SANTARELLI Giuseppe descrive il Santuario Mariano all’Ambro di Montefortino (FM)

Santarelli Giuseppe
IL SANTUARIO DELLA MADONNA DELL’AMBRO
Montefortino (FM) 1981
– L’AMBRO SOSTA DELL’ANIMA
Si potrebbe dire che la Vergine abbia un gusto particolare nello scegliersi i luoghi per i suoi Santuari: incantevoli sempre, sia che spicchino issati, come stelle alpine, sulle alture, sia che occhieggino a valle, su verdi tappeti di prato. Per il santuario dell’Ambro, poi, la Madonna ha avuto un riguardo esemplare, delicato: lo ha deposto giù, tra i Sibillini, ai piedi del monte Priora che lo difende da Sud-Ovest, e del Monte Manardo che lo difende da nord-est. Giù a valle, cinto dal nastro d’argento del fiume e vigilato dagli abeti in divisa grigio-verde, il santuario custodisce un’immagine miracolosa di lei. Esso ha una storia che si perde nella notte dei tempi, che si dissolve in tenui contorni, quasi non più definibili.
Oggi a quel santuario affluiscono torme di pellegrini, soprattutto in primavera, in estate e nel primo autunno. Provengono da ogni dove, spesso desiderosi di ossigenarsi spiritualmente in questo triangolo verde, da dove si scorge solo il cielo. L’uomo di oggi ha un’ansia particolare di solitudine, di silenzio e di verde, soprattutto se vive nella città, in giganteschi palazzi, alveari umani pietrificati che pietrificano anche lo spirito, tra il frastuono assordante che istupidisce, in un’aria densa di pestiferi vapori che uccidono. L’uomo è nato per la natura, e ad essa ritorna con spinta incontenibile ogni qualvolta strutture deformanti lo allontanano. Sì, l’uomo della città ama l’evasione nell’ampio respiro della natura, ma purtroppo quelle sovrastrutture deformanti spesso si spostano dalle città nei luoghi di villeggiatura, di “week-end”, anch’essi profanati dagli urli e dai rumori. Cosicché, sovente avviene che chi evade dai centri urbani soffocanti, in cerca di spazi silenziosi e invitanti alla meditazione, si imbatte invece in ritagli di città fuori dalla città, respingenti e assordanti.
Pochi, in verità, sono oggi i luoghi accoglienti, fasciati di verde e di silenzio, dove ci si possa inoltrare con tranquillità, come in un sacrario non ancora profanato. Tra questi pochi angoli, riservati per una sosta dell’anima, va inserito senz’altro il santuario dell’Ambro. Ma qui non è solo l’incanto naturale a esercitare un fascino singolare sulle persone, vi è anche un’attrattiva sovrumana, che nasce da una presenza misteriosa, invisibile, ma operante. Qui accorrono i fedeli soprattutto per pregare, per reclinare fra le mani la fronte, fattasi improvvisamente pensosa sui destini eterni. Sembrerebbe che altrove questa meditazione riesca ardua assai, perché impedita o sciupata da un ambiente chiassoso e dissipante; ma qui, in un soave contesto geografico, sembra che l’anima si faccia più sottile per penetrare il mistero dell’esistenza, dei fini supremi, dell’amore di Dio.
Qui le anime dilacerate dalle ansie più acute, distratte dalle contingenze quotidiane, perennemente ricorrenti, ritrovano se stesse e sono come risollevate da un soffio di poesia, che emana dalla preghiera sincera e, forse, insospettata. Sì, perché l’uomo mai si sente poeta come quando piega le ginocchia e congiunge le mani per pregare. Ai piedi dell’icone della Vergine sfilano persone di ogni categoria, ciascuna col fardello delle proprie miserie, col tumulto delle più vive preoccupazioni, con l’umiliazione delle sconfitte più scottanti, delle aspirazioni mai appagate. E Lei, la Madre di Gesù, dal suo altare azzurro ha per tutti un sorriso rasserenatore.\ (Voce del Santuario Madonna dell’Ambro n. 33 anno 1968 pp. 470-471)

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VICENDE DEL SANTUARIO DELLA MADONNA DELL’AMBRO
1-Nell’incanto delle leggende dei Sibillini
Nel luminoso scenario dei Monti Sibillini, fasciato di verde intenso e di mistico silenzio, occhieggia sul fondo valle, presso un fiume in perenne mormorio, il Santuario della Madonna dell’Ambro. Si incunea, come perla, nel castone superbo dei monti innevati e lucenti, nel territorio di Montefortino, e raccoglie innumerevoli pellegrini, soprattutto nella stagione primaverile ed estiva. E’ un Santuario che ha intessuto la sua storia con le vicende religiose e con le maliose leggende dei suoi monti fatati, che lo avvolgono e quasi lo opprimono sul fondo valle.
Oggi il Santuario è punto di riferimento, quasi un trait-d’union, per pellegrini ed escursionisti, che abbinano sovente l’intima esigenza devozionale verso la Madonna e il desiderio di salire sui monti, ripercorrendo i sentieri degli antichi cavalieri, nel ricordo gustoso delle favole svaporate per sempre e nel godimento spirituale di immergersi nel cuore di una natura ancora incontaminata, satura di segrete sinfonie e di incantevoli visuali.
2- Una piccola Lourdes tra i Sibillini
Il santuario dell’Ambro sorge in una zona ricca di storia religiosa, con resti archeologici e monumentali di rara suggestione. Nell’abbazia di S. Ruffino, in territorio di Amandola, accanto alla mirabile cripta, chiusa nell’armonia di una simmetrica fuga di colonne, è una cappella sotterranea che sembra il residuo di un tempietto pagano, forse dedicato al dio Sole. C’è chi pensa che fin dal IV-V secolo d. C. i fedeli lo abbiano trasformato in un luogo di culto cristiano. Certo è che le figure parietali, quasi più graffiti che dipinti, rappresentanti gli Apostoli con le teste verso Oriente, in cerca di luce, attestano un’età remota che rende pensosi e che commuove. Con i monaci farfensi provenienti dalla Sabina e stabilitisi nel Piceno verso l’anno 898, con sede principale a Santa Vittoria in Matenano, tutto il territorio fu costellato di monasteri operosi e vivaci, e di chiese, matrici benemerite di alta civiltà nel segno della fede.
A uno dei più noti monasteri benedettini della zona si ricollega il primo documento relativo alla storia dell’Ambro. Un pergamena del 1073 riferisce che l’abate Rollando, superiore del monastero di S. Anastasio, in territorio di Amandola, ed il conte Alberto suo fratello, figli del conte Adalberto, cioè di Grimano quondam Alberti, cedono alla Chiesa della Vergine Santissima, di pertinenza del suddetto Monastero, situata nel luogo denominato Amaro, nel fondo Stateriano, unitamente alla signoria di Castel Manardo, a cui era venuto meno il proprio conte, i terreni di 1042 modioli, nelle vicinanze della stessa Chiesa, con le terre, le vigne, i mulini e i follatoi.
Purtroppo la pergamena è smarrita e oggi possiamo leggerne le notizie nelle Memorie storiche manoscritte del fortinese Leopardo Leopardi, vissuto nel secolo XVIII, il quale assicura di averle desunte dall’originale, conservato ai suoi tempi nell’archivio dei Frati Minori del suo paese. Per questo, nell’animo del lettore di oggi permane un pungente desiderio di una più sicura documentazione sulle origini di questo Santuario. E’ questa, comunque, la prima notizia sull’Ambro e sulla sua Chiesa. L’antichissima notizia, per quanto oggi non verificabile sulla pergamena autentica, fa di questo santuario uno dei primi e più remoti fra tutti quelli, nelle Marche, dedicati alla Madonna. Anzi il Fabiani parla del “più antico santuario delle Marche”, in assoluto. La tradizione, poi, indefinibile e percorsa da venature leggendarie, fa risalire le origini del santuario all’anno Mille.
