisfero australe, la terra per non aver contatto con lui, si ritirò nell’emisfero boreale (rimaneva coperto d’acqua l’emisfero australe). Lucifero penetrò fino al centro della terra e il suo corpo stava, per metà nell’emisfero australe e per l’altra metà in quello boreale. La terra scavata del foro, attraverso cui egli era passato, si è trasferita verso la superficie, per non aver contatto con lui, e si è ammassata in modo da formare questa montagna la quale si divide in tre parti principali: Anti -Purgatorio, Purgatorio, e Paradiso terrestre in cima.
1 – Anti-Purgatorio dove rimangono, in attesa, le anime per il tempo in cui hanno differito la loro conversione all’estremo momento della vita. I luoghi di percorso sono: la spiaggia; il primo balzo; il secondo balzo, e la valletta amena.
2 – Purgatorio propriamente detto, si divide in sette gironi, quanti sono i vizi capitali che sono connessi per amore errato, secondo Dante: o per amore di “malo” oggetto, o per amore sbagliato di “buon” oggetto.
I peccati per amore di “malo” oggetto sono:
== la superbia che fa amare all’uomo un grado di importanza che non è il suo;
== l’invidia che fa amare il male altrui;
== l’ira che fa amare la vendetta.
I peccati per amore di “buon” oggetto si distinguono in peccati per mancanza di amore; e peccati per eccesso di vigore nell’amore:
== l’accidia è la negligenza (difetto) nell’amore di Dio infinito.
I peccati per eccesso di vigore nell’amare un oggetto sono:
== l’avarizia come amore eccessivo di quel bene che il denaro.
== La gola, amore eccessivo dei cibi e delle bevande.
== La lussuria, amore eccessivo dei piaceri sensuali.
3 – Il Paradiso terrestre è costituito da una selva “spessa e viva” con due fiumi che sgorgano dalla fontana perenne. Il fiume Letè ha le acque dolci che cancellano il ricordo dei peccati; il fiume Eunoè ha le acque che ravvivano il ricordo del bene compiuto.
Dal Paradiso Terrestre il viaggio dantesco porta al Paradiso.
IL PARADISO DANTESCO
Nella Divina Commedia, Il Paradiso tratta di molti aspetti di filosofia, di teologia e di scienza, soprattutto in senso scolastico-tomista. La scienza procedeva con la filosofia e con la teologia, mentre noi siamo abituati al procedimento scientifico induttivo-matematico. Si presenta il problema sollevato da Francesco De Sanctis, che per primo ha svalutato la poesia del Paradiso, pensando che tra la poesia e la dottrina ci sia una opposizione inconciliabile. Per il De Sanctis e per i romantici la forma letteraria di trasmettere il pensiero ed il sentimento deve essere fantastica. Nel Paradiso Dantesco predomina la forma sapienziale, e il critico non vi nota le forme fantastiche robuste, come quelle di Farinata di degli Uberti e di Capaneo o del conte Ugolino: ragion per cui il De Santis dice che manca la poesia. Le immagini umane dei personaggi sono soffuse in una luce che è tipica dei beati, e varia solo di intensità, ma praticamente li rende tutti uguali. I colloqui del poeta con gli spiriti avvengono con un tono sapienziale; mentre le interpretazioni psicologiche, e le magistrali figurazioni, tanto frequenti nell’Inferno e nel Purgatorio, si diradano molto nel Paradiso.
Il giudizio del De Sanctis è stato ripreso da Benedetto Croce, il quale afferma che la poesia del Paradiso si può ridurre complessivamente ad uno o due canti. Il presupposto filosofico del Croce è che le attività dello Spirito sono distinte in teoretiche (sono l’arte e la filosofia), e pratiche (sono l’economia e la morale). Fra queste quattro attività secondo lui non c’è nessun rapporto; quando si fa l’arte, non si fa né filosofia, né economia, né morale e viceversa. L’arte deve essere intuizione pura, liricamente espressa. L’arte è fine a se stessa, quindi ogni finalità didattica o formativa, di per se stessa è non poetica (impoetica).
Inoltre ogni poesia in cui sono inseriti motivi non poetici, (chiamati allotrici), perde il valore poetico, in proporzione di questi elementi allotrici. Tali concetti sono stati applicati al Paradiso di Dante in uno studio crociano intitolato “La poesia di Dante”, nel quale, non solo viene negata la poeticità del Paradiso, ma vengono svalutate anche le altre due cantiche proprio per la loro finalità didascalica, espressa dall’autore: secondo Croce ‘per allotria’.
Il De Sanctis e l’estetica del romanticismo esaltavano le grandi passioni, le sublimazione potenti. Peraltro proprio i romantici affermavano, contro i classicisti, che nessun motivo o tema, nessuna realtà può essere considerata non poetica; mentre in pratica essi consideravano poetici i motivi forti. Ogni soggetto, in sé e per sé, non è né poetico né impoetico, per cui ogni soggetto può essere “poetabile”. La poesia è costituita esclusivamente dal modo con cui questo viene svolto. Per la teoria del Croce, ci si domanda: “Che cosa esprime un poeta se non la sua spiritualità? E una spiritualità da che cosa è costituita, se non da pensieri (che possono essere filosofici, economici, morali e altro) e da sentimenti? “. Il Croce confonde il modo di esprimersi nella poesia, con il contenuto di questa. Non si può essere d’accordo sul concetto che è un qualsiasi tema, filosofico, economico, morale, non possa essere trattato con stile poetico.
Importanza della Terza Cantica, secondo Dante
Delle tre cantiche della Commedia, il poeta reputava superiore la terza. All’inizio di questa, invoca non solo le Muse, anche Apollo, cioè l’ispirazione. La materia secondo il poeta, costituisce un fattore di alta poesia, quando essa è elevata. Nel secondo canto egli invita i lettori che per tempo si sono privati “del pane degli angeli” (sapienza) ad interrompere la lettura del suo poema, perché non sarebbero capaci di seguirla
“Minerva spira, e conducemi o Apollo,
e nove Muse mi dimostran l’Orse. (Paradiso II, 8-9)
“…………………………………poema sacro
al quale ha posto mano e cielo e terra (Paradiso XXV, 2-3)
Dante ha avuto un concetto alto della sua terza cantica perché nel medioevo la poesia più elevata era quella sapienziale. Virgilio è il suo maestro di dottrina, prima che il maestro di poesia e Dante lo prende per guida nel viaggio.
Dottrina e poesia nel Paradiso
Dante ha tradotto il pensiero teologico filosofico scientifico in termini poetici. La sua poesia è discorso caldo, su ogni argomento; è lirica. Dante ama la sapienza, sente una vera passione per la verità. Non solo il pensiero, anche la fantasia e il cuore da questa traggono alimento. Nella “Lettera all’amico fiorentino” afferma che, se il ritorno in patria non gli sarà concesso, egli continuerà a vivere in esilio ugualmente contento, perché nessuno gli impedirà di contemplare le dolci verità.
I dotti si distinguono in due categorie: quelli che percepiscono la verità, ma la circoscrivono nel solo intelletto; e quelli che hanno il pregio di alimentare con il ‘vero’ della sapienza anche la loro fantasia e il sentimento, e sono capaci di tradurre in termini affettivi le loro idee. Il discorso dei primi è arido e razionale; quello dei secondi è ricco di immagini, caldo ed appassionante.
Dante ha superato le aridità della materia dottrinale, anzitutto a motivo del suo amore per la sapienza. Un secondo motivo è nel fatto che la tesi dottrinale nel Paradiso è congiunta alla vita futura dell’umanità: l’impostazione delle tesi, lo scopo a cui la dimostrazione tende, sono in genere coordinati ad una finalità concreta, di carattere morale, o politico, o religioso. Dante, nel comporre il Paradiso e in generale nella Commedia, ebbe la persuasione di svolgere una missione profetica, con il compito di richiamare l’umanità cristiana sulla retta via. Profeta nel senso che parla in nome di Dio. Nel secondo canto dell’Inferno, si considera, dopo Enea e Paolo, il terzo, a cui Dio ha affidato una missione provvidenziale. Nel canto XVII Cacciaguida lo esorta a riferire tutto ciò che nel viaggio attraverso l’inferno, il purgatorio e il paradiso, egli ha veduto; e S. Pietro, dopo l’invettiva contro i papi simoniaci, afferma:
“E tu figliuol, che per il mortal pondo,
ancor giù tornerai, apri la bocca,
e non asconder quello che io non ascondo. (Paradiso XXVII, 64-66)
In forza di questa persuasione Dante si preoccupa di collegare costantemente la dottrina con la vita storica dell’umanità cristiana. Così la dottrina assume la funzione di criterio per giudicare le responsabilità ed i meriti delle persone umane; ed offre, nel medesimo tempo, l’occasione al poeta per quelle veementi invettive, così numerose nel Paradiso, che costituiscono temi di potente lirica.
Un altro motivo che permette a Dante di tradurre la dottrina in termini poetici, è il fatto che egli affida l’incarico di trattare i vari argomenti a una determinata anima beata, che in terra ha avuto un particolare affetto per il tema che svolge. Spesso la maestra di sapienze è Beatrice; pertanto le verità vengono esposte con l’affetto e con la grazia di una donna intelligente e sicuramente innamorata. La dottrina diviene così affettuosa, gradita anche a coloro che hanno poca familiarità con essa. Nel Paradiso tutto è verità e amore, dei quali Dio è signore. Da qui l’entusiasmo e la cordialità con cui la dottrina paradisiaca viene esposta.
È da tener presente inoltre che Dante parla per immagini, è capace di tradurre quasi sempre il pensiero sapienziale o dottrinale in immagini. Talora egli si diletta dello stile scolastico, forse per esercitare i suoi lettori nel ragionamento astruso, non solo in modi facili e piacevoli, anche nei modi disadorni e severi propri della scienza pura. Dopo il discorso fatto dal poeta, nella mente del lettore si delinea un’immagine. E nel Paradiso Dante ha la straordinaria capacità di creare visioni vaste e sublimi, facendo seguito ad un discorso sapienziale. Nell’Inferno e nel Purgatorio egli usa il racconto, e la fantasia del lettore intuisce le immagini che il poeta evoca; nel Paradiso offre sapienza oltre che raccontare, e nella mente dell’uditore rimane una visione grandiosa generata dal pensiero dottrinale.
Ad esempio, nel primo canto, il poeta prende lo spunto dal suo trascendere i corpi ‘lievi’ per illustrare l’ordine dell’universo. La spiegazione è affidata a Beatrice, che, nel suo discorso, accenna ad alcune immagini capaci di offrire al lettore lo spunto per costruire il quadro finale. In questo si vedono: l’immenso mare dell’essere, e i porti più o meno luminosi a cui le cose approdano. In fondo si vede il porto più luminoso di tutti, l’Empireo glorioso, a cui si dirigono tutte le persone, mosse da una forza intima. In questa visione sublime si inserisce un particolare tragico: alcune persone, benché mosse dalla forza intima, deviano dal cammino che le condurrebbe al porto luminoso e si disperdono nelle passioni terrene. Il poeta nel dire questo, apre lo spunto per costruire la visione: Le immagini sono degne dell’alta materia che il poeta illustra.
Poesia sublime. La poesia del Paradiso viene definita, oltre che dottrinale e sapienziale, anche poesia sublime. Il sublime consiste nella grandiosità delle visioni, nell’armonia e nella elevatezza di essa. Dicono i romantici che è sublime ciò che fa venire le vertigini per la sua grandiosità ed innamora per la sua perfezione. La nota del sublime è costante nella terza cantica dantesca. L’impostazione generale del Paradiso è luce e amore; i discorsi che si fanno sono sostanzialmente di alta verità e di sincera carità; aleggia dappertutto lo spirito della signoria di Dio, fonte di verità e di amore. I personaggi che parlano sono avvolti nella luminosità e di essi il poeta riferisce soltanto l’intensità dell’affetto e dell’entusiasmo per il loro ideale, annotando l’intensificarsi della luce. Il passato, il presente e il futuro, la storia umana e i progetti della Provvidenza divina sono armoniosamente collegati fra loro ed illuminati dalla luce della verità più sublime che esprime la sapienza di Dio sulla terra.
A questo materiale sublime, si congiunge la sublimità del tono con cui l’autore svolge costantemente il discorso poetico; tono elevato, rigoroso, che si concretizza in un frasario complesso e talvolta arduo ed in immagini tratte dal repertorio dottrinale. Anche il ritmo dei versi nelle terzine del Paradiso assume uno sviluppo ampio e grandioso; pare di sentire il ritmo di un grande maestro che, cosciente della materia che svolge, parla con ampiezza di respiro, secondo il ritmo di frasi logiche, complesse e profonde. Lo spirito lirico coinvolge le strutture del ritmo sapienziale, affettuoso e travolgente, con il sostegno di un’intensa passione e spesso di un tono profetico carico di sdegno e di ardore. Il ritmo generale della terza cantica è solenne e intenso. Ma, nei particolari, le variazioni sono numerosissime, e sono adeguate all’argomento o tema svolto.
Per comprendere bene la poesia del Paradiso sono necessarie tre cose: anzitutto capire bene il senso letterale che spesso è complesso e arduo nel linguaggio sapienziale; poi cogliere gli spunti offerti con cui costruire l’immagine generale del canto dantesco; infine eseguire la lettura del canto, seguendo il ritmo non solo della parola, anche e soprattutto dello spirito del poeta.
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Dante poeta nazionale.
Per poeta nazionale intendiamo lo scrittore il quale sia esponente della mentalità, degli interessi, della civiltà del popolo a cui appartiene. In questo senso Dante è poeta nazionale per vari motivi:
a) Dante, come ha interpretato i bisogni di tutta la “Respublica Christiana”, ha particolarmente sentito la preoccupazione dei bisogni dell’Italia da lui definita “giardino dell’impero”.
Egli vede la causa delle sciagure dell’Italia nelle discordie, vedi la causa delle discordie nei vizi umani e particolarmente in “superbia, avarizia, invidia” e vede la causa del diffondersi di questi vizi nel fatto che l’imperatore trascura il suo compito di reggere i popoli cristiani e specialmente il popolo prescelto da Dio a collaborare con l’autorità suprema, cioè il popolo cristiano; inoltre la causa nel fatto che il potere spirituale è profanato dal pontefice con impegni temporali e cupidigie terrene:
“pensa ‘n terra non è chi governi
onde si svia l’umana famiglia”. (Paradiso 27, 140-141)
L’invettiva del canto sesto del Purgatorio contro l’insensatezza degli italiani, contro l’invadenza mondana del pontefice e contro la neghittosità dell’imperatore, è indice della passione patriottica dell’Alighieri. Egli ha dinanzi a sé il quadro di tutta l’umanità cristiana, tuttavia Firenze e l’Italia lo angustiano fino ad essere per lui una specie di incubo:
“ E se già fosse, non sarìa per tempo:
così foss’ei, da che pur esser dee!
ché più mi graverà com più m’attempo.” Inferno XXVI, 10-12
b) Gli episodi, le rievocazioni, gli esempi della Commedia sono in gran parte tratti dalla storia italiana, cosicché il poema potrebbe definirsi un commento poetico alla storia della nostra vita nazionale nel medioevo.
c) Dante, come poeta, è stato il primo grande maestro di rettitudine, di giustizia e di magnanimità al popolo nostro sia con la parola, sia con l’esempio. In una lettera in cui egli esorta gli Italiani ad accogliere, come esige la disciplina civica della “Respublica Christiana”, l’imperatore Arrigo, dopo aver ricordato loro che essi sono i cittadini imperiali per eccellenza, dice che debbono adottare nella loro vita uno stile imperiale, cioè di disciplina, di nobile passione per il bene privato e pubblico. I rimproveri sdegnosi e talvolta crudi che egli rivolge ai suoi connazionali non sono dettati dal disprezzo, ma dall’amarezza del suo cuore onesto, disgustato dalle lotte inutili e sanguinose in cui gli italiani si disonorano e si rovinano.
d) Dante è stato il primo e il più geniale elaboratore della nostra lingua, nel senso che ha raffinato e arricchito il dialetto fiorentino, valendosi della sua ottima conoscenza del latino, del provenzale, del francese e della lingua aulica dei Siciliani e dei tentativi linguistici dei Guittoniani, in modo tale che ha fornito agli scrittori successivi un patrimonio linguistico per esprimere gli atteggiamenti più svariati dello spirito.
