UN GIORNALISTA INCREDULO AL SANTUARIO DELL’AMBRO. Pellegrini persone, massa?

UN INCREDULO GIORNALISTA ALL’AMBRO
Un racconto del pellegrinaggio all’Ambro fu pubblicato, nella Rivista Marchiana illustrata, da Gildo Gavasci di Sarnano, nel 1909, per interpretare da incredulo il pellegrinaggio alla Madonna dell’Ambro. Questo giornalista si sofferma a descrivere analiticamente il luogo montefortinese, ove si erge il santuario “fra i massi degli Appennini. I dintorni sono pittoreschi e selvaggi; poca verzura, le rocce coperte di efflorescenze, il suolo scabroso; qualche cerchio di pascoli, poi boschi cupi, pinnacoli che si scavalcano e cariatidi immani reggentisi stranamente. Felci, rovi e muschi tappezzano di rado gli enormi massi tagliati a picco. Qualche vacca candida pascola su alti pianori cinti di erbe aromatiche, tormentando con scatti violenti il campano pendulo mentre il fiume, ribollente fra i sassi enormi, eleva la sua voce uniforme e continua.
Riferisce poi la leggenda dell’apparizione, come prodigio che ritiene sia stato la causa dell’origine della costruzione della chiesa. Gli studiosi tutti considerano la chiesina documentata come preesistente al fatto attribuito alla pastorella; ma al giornalista scettico preme annotare “l’ingenua credulità degli umili e degli ignari” che per anni ed anni come pellegrini si portarono al sacro tempio e pregarono. Nel clima culturale scientista e positivista lo scrittore preferisce rivolgersi a lettori non cristiani. I pellegrini gli sembrano illusi. Addirittura li vede incantati ed idolatri della “terra benedetta, con la visione calda della immagine venerata avvolta in una nube d’incenso, fulgente come un disco solare”.
Leggiamo le sue vive impressioni, che lo scuotono perché avverte il fatto come imponente: “Chi non ha visitato il santuario dell’Ambro nel mese di maggio, non può farsi una idea del colpo d’occhio unico e grandioso, offerto da tutta quella moltitudine di fedeli umili e ignoranti, che va a prostrarsi sotto l’altare della Vergine, con atto di annientamento. Il tempio è vasto, tutto bianco nelle pareti, illuminato da centinaia di lampade votive. Allorché vi giunsi mi attendeva uno spettacolo imponentissimo. Le compagnie venivano in lunghe teorie, cantando: Evviva Maria – e chi la creò”. Questo canto non è rivolto alla Madre del Salvatore, mediatrice dei cristiani, ma all’ambiente minerale e vegetale. Il giornalista precisa: “Non cessavano di ripetere alla boscose convalli, alle scabre pendici, ai lontani villaggi rampicanti come capre, il solito metro plaudente “.
Più che su persone consapevoli, il suo sguardo si sofferma su una torma, come gregge. “Il pavimento del tempio era strisciato in mille guise sull’orma umidiccia di coloro che entravano e la folla spinta, urtata, respinta, non rinunciava al proposito d’inoltrarsi e vedere … Confraternite e compagnie di uomini, di donne e ragazzi si raccoglievano ciascuna intorno al proprio stendardo che portava il nome del luogo da cui provenivano: Comunanza, Acquasanta, Ascoli”.
Il giornalista nota voci umane, confuse e trasognate, più che oranti: “I Confratelli insaccati goffamente nelle loro cappe multicolori, le donne, coi veli in testa e con nastri d’ogni colore alla cintura, intonavano assieme canti svariati, con mille voci diverse; migliaia di nenie stonate e di motivi disparatissimi formanti in quel caso una sola voce plaudente. Nella plenitudine di quell’armonia disparata però, parevano diffondersi verginali beatitudini ed un’evanescenza mistica di sogno”.
Lo scrittore non vede le persone orientate ad un’azione cristiana di culto, ma una massa caotica di ignoti agitati che si ignorano, senza alcuna fiducia reciproca. “Arrivavano altri pellegrini, a frotte, a gruppi; entravano e procedevano fra urtoni, schiamazzi e vocii: si perdevano tra la folla, si cercavano, tornavano a perdersi come in un giuoco, inciampavano nei piedi dei genuflessi, si respingevano l’un l’altro, si contendevano un posto mentre i cento stendardi si urtavano e si sbattevano formando un caos”.
Contrariamente all’orientamento di chi è illuminato dalla fede, dalla speranza e dalla carità, all’atmosfera mistica il Gavasci non dà alcun valore di lode a Dio (non lo nomina) anzi vede il pellegrinaggio come fatto dalla gente miserabile e deformata in modo repellente da malattie, fino ad apparirgli come uscita dai sensi e smarrita nel vuoto. Scrive: “Presso la scalea dell’altare maggiore, in terra, si agitavano e si lamentavano tutte le povere deformità umane, tutte le deformità dei muscoli, delle ossa, degli arti. Vi erano delle facce smunte e ischeletrite e degli occhi asimmetrici, dei crani coperti di escrescenze, dei moncherini e dei piedi contratti e informi. Si lamentavano, creature ciecamente imploranti con una fascinazione intensa negli occhi i quali erano fissi nel simulacro della Vergine, in alto scintillante come un gran disco solare, dietro i cristalli, glorioso nel suo diadema di grosse pietre gemmanti. Col capo riverso e con le pupille sbarrate alcuni, si abbattevano sul sacro tappeto che copriva la scalea dell’altare, altri rimanevano con gli occhi suggellati, smorti come se subitamente si fossero vuotate le loro vene. Il clamore da essi generato si rompeva, si attenuava, finiva come in un fremito, come in un sussurrio debole”.
Il pasto di mezzogiorno che può essere una condivisione fraterna, è osservato dal giornalista come impulso irrefrenabile, quasi animalesco, di persone affamate egocentriche. “Quando il sole sfolgoreggiava dall’alto ed era giunta l’ora in cui lo stomaco fa sentire imperiosamente i suoi diritti, i pellegrini si raccoglievano qua e là, in capannelli, all’ombra delle baracche dei rivenditori, nel prato, presso il fiume, mangiando e ridendo. Si vedevano facce curve sulle scodelle, i moti delle mandibole, e gesti e tutte le attitudini di quegli affamati dinanzi al cibo. Alcune donne sparute, misere, polverose, sdraiate sul terreno, masticavano in silenzio. In pieno sole, alcuni vecchi, sfiniti dalla fatica del viaggio, dormivano proni, con le braccia aperte e col viso contratto”.
Per chi è incredulo, i risultati del pellegrinaggio non sono raccolti dallo spirito aperto alla divina grazia, ma soltanto effetti di feticismo. “Più tardi i pellegrini riunivano in fagotti tutti gli oggetti acquisiti: corone di legno e di osso, immagini e pezzi di calcinaccio staccati dalle pareti benedette del tempio, candele e pannolini toccati sul vetro della Madonna”. Ha scritto papa Francesco: “Sarebbe un errore ritenere che chi va in pellegrinaggio viva una spiritualità non personale, ma di “massa”.

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