La catena dei monti maestosi, l’acqua che scorre fra forre rupestri, la Madonna che appare a una fanciulla in una roccia, sono tutti elementi che ricorrono anche nella storia delle apparizioni della Madonna alla piccola Bernadette Soubirous, a Lourdes, tra le montagne pirenaiche, con un richiamo simbolico alle acque correnti, fonte di benedizioni e di grazie. E Santina, pastorella del luogo, rievoca alla mente anche la figura di Lucia, la pastorella di Fatima, pure lei veggente, pure lei visitata dalla santa Vergine con apparizioni misteriose, mentre pascolava il gregge. Una tradizione, dunque, remota, le cui voci si perdono nel silenzio dei tempi o si colorano nei racconti, al gusto della fiaba; ma anche una tradizione verisimile, che trova riscontro in altre storie similari del medioevo e delle età successive, e nelle suggestive analogie con i fatti celeberrimi delle apparizioni di Lourdes e di Fatima.
3- Sotto la custodia dei monaci
Una tradizione narra che il Santuario sorse ad opera di una potente famiglia feudataria del luogo, quale ex-voto per una grazia ricevuta. Un’altra chiama in causa i monaci, che avrebbero edificato la chiesetta di “S. Maria in Amaro”. Fra tutti i monasteri dei dintorni spiccava per prestigio e per potenza quello di S. Anastasio di Cisiano, sorto per volere dei Longobardi e favorito dai Carolingi. Estendeva i suoi domini nella zona, fino ai fitti boschi e pascoli, lungo il fiume, del “fondo detto Amaro”. Il primo documento che riguarda questo Monastero risale al 1044 e informa che il Vescovo di Fermo Uberto (994-1044) cedette ad esso la terza parte dei funerali, di sua pertinenza, in alcune Chiese di Monte S. Martino.
L’8 luglio 1073 avvenne la cospicua donazione alla chiesa dell’Ambro da parte di Rollando, abate del monastero di S. Anastasio, alla quale si è fatto cenno. Questo atto giuridico, che contemplava il passaggio alla chiesa Mariana del “fondo detto Amaro” con 1042 modioli di terra, corrispondenti a circa 160 ettari odierni, e con la signoria di Castel Manardo, suggerisce due considerazioni di immediato intuito: anzitutto il Santuario doveva avere una certa notorietà e una discreta importanza locale per essere soggetto ad una così vistosa donazione; inoltre esso, per giungere a tanto doveva essere sorto almeno mezzo secolo prima o circa, cioè proprio intorno al mille, come vuole la tradizione. Sembra che la signoria di Castel Manardo non passasse o non restasse per lungo tempo a questo santuario, ma fosse trasferita ad alcuni feudatari del luogo, i cui discendenti, Pietro e Uffreduccio di Fallerono, nel 1290, vendettero tutti i loro diritti al comune di Montefortino.
Solo dopo oltre un secolo dalla donazione dell’abate Rollando è dato di leggere un altro atto giuridico che richiama il santuario. Vi si dice che nell’ottobre del 1185 i feudatari di Castel Vecchio, Monaldo, Uguccione e Bonconte, detti anche conti Bonifazi, col consenso del Vescovo di Fermo nominarono il monaco eremita Pietro di Santa Maria di Amaro rettore di S. Maria in Staterano. La concessione fu ratificata con un nuovo atto il 1° ottobre 1195, nel quale ricorrono i nomi delle stesse persone. Vi si apprende che l’eremita Pietro doveva avere la sua residenza stabile all’Ambro. I munifici feudatari avevano concesso a Pietro anche le decime tra Monte Rotto e Monte Monacisco, esigendo come canone annuo “due prosciutti” e l’ospitalità per tre giorni all’anno. A chi avesse infranto il contratto, era comminata una multa di cento bizantini d’oro nel 1185 e di trenta nel 1195.
Il duplice atto giuridico ci fa supporre con fondamento che il luogo all’Ambro ormai non era più solo una sperduta chiesina montana, ma cominciava ad assumere la fisionomia di un piccolo santuario, con un custode stabile. Quei munifici Signori confessarono le ragioni della loro donazione a Pietro: “pro anima nostra e dei nostri parenti”. Ma i feudatari di quel tempo, per quanto capaci di gesti generosi che attestavano una viva fede, erano litigiosi e rudi, pronti alle armi per difendere o ampliare, depredando i possedimenti, attenti alle “decime” e ai “prosciutti” loro dovuti.
Si ha notizia, infatti, che il santuario dell’Ambro negli anni successivi fu spogliato e profanato dalla famiglia di Rainaldo di Simone. I suoi figli Ruggero e Guglielmo, pentiti, il 15 ottobre 1235, davanti alla chiesa dell’Ambro, presente il notaio Giovanni e alcuni testimoni, “di loro spontanea volontà, mossi da divina ispirazione, a rimedio dell’anima loro e dei loro genitori, restituirono la Chiesa di Santa Maria in Amaro, con tutti i diritti, le entrate e le uscite ad essa spettanti, a Giovanni, abate del monastero di S. Anastasio”.
Il rogito è di grande interesse perché descrive anche la situazione del santuario in quel momento. Infatti vi si dice che Ruggero e Guglielmo elessero, come loro rappresentante, Ser Scambio, il quale investì l’abate accettante della riavuta autorità sull’Ambro, presente l’intera famiglia della Chiesa, cioè la comunità dei monaci ivi residenti, e lo introdusse nella chiesa, restituendogli l’altare, i libri, gli ornamenti, i mobili e gli immobili della stessa. Vi compare anche il nome del cappellano, Matteo, il quale è detto, oltre che “rettore”, anche “priore”, ciò che conferma la presenza nel santuario di una comunità di monaci, costituenti un piccolo monastero alle dipendenze di quello di S. Anastasio.
La chiesa con un solo altare, era ricca di libri, (a quel tempo rari e preziosi) di ornamenti, di mobili e di immobili; insomma una chiesa-monastero già con una sufficiente organizzazione. Il monastero di S. Anastasio si impegnò per lunghi anni ancora a mantenere un “rettore-priore” all’Ambro. Ne fa fede un antico documento, il quale informa che il 5 aprile 1290 il cappellano di Santa Maria in Amaro, di nome Mainardo, insieme con Tebaldo, monaco di S. Anastasio, e di altri cappellani di chiese dipendenti dello stesso Monastero, pagò una decima straordinaria voluta del Papa Nicolò IV per far fronte alle spese della guerra in Sicilia. Il nome del cappellano dell’Ambro: Mainardo ricompare ancora in una notizia del 20 dicembre 1299, nella quale si conferma la sua appartenenza al monastero di S. Anastasio.
Intanto il Comune di Montefortino, con atti successivi del 1290, 1302 e 1318, veniva acquistando tutti i diritti da parte di alcune famiglie nobili, presenti e proprietarie tra Castel Manardo e Castel Vetice, e quindi il giuspatronato sull’Ambro. D’ora in poi i fortinesi si faranno custodi devoti e quasi gelosi del Santuario. Durante gli anni aspri dei secoli XIV-XV, insanguinati da guerre fratricide e di lotte tra Municipi limitrofi, il piccolo fiero Comune dei Sibillini trovò, nella quieta mariana dell’Ambro, rifugio e conforto. Sembra che per iniziativa dei suoi abitanti, intorno alla metà del secolo XV, la Chiesa sia stata ampliata e restaurata.
4- La nuova immagine della Madonna
Molti Santuari, sorti nel fervore di opere grandi e di progetti ambiziosi, sono poi finiti, nei secoli, nell’oblio e nella fatiscenza. Un esempio è proprio nella regione dei Sibillini: il Santuario di Macereto, splendido nella sua monumentalità dalle forme squisitamente bramantesche, ma solitario, quasi dimenticato sui vasti e muti altipiani di Visso.
Il santuario dell’Ambro, invece, nato quasi timidamente alle pendici di monti arcigni, ha registrato nel tempo un’ascesa lenta, ma costante: da una iniziale cappellina rurale, a chiesa con piccolo monastero, fino ai fastigi di un santuario famoso, sempre frequentato. L’immagine miracolosa ha attirato in ogni epoca folle di fedeli, tanto che nel secolo XVI, secondo un’antica memoria, all’Ambro accorrevano devoti “dalla intera Marca Fermana e dai limitrofi paesi dell’Umbria”.
I fortinesi, già fin dal 1503, avevano in animo di costruire una più ampia e decorosa Chiesa che sarebbe stata realizzata solo un secolo dopo. Nel 1562, però, essi presero una decisione importante: quella di sostituire la vecchia immagine della Madonna, forse consunta, con una statua di terracotta policroma, raffigurante la Vergine seduta col Bambino sulle ginocchia, tuttora venerata. La cerimonia del trasporto della statua fu solennissima.