Non si nega che gli scrittori posteriori a Dante, specie il Petrarca e il Boccaccio, abbiano contribuito efficacemente ad arricchire e a perfezionare la nostra lingua, ma il più grandioso esperimento linguistico è stato, senza dubbio, quello dell’Alighieri. Più tardi gli umanisti fanatici cultori della lingua latina aulica, spregiano la lingua di Dante; ma il fatto che i lettori, anche di modeste conoscenze linguistiche, sono riusciti nel passato e riescono oggi ad intendere il senso letterale (almeno delle due prime cantiche) sta a testimoniare che la lingua dell’Alighieri è la lingua adatta per la gran parte degli italiani, e il fatto che i dotti trovino ancora nella lingua del Paradiso forme elevate e geniali, sta a testimoniare che la Divina Commedia può offrire il piacere di un linguaggio complesso e artistico anche alle persone più esigenti.
e) L’Alighieri è espressione tipica del genio della nostra stirpe caratterizzata dall’armonia tra profondità e facilità, tra complessità e chiarezza, tra intelletto e fantasia. Il genio latino, e quindi quello italiano, è famoso per l’equilibrio delle facoltà interiori, con evidente tendenza alla praticità, cioè a porre tutte le attività interiori al servizio della vita vissuta.
La perfetta intercomunicazione tra l’intelletto, il sentimento, la volontà e l’azione nell’Alighieri, è indice della sua armonia spirituale. Quanto alla tendenza pratica della sua mentalità e della sua arte, basta ricordare che egli scrisse non tanto per dilettare i lettori, né per dimostrare la sua bravura letteraria, ma per portare “vital nutrimento” alle animi. La Divina Commedia, sintesi perfetta di pensiero e di vita, di logica intellettuale e di vigoria fantastica, è l’espressione più significativa della concretezza ottimale del genio latino
L’Alighieri, inoltre, anche come cittadino si sente schiettamente italiano: ricco di passioni e nello stesso tempo ragionevole, acceso di risentimento contro i suoi concittadini e sdegnoso contro le loro offerte umilianti per un suo ritorno, eppure capace di dichiarare apertamente che sente la nostalgia del “bell’ovile ove dormì agnello” e che desidera la corona d’alloro nel suo “bel S. Giovanni”. Egli segue le sciagure di Firenze con trepidazione quasi di incubo. E il disordine e il malcostume della città natale lo preoccupano come se si trattasse del suo stesso onore. Questo stile civico di deplorare e di criticare aspramente i concittadini, non per malevolenza, né per vendetta, ma per amore della patria che vorrebbe perfetta e vede invece compromessa e rovinata dalla malvagità di pochi, sarà caratteristico della patriottismo italiano, da Dante al Petrarca, al Machiavelli, al Parini, al Foscolo, al Leopardi, al Carducci.
Dante può essere considerato come espressione genuina della nostra stirpe per l’universalismo della sua spiritualità. Gli italiani, per l’influsso della tradizione universalistica di Roma, e in modo particolare per la mentalità cattolica che permea la loro civiltà e la loro storia, sono tra i popoli d’Europa i più inclini a ideare e propugnare gli organismi sociali a carattere internazionale e a collaborare con tutti i popoli per il progresso della comune civiltà.
Dante fu il poeta di tutta l’umanità, in quanto fu il poeta della Chiesa e dell’Impero, cioè dei due istituti che egli considerava creati dalla Divina Provvidenza per affratellare, pacificare e potenziare i popoli cristiani.
È appunto questa visuale vasta che, oltre ai motivi eternamente attuali in essa contenuti, fa della sua Commedia un’opera che interessa non solo gli italiani, ma l’umanità in generale
DANTE SPIRITO EQUILIBRATO E SERENO.
La conciliazione fra Fede e ragione, tra Grazia e libertà, viene affermata dalla Divina Commedia. Dante definisce Virgilio il suo maestro e il suo autore ed afferma espressamente di conoscere tutta quanta l’Eneide; e nel canto IV dell’Inferno riserba un posto speciale nel Limbo (e precisamente in un castello luminoso) ai grandi ingegni del mondo non cristiano.
Catone Uticense, benché suicida, viene proposto alla vigilanza dell’Anti-Purgatorio. Stazio viene posto nel Purgatorio e afferma di lui che si convertì in forza della luce che gli aveva comunicato Virgilio profetando nella IV Egloga la venuta del Messia. Traiano, uno dei più severi persecutori del cristianesimo, viene salvato per merito della sua giustizia e si trova nel cielo di Giove tra i giusti.
Infine miti e leggende del mondo greco e romano vengono accolti e introdotti nella “Commedia” non solo per decorare con rievocazioni classiche le varie scene, ma anche talvolta per rinforzare la dimostrazione di verità cristiane. Ad esempio non è certo il caso di credere che Dante fosse convinto dell’esistenza di Enea e del suo viaggio nell’oltretomba, tuttavia nel secondo canto dell’Inferno egli considera questo viaggio come voluto dalla Provvidenza per preparare l’avvento della Chiesa.
I nomi degli dei pagani come quelli delle muse, di Apollo, di Giove, sono usati nel senso di poesia, ispirazioni poetiche e Dio, gli dei inferi pagani e certi mostri della mitologia classica diventano demoni dell’Inferno dantesco. L’Impero romano, che per ben quattro secoli aveva perseguitato il cristianesimo, viene considerato come Istituzione voluta da Dio per raccogliere, quando ne fosse venuto il tempo, in un organo politico unitario, gli eletti, cioè i cristiani.
S. Tommaso riconosce alla ragione la capacità di raggiungere il vero nel campo naturale e di illustrare quei concetti che aiutano il credente a capire il significato delle verità soprannaturali, cioè riconosce alla ragione la funzione di ancella della Fede. Dante si fa accompagnare da Virgilio (simbolo, della ragione) fino a Beatrice (simbolo della Fede) e da questa fino a Dio. Nessun contrasto dunque tra ragione e fede; nessuna umiliazione inflitta dall’una all’altra, ma collaborazione fra le due guide dell’uomo per condurre questi alla verità assoluta.
Similmente il contrasto fra la libertà dell’uomo e la Grazia di Dio viene risolto con il concetto del libero assoggettamento dell’uomo all’influsso reale e positivo dell’aiuto divino: l’uomo opera liberamente e per questo acquista meriti; ma a condurlo all’azione e a sostenerlo durante il compimento di essa è la Grazia di Dio. Dante, salito al cielo delle stelle fisse, ritorna con gli occhi per tutte le sette sfere sottostanti,
“e vidi-egli dice-questo globo
tal, ch’io sorrisi del suo vil sembiante;
e quel consiglio per migliore approbo
che l’ha per meno; e chi ad altro pensa
chiamarsi puote veramente probo” (Paradiso XXII, l34-l38)
e l’Alighieri per riportare la felicità ”nell’ “aiuola che ci fa tanto feroci” (Paradiso XXII, 151) combatte una battaglia a fondo contro il male e contro i responsabili del male attraverso la sua Commedia.
Egli ha coscienza di essere un profeta mandato da Dio a rigenerare moralmente la umanità e a trattenere dal suo precipitare verso l’abisso la Respublica Christiana.
E’ per questo che egli si permette, col rischio di farsi dei nemici, di dir cose che ” a molti fia sapor da forte agrume” (Paradiso XVII, 117); è per questo che egli sdegna di essere ” ” (ibidem v. 118); è per questo che Cacciaguida lo esorta al combattimento con le seguenti parole:
“………………………..coscienza fusca
o della propria o della altrui vergogna
pur sentirà la tua parola brusca.
Ma nondimen, rimossa ogni menzogna,
tutta tua vision fa manifesta;
e lascia pur grattar dov’è la rogna.
Che se la voce tua sarà molesta
nel primo gusto, vital nutrimento
lascerà poi, quando sarà digesta.
Questo tuo grido farà come vento,
che le più alte cime più percuote” (Paradiso XVII, 124-134).
Lo stesso S. Pietro, concludendo l’invettiva contro certi papi responsabili delle sciagure della Respublica Christiana si rivolge a Dante:
“E tu, figliol che per io mortal pondo
ancor giù tornerai, apri la bocca,
e non asconder quel che io non ascondo” (Paradiso XXVII, 64-66).
Alla Respublica Christiana son venute meno le due forze direttrici create da Dio per condurla lungo le vie della felicità temporale ed eterna, cioè l’efficace direzione del papato e dell’impero: perciò Dante, “buon cristiano” (Par. c. XXIV° v. 52), che sente la sua responsabilità sociale, si assume, benché semplice laico, il compito di predicare all’umanità cristiana.
Egli non è né Enea né Paulo (Inf. c. II), ma, terzo dopo Enea e Paulo, egli immagina di essere andato nell’oltretomba per riportare luce, minacce e conforti al mondo a lui contemporaneo.
Anche l’esperienza amorosa, vissuta nelle forme soavi e contemplative del misticismo stil novistico, è per Dante fonte di azione. Egli infatti, per rendersi degno di Beatrice, cioè della considerazione e dell’affetto di una donna sublime, attraverso l’esercizio dell’arte e delle attività speculative e pratiche più gloriose, si sforza di elevarsi fino a lei
” ché non soccorri quei che t’amò tanto,
ch’uscì per te della volgare schiera?” (Inferno II, 104-105)
L’amore dunque è fonte di attività nobile e di perfezionamento instancabile.
Alla passione amorosa, che con il caldo della voluttà inebetisce l’uomo e rende incapace di azione, l’Alighieri oppone la passione per tutto ciò che è sublime ed eleva lo spirito.
Nel Purgatorio, il poeta immagina di sognare e di vedere una femmina balba (simbolo della voluttà), guardando la quale egli resta incantato e stordito: improvvisamente appare Beatrice la quale si scaglia contro l’ammaliatrice e
“…………………………………….dinanzi l’apria
fendendo i drappi e mostravano il ventre:
quel mi «vegliò col puzzo che n’uscia” (Purgatpro XIX, 31-33).
Disingannato così da Beatrice, egli immagina tuttavia di rimanere stordito dalla visione, e si fa dir così da Virgilio:
“vedesti quell’antica strega
vedesti come l’uom da lei si slega.
Bàstiti, batti a terra le calcagne:
li occhi rivolgi al logoro che gira
lo rege etterno con le rote magne” (ivi. 58, 60-63).
Le forme chiuse e affocate della passione, che inebetisce, non sono mai saltate nel medioevo: lo spirito normalmente cerca di evadere dal piccolo e dal chiuso verso mondi vasti e sereni.
Dante illustra l’armonia tra la speculazione teorica e le attività pratiche. L’uomo che è stato dotato di capacità intellettuali notevoli, sente come dovere sacro, il bisogno di sfruttarle a beneficio della umanità; e l’attività quindi, per giungere alla scoperta del vero è considerata come un obbligo per chi è capace di esercitarla.
Nel canto XXVI dell’Inferno, Dante pone in bocca ad Ulisse la seguente dichiarazione:
“Considerate la vostra semenza
fatti non foste a viver come bruti
ma per seguir virtute e conoscenza” (vv. 118-120).
L’indifferentismo, cioè la comoda neutralità, di fronte ai grandi problemi teorici e pratici, viene condannato dall’Alighieri nel III canto dell’Inferno, ove la vita è definita azione e lotta ideale, mentre l’inattività e il pacifismo egoistico vengono identificati con la morte.
Similmente viene bandito lo scetticismo, cioè l’atteggiamento di coloro che si accingono alla scoperta della verità o procedono nella scoperta di essa con la persuasione che non si potrà mai raggiungere la certezza in alcun campo e che quindi le più svariate e anche opposte asserzioni intorno al medesimo problema hanno tutte lo stesso valore. Per S. Tommaso e per Dante la verità è unica e di due affermazioni contraddittorie, se è vera l’una, è falsa l’altra.
Per gli stilnovisti e particolarmente per Dante la creatura che più delle altre riflette gli attributi di Dio e con voce più efficace invita chi la contempla a sollevarsi verso l’alto è la “donna- ANGELO”. Beatrice è
“loda di Dio vera” (Inferno II, 103)
\ “l’angiol venuto da cielo in terra a miracol mostrare”
(Vita nuova – sonetto “Tanto gentile e tante onesta pare”).
Beatrice e colei “che all’alto volo vestì le piume” a Dante (Paradiso XV, 54): è colei che ha liberato il poeta da tutte le bassezze terrene, lo ha sollevato verso l’alto in modo che da lassù egli domini col suo spirito la realtà finita:
“quando da tutte queste cose sciolto
con Beatrice s’era suso in cielo
contento gloriosamente accolto” (Paradiso XI, 10-12)
lei ha tratto il poeta dalla schiavitù alla libertà, lo ha condotto dalla selva oscura al paradiso terrestre, cioè dal peccato alla purificazione servendosi dell’opera di Virgilio, cioè della ragione e dal paradiso terrestre lei lo conduce fino a Dio esercitandolo nel perfezionamento soprannaturale:
“tu m’hai di servo tratto a libertade
la tua magnificenza in te custodi” (Paradiso XXXI, 85-88)
perciò amare Beatrice non solo non è una colpa, ma è dovere e sommo interesse spirituale: è colpa quindi non amarla (Purgatorio XXX- XXXI).
In questa armonizzazione tra sacro e profano né il sacro perde della sua dignità, né il profano perde della sua concretezza e del suo fascino: si tratta di una esaltazione e di una elevazione entusiastica di tutto ciò che di bello e di buono ha la terra, non in quanto è frutto della terra, ma in quanto è riflesso della luce divina che
“per l’Universo penetra e risplende
in una parte più e meno altrove” (Paradiso I, 2-3).
Dio è il centro di tutto l’universo, ad ogni creatura è stato assegnato un porto da raggiungere, più o meno lontano dal centro e tra le creature all’uomo è stato assegnato come porto l’empireo cioè il luogo ove Dio si manifesta più apertamente in un oceano che
“solo amore e luce ha per confine (Paradiso XXVIII, 54).
Affinché le creature raggiungano il porto a cui sono state destinate, Dio ha infuso in esse un istinto che le porti alla meta: tale istinto nell’uomo è l’amore cioè la tensione verso il bene e precisamente l’aspirazione al bene assoluto:
” tutte nature, per diverse sorti,
più al principio lor e men vicine;
onde si muovono a diversi porti
per lo gran mar dell’essere, e ciascuna
con istinto a lei dato che la porti. (Paradiso I, 110-114).
Così secondo la concezione medievale, concezione cattolica, le creatore venute da Dio a lui ritornano messe ed attratte da lui stesso.
L’uomo del Medioevo, concependo l’indagine teorica come una missione a vantaggio dell’umanità intera, difficilmente perde tempo nella trattazione di questioni inutili. Qualche volta, è vero, gli stessi sommi pensatori del medioevo hanno dato importanza a certe questioncelle che oggi ci sembrano sciocche; ma nel complesso la speculazione medievale ha carattere serio ed è indirizzata ad illuminare la vita pratica.
Tutta la grandiosa e complessa speculazione della ‘”Summa” di S. Tommaso mira a chiarire i rapporti che legano l’uomo a Dio, e a suggerire alla creatura razionale la via sicura per raggiungere il suo Creatore.
L’Alighieri non solo si dedicò ad attività pratiche, accettando incarichi pubblici ed affrontando lotte dalle quali uscì sconfitto, ma ideò e compose, come s’è detto l’opera maggiore con propositi concreti e ben definiti.
E’ imposto ad ogni uomo il dovere di sfruttare le sua facoltà conoscitive, ma tale sfruttamento è retto e legittimo solo nel caso che sia indirizzato al fine naturale dell’indagine stessa, cioè al vero e al bene.
Gli abusi più comuni dell’intelligenza sono l’astuzia, la frode e l’artificio: tali abusi sono contrari al fine stesso delle facoltà conoscitive e sono proibiti da Dio:
“più lo’ngegno affreno ch’i’ non soglio,
perchè non corra che virtù non guidi
sicché, se stella bona o miglior cosa
m’ha dato il ben, ch’io stesso nol m’invidi” (Inferno XXVI, 21-24).
Altro limite alle indagini è il mistero, cioè una verità che l’intelletto umano può illustrare, ma giammai dimostrare.
S. Tommaso se illustra, in base ai principi della filosofia aristotelica i misteri della teologia cristiana, non pretende mai tuttavia di dimostrare razionalmente verità che superano le forze conoscitive umane.