Vi intervennero i Priori di Montefortino, che invitarono per la circostanza i loro colleghi di Sarnano, ai quali offrirono una lauta colazione, costata ben 12 scudi. Vi furono anche i musici o “trombetti”, ai quali andarono 2 scudi.
Era un modo per rendere sempre più noto il santuario, il quale, tra gli ultimi decenni del secolo XVI e i primi anni del secolo XVII, visse alcuni momenti tra i più fulgidi della sua storia. Le offerte cominciarono ad affluire con ritmo intenso, tanto che fu necessario costituire una Commissione di Deputati e Sindaci per la raccolta, la custodia e l’impiego di esse. La devozione alla Madonna da parte di molti fedeli era risvegliata dalla sua nuova immagine.
Vi furono anche i primi inizi per attuare il progetto che prevedeva un nuovo e più vasto tempio per accogliere le folle dei pellegrini, sempre in aumento. Dagli Atti del Visitatore Apostolico Giambattista Maramonti (1573) si apprende però che i lavori della nuova fabbrica, iniziati da tempo, ristagnavano penosamente. Nel 1582, durante la visita di Mons. Tomeo, essi non avevano progredito. Come mai? Il solito problema amministrativo di sempre: le offerte venivano devolute ad altri scopi “non pii”.
5- Sisto V e la Diocesi di Fermo
Si è detto che il luogo dell’Ambro, fin dalle origini, fu retto dai monaci dell’abbazia di S. Anastasio, i quali ne mantennero probabilmente la custodia anche quando il santuario passò sotto il giuspatronato del Comune di Montefortino. Essi, però, intorno al 1439, dovettero abbandonare il monastero e la chiesa di S. Anastasio e, quindi, anche quella dell’Ambro, con grave pregiudizio della vita spirituale e del culto, in quel luogo suggestivo.
Al loro posto le autorità fortinesi posero, quali custodi, alcuni sacerdoti scelti di volta in volta o offertisi liberamente, talvolta avventizi e quasi sempre dislocati stabilmente presso il santuario. Accanto ai cappellani, che in taluni periodi furono contemporaneamente due, viveva qualche eremita laico, vestito con abito camaldolese e dimorante in un piccolo fabbricato, contiguo alla Chiesa.
Questo stato di cose perdurò fino al secolo XIX circa, e non ebbe seguito la proposta del comune di Montefortino, espressa nel 1744, di affidare il Santuario ai Camaldolesi di Monte Corona, un tempo (dal 1521 al 1563) dimoranti nel vicino Eremo di S. Leonardo de Volubrio, perché sopraggiunsero complicazioni, specie per il fatto che quei monasteri sembravano riluttanti ad ammettere il “l’accorrere di donne” e “di pie adunanze” nella chiesa, per quanto poi si dimostrassero disposti a mitigare, in parte, simili “clausure”. Così sfumò il progetto di creare un grande eremo camaldolese all’Ambro.
E’ importante, invece, notare come ormai nella seconda metà del secolo XVI l’interesse del vescovo della diocesi di Fermo verso il santuario dell’Ambro si facesse sempre più vivo e più puntuale. Lo confermano la Visita Apostolica del Maramonti (1573) e quella vescovile del Tomeo (1582), i quali diedero sagge e rigorose disposizioni alla Commissione dei Deputati e Sindaci per l’amministrazione delle offerte dei fedeli. Un fatto eccezionale accadde con la Visita canonica del cardinale Felice Peretti, il futuro Sisto V, avvenuta nel 1574, quando egli era vescovo di Fermo. Il fiero e implacabile Pastore, constatando che le offerte non venivano destinate al decoro del santuario, in forza di una sua bolla del 25 ottobre 1574, le dirottò, insieme con altre rendite di diverse chiese della sua diocesi, a favore della Cappella musicale nella cattedrale di Fermo, devolvendo parte delle rendite del santuario in beneficio della stessa istituzione musicale. Questa bolla segnò la storia futura della chiesa dell’Ambro che passò al Capitolo metropolitano dei canonici della Cattedrale di Fermo. Cosicché, il 25 gennaio 1575, il canonico Vincenzo Porti, quale procuratore del Capitolo, prendeva ufficialmente possesso dei beni all’Ambro.
Anche in seguito, la premura degli arcivescovi di Fermo verso il santuario si espresse in varie manifestazioni. L’arcivescovo Zanettini, in visita al santuario il 7 ottobre 1578, resosi conto della entità delle offerte, volle che i sindaci prestassero giuramento di registrarle tutte e fedelmente e di consegnarle regolarmente ad un depositario da eleggersi dal Municipio fortinese. Raccomandò anche che si procedesse con sollecitudine alla fabbrica di una nuova chiesa. Nel giugno del 1598, il suo successore Card. Ottavio Bandini, Pastore della diocesi fermana dal 1595 al 1606 e Legato della Marca, si recò all’Ambro per dirimere una questione di confini montani tra Amandola e Montefortino. L’incontro delle parti si sarebbe dovuto svolgere alla Fonte del Faggio, ma sotto la Ripa Rossa, a causa di dirupi scoscesi, il Legato avvertì che non si poteva procedere senza “massimo pericolo”, per cui deviò, retrocedendo verso l’Ambro. Il Card. Bandini temeva i passi pericolosi e a buon ragione, tanto che l’anno successivo (1599) tra le montagne di Ascoli Piceno, proprio in un valico difficile, fu disarcionato da cavallo e riportò una frattura alla gamba che andò poi in cancrena. Solo un miracolo impetrato dal cappuccino Serafino da Montegranaro lo liberò dalla morte. Fu il Card. Bandini a disporre una nuova chiesa ed una nuova statua.
Di continuo, gli arcivescovi Fermani visitarono e beneficarono il santuario dell’Ambro. Mons. Strozzi, l’11 ottobre 1607, vi si recò come pellegrino e diede disposizioni per alcuni lavori di fortificazione della chiesa, già corrosa alle fondamenta dal defluire, talvolta impetuoso, delle acque del fiume. E nella sua Visita pastorale del 1620 comminò pene severe contro alcuni abusi, come l’impiego inopportuno delle offerte, per laute colazioni nei giorni festivi del Santuario.
Fino ai giorni nostri gli arcivescovi di Fermo hanno avuto sempre amorosa cura e spiccata devozione verso questo famoso santuario Mariano della loro diocesi.
6- Sul modello del Santuario di Loreto
Il progetto ripreso ma restato fermo, fu realizzato in parte solo a partire dal 1595, quando il comune di Montefortino fece abbattere un’antica casa, contigua al santuario, e al suo posto fece erigere una tribuna o cappella, quella attuale, a forma quadrangolare (m. 4,45 x 4,35). Dopo sette anni, il 20 ottobre 1602 la statua della Madonna, con solennità, fu trasferita nella nuova cappella dal Priore di Santa Vittoria, Sisinio Marinelli, inviato dall’arcivescovo di Fermo Ottavio Bandini, presente tutto il clero di Montefortino con una moltitudine di fedeli.
Il depositario del santuario, Giulio Parmicesi, ci ha lasciato una Memoria dell’avvenimento, dalla quale si apprende anche che la vecchia demolita cappella, in cui era collocata, precedentemente alla traslazione, la statua della Vergine, era situata “quasi nel mezzo della Chiesa grande”. All’infuori della nuova cappella, sede della statua, gli interventi occasionali di restauro e consolidamento risultarono precari se non addirittura dannosi. Le autorità fortinesi, nel 1601, giunsero alla determinazione di affidare il progetto di una nuova chiesa a un architetto di merito.
Nella regione esisteva ed esiste un Santuario celeberrimo, a quel tempo forse il più famoso della cattolicità: Loreto. Le grandiose realizzazioni architettoniche della Basilica loretana, dovute a nomi assai noti nella storia dell’arte, come Baccio Pontelli, Donato Bramante, Giuliano e Antonio da Sangallo, e altri, avevano sollecitato nel secolo XVI alcune città delle Marche ad avvalersi del genio di quei maestri per la costruzione di insigni monumenti. Agli inizi del secolo XVII, era architetto della Santa Casa di Loreto, l’urbinate Ventura Venturi, figlio di Lattanzio che lo aveva preceduto nello stesso incarico. A lui si rivolsero le autorità fortinesi per una nuova chiesa del santuario dell’Ambro, iniziata nel 1603. Il Venturi concepì il nuovo tempio sul modello della basilica di Loreto, racchiudendo la sua cappella – come un’altra Santa Casa – sotto la nuova volta della chiesa. Non è a dire quante difficoltà egli dovesse superare per i dislivelli dell’aspro e duro terreno, per il trasporto del materiale attraverso ardui sentieri alpestri che erano impossibili durante le dure stagioni invernali. Comunque, intorno al 1610, già era compiuta la parte della navata principale della chiesa che, sola, costò seimila scudi.
Negli anni 1610-1611, i deputati del comune di Montefortino vollero che fosse decorato l’interno della cappella e affidarono l’incarico a un pittore rinomato nel Piceno, Martino Bonfini di Patrignone, il quale probabilmente si ispirò al rivestimento marmoreo della Santa Casa di Loreto per l’idea generale delle sue raffigurazioni mariane. Altri lavori di abbellimento, con pitture e stucchi, nelle cappelle laterali, furono compiuti negli anni successivi. Fra tutti spiccano un’Annunciazione di Domenico Malpiedi (1634) e la cappella detta dei Cavallari, cioè dei membri di questa “congregazione” molto benemerita del santuario, costituita da uomini dediti al commercio dei cavalli e della legna, ai trasporti e spesso migranti nelle Maremme per lavoro.
7- Il Santuario nei secoli XVIII-XIX
Nei secoli successivi, fino ai primi del Novecento, all’Ambro furono eseguiti altri lavori nelle cappelle laterali e nuove decorazioni, come quella dietro la nicchia della Madonna, realizzati verso il 1747 e in parte voluti, nel 1751, dall’arcivescovo di Fermo Alessandro Borgia.
L’afflusso dei fedeli continuò con ritmo costante. E non mancarono doni di fine lavorazione, come alcuni pregevoli arredi sacri e una bella lampada di argento lavorata a Roma nel 1763, dal costo di 60 scudi, fatta eseguire dalla Congregazione dei Cavallari, a spese del loro altare di S. Antonio Abate.
Il noto erudito G. Colucci, compilatore benemerito delle Antichità Picene, assicura che allo scadere del secolo XVIII custodivano il “bel tempio della Beata Vergine dell’Ambro” due eremiti, “stanziati” presso il santuario. E chiama il luogo: “asilo ove la Marca e l’Umbria non cessano di recare i loro voti alla divina Signora”. E annota anche che nel vicino fiume si pescavano le trote, “pesce delicato e pregevole”. Fra le moltissime visite dei pellegrini del secolo merita amorosa attenzione quella di S. Benedetto Giuseppe Labre († 1783), definito lo “zingaro di Dio” per il suo incessante pellegrinare, da Idillio Dell’Era (Martino Ceccuzzi). La sua devota visita all’Ambro restò vivissima nella memoria dei fortinesi, tanto che, dopo un secolo, i vecchi ancora ne parlavano con devozione.
Nel secolo XIX il flusso dei pellegrini si intensificò progressivamente in maniera sorprendente. Il cappellano don Domenico Viceré, il 15 febbraio 1875, così scriveva al Capitolo metropolitano di Fermo: “E’ un fatto che la devozione verso questa S. Immagine di Maria SS.ma dell’Ambro abbia aumentato, piuttosto da formare la meraviglia comune, tanto che nei mesi primaverili è tanta la copia dei devoti che accorrono che bene spesso insufficiente se ne rende la Chiesa”.
Il santuario, alcuni anni prima, nel 1858, aveva corso un grave rischio per le eccezionali piogge. Il fiume Ambro, straripando, rovinò irreparabilmente il romitorio, contiguo alla chiesa, la quale pure restò parzialmente danneggiata. Solo per interessamento di don Domenico Duranti di Vetice, assai più tardi, nel 1868-69, si poté ricostruire il romitorio. Un altro devoto del Santuario della stessa famiglia, Fortunato Duranti (1787-1863), lanciò la splendida idea di una nuova strada carrozzabile per giungere al santuario, idea ripresa ancora, nel 1869, da uno dei più insigni benefattori dell’Ambro: Antonio Serafini.
Egli, appoggiato dal Consiglio comunale fortinese, con l’aiuto di un apposito Comitato, affidava il progetto all’Ing. Francesco Saladini, che lo approntava sollecitamente con felici soluzioni. I lavori furono iniziati il 22 agosto 1898 e con la viva partecipazione dell’arcivescovo di Fermo Roberto Papiri, fortinese, devotissimo della Vergine dell’Ambro, e di numerosi fedeli, furono portati a termine nel 1910. Un Bollettino, dal titolo “Il Santuario dell’Ambro”, organo del “Comitato per la costruzione della strada rotabile”, informava il pubblico sullo stato dei lavori. La nuova strada, per quel tempo opera eccezionale, prometteva al santuario un futuro veramente lusinghiero.
8- I Cappuccini custodi dell’Ambro
Un’epoca di rinnovato fervore devozionale e di brillanti iniziative si apriva quando il Cardinal Amilcare Malagola, Arcivescovo di Fermo (1877-1895) affidava il Santuario dell’Ambro ai Frati Cappuccini delle Marche, chiamati ad aiutare il cappellano, d. Viceré, ed a succedergli, con grande frutto spirituale dei pellegrini. I Cappuccini, dalla barba fluente, con i piedi scalzi, col saio francescano semplice, austeri e insieme popolari, vennero nel Santuario, oranti e ilari, disposti sempre ad accogliere i fedeli, specie per le confessioni, ispirando simpatia e fiducia. Sono esperti nella gestione pastorale dei Santuari mariani, cui si dedicano volentieri con fedeltà e sacrificio, anche per la tradizionale devozione dei figli di S. Francesco alla Madonna. Ad essi è affidata (dal 1934) anche la custodia della Basilica di Loreto.
Il primo cappellano cappuccino, e rettore del santuario dell’Ambro fu P. Francesco da San Ginesio (1897-1913). Per la promozione del culto mariano nel Santuario dei Sibillini, egli visse in osmosi di spirito e di intenti con Antonio Serafini. Frate di forte vita penitenziale e poverissimo, dai modi affabili e candidi, fu rimpianto dai pellegrini che lo invocarono, dopo la morte, come un santo. Sotto il suo rettorato, oltre ai lavori della strada, furono portati a compimento, sempre per merito precipuo del Serafini, alcuni importanti restauri e, con le offerte di molti devoti, emigrati in America, furono acquistati sette lampadari per i tre altari delle cappelle di sinistra della Chiesa, i quali furono anche decorati.
E’ interessante notare come, fino ai giorni nostri, gli emigrati e gli immigrati di questa zona dei Sibillini, sempre abbiano conservato nel cuore una fervida devozione alla Madonna dell’Ambro, espressa anche con offerte frequenti e generose, le quali hanno contribuito alla realizzazione di varie opere di abbellimento del santuario.
Il Serafini, per agevolare il servizio dei Cappuccini, che nei mesi di grande afflusso, maggio e settembre, accorrevano al santuario dal vicino convento di Amandola, insieme con altri sacerdoti diocesani, fece costruire a proprie spese una specie di “conventino”, sul lato sinistro della Chiesa, adibito fino ad oggi ad abitazione dei religiosi, i quali, nel 1951, lo prolungarono verso ovest, adattandolo alle odierne esigenze. Il Serafini si rese ancora benemerito per il consolidamento del santuario, sempre insidiato dall’incessante deflusso delle acque del fiume, talvolta minaccioso nei suoi straripamenti. Sempre col suo danaro, provvide alla costruzione di un gran muro di sostegno, che permise anche di allargare e rendere stabile il fondo della piazza antistante la chiesa. Quasi a coronamento di tutte codeste realizzazioni, il Serafini e il P. Francesco invitarono l’arcivescovo di Fermo Carlo Castelli, a consacrare la chiesa. Ciò avvenne il 7 settembre 1908, con grande tripudio e con straordinario concorso di pellegrini. A ricordo dell’evento, per cura del Serafini, fu posta una lapide in fondo alla Chiesa, a destra di chi entra, e fu coniata una medaglia commemorativa con l’effigie della Madonna dell’Ambro nel recto e dell’arcivescovo consacrante nel verso.