Dante riconosce l’impossibilità in cui si trova l’uomo a spiegare certi fatti prodotti dalla onnipotenza divina:
“matto è chi spera che nostra ragione
possa trascorrer la infinita via
che tiene una sustanza in tre persone.
State contenti, umana gente al quia;
che se possuto aveste veder tutto,
mestier non era partorir Maria” (Purgatorio III, 34-39).
Nel canto XI del Paradiso il poeta dichiara che la Provvidenza governa il mondo con un piano
“nel quale ogni aspetto
creato è vinto pria che vada al fondo” (vv. 29-30).
Nel canto XIX parlando del mistero della giustizia divina dice:
“Colui che volse il sesto
allo stremo del mondo, e dentro ad esso
distinse tanto occulto e manifesto,
non poté suo valor sì fare impresso
in tutto l’universo, che ‘l suo Verbo
non rimanesse in infinito accesso.
E ciò fa certo che ‘l primo superbo,
che fu la somma d’ogni creatura,
per non aspettar lume, cadde acerbo” (vv. 40-48).
E più oltre conclude
“Or tu chi se’ che vuo’ sedere a scranna,
per giudicar di lungi mille miglia
con la veduta corta di una spanna?” (ivi 79-81).
Altro limite all’indagine è costituito da alcune affermazioni storiche considerate come certe, anche se non controllate attraverso una critica documentata.
E’ noto che la teologia, ossia scienza della rivelazione divina, attinge le verità che espone ed illustra, dai libri della Sacra Scrittura e dalla tradizione. Ambedue queste fonti di verità, nel corso del medioevo, vengono accettate senza discutere; e l’autorità della Chiesa, considerata come maestra della comunità dei cristiani, non viene mai contestata.
Si protesta talvolta, da parte dì qualche cristiano, contro colui che siede sulla cattedra pontificale; ma la protesta non va diretta a lui come maestro, ma come uomo.
Dante nel canto XII del Paradiso ai versi 87 e 90, distingue tra la sedia, che è sempre simbolo di verità e di giustizia, e “colui che siede che traligna”.
E quel papa Bonifacio VIII che è atteso nella bolgia dei simoniaci da Nicolò II e nel canto XXVII dell’Inferno è definito “principe dei farisei”, nemico dei cristiani, uomo arso “dalla superba febbre”, “il gran prete”, degno di maledizione, e nel canto XXVII del Paradiso è definito da S. Pietro “usurpatore dello loco suo”, è tuttavia considerato da Dante come vicario di Cristo; e in forza della sua “reverenza delle somme chiavi” (Inferno XIX, 101), protesta contro l’empio gesto di Filippo IV che in Anagni fece schiaffeggiare il detto pontefice:
“veggio in Alagna intrar lo fiordaliso
e nel vicario suo Cristo esser catto;
veggiolo un’altra volta esser deriso;
veggio rinnovellar l’aceto e il fele,
e tra vivi ladroni esser anciso” (Purgatorio XX, 86-90).
Non solo è accolta l’autorità della Chiesa e della tradizione cattolica in genere, ma anche la storia nel senso più vasto della parola, spesso mescolata anche a leggenda.
Se il medioevo abbondò nella serietà speculativa, difettò nella critica razionale e storica, e spesso certe affermazioni tradizionali, anche errate, furono accolte senza discussione e limitarono la libertà dell’indagine stessa e l’iniziativa di scoperte, specie nel campo scientifico e geografico.
Il senso etico di Dante concepisce i limiti nel campo dell’agire umano:
a)- Il limite della legge morale.
L’uomo è libero di fare quel che vuole, ma ha il dovere di fare solo quello che è lecito. Esiste una legge morale, scoperta dalla ragione o comunicata dalla rivelazione, la quale definisce i limiti entro cui può muoversi la volontà umana senza venir meno all’ordine stabilito da Dio.
Ed ancora:
“vegna per noi la pace del tuo regno,
ché noi ad essa non potem da noi
s’ella non vien, con tutto nostro ingegno” (ibidem vv. 7-9)
Per l’intelligenza delle verità soprannaturali è necessario il lume divino, senza del quale ogni luce è ingannevole:
“lume non è, se non vien da sereno
che non si turba mai; anzi è tenebra,
od ombra della carne, o suo veleno” (Paradiso XIX, 64-66 ).
Anche nel campo delle pure attività naturali è sentita dai medievali l’insufficienza della capacità umana. Dante, pur ponendosi sesto fra i grandi poeti del mondo Greco-latino-italiano (Inferno IV, 102), pur avendo coscienza che al suo poema sacro hanno posto mano e cielo e terra (Paradiso XXV, 1-2), riconosce tuttavia, specie nella composizione dell’ultima cantica, la sua incapacità ad esprimere certi concetti e certe visioni: siccome
“la forma non s’accorda
molte fiate all’ intenzion dell’arte
perch’ a risponder la materia è sorda” (Paradiso I, 127-129),
\ “convien saltar lo sacrato poema,
come chi trova suo cammin reciso” (Paradiso XXIII, 62-63).
Il poeta, cosciente che il suo omero è troppo debole per sostenere “il ponderoso tema”, non si vergogna di dichiarare al lettore che trema e vacilla sotto il carico eccessivo (Paradiso XXXIII, 64-66).
Nel primo canto del Paradiso, sul punto di affrontare una materia ardua e superiore alle sue capacità intellettive e fantastiche, Dante oltre che alle Muse, chiede aiuto anche ad Apollo: (cioè si appella a tutte le risorse dell’arte) ma nonostante ciò, egli è convinto che riuscirà appena a manifestare ” l’ombra del beato regno “ e si consola al pensiero che la sua opera potrà essere di esempio a chi vorrà far meglio:
“poca favilla gran fiamma seconda:
forse di retro a me con miglior voci
si pregherà perché Cirra risponda” (Paradiso I, 34-36).
I medievali, dunque, allorché si accingono ad un lavoro a cui li impegna il dovere di uomini e di cristiani, sentono il bisogno di invocare l’aiuto divino e schiettamente dichiarano che non pretendono di esaurire la perfezione, ma di fare quanto di meglio dettano loro la coscienza morale e le capacità tecniche.
Secondo la concezione cristiana, quindi secondo la concezione medievale, l’uomo non è solo un animale che ragiona, ma è anche figlio adottivo della divinità.
La perfezione, secondo la concezione aristotelica accettata da S. Tommaso, consiste nella realizzazione integrale della propria natura: essendo quindi il cristiano natura e soprannatura, la sua perfezione consisterà nel realizzare tutte le risorse della razionalità e della Grazia.
Ma, essendo la soprannatura superiore alla natura, anche se talvolta manca il perfezionamento integrale delle facoltà naturali, si può dichiarare un uomo perfetto, qualora in lui si attui lo sviluppo pieno della Grazia e delle virtù teologali (fede-speranza-carità). Quindi l’uomo ideale del medioevo è il santo.
Tuttavia, in forza della armonia già accennata tra natura e soprannatura, tra profano e sacro, tra umano e divino, anche la sola perfezione delle facoltà naturali costituisce un titolo al rispetto e alla venerazione dell’uomo medievale. Basta ricordare quello che già si è detto intorno alla stima e al rispetto dimostrato da Dante per Virgilio, per i grandi del Limbo, per Traiano e per Rifeo Troiano.
E’ chiaro, però, che il massimo della perfezione si realizza allorché si attuano, in ogni individuo, lo sviluppo pieno delle facoltà naturali e quello della soprannatura. E, siccome la perfezione naturale raggiunge il massimo nell’affermazione della razionalità, consegue che l’uomo sapiente e santo nello stesso tempo, incarna il tipo superlativo della perfezione nel mondo cristiano.
Dante aspirò alla gloria di poeta filosofo e sognò un riconoscimento generoso dei suoi meriti di uomo sapiente anche da parte dei Fiorentini che avevano infamato il suo nome. Ma il motivo di maggiore gloria per lui non è tanto quello che proviene dalla sapienza umana, quanto quello che proviene dal possesso della pratica delle virtù soprannaturali. Nei canti XXIV – XXV – XXVI del Paradiso si fa esaminare nella fede, nella speranza e nella carità dai tre apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni.
Alla domanda di san Pietro, che lo esamina nella fede, se egli possegga la moneta di questa virtù, risponde:
“sì, ho, sì lucida e sì tonda,
che nel suo conio nulla mi s’inforsa” (Paradiso XXIV, 86-87).
A san Giacomo, che gli domanda se possegga la speranza, risponde per lui Beatrice:
“la Chiesa militante alcun figliuolo
non ha con più speranza, com’è scritto
nel sol che raggia tutto nostro stuolo:
però li è conceduto che d’Egitto
venga in Ierusalemme, per vedere,
anzi che il militar li sia prescritto” (Paradiso XXV, 52-57).
A san Giovanni, che gli domanda se egli senta le attrattive dell’amore divino, risponde:
“…..tutti quei morsi
che posson far lo cor volgere a Dio,
alla mia caritade son concorsi;
ché l’esser del mondo è l’esser mio,
la morte ch’el sostenne perch’io viva,
e quel che spera ogni fedel com’ io,
con la predetta conoscenza viva,
tratto m’hanno del mar dell’amor torto,
e del diritto m’han posto alla riva.
Le fronde onde s’infronda tutto l’orto
de l’ortolano ettèrno, am’io cotanto
quanto da lui a lor di bene è porto”. (Paradiso XXVI, 55-66).
Le espressioni che abbiamo riferite non sono vanterie dell’Alighieri, ma aperte dichiarazioni di uno spirito cristiano che si gloria non del possesso di beni e di capacità terrene, ma di tesori soprannaturali. Per questo motivo, non ci fa mistero della sua devozione alla Vergine:
“il nome del bel fiore ch ‘io invoco
e mane e sera…” (Paradiso XXIII, 88-89),
e che, nel parlare del Cristo, adotti le espressioni più grandiose: lo chiama infatti:
“Colui che in terra addusse
la verità che tanto ci sublima” (Paradiso XXII, 41-42);
\ “…….la sapienza è la possanza
ch’aprì le strade tra ‘l cielo e la terrà” (Paradiso XXII,106-108).
L’uomo, secondo la concezione medievale, è tanto più perfetto quanto più elevato è il motivo delle sue operazioni, quanto più integrale è la conquista della sua libertà.
La perfezione naturale è garantita dal sopravvento della ragione su tutto il complesso irrazionale che costituisce parte della nostra natura: l’uomo, esercitato nella pratica del vero, è libero dagli influssi delle tendenze smoderate, e può muoversi con agilità e sicurezza in tutti i settori dell’agire umano.
La perfezione soprannaturale è garantita dal sopravvento dell’amore di Dio sulla stessa ragione: operar bene per obbedire alla voce della ragione è umano; operar bene per amore all’Essere infinito è sovrumano.
Dante, dopo aver compiuto la sua purificazione attraverso l’inferno e il purgatorio, ove, sotto l’influsso del timore delle pene eterne ha reintegrato il suo spirito, sgravandolo dal peccato e inquadrandolo nelle esigenze della perfetta razionalità, si fa rivolgere da Virgilio (cioè dalla ragione che lo ha accompagnato nel cammino della purificazione) le seguenti parole:
“il temporal foco e l’etterno
veduto hai, figlio; e se’ venuto in parte
dov’io per me più oltre non discerno.
Tratto t’ho qui con ingegno e con arte;
lo tuo piacere omai prendi per duce:
fuor se’ de l’erte vie, fuor se’ de l’arte. ( Purgatorio XXVII, 127-132)
Non aspettar mio dir ne mio cenno:
libero, dritto e sano è tuo arbitrio,
e fallo fora non fallo a suo senno:
per ch’io te sopra te corono e mitrio.” (Purgatorio XXVII, 139-142)
Eliminato l’irrazionale, cioè le cattive tendenze e il peccato, ristabilito il dominio della ragione nel suo mondo spirituale, il poeta è finalmente libero, ossia padrone di se stesso: egli è in grado di autogovernarsi, e di procedere con facilità lungo la via del bene.
Siamo ancora nel campo della perfezione razionale, il cui stile è dall’Alighieri stesso descritto sobriamente, oltreché nelle annotazioni relative al carattere e al modo di fare di Virgilio anche nelle forme solenni con cui presenta “gli spiriti magni” del Limbo:
“genti v’eran con occhi tardi e gravi,
di grande autorità ne’ lor sembianti;
parlavan rado, con voci soavi” (Inferno IV, 112-114).
Ci troviamo di fronte a tipi ideali di saggezza e di perfezione umana; ma la perfezione a cui aspira l’uomo del medioevo è ben più elevata: una volontà mossa e regolata dalla ragione per il cristiano non è una volontà veramente perfetta; ma una libertà dal male non è la realizzazione perfetta della libertà.
La volontà giunge alla sua perfezione suprema quando, oltreché per motivi razionali, opera per amore e precisamente per concordare con la volontà dell’essere supremo. In tale armonizzazione della volontà umana con quella divina, trova la sua soddisfazione piena non solo l’intelletto ma anche il cuore.
La libertà raggiunge la sua perfezione quando non solo è purificazione dal male, ma volontario e positivo inquadramento dello spirito nell’ordine morale che è espressione della volontà divina. La spontanea ed affettuosa adesione all’ordine universale, cioè alla volontà divina, si chiama amore. Ed è appunto l’amore di Dio che eleva al più alto grado di nobiltà lo spirito umano. Nel Purgatorio e nel Paradiso Dante realizza una progressiva adesione di tutto il suo spirito al vero, e al bene sommo fino all’adeguazione integrale della sua volontà alla volontà divina:
“all’alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disiro e ‘l velle,
sì come ruota ch’igualmente è mossa
l’amor che move il sole e l’altre stelle” (Paradiso XXXIII, 142-145).
Con l’aiuto di Virgilio, cioè della ragione, si giunge all’autonomia razionale; con l’aiuto di Beatrice, cioè della fede, si giunge all’adesione amorosa di tutto lo spirito all’Infinito.
In questa amorosa adesione al bene sommo, l’uomo si trasumana, il suo Spirito si effonde fuori di sé nell’oceano infinito del vero e del buono. Tutti i grandi problemi, tutte le più alte visioni diventano l’alimento del suo spirito, l’uomo assume forme ideali che realizzano un tipo di perfezione suprema.
Nel canto XXXII del Paradiso, Dante ci presenta, in visione generale ma sufficientemente concreta, lo stile dei cittadini della città celeste, cioè di coloro che hanno realizzato la perfezione soprannaturale, che hanno assimilato cioè le forme della vita di Dio che è amore:
“vedeva visi a carità suadi,
d’altrui lume fregiati e di suo riso,
e atti ornati di tutte onestadi” (Paradiso XXXI, 49-51).
La perfezione naturale e quella soprannaturale realizzano ogni ideale a cui aspira l’ansia umana e mistica del medioevo: il santo, la donna-angelo, il cittadino giusto e il cristiano ricco di fede, di speranza e di carità, sono le incarnazioni di quell’ideale sulla terra. Dante ci presenta un esemplare di questa perfezione naturale e soprannaturale nel suo antenato Cacciaguida; e vagheggia la Firenze antica come la città giusta, pacifica, sobria e pudica.
Ma alla fine del sec. XIII, al tempo dell’Alighieri, all’ideale della perfezione cristiana viene sostituendosi un ideale di perfezione terrena, ristretto alle capacità naturali dell’uomo e caratterizzato da una abilità eccellente in tutte le espressioni della vita temporale. Dante, che avvertì la deviazione del mondo cristiano, tentò di opporsi alla avanzata degli ideali terrestri e, come un profeta, richiamò la Respublica Christiana agli ideali umani e divini, la cui realizzazione riesce a soddisfare le aspirazioni del cuore e o garantire la felicità terrena e quella celeste.
Dante illustra una sana moralità senza fobie. Nel Purgatorio presenta le anime più che altro in questo atteggiamento di commossa adesione al vero e al bene, un giorno da essi disprezzati; allora il martirio diventa un:
“………………dolce assenzo,
ché quella voglia alli alberi ci mena
che menò Cristo lieto a dire ‘Eli
quando ne liberò con la sua vena” (Purgatorio XXIII, 73-75).