Il santuario meritava una tale solenne consacrazione, anche perché, nella seconda metà del secolo XIX, era stata arricchita dai Papi di vari “privilegi spirituali”. Nel 1869 Pio IX aveva dichiarato “privilegiato” l’altare della cappella della Madonna e aveva concesso indulgenze plenarie e parziali ai pellegrini nelle feste mariane e nel mese di maggio. Leone XIII, nel 1893-1894, le aveva confermate tutte, aggiungendone altre, “a vantaggio spirituale dei vivi e dei defunti”, con intimo gaudio dei devoti.
9 –L’incoronazione della Vergine dell’Ambro
Nel 1913 il rettore P. Francesco da S. Ginesio, incrementando la devozione e il culto della Madonna dell’Ambro, poté ottenere l’ambita incoronazione chiesta dal predecessore al Capitolo Vaticano. Il 4 marzo 1922, con un rescritto all’Arcivescovo di Fermo, il celebre Cardinale Raffaele Merry del Val, sottolineando, significativamente le ragioni per cui la statua della Vergine dell’Ambro era degna di solenne incoronazione, ribadite per ben due volte nel documento: antiquitate praecipue cultus et miraculorum gratiarumque copia et fama. Dice: “soprattutto per l’antichità del culto e per il numero abbondante di miracoli e di grazie”; due connotazioni che sinteticamente individuano e caratterizzano la storia devozionale del santuario.
Il rescritto conferiva alla statua i begli attributi di “preclara e insigne”, e autorizzava l’arcivescovo di Fermo Carlo Castelli a procedere all’incoronazione con diadema aureo, per mezzo di un solenne rito. Ciò avvenne il 9 agosto dell’Anno Santo, 1925, dopo una preparazione con triduo e devote manifestazioni popolari. La cerimonia fu fatta all’aperto e così la statua, dal peso di due quintali e mezzo, usciva, dopo tre secoli, forse per la prima volta, dalla mistica penombra della Cappella, sotto il cielo beato dei Sibillini, che si inazzurra di armoniosa bellezza.
L’arcivescovo Carlo Castelli pose riverente le due corone sul capo della Madonna e su quello del Bambino, fra il tripudio osannante dei fedeli e il festoso crepitar dei battimani. Nella notte fonda, uno spettacolo pirotecnico, eseguito sulle alture di Castel Manardo, lanciò un messaggio di fuochi a tutti i paesi circonvicini, e “fino al mare”, come enfaticamente preannunciava il Programma dei festeggiamenti. La rivista dell’archidiocesi fermana, la Voce delle Marche, pubblicò per la circostanza un Numero Unico, dal titolo L’Ambro, ricco di notizie e di spunti devozionali.
10- Il rettorato di P. Luigi da Monterado
I 22 anni di rettorato del P. Luigi da Monterado (1924-1947), succeduto al P. Bernardino, hanno segnato in modo singolare la storia del santuario. Egli, anzitutto, ispirandosi forse al confratello P. Pietro da Malaga, fondatore animatore della “Congregazione Universale della Santa Casa di Loreto”, diede vita alla Pia Unione di Maria SS.ma dell’Ambro, eretta canonicamente il 4 febbraio 1927 dall’arcivescovo di Fermo Carlo Castelli, e aggregata alla “Primaria Pia Unione Mariana” del Collegio Romano, col godimento delle indulgenze e dei privilegi concessi a quest’ultima. Compito della Pia Unione era ed è di zelare il culto della Vergine dell’Ambro, con preghiere, con offerte e con iniziative varie di promozione. Il 20 febbraio dello stesso anno, poi, a mezzo di Rescritto del Card. Vincenzo Vannutelli, il P. Luigi otteneva l’aggregazione della Chiesa dell’Ambro alla basilica di S. Maria Maggiore di Roma, con la partecipazione di tutti i suoi benefici spirituali.
Il rettore, p. Luigi, ingegno forte e di notevoli capacità organizzative, diede principio ad una serie di iniziative, che trasformarono l’aspetto interno ed esterno del Santuario e lo adeguarono alle moderne esigenze. Nel 1927-28 chiamò all’Ambro il pittore romano Virgilio Parodi per le pitture e per le decorazioni della Chiesa, di cui si dirà più avanti. Nel 1931 acquistò dalla nota Ditta “G. Tamburrini” di Cremona un magnifico organo, che fu inaugurato alla presenza dell’arcivescovo Carlo Castelli e collaudato dall’organista della basilica loretana, Remo Volpi, con la partecipazione della Corale “Lorenzo Perosi” del valente maestro Lavinio Virgili.
Memorabile fu anche il dono di un bel Crocifisso ligneo da parte del Papa Pio XI, nel 1933, a ricordo del XIX Centenario della Redenzione. Lo stesso Pontefice, come attesta una lettera del card. Camillo Caccia Dominioni, si era “degnato di benedirlo personalmente” il 12 agosto dello stesso anno. Il P. Luigi lo fece collocare nella seconda cappella, a sinistra, dedicata fin dal secolo XVII al Crocifisso, organizzando per l’occasione memorabili manifestazioni religiose e rivitalizzando, poi, una simpatica tradizione popolare: l’offerta alla Madonna delle “canestrelle” da parte dei devoti del contado.
Ma l’opera che consegna il nome di P. Luigi alla storia del Santuario è forse la costruzione, su disegno di Giuseppe Breccia, del porticato (1936) e del campanile (1938), il quale ospitò una campana del peso di Kg.1.558, lavorata dalla Ditta “Pasqualini” di Fermo. Il complesso di tutte codeste opere comportò spese enormi che il P. Luigi, con instancabile zelo e ammirevole tenacia, riuscì, a coprire, bussando al cuore generoso degli innumerevoli devoti della Madonna dei Sibillini.
Egli spirò ai piedi di Nostra Signora dell’Ambro la notte del 22 aprile 1947, in una pozza di sangue, ucciso durante una incursione ladresca. Il 22 aprile 1951, con grande affluenza di pellegrini, le sue spoglie, dal cimitero di Montefortino, furono trasportate e tumulate nella Chiesa dell’Ambro, di cui, come dice la Memoria funebre, egli fu “rettore impareggiabile” per la sua “passione di far onorare la Madonna e rendere decoroso l’antichissimo Santuario”.
11- Nel ritmo incalzante dei tempi moderni
I Cappuccini hanno avuto sempre libertà di iniziativa nel santuario, come attesta anche la saggia Convenzione stipulata il 13 aprile 1960 tra il Capitolo metropolitano di Fermo e la provincia Picena dei Cappuccini. Codesto arioso spazio di programmazione e di azione ha permesso loro di far assurgere l’Ambro, negli ultimi tempi, ai primissimi posti fra i Santuari delle Marche, secondo solo a Loreto per notorietà e per frequenza di pellegrini. Per questo esso compare nella prestigiosa collana dei Santuari principali d’Italia, pubblicato dall’editore Rizzoli, nel numero dedicato congiuntamente anche a S. Antonio di Padova.
Nel 1949, l’ufficio di rettore del Santuario fu unito a quello del Superiore del Convento dei Cappuccini di Amandola, perché ormai l’intera comunità dei frati era chiamata all’impegnativo servizio di un Santuario che cresceva con ritmo incalzante. Fra gli altri rettori, P. Sebastiano da Potenza fu presente dal 1949 al 1960. Egli veniva dalla ricca esperienza di Loreto, avendo retto per tre anni quel celebre Santuario. Solerte e colto, egli nel 1951 realizzava un nuovo altare maggiore, in marmi policromi, con la balaustra e con la pavimentazione marmorea del presbiterio; rinnovava il pavimento, pure in marmo, della Cappella, con zoccolatura; effettuava un’apertura sotto il rispettivo altare per permettere di ammirare il luogo cosiddetto dell’Apparizione; ripristinava la pavimentazione, sempre in marmo, dell’intera Chiesa; provvedeva a una nuova sistemazione del piazzale e al restauro ed ampliamento del “conventino”; e altro.
Trasformava la pubblicazione del “Foglietto volante” del Santuario in vero bollettino, dal titolo: Voce del Santuario Madonna dell’Ambro (1955), tuttora in vita, e pubblicava utili opuscoli sulla storia e sull’arte dell’Ambro.