E’ evidente in questo passo che la penitenza è il
“buon dolor ch’a Dio ne rimarita” (ivi v. 8l)
ossia è frutto dell’amore che riconosce è testimonianza della fedeltà che si rinnova.
La povertà e l’umiltà di san Francesco sono vivificate dall’amor di Dio; e nello stesso Jacopone da Todi la mania della penitenza è spiegabile: “con l’amor de caritade”
Quanto alle pene spirituali e corporali inflitte dalla Chiesa ai fedeli indisciplinati l’Alighieri, pur riconoscendone la legittimità, ne critica l’abuso da parte dell’autorità ecclesiastica: la quale troppo spesso ad esse ricorre per spuntarla contro avversari politici:
“già si solea con le spade far guerra;
ma or si fa togliendo or qui, or quivi
lo pan che ‘l pio Padre a nessun serra” (Paradiso XVIII, 127-129).
E Manfredi, morto scomunicato, ma ritornato a Dio nell’ultimo istante dice :
“Per lor maledizion sì non si perde,
che non possa tornar l’etterno amore
mentre che la speranza ha fior del verde.
Vero è che quale in contumacia more
di Santa Chiesa, ancor ch’al fin sì penta
star li convien da questa ripa in fore” (Purgatorio III, 133-138).
La scomunica dunque, per quanto inflitta ingiustamente, ha la sua efficacia nel campo disciplinare anche nell’oltretomba, ma la salvezza non è pregiudicata dalla punizione qualora sopravvenga un atto di resipiscenza nel cristiano indisciplinato.
Perciò, se nel Medioevo ci furono delle anime piccine che fecero della penitenza, dell’umiliazione e degli incubi dell’oltretomba delle forme di vita aventi fine a se stesse; il pensiero ufficiale della Chiesa, però, e quello dei grandi spiriti, come san Tommaso e Dante, considerarono quelle forme come mezzi per riaccendere o accrescere l’amor di Dio.
L’umiltà, del resto, non impedì alle anime grandi di assumere atteggiamenti regali di fronte alle supreme autorità: l’Alighieri si compiace di presentare san Francesco in nobile atteggiamento di fronte al più signore dei papi, cioè di fronte ad Innocenzo III:
“Nè ‘li gravò viltà di cor le ciglia
per esser fio di Pietro Bernardone,
né per parer dispetto à maraviglia;
ma regalmente sua dura intenzione
ad Innocenzo aperse” (Paradiso XI, 88-92).
A tutti poi è noto l’atteggiamento fiero che l’Alighieri assunse nei confronti dei titolari delle potestà supreme: egli le criticò; inveì contro di esse con la franchezza del cittadino libero e con l’autorità quasi di profeta.
Basterebbe, dunque, pensare all’Alighieri, cristiano coscienzioso e libero disciplinato e magnanimo, per smentire l’affermazione che gli spiriti del medioevo fossero vittime di una umiltà fatta di viltà, di servilismo e di paura.
Il male, nell’uso dei beni terreni, si ha quando l’anima o ama beni proibiti o ama troppo i beni finiti, o ama poco il bene infinito. La stima giusta e l’uso moderato dei beni temporali sono caratteristiche dell’uomo saggio ed equilibrato.
L’ascesi, a cui l’Alighieri sembra aspirare nel canto XI del Paradiso (ove si esalta la figura di san Francesco e quindi vengono celebrate la povertà e l’umiltà), non è che un superamento della frenesia con la quale gli uomini si appassionano nelle loro attività terrene ed aspirano alle ricompense umane: non è affatto svalutazione del lavoro, deltravaglio e della lotta per realizzare il perfezionamento proprio e quello altrui.
L’Alighieri amò la bellezza e la cantò come mai nessuno è riuscito a fare: ma considerò la bellezza umana come riflesso di quella divina. Rimproverò gli avari e i prodighi per il cattivo uso fatto da essi, in modi opposti, della ricchezza. Diceva della fama:
“ Non è il mondan romore altro ch’un fiato
di vento, ch’or vien quinci e or vien quindi,
e muta nome perché muta lato” (Purgatorio XI, 100-102):
Eppure egli riservò ai benemeriti della civiltà umana, agli uomini virtuosi, le più alte espressioni della glorificazione; ed aspirò egli stesso ad una fama che lo compensasse delle dure fatiche affrontate nel comporre il suo poema e lo confortasse nella sua attività svolta a vantaggio del mondo cristiano. Dante esalta Daniello che “dispregiò cibo ed acquistò savere”; esalta il Battista che nel deserto si nutrì di
“mele e locuste” (Purgatorio XXII, 147)
\ “ perch’elli è glorioso e tanto grande
quanto per l’Evangelio v’è aperto” (ibidem vv. 153-154);
e l’Alighieri stesso dichiara di aver sofferto di essere “per più anni magro” per condurre a termine
“……………………………..lo poema sacro,
al quale han posto mano e cielo e terra” (Paradiso XXV, 1-2).
Insomma lo spirito medievale, ricco com’è di sensibilità morale, considera i beni terreni come mezzi per la conquista di beni superiori: perciò, anzitutto fugge la “dismisura” (Purgatorio XXII, 35) nel godimento di essi, e si attiene al principio che l’amore dei beni
“mentre ch’egli è ne’ primi ben diretto,
e ne’ secondi se stesso misura,
esser non può cagion di mal diletto;
ma quando al mal si torce, o con più cura
o con men che non dee corre nel bene,
contra ‘l fattore adovra sua fattura” (Purgatorio XVII, 97-102);
in secondo luogo esalta coloro che, per rispondere alle esigenze di una missione superiore, sposano, come san Francesco e san Domenico, la povertà e l’umiltà.
I medievali accolgono il concetto dell’arte elaborato da Aristotele, cioè il concetto che l’arte è “mimesi”, o imitazione, o creazione del verosimile. Dante esprime questa concezione nel canto XI dell’Inferno:
“Fìlosofia….a chi la ‘ntende,
nota non pur in una sola parte,
come natura lo suo corso prende
da divino intelletto e da sua arte;
e se tu ben la tua Fisica note,
tu troverai, non dopo molte carte,
che l’arte vostra quella, quanto pote,
segue, come ‘l maestro fa il discente;
sì che vostr’arte a Dio quasi è nepote” (vv. 97-105).
La prima artista, dunque, è la natura, la quale imita Dio che è archetipo, o esemplare di tutte le cose create: il secondo artista è l’uomo che, valendosi della fantasia creatrice e compositrice, e servendosi di una sapiente tecnica rappresentativa, gareggia con la natura nel produrre forme viste dall’idea.
La natura è artista per eccellenza perché sa imitare in modo perfetto l’esemplare divino: e alla natura si avvicinano i grandi ingegni quando sanno imprimere alle loro creazioni atteggiamenti vivi ed eloquenti.
Le figurazioni che l’Alighieri immagina scolpite nel primo girone del Purgatorio sono perfette perché imitano, con verosimiglianza integrale, il vero:
“morti li morti e i vivi parean vivi:
non vide mai di me chi vide il vero,
quant’io calcai, fin che chinato givi” (Purgatorio XII, 67-69).
La naturalezza, dunque, l’adeguazione perfetta alle forme fisiche, alla psicologia e alla mimica dell’uomo sono i fattori essenziali della buona tecnica d’arte.
Quando l’imitazione artistica è così naturale che i sensi e la fantasia dello spettatore hanno l’impressione di essere di fronte ad una realtà vera, si può esser certi che quell’imitazione è perfetta. Ad esempio nel primo girone del Purgatorio, l’altorilievo nel quale è rappresentata l’annunciazione, presenta, l’angelo “sì verace” che “giurato si saria ch’el dicesse ‘Ave’ ” (Purgatorio X, 40); i due cori che circondano l’arca santa, ben riprodotti nell’atto di cantare, fanno dir ai due sensi dell’Alighieri:
“l’un ‘No’, l’altro ‘Si’, canta” ( ibidem v. 60):
è per questo motivo che quelle figurazioni sono chiamate dal poeta così perfette
“…………che non pur Policleto,
ma la natura li avrebbe scorno” (ibidem vv. 32-33).
L’evidenza e la vivezza dell’imitazione non sono fine a se stesse: non si tratta di gioco di tecnica destinato o rivelare aridità tecnica e a provocare l’applauso; l’eloquenza della forma è un mezzo per comunicare al lettore e allo spettatore l’interpretazione che l’autore ha dato della vita intima del suo soggetto.
Il vero della rappresentazione è un mezzo per esprimere il vero dell’ispirazione, cioè del pensiero e del sentimento che si vogliono comunicare al lettore.
L’arte, dunque, è strettamente unita al vero, inteso non solo come verosimiglianza, ma anche come contenuto dell’ispirazione: è per questo che san Tommaso chiama l’arte “splendore del vero”, cioè presentazione attraente e suggestiva della verità.
E Dante, nel primo canto del Paradiso, fa capire che attende fama di grande poeta e dalla materia che tratterà, cioè dalle alte verità teologiche e scientifiche che esporrà, e dall’ispirazione, cioè dalla passione con la quale egli incarnerà in forme concrete il suo pensiero:
“ venir vedraimi al tuo diletto legno
e coronarmi allor di quelle foglie
che la matèra e tu mi farai degno” (Apollo) (Paradiso I, 25-27);
e nel canto XXXI del Paradiso fa capire che i soggetti alti esigono ricchezza di immaginazione e ricchezza di parola:
“E s‘ io avessi in dir tata divizia
quanta ad immaginar, non ardirei……” (vv. 136-137).
Il poeta, secondo la concezione medievale, non è un vagheggiatore di belle forme, ma un educatore di anime, cioè un maestro di verità teologiche, filosofiche, morali, che conosce l’arte di giungere all’intelletto e alla volontà dei lettori, attraverso la loro fantasia e il loro cuore.
L’arte non è destinata ad un piccolo gruppo di intenditori, ad una cerchia ristretta di dotti, ma ad in pubblico tanto vasto quanto è vasta l’umanità. Dante si era impegnato nel “Convivio” a trattare argomenti scientifici in lingua volgare per poter essere utile al maggior numero possibile di lettori: nella “Divina Commedia” egli si pone il fine di portar “vital nutrimento” alle anime dei contemporanei e ai posteri, e di esaltare l’infinita grandezza di Dio, cosicché gli uomini, attraverso i suoi versi, si rigenerino moralmente e aspirino all’infinito:
“o somma luce…………………………..
fa la lingua mia tanto possente.
ch’una favilla sol della tua gloria
possa lasciare alla futura gente,
ché, per tornar alquanto a mia memoria
e per sonare un poco in questi versi,
più si conceperà di tua vittoria” (Paradiso XXXIII, 70-75).
L’Alighieri, mentre scrive, immagina se stesso come nocchiero di una nave che percorre un oceano grandioso e che è seguita da un’infinità di “picciolette barche” desiderose di giungere, dietro la sua guida, alle mete incantevoli del vero, del buono e del bello (Paradiso II, 1-3).
La Divina Commedia, che è l’enciclopedia poetica della cultura medievale, è anche l’espressione più viva delle aspirazioni, delle ansie, dei problemi del popolo cristiano (specie quello d’Italia) alla fine del sec. XIII e agli inizi del sec. XIV.
Il fervore mistico aperto alle più vive aspirazioni soprannaturali, le ansie per i destini delle città dilaniate dalle discordie, le polemiche roventi circa i rapporti fra potere temporale e potere spirituale, la preoccupazione per l’avanzata di una mentalità mondana e di uno stile paganeggiante di vita non commuovevano lo spirito dell’Alighieri, ma la grande massa della Respublica Christiana. E’ per questo che Dante nella sua Commedia cercò di scendere, il più possibile, al livello dell’intelligenza del popolo: cioè (come direbbe il Berchet) in tutti coloro che, quando leggono o sentono leggere, capiscono e si commuovono: al popolo inteso in questo senso egli porse le prime due cantiche, riservando ai dotti la terza. Per farsi meglio intendere, nella sua grande opera, egli lasciò da parte il volgare illustre e adottò il dialetto fiorentino; né sdegnò di desumere paragoni ed espressioni dall’ambiente popolare.
San Tommaso e Dante ci presentano un latino che all’occhio di un classicista pedante può apparire spregiudicato e barbarico, ma si rivela intelligente ed anche di buon gusto a chi consideri la lingua come mezzo dell’espressione, adeguata e perfetta del pensiero. La concezione e la prassi artistica del Medioevo sono, dunque, orientate verso una concretezza di contenuto e di forma, verso finalità utili ed estetiche nello stesso tempo
Una nuova cultura, ispirata alla fede coinvolge tutti gli aspetti della vita. Il Comune medievale è una specie di piccola famiglia di cui gli ecclesiastici sono per dir così i padri spirituali:
Fiorenza dentro dalla cerchia antica
ond’ella toglie ancora terza e nona
si stava in pace sobria e pudica (Paradiso XV, 97ss )
Valendosi del principio della fratellanza la Chiesa promuove lo spirito associativo, le cui espressioni svariatissime non solo costituiscono la forza delle attività economiche, artistiche e religiose, ma rivelano anche una capacità organizzativa assai evoluta.
Le città, particolarmente quelle che si reggono a regime democratico comunale, compiono una meravigliosa avanzata in tutti i campi del progresso. Fioriscono le industrie e i commerci sotto l’impulso delle corporazioni nelle quali le forze del lavoro associate producono con intelligenza, con gusto, ed anche con abbondanza.
Fioriscono le arti. Il secolo antecedente alla nascita di Dante si può definire il periodo glorioso dell’architettura romanica ancora semplice di linee, e ricca di spunti mistici e suggestiva per la sua modestia aggraziata e gentile. Le città, particolarmente quelle che si reggono a regime democratico comunale, compiono una meravigliosa avanzata in tutti i campi del progresso Col sorgere dell’istituto comunale il popolo assume la gestione dei suoi interessi e si amministra da sé. E’ chiaro che in ambiente comunale tutte le espressioni della vita pubblica sono frutto della iniziativa collettiva e che gli esponenti della cultura in quell’ambiente riflettono le aspirazioni, gli ideali e le situazioni del popolo.
Le leggi sono frutto di decisioni collettive, come gli statuti comunali riassumono i principi giuridici, morali e religiosi che vivono nella coscienza della comunità.
L’architettura sia religiosa che civile fiorisce per decisione del pubblico che vuole esprimere con belle costruzioni il suo omaggio collettivo alla divinità o al comune; e spesso vuol gareggiare con le città vicine.
Le composizioni letterarie o esprimono sentimenti comuni in mezzo alle masse in forme popolari o (come l’Alighieri nella Divina Commedia) interpretano i bisogni spirituali e correggono i costumi dell’ambiente, inquadrandoli in una visione universalistica.
Sorge e si sviluppa anche la musica strumentale, specialmente nelle città più fiorenti, come ci attesta lo stesso Dante il quale nella Commedia accenna più volte a strumenti a corde e a fiato. Così la vita cittadina è rallegrata dal fervore dell’attività industriale e commerciale, dal fiorire dell’architettura, della scultura, della pittura, dal moltiplicarsi delle feste, dal diffondersi della pittura attraverso l’istituzione di scuole elementari, medie, e universitarie e attraverso circoli letterari.
Le manifestazioni etiche della vita sono estese nel contenuto nel senso che non si inquadrano e non si ispirano soltanto alle esigenze, del luogo in cui fioriscono ma alle aspirazioni, ai bisogni e al pensiero di tutto il mondo cristiano. Basta a questo proposito addurre l’esempio della Divina Commedia che sarebbe erroneo definire poema italiano perché abbraccia tutta la vita del mondo cristiano
Dante chiude l’epoca medievale di cui avverte ormai la crisi e di cui invano si sforza di sostenere il programma spirituale e le strutture organizzative. Gente nuova arricchitasi con l’industria e i commerci (cioè la borghesia) introduce mentalità nuove, aspirazioni nuove, gusti nuovi, costumi nuovi. Qua e là la vita comunale agitata dalle discordie civili viene disciplinata e pacificata dal signore. Il Sacro Romano Impero, dopo il fallito tentativo di Arrigo VII, decade. Il papato dal 1305 passa all’obbedienza dei re di Francia in Avignone, perde il contatto con l’Italia, perde la fiducia dei fedeli, le nazioni cattoliche che formavano un’unica famiglia, nel seno della Respublica Christiana, iniziano ciascuna una nuova storia ispirata ad un particolarismo estremistico. Gli individui e le nazioni potenziate dal benessere economico, dalla esperienza, politica ed artistica, sentono ormai di poter far da sé e di poter procedere lungo le vie più diverse fidando nelle forze proprie, senza più bisogno di comunità associative, né di carattere religioso, né di carattere politico, né di carattere letterario ed artistico.
Digitazione Albino Vesprini
BASSO MEDIOEVO: ambiente storico e culturale
Come gli individui e le singole generazioni hanno la loro fanciullezza, la loro giovinezza, la loro maturità e la loro vecchiaia, così anche le epoche storiche hanno la loro fase di formazione, di maturità e di tramonto. Dall’epoca medievale, il periodo alto (iniziale) è fase di formazione, il periodo basso è fase di maturazione, il periodo di trasformazione umanistica è fase conclusiva.
Nell’alto medioevo, in Europa, alcuni popoli che non si erano mai conosciuti fra loro e si incontrano per la prima volta. L’unità religiosa e politica della Respublica Christiana favoriva i rapporti e gli scambi, di ordine materiale e spirituale, fra le giovani nazioni romanze.
Il potenziamento della cultura, avvenuto attraverso questa rete di rapporti, ha la sua espressione giovanile dal secolo XI, secolo denominato secolo della “Rinascita”, perché si nota, in tutte le nazioni dell’Europa occidentale e centrale, un risveglio di attività, e segna l’inizio di un periodo nuovo nella storia del nostro continente. Alcuni hanno favoleggiato che tale risveglio sia da attribuirsi alla mancata fine del mondo, che sino all’anno 1000 le genti del medioevo avrebbero temuto in base a una espressione mai pronunciata da Cristo: “Mille e non più di mille”. Si favoleggia che, dopo il mille, non essendo crollato il mondo, la gente avrebbe ripreso coraggio e avrebbe deciso di rinnovarsi. La verità, invece, è che, dopo la fanciullezza, l’Europa moderna entrava nella fase della sua giovinezza, per giungere, poi, agli inizi del secolo XIV, alla maturità. I fenomeni più importanti che si verificano in questo periodo sono i seguenti:
1)- Aumento della popolazione in ogni parte dell’Europa. Con l’incremento demogra¬fico vanno connessi i seguenti fatti:
a)-Diminuiscono le precedenti tracce differenziali tra le varie stirpi che si fondono nella unità di singola nazione, perché man mano che si susseguono le generazioni, si definisce sempre più chiara la fisionomia delle stirpi fuse e si afferma sempre più la coscienza della nuova nazionalità.
b)-Coll’aumento degli abitanti crescono i bisogni, e si inventano nuovi mezzi di produzione e nuovi sistemi di rifornimento e scambio: si sviluppa l’artigianato e si riattiva il commercio; cresce l’attività agricola, entrano in uso nuovi contratti agricoli, va scomparendo la servitù della gleba, si diffondono la colonìa a patti e la piccola proprietà, si moltiplicano mercati, fiere e le piazze commerciali.
c)- Diventano più frequenti i contatti fra città e campagna, fra città e città, tra feudo e feudo, fra popolo e popolo: con il moltiplicarsi dei contatti si intensificano lo scambio e la diffusione delle idee, delle usanze, dei ritrovati del progresso.
2)- Decadenza del feudo e rinascita delle città. Il sistema ereditario nel regime feudale era duplice: in alcuni feudi vigeva il diritto del “maggiorasco” per cui l’eredità era riservata al primogenito e in tal caso il patrimonio si tramandava restando sempre intero; in altri feudi, invece, l’eredità era divisa fra tutti i figli, e in tal caso, nel corso delle generazioni, il patrimonio era più volte frazionato. Le zone in cui il frazionamento dei feudi è progressivo, sono destinate in breve tempo ad una evoluzione politica e civile radicale nel diminuire del potere feudatario. La città che, nell’alto medioevo, era stata sotto il dominio e il controllo del conte e si era trovata poco organizzata nel sistema feudale, ora riprende vigore e sorpassa in importanza e potenza le sedi feudali.
Gli imperatori Ottoni, dalla metà del secolo X, per indebolire la potenza dei feudatari, avevano sottratto il maggior numero possibile di città al controllo dei medesimi, concedendo l’immunità e l’autonomia, specialmente a quelle che erano sedi vescovili. Quando passa sotto l’amministrazione del vescovo, la città gode di maggiore libertà e può essere amministrata meglio, perché il vescovo che la governa ha da pensare ad essa, non ai figli eredi.
Vengono restaurate le mura, aggredite, secoli prima dai popoli invasori oppure crollate per trascuranza. Vengono organizzati regolari servizi di rifornimento delle merci necessarie alla vita familiare e cittadina; vengono istituite nuove scuole; vengono addestrate ed armate le milizie, insomma la città diventa un piccolo mondo meglio garantito nella sicurezza, più produttivo, più ricco di risorse commerciali, più favorito nell’istruzione, nei confronti del castello, del feudo solitario nella campagna. E’ per questo motivo che abbandonano la campagna e si stabiliscono in città i cavalieri ossia i cadetti dei feudi “maggiorascali”, ed i proprietari dei feudi sminuzzati perle spartizioni ereditarie dei vari figli e discendenti.
Nel secolo XI, in seguito alla riforma ecclesiastica di Gregorio VII, nelle città i vescovi prepotenti vennero sostituiti, perché erano stati investiti o dall’imperatore o dai re o dai grandi feudatari, e a posto di essi furono stabiliti uomini degni per santità di costumi e per cultura. Le città godono di accresciuta libertà e i cittadini stessi ebbero il permesso di amministrarsi da sé, per concessione del vescovo che attendeva all’esercizio della sua missione spirituale.
3)- Nascita del Comune. In Italia sin dal secolo XI, sorse il “Comune” cioè un regime repubblicano di amministrazione comunitaria e collettiva della città. Con l’affermarsi di questo regime essenzialmente democratico, si afferma in pieno la libertà politica; e siccome la libertà permette a ciascuno di esercitare le proprie energie, sono favorite le iniziative private o collettive, si comprende come dalla fine del secolo XI la civiltà urbana abbia assunto un ritmo più intenso e più pieno.
Il fattore che maggiormente contribuì alla formazione spirituale delle giovani repubbliche comunali fu il Cristianesimo. La Chiesa, durante la riforma gregoriana, contro i vescovi imposti dai conti, e dall’imperatore, si era valsa dell’aiuto delle masse, e quindi già fin dalla seconda metà del secolo XI si era stretta una leale e cordiale collaborazione fra clero rinnovato e popolo. Sicché i Comuni affermano, quasi tutti, nel primo articolo dei loro statuti, la fedeltà alla prassi cristiana e alla Chiesa.
Ogni Comune elegge e venera il suo Santo protettore; e gareggia, con gli altri nella costruzione di chiese meravigliose. Ogni Comune partecipa vivamente alle vicende liete e tristi della Respublica Christiana nel continente. Questo credito della religione nella vita comunale si può spiegare col fatto che gli ecclesiastici, dopo la riforma gregoriana, son più zelanti e democratici, sono numerosi e lavorano in centri di limitata entità, esercitano l’educazione del popolo attraverso la predicazione e le scuole parrocchiali vescovili e monasteriali.
4)- Tendenza associativa. Valendosi del principio della fratellanza la Chiesa promuove lo spirito associativo, le cui espressioni sono svariatissime e costituiscono non solo la forza delle attività economiche, artistiche e religiose, anche la promozione di una capacità organizzativa assai evoluta. Si costituiscono anzitutto associazioni di carattere religioso, dette confraternite, le quali hanno finalità pie con assistenza ai bisognosi e di suffragio ai defunti.
I lavoratori dello stesso mestiere o professione (arte) costituiscono associazioni che si chiamano corporazioni le quali hanno finalità economiche, assistenziali e talvolta anche didattiche nell’esercizio dell’arte.
Si costituiscono, in fine, nelle grandi città, associazioni di studenti, dette “Università degli studi”, le quali hanno finalità schiettamente formative culturali. Gli studenti scelgono i loro docenti; e questi considerano somma gloria avere discepoli eccellenti e numerosi che diventino diffusori delle loro teorie e con la loro bravura professionale facciano onore al maestro che li ha formati.
5)- Rinascita della cultura. Gli studenti che frequentano le università non sono più soltanto ecclesiastici, ma sono in gran numero anche laici. Infatti, essendo le scuole parrocchiali e vescovili accessibili a tutti e, con l’aumento del benessere economico, essendosi diffuso anche il desiderio della cultura, molti sono i laici che si dedicano alla prosecuzione degli studi. Nelle scuole, per così dire, intermedie, ai precedenti insegnamenti detti arti del trivio (grammatica, dialettica, retorica) si aggiungono le arti del quadrivio (aritmetica, geometria, musica, astronomia); negli studi universitari si insegnano teologia, filosofia, giurisprudenza, medicina.
I castelli feudali che fino a questo momento sono stati le rocche caratterizzate da uno stile militaresco, si aprono anch’essi alla cultura. Alla fine del secolo XI ed agli inizi del secolo XII anche i membri della famiglia feudale imparano a leggere e a scrivere, acquistano familiarità con la cultura e si compiacciono di ospitare bravi giuristi e letterati. La corte, lo spazio quadrato al centro del castello, da luogo destinato ad esercitazioni militari, diventa luogo di festose adunate e centro di gentili costumi. L’aggettivo curtensis (cortese) passa, così, a significare gentilezza.
6)- Cavalleria. Ad abbellire e ad ingentilire la vita della corte contribuisce molto la cavalleria. I figli cadetti dei conti e dei marchesi, non ammessi all’eredità, si dedicano al mestiere delle armi. Appoggiati dai loro parenti, questi, armati a cavallo, spesso riuniti in gruppi, si dedicavano al brigantaggio, molestando i deboli, assalendo i monasteri, rapendo donne. La Chiesa si preoccupa di questa piaga della società e propone di organizzare i cavalieri in una istituzione che li impegnasse a mettere la loro forza a servizio del bene. Sorge così l’istituzione della Cavalleria: il cadetto viene consacrato soldato con una cerimonia suggestiva, al centro della quale è il giuramento che egli d’ora innanzi si servirà delle armi solo per fin di bene. Il cavaliere diventa così il difensore dei deboli e degli oppressi; invece di perseguitare le donne e i religiosi, egli sacrifica le sue migliori energie, a vantaggio delle persone perseguitate e a onore del cristianesimo. “Cavaliere” diventa sinonimo di generoso, audace, gentile, insomma sinonimo di uomo senza macchia e senza paura: professa un programma di lealtà, di dedizione generosa alla difesa degli oppressi, di finezza di modi. I cadetti così danno esempio di modi cortesi ai familiari rimasti al castello. A questi esempi vanno uniti quelli che vengono dalla città in cui fiorivano forme di vita gentili. Infine, anche i legami tra la famiglia del feudatario e la Chiesa, resi più stretti dal fatto che alcuni dei cadetti entravano nel ceto ecclesiastico, contribuiscono a rendere più frequenti e più intensi i contatti del castello col mondo in cui si affermava uno stile più umano. Le corti feudali nel secolo XII quasi tutte si avviano a diventare centri di cultura.
7)- Studi giuridici. Un altro personaggio che dalla fine del secolo XI va affermandosi fra i laici è il giurista. Le amministrazioni comunali richiedono persone le quali si intendano di diritto sia civile che penale; lo stesso bisogno sentono le corti feudali maggiori, ove le attività amministrative diventano più complesse in seguito al trasformarsi di alcuni feudi in veri e propri governi.
A questo bisogno di giurisperiti vengono incontro le università, le quali appunto sorgono nei primi decenni del secolo XIII con le facoltà di legge, teologia e filosofia. Nel 1130, ad esempio, a Bologna, il giurista Irnerio è docente della facoltà di diritto.
I giovani intelligenti, sia della classe aristocratica che del popolo, hanno la possibilità di frequentare le scuole del trivio e del quadrivio negli istituti vescovili o abbaziali; e al termine di questo corso, possono passare all’università. Anche nei castelli feudali, almeno quelli maggiori, per emulazione con le città si istituiscono scuole: così la cultura viene accolta nelle corti come un fattore necessario all’elevazione e all’ingentilimento della vita. La scuola della corte viene frequentata dai membri della famiglia feudale sia uomini che donne.
8)- Poesia di scuola. Il cavaliere sente il bisogno di non restare indietro e di dedicarsi anch’egli alla cultura, per emergere anche in questo campo. Si afferma così il tipo del cavaliere-letterato il quale, per dimostrare la sua capacità di fronte al signore, alla dama, o alle damigelle, compone testi in lingua volgare. Questi costituiscono le prime liriche ‘romanze’, i primi racconti della letteratura europea moderna. Come novità, a fianco della letteratura dotta in lingua latina, specializzata nel diritto, nella filosofia, nella teologia, e in vigore negli istituti ecclesiastici e nelle università, sorge così una letteratura lirica e narrativa in lingua volgare, talvolta aderente allo spirito mistico del tempo, talvolta di ispirazione mondana ed alquanto spregiudicata. Anche i giuristi che vivono nelle corti dei re o dei signori feudali si dedicano alla composizione poetica. Alcuni cavalieri-poeti e giuristi-poeti danno l’avviamento alle prime forme della poesia romanza, costituendo spesso anche scuole, cioè indirizzi letterari in base ai quali si raggruppano più compositori che seguono un’ispirazione e uno stile comune tra loro.
9)- Arte. L’architettura in questo periodo di giovinezza della civiltà si afferma anch’essa, dato che le popolazioni comunali e le autorità ecclesiastiche e i signori gareggiano nella costruzione di chiese, di palazzi pubblici e di vari edifici che si impongano alla ammirazione per la loro complessità e bellezza.
Anche la pittura e la scultura, in forme semplici e con una tecnica elementare, entrano in campo per abbellire le abitazioni di Dio e dell’uomo, cioè chiese, palazzi comunali, castelli.
10)- Poesia e arte popolare. Il regime democratico, che nell’ambiente comunale permette a tutti i cittadini di partecipare alla vita pubblica e di contribuire alle iniziative più svariate di collaborazione, anche con il proprio consiglio e la propria critica, impone al popolo il bisogno di istruirsi e gli offre la possibilità di affinare la sua mentalità e il suo gusto. Di qui una discreta fioritura di arte popolare, che sebbene modesta nelle forme, tuttavia rivela vivacità e spontaneità.
La cultura medievale può suddividersi in dottrinale (teologia, filosofia, giurisprudenza, medicina), artistica (scuole poetiche e scuole di architettura e pittura) e popolare (arti di forme minori).
11)- Nuove esigenze spirituali e misticismo più umano. L’entrata dei laici nel mondo della cultura e dell’arte genera nuove esigenze e nuovi indirizzi. I laici, infatti, per quanto fedeli alla religione hanno un campo di aspirazioni e di interessi più vasto di quello dei religiosi, i quali, professando i voti, hanno escluso dalla loro sfera spirituale svariati motivi che pur fanno parte della vita vissuta dai più. Ad esempio, nel campo della giurisprudenza, i giuristi religiosi tendono ad affermare la superiorità della Chiesa in tutti i campi e ad esagerare le applicazioni pratiche di questa superiorità; mentre i giuristi laici sentono il bisogno di affermare che anche il potere civile è sovrano ed ha i suoi diritti indipendentemente dalia Chiesa. La lotta tra giuristi laici e giuristi ecclesiastici è esplosa per la competenza nell’eleggere e nominare i vescovi, in particolare al tempo del contrasto tra Federico Barbarossa ed Alessandro III. Nel campo letterario vicino alle composizioni mistiche dei religiosi si affermano quelle profane che svolgono i motivi dell’amore e dell’avventura.
Quest’affermarsi delle esigenze dei laici induce gli ecclesiastici, che tengono la direzione dell’istruzione, a preoccuparsi anche dei problemi profani e a conciliare le giuste aspirazioni naturali con la fede e la morale cristiana. In un primo tempo, si notano ecclesiastici difensori della soprannatura che propugnano un misticismo svalutatore delle attività naturali dell’uomo a solo vantaggio del soprannaturale. A questi si contrappongono i laici che esprimono le abitudini della natura, sminuendo le realtà soprannaturali, pur senza negarli.