Negli ultimi decenni del secolo, un’opera veramente imponente è costituita dalla rinnovata strada asfaltata, ampliata e rettificata rispetto alla precedente, che qua e là si inerpicava angusta e insidiosa, come un sentiero alpestre, sul filone roccioso, lungo il fiume, scoraggiando spesso i più arditi autisti di pullman. Il merito di questa eccezionale impresa è cominciato con p. Cesare Ugolini, dal 1967 al 1973, rettore della chiesa e direttore del bollettino del Santuario.
In quegli anni furono anche approntati decorosi servizi igienici per i pellegrini, sulla riva sinistra del fiume, fu costruito un salone attiguo alla chiesa, immediatamente dietro il Campanile, adibito a luogo di confessioni per gli uomini, e altre opere. Al P. Cesare Ugolini si deve anche la realizzazione dell’ambizioso progetto della “Casa del pellegrino” (1972), resasi necessaria per l’afflusso copioso dei pellegrini. Essa dispone di camere per ospiti, di sale, anche per eventuali riunioni, di un bar e di una mensa calda, in funzione tutto l’anno, la quale può provvedere a oltre 250 coperti.
Fervido è stato anche il rettorato del P. Maurizio Pierantoni (1973-1979), alla cui iniziativa si deve l’attuale sistemazione della piazza del Santuario (1974-75), elegante e linda nel suo asfalto percorso da bianche linee divisorie per parcheggio d’auto, sotto gli ombrosi e olezzanti tigli; così pure l’ampliamento di spazi circostanti, come quello retrostante la Chiesa, necessari per il posteggio nei giorni festivi di punta. Nel 1974-75 si è proceduto alla scalcinatura dell’intonaco della facciata della Chiesa e del Campanile, tornati a splendere nelle originarie pietre e laterizi rosseggianti.
Il rettore, P. Aurelio Pela (1979-1982) ha rivolto anche una sensibile attenzione alla liturgia, debitamente animata. Per questo ha adeguato l’altare maggiore alle norme liturgiche post-conciliari. Oltre a una geniale sistemazione dell’abitazione dei religiosi e al felice restauro dell’abside, egli ha pensato di creare come un “tempio all’aperto”, per i giorni di grande calca, quando la chiesa non può contenere tutti i pellegrini, utilizzando il prato oltre la riva del fiume, ombreggiata da alti abeti, da delimitarsi con un rustico recinto. E ha vagheggiato la ricostruzione ideale della scena dell’apparizione della Vergine a Santina, presso la Cascata del torrente, sulla nuda roccia, inaugurata nel 1982.
Le visite continue dei pellegrini, anche nel periodo invernale, impegnano i Cappuccini soprattutto nella pastorale delle confessioni, amministrate a migliaia di fedeli. Nei giorni festivi, dall’inizio della primavera all’autunno inoltrato, giungono all’Ambro altri frati dai limitrofi conventi delle Marche, per aiutare quelli della comunità locale. In talune circostanze, come il 15 agosto, festa dell’Assunta, si registrano circa ventimila presenze!

TESORI D’ARTE
Come ogni importante santuario, anche questo all’Ambro vanta un patrimonio artistico di notevole interesse: un cospicuo esemplare di architettura, una superba scultura della statua della Madonna e una serie ricca e variata di pitture.
12- Il Monumento
Si è detto che la chiesa fu costruita dal1603 al 1610, su disegno di Ventura Venturi di Urbino, architetto del santuario di Loreto. I lavori di perfezionamento e di abbellimento proseguirono fin verso il 1640. L’architetto urbinate all’interno concepì la chiesa a una navata, con sei cappelle laterali, tre per parte, e con il presbiterio sopraelevato, sullo stile delle chiese abbaziali benedettine. Da un’apertura ad arco ricavata sopra l’altare maggiore fece piovere sulla cappella retrostante luce indiretta, quasi filtrata, con effetti di mistica suggestione. Tutta la chiesa, d’altronde, prende modica luce da un unico finestrone, sopra il portone d’ingresso, per un sereno clima di raccoglimento e di elevazione dell’anima. Nel complesso, l’interno della Chiesa, rivela un garbato stile tardo-rinascimentale, in una chiara armonia di linee e di spazi.
Il Venturi volle la facciata esterna del tempio disadorna, quasi riflesso rupestre del roccioso paesaggio circostante. Tale essa restò fino al 1936, quando su disegno dell’architetto Giuseppe Breccia, fu arricchita del porticato esistente giustapposto all’antico muro secentesco, cui dona gradevole movimento architettonico, offrendo un utile riparo ai pellegrini. Nel 1974-75, durante la scalcinatura che ha riportato a nudo le belle pietre rosseggianti, la parte centrale superiore del porticato, terminante a terrazzo, è stata trasformata in tettoia, che meglio si intona con tutto l’insieme del monumento.
Negli anni 1935-38, sempre su disegno del Breccia e su interessamento del P. Luigi, è stato costruito il Campanile sul lato destro della facciata, dalle forme tozze e severe, che conferiscono solennità e monumentalità al tempio.
Così il santuario ha assunto le forme più solenni e aggraziate di una piccola Basilica, rosseggiante nelle sue pietre e nei suoi laterizi tra il verde intenso delle pendici dei monti. Il porticato conferma l’evoluzione neoclassicheggiante con gli agili archi. L’abside dopo il recente restauro (1980) appare nella sua primitiva e suggestiva semplicità, richiamando quasi le origini benedettine del santuario.
13- La Cappella
Il gioiello artistico del santuario è la cappella della Madonna, costruita a partire dal 1595 come una piccola “sancta sanctorum”, incastonata dentro la più ampia chiesa, nella zona absidale, aprendo due porticine d’ingresso ad essa, ai lati dell’altare maggiore: quasi un’altra piccola Santa Casa (Loreto) nel cuore del santuario.
Vi spicca anzitutto la Statua della Vergine col Bambino, trasportata al Santuario nel 1562. E’ alta m.1,20 e pesa due quintali e mezzo. L’antica e venerata immagine (a noi sconosciuta) è sostituita con questa statua, in un periodo fervido di progetti innovativi per il Santuario.
La statua, dalle composte e levigate forme di gusto rinascimentale, si fa ammirare per uno studiato contrasto tra la solennità della Vergine, dal volto che accenna a un pacato sorriso materno, con residui stilistici classici nei suoi tratti fisionomici, e la vivacità del Bambino, dal visino sorridente, gesticolante e sciolto nelle sue gambine sulle ginocchia della Madre, e in atteggiamento di benedire con la manina destra. Il manto azzurro della Madonna, punteggiato di fiori giallo-rossi, la veste dal fondo giallo percorso da rosseggianti ricami floreali, i rapidi sprazzi purpurei sulle labbra e sulle gote dei due volti, la fascia bianca del perizoma del Bambino creano una cromia vivace e seducente.
Non si hanno notizie particolari sulla statua, per cui è necessario procedere con congetture stilistiche, circa la sua provenienza e la sua epoca. Anzitutto riguardo alla materia, il Cicconi la dice in “terra cotta”, mentre altri la considerano di “marmo” o di “pietra”. In verità, gli ultimi accertamenti confermano quanto scrive il Cicconi. Le perplessità maggiori permangono sull’origine e sullo stile del gruppo scultoreo. Si scarta l’ipotesi del Cicconi, che pensa a “qualche artista della scuola romana” per una supposta, ma improbabile analogia di questa statua con quella della Madonna del Parto nella Chiesa romana di S. Agostino, dovuta a Jacopo Tatti, detto il Sansovino (1480-1570). B. Molajoli e P. Rotondi (1936) assegnano genericamente la scultura all’”arte marchigiana del secolo XV”, ciò che ripetono in seguito gli altri. Sarei, invece, dell’avviso di ascrivere la statua alla scuola feconda e splendida di Silvestro dell’Aquila, detto Ariscola (†1504) autore del superbo mausoleo di S. Bernardino da Siena nell’omonima basilica dell’Aquila, il quale ebbe valorosi discepoli, come il nipote Angelo Arischia e Saturnino Gatti.