Ben presto, specie nel secolo XIII, la conciliazione fra il mondo soprannaturale e quello naturale, tra fede e ragione, tra cristianesimo e vita si realizza pienamente in quanto i mistici si valgono della natura per ascendere a Dio, e i laici si avvalgono del lume della fede per individuare il vero valore della natura. Quando nel mondo dell’istruzione si inseriscano i laici, le soluzioni dei problemi religiosi, morali, giuridici, letterari, assumono un’ampiezza maggiore, e rispondano alle legittime esigenze della natura umana. D’altronde gli ecclesiastici hanno la direzione spirituale della Respublica Christiana e danno l’impronta cristiana a tutte le attività che vi si svolgono.
La gerarchia ecclesiastica, in contatto con il popolo, abbandona l’antico stile feudaleggiante epassa a quello democratico, così imprime alle sue attività un ritmo dinamico, realizzando opere preziose non solo nel campo religioso, anche in quello civile. Alla fine del secolo XI viene organizzata la prima Crociata per la liberazione della Terra Santa. In questa e nelle successive è da vedere non solo un’iniziativa della Chiesa per riconquistare il Santo Sepolcro o per prevenire un attacco dei Turchi alla Respublica Christiana, ma anche un’espressione del rinnovato sentimento cristiano nelle varie classi del mondo sociale europeo.
Infatti alle Crociate presero parte imperatori, re, feudatari, cavalieri, popolani; e, pur ammettendo che tutta questa gente si sia mossa da casa e sia andata a penare lontano solo per motivi economici, come pretendono alcuni storici moderni, tuttavia un fenomeno così imponente non si può spiegare che come effetto di un idealismo cristiano intenso e attivo. Oltre che sulle masse, la Chiesa esercita l’influsso fortemente anche sui sovrani. Gregorio VII scomunicava Enrico IV. Alessandro III si alleava con i Comuni contro le violenze dell’imperatore Federico I.
Quando sorgono nuovi ordini religiosi, come i Domenicani e i Francescani, agli inizi del sec. XIII, le popolazioni delle campagne e delle città, le scuole intermedie e quelle universitarie passano sotto l’influsso energico dei religiosi.
Le comunità cristiane nelle varie nazioni d’Europa nel sec. XII, dopo le lotte per le investiture, sono strettamente vincolate a Roma, in quanto il pontefice si è riservato il diritto di nominare i vescovi. Così si realizza l’unità del mondo cristiano sotto la supremazia spirituale del pontefice; e, nello stesso tempo è garantita un’unità dell’indirizzo culturale in tutta la Respublica Christiana.
Nel medioevo, i secoli XII e XIII furono il periodo più glorioso della storia del papato e della civiltà europea. La Respublica Christiana al tempo di papa Innocenzo III, sebbene per pochi anni, diede l’impressione di un organismo spirituale poderoso anche nell’influsso politico. II papa è considerato come il supremo direttore spirituale ai cui ordini operano tutte le potenze terrene in difesa e in avanzamento della civiltà cristiana.
All’inizio del secolo XIII si organizzano due crociate: una contro i Turchi e una contro gli Albigesi. Così la Respublica Christiana si vuole assicurare dagli attacchi interni ed esterni. Le città che si reggono a regime democratico comunale, compiono una meravigliosa avanzata in tutti i campi del progresso. Vi fioriscono le industrie e i commerci sotto l’impulso delle corporazioni nelle quali le forze lavorative associate producono con intelligenza, con gusto, anche con abbondanza.
Nel fiorire meraviglioso delle arti, il centennio 1150-1250 si può definire il periodo glorioso dell’architettura romanica, ancora semplice di linee, ma ricca di spunti mistici e suggestiva per la sua modestia aggraziata. Il centennio 1250-1350 rappresenta il periodo più glorioso dell’architettura ogivale (detta gotica cioè barbarica dai rinascimentisti) la quale si afferma e si impone per la grandiosità della struttura, per la sapienza con cui risolve i problemi della statica, per l’originalità, ricchezza, e la finezza dell’ornato.
La pittura incomincia ad idealizzare, con disegno e colorito naturale, visioni di vita umana e visioni cristiane. Cimabue è il primo a farsi molto onore nel campo della pittura, e dopo di lui, Giotto si dimostra così abile e così ricco di abilità nel modellare ed idealizzare le forme secondo criteri di naturalezza e di mistica spiritualità, da meritare giustamente la denominazione di “Dante nella pittura”.
La nuova scultura nel secolo XIII inizia il suo cammino, cimentandosi nella creazione di figure e di scene modellate con naturalezza e con grazi. Giotto, Andrea e Nicola Pisano sono maestri, che rivelano le loro capacità nel concepire e nel plasmare figure isolate e in gruppo, in atteggiamenti che intendono esprimere ed esprimono di fatto stati d’animo vivaci e spontanei.
La musica, dal secolo XII, assume le forme sciolte di una melodia che sgorga dal significato delle parole. La tecnica musicale abbandona la notazione gregoriana troppo statica e adotta quella più naturale più estesa, più mobile con Guido d’Arezzo. L'”ars nova” fiorentina elabora le prime forme dell’armonia e del contrappunto: sorge così la polifonia, la cui tecnica sarà sviluppata dalle scuole musicali fiamminghe e nel secolo XVI e servirà come mezzo di espressione a Pier Luigi da Palestrina.
Sorge e si sviluppa anche la musica strumentale, specialmente nelle città più fiorenti, come ci attesta lo stesso Dante il quale nella Commedia accenna più volte a strumenti a corde e a fiato. Così la vita cittadina è rallegrata oltre che dal fervore dell’attività industriale e commerciale, dal fiorire dell’architettura, della scultura, della pittura, anche dal moltiplicarsi delle feste, pubbliche e dal diffondersi dell’istruzione con l’istituzione di scuole elementari, intermedie, e universitarie e attraverso circoli letterari.
Alla fine del secolo XIII, cioè al tempo di Dante e Giotto, il medioevo raggiunge la maturità, caratterizzata da complessità e profondità di ispirazione e da concretezza, naturalezza e gentilezza di forme. Dopo averci dato, tra l’altro, nel campo della filosofico la “Summa Teologica” di S. Tommaso, nel campo della poesia la “Divina commedia” di Dante, nel campo dell’arte gli affreschi e le sculture di Giotto, le cattedrali gotiche, nel campo della musica le prime simpatiche espressioni della polifonia; e nei campi politico, civile e sociale, il Sacro Romano Impero, il Comune, la Corporazione, il medioevo si esprime nella sua pienezza culturale.
L’epoca successiva della storia è ispirata ad un particolarismo estremistico. Gli individui e le nazioni potenziate dal benessere economico, dalla esperienza, politica ed artistica, sentono ormai di poter procedere lungo le vie più diverse, fidando nelle forze proprie, senza più bisogno di forme comunitarie associative, né di carattere religioso, né di carattere politico, né di carattere letterario ed artistico. Si preferisce realizzare la vitalità in forma più individuale.
Medioevo e Rinascimento.
Gli uomini del Rinascimento, guardando all’epoca che li aveva preceduti e precisamente all’epoca che intercorre fra il tramonto dell’età classica e quella in cui essi fanno rivivere la classicità, ebbero l’impressione che la cultura italiana dopo la decadenza della romanità fosse decaduta in una forma di civiltà quasi primitiva, mortificata e semplificata, con espressioni, semplicistiche e disarmoniche di vita. La chiamarono periodo intermedio tra le fasi della classicità antica e di quella umanistica: Medio Evo. Un giudizio così negativo pronunciato senza distinzione nei riguardi di tutta quest’epoca, e soprattutto, formulato senza fare alcun conto delle circostanze storiche, è ingiusto. Non si può fare a meno di riconoscere che nel basso ‘medioevo’ (dal sec. XI), specie al tempo di Dante, quest’epoca ha rivelato una ricchezza e una maturità tali da gareggiare con quella delle epoche più evolute; S. Tommaso, Dante, i templi gotici, Giotto, il Comune, le Corporazioni sono espressioni di una civiltà veramente poderosa e tali da poter sostenere bene il confronto con il successivo Rinascimento.
Nel dare un giudizio sul valore di una civiltà nei vari momenti della storia, è anche doveroso tener presenti i fattori che, in ciascuno dei momenti stessi, hanno contribuito ad indirizzare lo spirito umano verso una forma piuttosto che verso un’altra. In tal senso, pur restando vero che l’alto Medioevo non ci ha dato una civiltà di tutto splendore, tuttavia bisogna riconoscere che anche in questo periodo, lo spirito umano si è espresso secondo le sue possibilità, in riferimento alle risorse disponibili, e che anche quel periodo ha esercitato una funzione necessaria ed utile nella preparazione e nello sviluppo della civiltà moderna.
Si consideri che non sarebbe possibile avere la continuità nello sviluppo delle generazioni, se per ipotesi assurda, si interrompesse la continuità di queste, immaginando un vuoto non colmato, così non avremmo avuto né il rinascimento né l’età moderna, se la storia, dopo decaduta la classicità romana, non fosse stata avviata a migliorare la vita della gente, dall’attività reale ed efficace delle generazioni medievali.
CARATTERISTICHE GENERALI DELLA SPIRITUALITA’ MEDIEVALE
1)- IL MISTICISMO.
Il misticismo è il modo di considerare il reale caratterizzato da una stretta armonia fra natura e soprannatura. Questo modo considera la realtà naturale alla luce del soprannaturale e la coinvolge verso le esigenze supreme dell’etica e degli ideali spirituali.
Tutte le manifestazioni della vita medioevale sono inquadrate nella visione cristiana. Sono promosse e permeate dallo spirito soprannaturale. Basta ricordare alcune manifestazioni:
– la cavalleria è organizzata dalla Chiesa con finalità di bontà cristiana;
– le crociate sono sorte come guerre per la difesa di luoghi “sacri”;
– Il sacro romano impero è concepito in funzione della Respublica Christiana;
– i Comuni hanno uno statuto in cui è riconosciuta come religione unica quella cattolica, apostolica, romana, e i delitti contro la religione vengono considerati come delitti contro il popolo;
– le corporazioni hanno non solo finalità economico-sociali, anche finalità religiose quali la formazione spirituale e l’assistenza caritativa dei lavoratori, e nella loro origine si rivelano ispirate al senso dalla fraternità cristiana;
– l’architettura, la scultura, la pittura, la musica si sviluppano al servizio del cristianesimo;
– la letteratura si propone come fine quello di educare moralmente;
– la filosofia è considerata sussidiaria rispetto alla teologia e le scienze considerate come parti della filosofia, sono indirettamente riallacciate alla teologia;
– Gli avvenimenti umani ed tutte le cose che accadono, recepite dall’esperienza vengono interpretati dagli scrittorie dagli artisti secondo il pensiero cristiano.
U tal modo di intendere la realtà si affermasse in senso mistico, perché la cultura è animata dalla Chiesa. C’è una civiltà universalistica in cui i due istituti universali del papato e dell’impero, talvolta in collaborazione, talvolta segnando vie diverse, si sforzano di dare un’impronta cristiana alla cultura in tutta l’Europa.
2) – UNIVERSALISMO.
Tutte le manifestazioni della vita medievale sono universali in tre sensi: a)- nell’estensione di rapporto fra le componenti culturali. b)- nell’estensione di luogo. c)- nell’estensione di contenuto.
-a- sono estese in senso universale nel rapporto perché ogni attività è intimamente connessa con numerose altre o almeno c’è uno spirito che le anima tutte. Lo si nota particolarmente nel campo della cultura ove la teologia tiene il primato e ad essa si subordinano in collaborazione la filosofia, la scienza, la giurisprudenza.
L’arte non è considerata come pura tecnica, ma trae alimento dalla teologia, dalla filosofia, dalla scienza. Frutti di questa universalità di rapporti nel campo della cultura sono le “Summae”, specie di enciclopedie in cui lo scibile dell’epoca è raccolto sistematicamente.
Esempi di universalità di rapporto si hanno anche nel campo sociale ove le competenze delle associazioni, specifiche dette corporazioni non hanno soltanto una funzione economica, ma anche altre funzioni, ad esempio: cristiana, morale, assistenziale.
-b- Le manifestazioni di vita sono estese in senso universale nel luogo perché non vi è alcuna espressione notevole della vita che, affermatasi in una località della Respublica Christiana, non si espanda in tutte le altre zone. Le esemplificazioni delle diramazioni, in questo senso, sono numerosissime:
– – La teologia e la filosofia scolastica si diffondono in tutti i centri culturali dell’orbe cattolica;
– – La giurisprudenza ha impostazioni e principi conosciuti in tutte le scuole;
– – La musica gregoriana è in uso in tutte le chiese per i bisogni della liturgia;
– – L’architettura romanica e gotica si diffondono in tutte le nazioni dell’Europa centro-occidentale e sorgono gloriosi templi nell’uno e nell’altro stile: in Italia (cattedrali di Milano, di Firenze, di Siena, di Orvieto, di Parma, di Verona, di Venezia); in Spagna (cattedrale di Burgos); in Francia (Notre Dame di Parigi, cattedrale di Reims); in Germania (cattedrali di Colonia, di Magonza, di Spira);
– – I Comuni non costituiscono un’organizzazione politica cittadina esclusiva dell’Italia, ma si diffondono e fioriscono anche in Francia, nei Paesi Bassi, in Germania, in Inghilterra;
-le scuole letterarie e i cicli d’ispirazione non sono limitati dall’ambiente regionale dove sorgono, ma hanno diffusione in tutti gli ambienti culturali dell’Europa, ad esempio le Chansons des Gestes e i Romans, benché sorgono e fioriscano nella Francia del nord, sono conosciuti anche In Italia, ove sono letti e imitatati. La scuola Provenzale ha le sue diramazioni in Italia e una specie di filiale nella scuola siciliana.
-c- Le manifestazioni di vita sono estese in senso universale nel contenuto perché non si inquadrano e non si ispirano soltanto alle esigenze del luogo in cui fioriscono, anche alle aspirazioni, ai bisogni e al pensiero di tutto il mondo cristiano. Basta a questo proposito addurre l’esempio della Divina Commedia che sarebbe erroneo definire poema italiano perché abbraccia tutta la vita del mondo cristiano.
Gli autori di storie o di cronache in questo periodo pur trattando argomenti locali inquadrano la materia nella storia universale e non sono rari gli esempi di cronisti che si riallacciano alle origini della umanità.
3) – SPIRITO DEMOCRATICO.
Col sorgere dell’istituto comunale il popolo assume la gestione dei suoi interessi e si amministra da sé. In ambiente comunale tutte le espressioni della vita pubblica sono frutto della iniziativa comunitaria collettiva e gli esponenti della cultura in quest’ambiente riflettono le aspirazioni, gli ideali e le situazioni del popolo. Le leggi sono frutto di decisioni collettive, come gli statuti comunali riassumono i principi giuridici, morali e religiosi che vivono nella coscienza della comunità.
L’architettura sia religiosa che civile fiorisce per decisione del pubblico che vuole esprimere con belle costruzioni l’omaggio di tutti alla divinità e dar prestigio al comune. Spesso gareggia con le città vicine.
Alcune umili composizioni letterarie esprimono sentimenti comuni in mezzo alle masse in forme popolari. Altre opere più elaborate, come la Commedia dell’Alighieri, interpretano i bisogni spirituali e correggono i costumi dell’ambiente, inquadrandoli in una visione universalistica.
E’ interessante notare la differenza tra le composizioni letterarie degli ambienti ancora rimasti feudali e quelle degli ambienti comunali. Le prime (ad es. quelle provenzali) sono al servizio dei signore e della sua famiglia; quindi, se sono molto elaborate nella forma, difettano di spontaneità, di sincerità e si riducono in genere ad eleganti complimenti in versi; le seconde, urbane, pur limitando, talora, le finezze tecniche e linguistiche, sono tuttavia sincere e vive, e quando intervengono poeti colti, uniscono insieme l’elevatezza e la complessità dell’aspirazione, l’idealizzazione fine, con la delicatezza e l’ardore dei sentimenti e la semplicità decorosa del linguaggio, come avviene ad es. nelle composizioni del movimento “Dolce stil nuovo”.
4) – SPIRITO ASSOCIATIVO.
Lo spirito associativo si è manifestato fiorente nell’epoca medievale e ciò forse dipendeva dal fatto che lo spirito cristiano, il quale è alimentato dal principio della solidarietà fraterna, permeava e fermentava tutta la società.