Lo conferma un rapido raffronto tra la “Madonna col Bambino”, anch’essa in terra cotta policroma, collocata nella terza cappella a destra della suddetta basilica, opera dello stesso Silvestro o, secondo altri, del suo discepolo Gatti: le figure della Madonna, all’Ambro come all’Aquila, sono ambedue solenni e pensose, dal manto egualmente infiorettato. Lo confermano, anche, e soprattutto, le immagini del Bambino, tutti e due in vivace atteggiamento, seduti sul ginocchio destro della Vergine, con analogo gestire delle piccole e tornite braccia e con la quasi identica posa delle gambine, liberamente abbandonate. Per tali considerazioni, sarei propenso ad assegnare il piccolo capolavoro del santuario dell’Ambro alla scuola abruzzese dell’ultimo scorcio del secolo XV o dei primissimi anni del secolo XVI, così sensibile ai canoni rinascimentali e anche così attenta alla sua mirabile tradizione statuaria, facendo uno specifico riferimento all’area culturale di Silvestro dell’Aquila. Non si dimentichi che il santuario dell’Ambro è nel Piceno, limitrofo con la regione abruzzese.
Fino a poco dopo il 1910 la statua era ricoperta da una veste di seta con filetti d’oro e da un ampio manto, come appare da vecchie fotografie. L’ultima veste fu donata nel 1872 dai fratelli Filippo e Antonio Serafini, i quali offrirono anche una vetrina di pregevoli cristalli, posta dinanzi al simulacro. Ma poi fu lo stesso Serafini, con felice intuito, d’intesa con l’autorità competente, a proporre che la statua venisse liberata dalla veste e fosse restituita allo splendore della sua vivida policromia. L’attuale cristallo della vetrina è dono di O. Granalli (1951).
Il baldacchino, in legno intagliato e indorato, entro cui è collocata la statua, è fatto risalire al tempo della decorazione della Cappella (1610-11) e dal Cicconi viene attribuito a un anonimo artista romano. Sarei, invece, dell’opinione di attribuire questo ornato ligneo allo stesso Martino Bonfini, il quale, oltre che pittore, fu anche abile intagliatore, come attestano due suoi altari in legno, scolpiti e indorati, l’uno per la Chiesa di S. Agostino (1607) e l’altro per la Chiesa di S. Cristoforo, entrambi ad Ascoli Piceno. Comunque sia, l’artista, secondando un moderato gusto barocco, caratteristico del tempo, ravvisabile nelle volute del fregio della base, nel fogliame e nelle linee spezzate della cornice del baldacchino, ha saputo creare un’elegante opera d’arte lignea. Le corone d’oro della Vergine e del Bambino risalgono al 1925, quando fu celebrata la solenne incoronazione dall’Arcivescovo Carlo Castelli, e sono opera della oreficeria Lorioli e Castelli di Milano.
14- I dipinti di Martino Bonfini
I Deputati del Comune di Montefortino affidarono a Martino Bonfini da Patrignone (Montalto Marche) la pittura della Cappella, eseguita a olio su muro nel 1610-11, dandogli a lavoro compiuto 300 fiorini. Sulla formazione artistica di Martino Bonfini, componente della nota famiglia di pittori e di ebanisti, fra cui spiccò soprattutto lo scultore in legno Desiderio (1576-1634) si hanno poche notizie. Il primo documento che lo riguarda risale al 1584, e segnala il suo matrimonio con Antonia di Federico. Sembra che abbia appreso i primi rudimenti dell’arte pittorica da Giacomo Bonfini, ritenuto suo zio, ma è più certo che poi abbia approfondito i suoi studi ad Ascoli Piceno, dove era operoso il fertile Nicola Filotesio, detto Cola dell’Amatrice, di cui, a detta di quasi tutti gli studiosi, “fu tardo discepolo”. Forse è meglio dire imitatore e seguace della sua maniera, giacché è improbabile che egli, per ragioni cronologiche, abbia potuto frequentare la bottega del Filotesio, morto nel 1559.
C’è chi dice che il Bonfini era sensibile all’influsso di Vincenzo Pagani di Monterubbiano (1490-1568), attivissimo nel Piceno, ma i raccordi stilistici scoraggiano una simile ipotesi. L’ambiente pittorico ascolano sul finire del secolo XVI e agli inizi del secolo XVII era abbastanza fervido per la presenza, oltre che di Cola, artista fluttuante ed eclettico, anche di Carlo Allegretti di Monteprandone, di Pietro Gaia, di origine veneta, di Simone De Magistris da Caldarola e, verso il 1610, del versatilissimo Andrea Lilli, anconetano.
Di quest’humus culturale locale si è imbevuto Martino, aperto a tutti gli apporti, con una spiccata tendenza al colorire vivace, che gli veniva proprio dall’esempio del veneto Gaia e dall’Allegretti, specie per talune cromie rosseggianti, quasi sfumanti verso il color rame, com’è in una natività della Vergine del monteprandonese, nella pinacoteca di Ascoli Piceno. Il Bonfini fu attento anche ad altri artisti, suoi contemporanei, attivi nel Piceno, con l’occhio fisso ora al Pomarancio, capace di attingere un suo linguaggio pittorico nella inquieta temperie manieristica del suo tempo.
L’attività del Bonfini è stata abbastanza intensa, intercalata anche con la sua occupazione di esperto ebanista. Da giovane dipinse per la Confraternita del SS. Sacramento del suo paese, della quale fu Priore, poi attese al ciclo dell’Ambro nel 1610-11, il più impegnativo, quindi, nel 1622, eseguì per il Comune di Ripatransone un dipinto raffigurante S. Isidoro e S. Filippo, per il quale ebbe il compenso di 50 fiorini. Nel 1626 portò a termine gli affreschi nella Chiesetta della Madonna della Misericordia a Tortoreto, rivendicati a lui da Emilio Luzi, e, infine, nel 1631 ebbe un pagamento per alcune figure di angeli a Montalto Marche. Nel 1617 aveva preso in affitto una bottega nel sestiere di S. Cristoforo, ad Ascoli Piceno, esplicandosi l’attività di intagliatore, con la collaborazione del cognato Carlo Farina. Si ignora l’anno della sua morte, anche se qualcuno cerca di fissarlo al 1635, senza però un documento certo.
Il ciclo mariano dell’Ambro è senz’altro il capolavoro del Bonfini pittore. Egli, come l’architetto Venturi, guardò al santuario di Loreto, perché si può agevolmente supporre che si sia ispirato, non solo al rivestimento marmoreo della Santa Casa, dove sono scolpite scene della vita della Madonna, tra statue di Sibille e di profeti, ma anche e forse più ancora agli affreschi di Cristoforo Roncalli, detto il Pomarancio, eseguiti poco prima (1605-1610) nella Sala del Tesoro, raffiguranti anch’essi storie della Vergine tra Sibille e Profeti, con festoni, in stucco, opimi di frutta e fiori, affreschi che ebbero una immediata e vasta risonanza in tutte le Marche. A Loreto poté vedere anche gli affreschi, su tema mariano, di Federico Zuccari, eseguiti nella Cappella dei Duchi di Urbino tra il 1582-83. Il Bonfini ha ripartito la piccola cappella, quasi quadrata (m. 4,45 x 5,35), in sei ampie sezioni, compresa la volta, raffigurando nella parte destra, in basso la Circoncisione e sopra la Visitazione, nella parte sinistra, sotto la Presentazione di Maria al Tempio e sopra lo Sposalizio; nella parete di fronte alla nicchia, in alto, il Riposo della S. Famiglia; e, infine, sulla volta, come aveva fatto il Pomarancio a Loreto, l’Assunzione.
Nei riquadri laterali ha dipinto dodici Sibille recanti scritte profetiche, delle quali quattro, più in basso, a dimensioni quasi naturali (Cumana, Eritrea, Ellespontica e Agrippa), e otto, più in alto, là dove gli spazi si incurvano nella volta, a dimensioni più ridotte. Sotto le Sibille ha raffigurato quattro Profeti, quasi a dimensioni naturali: Mosè e Salomone a destra, Geremia e David a sinistra. Nei divisori corrono piccoli festoni fruttiferi, a stucco, e motivi esornativi di un gusto oscillante tra il tardo rinascimentale e l’incipiente barocco. Una folla di figure, ben 74, popolano gli esigui e opachi spazi della mitica Cappella.