Associazione è il Comune (Commune, neutro=cosa di tutti). Sorge come associazione di tutti i cittadini per la difesa della libertà e degli interessi comuni contro le sopraffazioni del feudatario e le forze irregolari brigantesche. Sorgono le più svariate confraternite e corporazioni religiose con compiti e attività ben definiti.
Le attività artigiane e commerciali si svolgono in cooperazione fra tutti gli individui che esercitano la stessa professione: sorgono così le corporazioni delle arti. Nel seno di ogni corporazione vigeva la più stretta collaborazione fra i Priori che erano i direttori di tutta una particolare attività, i “Maestri” che erano direttori di esse, i Soci che erano i lavoratori o professionisti provetti, i “Discepoli” che erano apprendisti.
Gli architetti e i muratori erano associati insieme in “Scholae”: ogni scuola aveva i suoi segreti d’arte e i suoi statuti. A costruzione finita, sulla lapide, che ricordava gli autori dell’opera, si poneva il nome della “schola” talvolta con il nome del maestro che si era distinto nella preparazione dei disegni. Similmente sorgono le scuole pittoriche: la scuola di Cimabue, la scuola di Giotto. Cimabue e Giotto sono i creatori di una determinata maniera (cioè di un particolare stile e modo di disegnare e di colorire), ma gli esecutori di moltissime opere a loro attribuite furono i loro discepoli.
Si formarono associazioni anche di studenti ( Università degli Studi), i quali si scelgono lo studium presso cui recarsi e i maestri da cui apprendere. Si formano perfino scuole poetiche: cioè più autori si ispirano agli stessi argomenti, agli stessi ideali, alle stesse forme, alla stessa tecnica di stile e di linguaggio. Sono famosi in Francia i cicli poetici Carolingio e Bretone e la scuola Provenzale; sono famose in Italia la scuola Siciliana e quella del “Dolce Stil nuovo”.
Così con l’unione delle forze, la civiltà medievale, sebbene non abbia potenti risorse di tecnica e di tradizione, riesce a realizzare opere meravigliose.
5) – ESIGENZA DI ARMONIA E DI EQUILIBRIO CULTURALE tra natura e soprannatura; tra sacro e profano; tra vita interiore e vita attiva; tra speculazioni teoriche ed attività pratiche
A)-ARMONIA TRA NATURA E SOPRANNATURA.
Dal secolo XI, inizio del basso medioevo abbiamo notato una rinascita vigorosa dello spirito cristiano. In alcuni gruppi della massa, o per ignoranza o per interesse, il fervore religioso diventò talvolta fanatismo e le aspirazioni ascetiche giunsero alle forme esasperate della noncuranza per tutto ciò che è natura.
I Flagellanti rappresentarono l’estremismo dell’ascesi. I Catari e gli Albigesi in modo particolare cercarono dì giustificare con teorie pessimistiche, tratte forse dal vecchio manicheismo, il loro disprezzo assoluto del corpo e di tutte le attività terrene: per essi il mondo era una specie di emanazione di satana. Pur rimanendo dentro i limiti dalla retta fede, altre espressioni del l’ascetismo raggiunsero forme esagerate. Ci troviamo talora di fronte a manifestazioni di fervore religioso con atteggiamenti che tentano di varcare i limiti dell’equilibrio. La fede è talmente radicata nelle anime dei medievali che anche i razionalisti che si notano qua e là in questa epoca (Abelardo, Bacone, Sigieri di Brabante) rispettano le affermazioni della fede ricorrendo magari al principio della doppia verità (cioè affermando che un’asserzione può essere falsa dal punto di vista razionale, ma vera dal punto di vista dalla rivelazione). E’ chiaro che sia la posizione del misticismo estremista sia quella del razionalismo dualista non rispondevano alle esigenze vere dell’anima cristiana e della natura umana.
La conciliazione fra Fede e ragione, tra Grazia e libertà, viene illustrata e definitivamente affermata dalla scolastica del secolo XIII. S. Tommaso riconosce alla ragione la capacità di raggiungere il vero nel campo naturale e di illustrare quei concetti che aiutano il credente a capire il significato delle verità soprannaturali, cioè riconosce alla ragione la funzione di appoggio alla Fede.
Similmente il contrasto fra la libertà dell’uomo e la Grazia di Dio viene risolto con il concetto del libero assoggettamento dell’uomo all’influsso reale e positivo dell’aiuto divino: l’uomo opera liberamente e per questo acquista meriti; ma a condurlo all’azione e a sostenerlo durante il compimento di essa è la Grazia di Dio.
Così l’uomo e il cristiano, cioè l’animale ragionevole e il figlio adottivo di Dio si armonizzano tra loro in modo che la natura umana, senza perdere nulla delle proprie energie, viene potenziata in modo da superare se stessa diventando mezzo per l’esplicazione di un’attività soprannaturale.
B)- ARMONIA TRA SACRO E PROFANO.
In forza della collaborazione fra ragione e fede, viene affermata una stretta collaborazione anche tra la cultura profana e quella sacra. Avvenne nei monasteri la riconciliazione fra la Chiesa e gli scrittori pagani all’inizio dell’alto medioevo, quando la cultura profana era decaduta e l’attività culturale si era dedicata prevalentemente ad argomenti sacri.
Quando nel secolo XI, con la rifioritura della vita cristiana, con l’affermarsi del predominio morale della Chiesa su tutta l’Europa, questa cultura si mette a servizio di tutti i fedeli che vogliono partecipare al convito della sapienza, si impone ai clerici, cioè ai dotti del mondo ecclesiastico, la necessità di allargare il più possibile il campo alle ricerche e di rendere più umana l’esplicazione delle scienze divine.
L’elemento laico, meno abituato alle dimostrazioni di verità per fede, sente il bisogno di dimostrazioni razionali e, impegnato in attività terrene, oltre che di una cultura religiosa propriamente detta ha bisogno di una cultura umana: perciò i maestri degli “studi” ecclesiastici si sentono in dovere di prendere contatto anche con i grandi pensatori del mondo non cristiano. Perciò non entrano più nelle scuole soltanto la Sacra Scrittura o le opere dei Padri, ma anche Aristotele e testi islamici.
L’impronta cristiana caratterizza nel medioevo le più svariate attività: la cavalleria, le crociate, le corporazioni, la vita politica comunale, le arti, la letteratura. E’ necessario tuttavia chiarire l’armonizzazione tra sacro e profano che può sembrare ardita, ma che, inquadrata nell’atmosfera mistica del medioevo, rappresenta una delle più fini conquiste dello spirito umano: l’armonizzazione tra l’amore alla creatura e l’amore al Creatore.
S. Francesco vede nelle creature i riflessi della potenza, della bontà, della bellezza del Creatore; e dalla luce di questi riflessi trova la via per ascendere alla causa prima di tutte le cose. Le creature non sono espressioni estranee, ma voci fraterne che invitano alla contemplazione di Dio.
In questa armonizzazione tra sacro e profano né il sacro perde della sua dignità, né il profano perde della sua concretezza e del suo fascino: si tratta di una esaltazione e di una elevazione entusiastica di tutto ciò che di bello e di buono esiste nel mondo, non in quanto è frutto della terra, ma in quanto è riflesso della operosa luce creativa divina.
Dio è il centro di tutto l’ambiente terrestre e dell’universo, ad ogni creatura è stato assegnato uno scopo finale da raggiungere. Affinché le creature raggiungano il porto a cui sono state destinate, Dio ha infuso in esse un istinto che le porti alla meta: tale istinto nell’uomo è l’amore cioè la tensione verso il bene e precisamente l’aspirazione al bene assoluto.
C)- ARMONIA TRA VITA INTERIORE E VITA ATTIVA.
E’ stato detto che i medievali, tutti intenti alle indagini teoriche, abbiano trascurato la pratica: ma tale giudizio è falso: pensiero ed azione nel medioevo si armonizzano in un modo completo: la speculazione serve ad orientare l’azione secondo il vero, e ogni azione serve a realizzare la verità nel campo della vita vissuta nella storia individuale e collettiva.
S. Bernardo, sebbene esaltasse la superiorità spirituale dalla vita contemplativa e dimostrasse una certa diffidenza versa quella attiva, pure si dedicava a compiti che richiedevano capacità pratiche e impegnavano lo spirito sulle problematiche concrete degli uomini. S. Domenico, S. Francesco, S. Tommaso sono asceti che vivono io mezzo al mondo e lavorano attivamente alla rigenerazione di esso con la predicazione, con l’esempio e con gli scritti.
Alla ‘Respublica Christiana’ è venuta meno l’efficacia delle due forze direttrici create da Dio per condurla lungo le vie della felicità temporale ed eterna, cioè del papato e dell’impero. Le forme chiuse e affocate della passione, che inebetisce, non sono saltate nel medioevo: lo spirito normalmente cerca di evadere dal piccolo e dal chiuso verso mondi vasti e sereni.
D)-ARMONIA TRA SPECULZIONE TEORICA E ATTIVITA’ PRATICA.
L’uomo che è stato dotato di capacità intellettuali notevoli, sente come dovere, il bisogno di metterle a frutto, a beneficio della umanità; ogni attività per giungere alla scoperta del vero e del bene è considerata come un obbligo per chi è capace di esercitarla.
L’indifferentismo, o la comoda neutralità, di fronte ai grandi problemi teorici e pratici, viene condannato dall’Alighieri nel III canto dell’Inferno, ove la vita è definita azione e lotta, mentre l’inattività e il pacifismo egoistico vengono identificati con la morte.
Similmente viene bandito lo scetticismo, cioè l’atteggiamento di coloro che si accingono alla scoperta della verità e del bene, con la persuasione che non si potrà mai raggiungere la certezza in alcun campo e che le più svariate e anche opposte asserzioni intorno al medesimo problema hanno tutte lo stesso valore.
La persona umana del medioevo, concependo l’indagine teorica come una missione a vantaggio dell’umanità intera, difficilmente perde tempo nella trattazione di questioni inutili. Qualche volta, è vero, gli stessi sommi pensatori del medioevo hanno dato importanza a certe questioncelle che oggi ci sembrano sciocche; ma nel complesso la speculazione medievale è operativa e seriamente indirizzata ad illuminare la vita pratica.
Tutta la grandiosa e complessa speculazione della ‘”Summa” di S. Tommaso mira a chiarire i rapporti che legano l’uomo a Dio, e a suggerire alla creatura razionale la via sicura per raggiungere il suo Sommo Bene.
Qualcuno, come, ad esempio, il Machiavelli, ha affermato che la speculazione medievale non ha tenuto conto delle esigenze pratiche della vita: niente di più falso. I ragionamenti dei pensatori medievali partono sempre dalla costatazione dei fatti, e concludono sempre ad affermazioni di principio che illuminano di luce più viva e più vasta il reale e danno all’uomo la possibilità di orientarsi con sicurezza.
Se poi si è voluto affermare che i Medievali sono andati all’azione con un complesso di principi teorici (considerati ‘pregiudizi’ dagli avversari) e non si sono mai messi ad agire senza principi o senza definire le norme dell’agire in base ai risultati utilitari dell’azione stessa, si fa una constatazione vera, perché, per essi, era mostruoso il tentativo di sostituire l’utile pratico al giusto.
Se l’esagerazione di qualche mistico, che ha svalutato l’azione o l’ha presentata come distrazione per chi voglia ascendere a Dio ha dato motivo ad alcuni maniaci delle generalizzazioni di affermare che il medioevo “maledisse all’opere della vita e dell’amore, e delirò atroci congiungimenti in rupi e in grotte”, è da tener presente che poche epoche della storia hanno pensato ed operato, hanno lottato e costruito come quella del basso medioevo, per l’avvenire della culture e delle arti.
– IL CONCETTO DEL LIMITE.
Se i medievali hanno sentito il dovere dell’indagine e dell’azione e come uomini e come cristiani, hanno tuttavia anche sentito il dovere di contenere entro dei limiti la loro attività teorica e pratica. Tali limiti sono costituiti: nel campo della speculazione teorica dalla legge del buon uso della ragione, dal mistero e dalla tradizione; nel campo dell’attività pratica sono costituiti dalla legge morale e dalla utilità pubblica.
A)- NEL CAMPO TEORICO.
a)- E’ imposto ad ogni persona il dovere di utilizzare le sua facoltà conoscitive, ma tale sfruttamento è retto e legittimo solo nel caso che sia indirizzato al fine naturale dell’indagine stessa, cioè al vero e al bene. Gli abusi più comuni dell’intelligenza sono l’astuzia, la frode e l’artificio: tali abusi sono contrari al fine stesso delle facoltà conoscitive e, razionalmente, sono da evitare.
b)- Altro limite alle indagini è il mistero, cioè una verità che l’intelletto umano può illustrare, ma non dimostrare in quanto appartenente alla soprannatura. S. Tommaso se illustra, in base ai principi della filosofia aristotelica i misteri della teologia cristiana, non pretende mai tuttavia di dimostrare razionalmente verità che superano le forze conoscitive umane.
c)- Altro limite all’indagine è costituito da alcune affermazioni storiche considerate dalla tradizione come certe, anche se non controllate attraverso una critica documentata. E’ noto che la teologia, ossia scienza della rivelazione divina, attinge le verità che espone ed illustra, dai libri della Sacra Scrittura e dalla tradizione.
Ambedue queste fonti di verità, nel corso del medioevo, vengono accettate senza discutere; e l’autorità della Chiesa, considerata come maestra della comunità dei cristiani, non viene contestata. Non solo è accolta l’autorità della Chiesa e della tradizione cattolica in genere, ma anche della Bibbia per la storia nel senso più vasto della parola, spesso mescolata anche a narrazione popolare.
Il medioevo abbondò nella serietà speculativa, difettò nella critica razionale e storica e spesso certe affermazioni tradizionali, anche errate, furono accolte senza discussione e non favorirono la libertà dell’indagine stessa e l’iniziativa di scoperte, specie nel campo scientifico e geografico.
B)- LIMITE DEL CAMPO DELL’AGIRE
L’uomo è libero di fare quel che vuole, ma ha il dovere di fare solo quello che è lecito. Esiste una legge morale, scoperta dalla ragione o comunicata dalla rivelazione, la quale definisce i limiti entro cui può muoversi la volontà umana senza venir meno all’ordine naturale, stabilito da Dio.
I medievali, dunque, allorché si accingono ad un lavoro a cui li impegna il dovere di uomini e di cristiani, sentono il bisogno di invocare l’aiuto divino e schiettamente dichiarano che non pretendono di esaurire la perfezione, ma di fare quanto di meglio dettano loro la coscienza morale e le capacità tecniche.
– CONCETTO DI PERFEZIONE.
Secondo la concezione cristiana, propria della cultura dell’epoca medievale, l’uomo non è solo un animale che ragiona, ma è anche figlio adottivo della divinità. La perfezione, secondo la concezione aristotelica accettata da S. Tommaso, consiste nella realizzazione integrale della propria natura: essendo quindi il cristiano natura e soprannatura, la sua perfezione consisterà nel realizzare tutte le risorse della razionalità e della Grazia. Essendo la soprannatura superiore alla natura, anche se talvolta manca il perfezionamento integrale delle facoltà naturali, si può considerare un uomo completo, qualora in lui si attui lo sviluppo pieno della Grazia e delle virtù teologali della fede, della speranza, della carità. La persona ideale del medioevo è il santo.
Tuttavia, in forza della armonia già accennata tra natura e soprannatura, tra profano e sacro, tra umano e divino, anche la sola perfezione delle facoltà naturali costituisce un titolo al rispetto e alla ammirazione dell’uomo medievale. E’ chiaro che il massimo della perfezione si realizza allorché si attuano, in ogni individuo, lo sviluppo pieno delle facoltà naturali e quello della soprannatura.
La perfezione naturale raggiunge il massimo nell’affermazione della razionalità, consegue che l’uomo sapiente e virtuoso, nello stesso tempo, incarna il tipo superlativo della perfezione nel mondo cristiano. Dante aspirò alla gloria di poeta filosofo e sognò un riconoscimento generoso dei suoi meriti di uomo sapiente anche da parte dei Fiorentini che avevano infamato il suo nome, per le vicende politiche.
Ma il motivo di maggiore gloria per lui non è tanto quello che proviene dalla sapienza umana, quanto quello che proviene dal possesso della pratica delle virtù naturali e soprannaturali. L’uomo, secondo la concezione medievale, è tanto più perfetto quanto più elevato è il motivo delle sue operazioni, quanto più integrale è la conquista della sua libertà.
La perfezione naturale è garantita dal dominio della ragione su tutto il complesso irrazionale che costituisce parte della nostra natura: l’uomo, esercitato nella pratica del vero e del bene, è libero dagli influssi delle tendenze smoderate, e può muoversi con equilibrio e sicurezza in tutti i settori dell’agire umano.
La perfezione soprannaturale è garantita dal dominio dell’amore di Dio che agisce illuminando la ragione: operar bene per obbedire alla voce della ragione è umano; operar bene per amore all’Essere infinito è sovrumano.
Quando l’irrazionale delle cattive tendenze al peccato, viene dominato per ristabilire il dominio della ragione nel mondo spirituale, l’uomo è finalmente libero, padrone equilibrato di se stesso: egli è in grado di autogovernarsi, e di procedere con facilità lungo la via del bene.
Ci troviamo di fronte a tipi di saggezza e di perfezione umana: ma la perfezione a sui aspira l’uomo del medioevo è più elevata: una volontà mossa e regolata dalla ragione per il cristiano non è una volontà totalmente perfetta, perché la sola liberazione dal male non è la realizzazione perfetta della libertà. La volontà giunge alla sua perfezione suprema quando, oltreché per motivi razionali, opera per amore e precisamente per concordare con la volontà del Sommo Bene.
In tale armonizzazione della volontà umana con quella divina, trovano la soddisfazione piena non solo l’intelletto ma anche il cuore. La libertà raggiunge la sua perfezione quando cerca la purificazione dal male, con volontario e positivo inquadramento dello spirito nell’ordine morale che è espressione della volontà divina. La spontanea ed affettuosa adesione all’ordine universale, cioè divino, si chiama amore. Ed è appunto l’amore di Dio che eleva al più alto grado di nobiltà lo spirito umano.
La perfezione naturale e quella soprannaturale realizzano ogni ideale a cui aspira l’ansia umana e mistica del medioevo: il santo, la donna-angelo, il cittadino giusto e il cristiano ricco di fede, di speranza e di carità, di prudenza, di giustizia, di fortezza e di temperanza sono le incarnazioni della pienezza umana sulla terra.
– PREOCCUPAZIONE DELLE PENE ETERNE.
Non risulta dalla letteratura che i medievali fossero sotto l’incubo continuo del peccato e delle pene eterne, tanto da mai godere della vera libertà d’azione, d’iniziativa e di movimento, come se fosse di continuo impacciata da scrupoli e dalla paura di punizioni misteriose.
La visione di un medioevo terrorizzato per i giudizi divini, l’affermazione troppo propagandata, che i medievali conoscessero Dio solo come giudice e non come padre, non corrispondono alla verità storica. San Domenico, san Francesco, san Tommaso d’Aquino, Dante Alighieri non sono certo i personaggi rappresentativi di generazioni terrorizzate da incubi morali repressivi.
Una cosa è certa però, che i medievali, avendo una coscienza morale viva e sensibile, e conoscendo lo fragilità della natura umana, trepidavano di fronte alla tentazione e al peccato; come è certo che in generale l’uomo del medioevo, caduto nel male, sente il disagio del suo disastro morale, si preoccupa delle eventuali punizioni divine, si premura di far penitenza e a ripararle. Lo testimonia Dante.
Frequenti sono i richiami degli scrittori dell’epoca, che invitano alla meditazione dei “Novissimi”: morte, giudizio, Inferno o Paradiso, cioè della morte, dei castighi e dei premi dell’oltretomba. Si trovano orride descrizioni dell’Inferno e del Purgatorio per scuotere i peccatori. Bonvesin de la Riva (nel “Libro delle tre scritture”); Giacomino da Verona (nel suo “De Jerusalem coelesti et de Babilonia infernali”); e l’Alighieri presentano le visioni del1’oltretomba con l’intento di richiamare i lettori alla realtà di un futuro eternamente infelice o beato, per distoglierli così dalla colpa e confermarli nell’esercizio della virtù.
Alcuni predicatori facevano fosche descrizioni delle pene dell’Inferno e del Purgatorio, con esempi di peccatori puniti dalla giustizia di Dio o salvati dalla sua misericordia. Notevoli sono a questo proposito le prediche di Jacopo Passavanti contenute nello “Specchio della vera penitenza”. C’erano talora pubbliche dimostrazioni di penitenza con processioni. e in qualche caso con flagellazioni.
In alcuni settori del popolò cristiano penetrò una mania della penitenza esteriore: si ebbero talune espressioni di fanatismo, quali quelle delle compagnie dei “Flagellanti”. Non van dimenticati i successi dei Domenicani e dei Francescani che con tono più moderno e con intenzioni più serie fecero della povertà e dell’umiltà e della penitenza un equilibrato programma di vita. Ci furono peccatori robusti e spregiudicati, come ci furono e ci sono in tutti i tempi: in quell’epoca. Chi agiva malamente era considerato come peccatore e sollecitato alla conversione. Quasi sempre prima di morire, colui che aveva dato scandalo, riparava pubblicamente.
A rendere più vivo il timore delle colpe, e particolarmente di certe forme di ribellione alla Chiesa, l’autorità religiosa ricorreva pubblicamente a scomuniche e punizioni. Errerebbe però chi pensasse che nel medioevo non si facessero che processioni di penitenza, che non si predicassero se non i terribili giudizi divini; che la Chiesa si compiacesse di scomunicare e di punire, che le anime fossero oppresse di continuo da incubi morali.
La penitenza, intesa come tortura del corpo avente fine a se stessa, come umiliazione per l’umiliazione, è aliena dalla concezione che di essa ha la Chiesa, in ogni tempo. La vera penitenza consiste nella riprovazione del male e in un esercizio faticoso e costante dello spirito, per addomesticarlo al vero e al bene che, al contrario, nel peccato sono ripudiati e misconosciuti.
– VALUTAZIONE DEI BENI TERRENI.
I beni della terra sono mezzi concessi da Dio all’uomo, affinché egli ne usi per perfezionare il suo fisico e il suo spirito. Nell’armonia fra natura e soprannatura, realizzata dalla spiritualità medievale, i beni temporali, come la salute, la bellezza, la ricchezza, la fama, non sono considerati come cause di male, ma come risorse da sfruttare per rendere più facile e più sicura l’ascesa dello spirito verso il Bene eterno.
Il male, l’abuso dei beni terreni, si notano quando l’anima o ama beni nocivi o ama eccessivamente i beni materiali, o ama poco i beni spirituali nel Bene infinito. La stima giusta e l’uso equilibrato dei beni materiali sono le caratteristiche dell’uomo saggio ed equilibrato.
L’ascesi di san Francesco, nella povertà e nell’umiltà, è un superamento della frenesia con la quale gli uomini si appassionano nelle loro attività terrene ed aspirano alle ricompense umane, non è affatto svalutazione del lavoro e della lotta per realizzare il perfezionamento proprio e quello altrui. Il francescanesimo non li svaluta, li usa per fare del bene.
Che gli uomini del Medioevo amassero anch’essi l’eleganza del vestire, le feste ral¬legrate da liete compagnie, suoni e fiori; che i giovani prendessero parte con entu¬siasmo a cavalcate di gala lo dimostrano le descrizioni che della vita cittadina, specie nel sec. XIII,ci hanno lasciato svariati artisti e da poeti, da quelli popolari a quelli del movimento “stil novo”.
Che i medievali amassero le belle costruzioni e fossero orgogliosi di un’edilizia cittadina, che s’imponesse all’ammirazione, lo dimostrano gli innumerevoli edifici sacri e civili, che sorsero in tutte le città italiane. Nel complesso, dunque, lo spirito medievale non rifiuta il godimento delle cose terrene, ma, nello stesso tempo, si sforza di non lasciarsi sopraffare dalla preoccupazione di esse; e, quando lo richiede un ideale superiore, è disposto anche a oltrepassarle. Lo spirito medievale, ricco di sensibilità morale, considera i beni terreni come mezzi per la conquista di beni superiori.
Ci furono nel corso dei Medioevo varie sette ereticali che, ripetendo la mentalità manichea, considerarono le cose terrene come espressione di satana e propugnarono il disprezzo e la distruzione dei beni terreni (Albigesi, Catari, Valdesi), ma il pensiero ufficiale e la prassi comune dei cattolici, in stragrande maggioranza, si guardò bene dal seguire simili proposte di ascetismo fanatico e cieco.
– CONCETTO DELL’ARTE.
L’arte, secondo la concezione dei medievali, consiste nell’usare bene, la parola, il colore, o altro mezzo, per esprimere quello che di un determinato soggetto costituisce il significato profondo.
L’arte, perciò, è anzitutto interpretazione filosofico-religioso-morale del soggetto, cioè individuazione del vero significato umano e sovrumano di esso ed è poi capacità di esprimere tale significato in forme concrete e vive, le quali forme sono veramente artistiche quando imitano perfettamente la realtà, cioè quando sono verosimili in confronto alle realtà naturali.
E’ da distinguere la riproduzione pura e semplice del reale dalla produzione del verosimile: la prima è copiatura della realtà, tentativo di creare un doppione inutile di essa; la seconda è creazione della fantasia, condotta sul modello delle realtà sperimentali.
La natura è artista per eccellenza perché sa imitare in modo perfetto l’esemplare di¬vino: e alla natura si avvicinano i grandi ingegni quando sanno imprimere alle loro creazioni atteggiamenti vivi ed eloquenti per gli altri. La naturalezza, l’adeguazione alle forme naturali, alla psicologia e alla mimica dell’uomo sono i fattori essenziali della buona tecnica d’arte. Quando l’imitazione artistica è così naturale che i sensi e la fantasia dello spettatore hanno l’impressione di essere di fronte ad una realtà vera, si può esser certi che quell’imitazione è perfetta.
L’evidenza e la vivezza dell’imitazione non sono fine a se stesse: non si tratta di gioco di tecnica destinato a rivelare aridità tecnica e a provocare l’applauso; l’eloquenza della forma è un mezzo per comunicare al lettore e allo spettatore l’interpretazione che l’autore ha dato della vita intima del suo soggetto. Il vero della rappresentazione è un mezzo per esprimere il vero dell’ispirazione, cioè del pensiero e del sentimento che si vogliono comunicare al lettore.
L’arte, dunque, è strettamente unita alla natura reale, vera, non solo come verosimiglianza, ma anche come contenuto dell’ispirazione: è per questo che san Tommaso chiama l’arte “splendore del vero”, cioè presentazione attraente e suggestiva della verità.
L’arte per l’arte, come la poesia resa fine a se stessa, è ignota al medioevo: in quell’età non si concepiva nessuna attività che non fosse al servizio dello vita; e fra le attività umane una delle più efficaci per elevare lo spirito del popolo cristiano era considerato quella artistico. I Padri della Chiesa valorizzavano la pittura sacra, come una predica continua ai cristiani che, entrando nel tempio, volgessero lo sguardo alle figurazioni che ne decoravano le pareti.
E’ chiaro che, assegnando all’arte una funzione pedagogica, non si intendeva rinunciare alle finalità estetiche, ma al contrario si mirava ad un magistero più efficace attraverso forme estetiche perfette il più possibile. I fattori estetici erano considerati come mezzi per la realizzazione di un fine altamente umano e non come fini che dovessero esaurire tutto l’ impegno dell’artista. E’ evidente, infatti, che un discorso o un testo scritto sarà tanto più persuasivo quanto più sarà bello, e che una pittura sarà tanto più eloquente e suggestiva quanto più sarà perfetta nell’ispirazione, nel disegno e nella coloritura.
Nessuna opposizione ammettevano tra estetica e finalità educativa; ma, mentre la finalità educativa favorisce la serietà del contenuto di un’opera, l’impegno estetico ne favorisce la ricchezza e l’efficacia comunicativa.
Il fervore mistico aperto alle vive aspirazioni soprannaturali, le ansie per i destini delle città dilaniate dalle discordie, le polemiche circa i rapporti fra potere amministrativo e potere spirituale, la preoccupazione per l’avanzata di una mentalità mondana e di uno stile paganeggiante di vita non commuovevano soltanto lo spirito dell’Alighieri, ma la grande massa della ‘Respublica Christiana’. E’ per questo che Dante nella sua Commedia cercò di scendere, il più possibile, al livello dell’intelligenza del popolo: cioè (come direbbe il Berchet) di tutti coloro che, quando leggono o sentono leggere, capiscono e si commuovono. Per farsi meglio intendere, nella sua grande opera, egli lasciò da parte il volgare illustre e adottò la parlata fiorentina; né sdegnò di desumere paragoni ed espressioni dall’ambiente popolare.
Il poeta medievale, mentre si compiace di ispirazioni e forme elevate, care ai dotti, aspirava però anzitutto a farsi interprete e maestro delle masse. Perciò i rappresentanti più illustri del mondo letterario medievale mai si compiacquero di artifici, di imitazioni ingegnose, ma preferirono sempre un’originalità che, pur talvolta primitiva, era sempre espressione immediata ed efficace di uno spirito ricco di ideali e di nobili passioni.
Con ciò non si vuol negare che certe espressioni delle forme letterarie medievali (specie in Provenza e in Sicilia) presentino forme artificiose e ingegnose che rivelano l’ambizione dello scrittore di apparire un tecnico raffinato del linguaggio. E possiamo anche aggiungere certi sistemi di artificio, quali ad es. quelli proposti dalle “Artes dictandi”, (norme retoriche che insegnavano a costruire il periodo ritmico e cadenzato per la redazione dei documenti curiali o aulici in latino) erano per i più inutili. Ma il medioevo non è rappresentato né dai giochi di parole di certi Siciliani, né dagli stilisti delle curie: il vero medioevo ha più grandi scrittori chiari ed efficaci nella comunicazione al popolo.
Un fenomeno interessante della tendenza medievale a considerare la lingua come mezzo e non come fine di chi scrive, cioè a considerarla come un complesso di forme convenzionali per esprimere il pensiero e il sentimento e non come ingegnosa architettura di parole, destinate a rivelare l’abilità tecnica dell’artista, è la libertà con cui i dotti del basso medioevo maneggiano la lingua latina.
Accanto alle composizioni in volgare (che in Italia si diffondono nel sec. XIII), continua a vivere la composizione latina. La giurisprudenza, la teologia, la filosofia, le amministrazioni civili ed ecclesiastiche fanno uso del latino. Si tratta di una lingua che segue la grammatica e la sintassi latina come modelli generali che non impegnano affatto ad un’osservanza stretta di tutte le regole. Vocaboli nuovi, fonie grammaticali e sintattiche nuove, dovuti all’evoluzione della civiltà, vengono creati, con novità, sul modello del vocabolario, della grammatica e della sintassi dell’età classica.
Il latino medievale così è sì latino perché segue le forme di questa lingua, ma è un latino vivo, aggiornato perché aderisce e risponde alle esigenze dell’evoluzione della civiltà: esso era uno strumento duttile, capace di arricchirsi ulteriormente e di esprimere tutte le forme dello spirito umano, secondo lo spirito dei contemporanei. Si considera la lingua come mezzo dell’espressione, adeguata a comunicare il pensiero.
La concezione e la prassi artistica del Medioevo sono, dunque, orientate verso una concretezza di contenuto e di forma, verso finalità utili ed estetiche nello stesso tempo, e presentano un’originalità così schietta e libera che smentiscono l’accusa di barbarie, ripetuta, in seguito, contro di esse, dai posteriori umanisti con le loro esclusione letterarie. Quando agli inizi del sec. XIX i nostri scrittori s’impegnano a creare una letteratura per il popolo, sostanziosa, concreta e semplice, ritornano ai modelli del medioevo, cioè all’età romanza, e, proprio per questa simpatia, sono chiamati romantici.
CONCLUSIONE
Il Medioevo può essere benissimo considerato, come vollero gli umanisti, un’epoca di passaggio; ma non è il caso di considerarlo come un’epoca su cui bisogna passar sopra; quasi che non presenti nulla di lodevole e accettabile. Fu il periodo in cui si elaborò la civiltà moderna, cioè una civiltà che fondamentalmente è romana, cristiana e germanica; e fu il periodo in cui questa civiltà giovane, entusiasta e schietta, diede le prime prove della sua profondità di pensiero, della sua umanità di sentimento, del suo gusto decoroso ed equilibrato.