La Circoncisione (cm. 180 x 245) appare il dipinto di più vasto respiro e di più severo impegno per il gran numero di personaggi, e anche il risultato artistico più convincente del Bonfini, grazie a una sapiente unità compositiva che trova il suo fulcro psicologico e di convergenza lineare nel Bambino Gesù, attinge i suoi momenti poetici nel trepidare della Vergine in ginocchio, dal nobile e soave gestire nel panneggio elegante delle sue vesti, ha il suo tocco devozionale nel vecchio Simeone in adorazione davanti al Bambino e il suo contenuto dinamismo nella tesa partecipazione all’evento di tutti i numerosi personaggi circostanti, recanti – alcuni – gli oggetti liturgici per il rito. Non vi manca neppure una vistosa inserzione convenzionale nel personaggio di primo piano, una specie di commentatore del fatto fuori scena, immaginato sul gusto e sulla scia del manierismo romano. Il Bonfini può aver visto la Circoncisione del Boscoli, eseguita per il duomo di Fermo nel 1601, mutuandone lo spunto per la figura della Vergine, in collocazione inversa ma dall’identica vibratile tensione psicologica e dai similari segni fisionomici. Tuttavia egli ha sentito il soggetto in maniera più contenuta, meno dinamicamente espressa rispetto al Boscoli.
La Visitazione, dipinta nel rettangolo sovrastante (cm. 150 x 240) è concepita sui modelli usuali del manierismo del tempo e, a mio avviso, limitatamente alle figure della Madonna e di Elisabetta, fa diretto riferimento per l’impaginazione compositiva all’omonimo soggetto del Boscoli, eseguito a fresco in Santa Maria Piccinina di Fermo verso il 1603. Solo che il Bonfini inverte la posizione dei due personaggi, immaginati su una piccola scalinata, con le figure di Zaccaria e di Giuseppe in analoga inversa collocazione e con le comuni aperture paesistiche a lato di un emergente fabbricato: una stessa scena concepita in senso inverso, forse per contingenti esigenze spaziali, ma vissuta, sul piano stilistico, in maniera assai differente: asciutta, rapida e tesa la rappresentazione del Boscoli; devota, tenera, quasi oleografica, ma con freschi dati popolareschi nella figura di S. Giuseppe, quella del Bonfini.
La Presentazione di Maria bambina al Tempio (cm. 180 x 245) è concepita pure su schemi compositivi assai ricorrenti a quel tempo, e fa venire in mente le tele del Ridolfi sullo stesso soggetto, specie quella proveniente da Ascoli Piceno e ora alla Galleria di Urbino, forse degli anni 1603-1605, per lo stesso impianto scenico, con la Fanciulla che corre verso il vecchio sacerdote in atto di accogliere lungo le scale i due genitori che la seguono trepidanti, mentre sullo sfondo si apre uno scenario di edifici (Basilica di Loreto ?) con paesaggio a lato. Ma, fuori dell’idea, nulla è nel Bonfini della linda compiutezza ridolfiana.
Lo Sposalizio ha reminiscenze remotamente raffaellesche e immediatamente del manierismo in genere, come la figura muliebre con torcia, quasi di boscoliana memoria. Analogie si colgono, in specie, con l’omonimo soggetto del Pomarancio nel Tesoro di Loreto, a partire dai due Sposi in atto di scambiarsi gli anelli dinanzi al Sacerdote mitrato, dal S. Giuseppe col giglio sulla mano sinistra, e dal giovane seduto e deluso sul lato sinistro, in primo piano. Così pure il pittore sembra ispirarsi da vicino allo Sposalizio loretano di F. Zucchari. Il dipinto del Bonfini, però, più affollato e alquanto stretto in un incerto giuoco prospettico, cede allo scaltrito magistero del Pomarancio, più consapevolmente memore dello Sposalizio di Raffaello.
Il Riposo della S. Famiglia, percorso da ricordi di altri pittori manieristi, rivela una sua più perspicua originalità per quelle note popolari, tanto care talvolta anche a Simone De Magistris, ravvisabili nel Bambino vicino a un sacco, nel S. Giuseppe inarcuato e tutto affaccendato. Raffigurato da tergo, e negli angeli ministranti sulla sinistra, entro uno scenario di alberi annosi.
L’Assunzione, invece, è concepita dal Bonfini su convenzionali e noti paradigmi compositivi e tematici, con un tentativo di pittura aerea che fa una prova sufficiente nel volo angelico della Vergine, ma rivela limiti nell’Eterno librato negli spazi celesti, e come rimpicciolito, troppo ravvicinato per mancata profondità prospettica.
Le Sibille, tutte contenute entro i lacunari laterali, appaiono vive o pensose nel loro inesplicato vaticinare, dai volti giovanili, in vari atteggiamenti e scorci. I Profeti, a tutta figura, sono ritratti con intenti quasi scultorei, resi solenni e statuari nella loro eloquente monumentalità.
In conclusione, l’arte del Bonfini qui fa la sua prova più compiuta e più personale, oscillante tra la convenzionalità manieristica di varia matrice, assimilata dal pittore grazie alla mediazione locale dell’ambiente pittorico ascolano e piceno, certo non spento a quel tempo, e tra una fresca spontaneità, talvolta quasi popolaresca, che vince la molteplicità delle reminiscenze e delle ibride assimilazioni, per secondare una “verve” narrativa più realistica e piacevole. Vi emerge, infine, una tonalità specifica del Bonfini, amante dei colori quasi puri, senza troppe sfumature o “sottotoni”. I rossi accesi, gli azzurri vivi, i verdi e gli arancioni diffusi brillano nel frangersi metallico delle vesti seccamente frastagliate, con riflessi rapidi e pungenti.
Le decorazioni dentro e nel retro della nicchia della Madonna risalgono – sembra – al 1751, volute dall’Arcivescovo di Fermo Alessandro Borgia. Nella fascia superiore, a tinte azzurrognole e rossastre, quasi monocromatiche, sono raffigurati aggraziati angeli musicanti, mentre in basso a tempera, su tonalità uniformi di rosso ruggine, è dipinta la Natività della Vergine con vivace gusto popolare. Si tratta di dipinti a monocromo, d’ignoto autore, di apprezzabile fattura. Alla stessa epoca dovrebbe risalire l’ampio fregio ligneo indorato, ad arco.
La porticina del ciborio, in argento indorato, è opera del piacentino Giovanni Tosi (1951).
Nel 1948, dietro l’altare della Madonna è stato collocato un quadro di Domenico Giacinti, raffigurante l’Apparizione della Vergine a Santina.

15- Opere d’arte nella Chiesa
L’altare maggiore e il presbiterio, in marmi policromi, furono rinnovati nel 1951 su disegno di Angelo Pettorossi e modificati nel 1980, per esigenze liturgiche, su idea del recanatese Don Antonio Castellani, che ha recuperato l’antico paliotto ligneo secentesco, indorato, già collocato altrove, e ha utilizzato le colonnine del presbiterio per farne due eleganti amboni, sormontati da leggii in metallo con simboli finemente scolpiti dal Franceschetti di Macerata.
Sopra l’altare maggiore spicca l’Annunciazione, dipinta su tela da Domenico Malpiedi di San Ginesio del 1634 per commissione dei Deputati del Comune fortinese. Pittore assai attivo nelle Marche, il Malpiedi ondeggiò tra la maniera degli Zuccari e quella del Barocci, facendosi apprezzare a volte per il morbido e pastoso degradare delle tinte, com’è in una Pietà per S. Francesco di Osimo, e per quella grazia, così tipica dei barocceschi, dei quali subì il fascino, specie – sembra – attraverso Filippo Bellini. Questa Annunciazione si fa ammirare per la grazia disegnativa, per le soluzioni cromatiche tenere, chiare e vivaci, per il garbo delicato delle due figure, in pacato e trepido colloquio. Meno felice, invece, appare il Malpiedi negli altri lavori delle Cappelle laterali, a lui attribuibili su base di analisi stilistica.
Non si intonano sempre perfettamente col disegno generale della Chiesa, col dipinto del Malpiedi e con gli altri delle Cappelle laterali due grandi pitture murali e la decorazione dell’intera Chiesa, eseguite da Virgilio Parodi, coadiuvato dal discepolo Mario Di Nunzio, nel 1927-28, a ricordo del IV centenario della Riforma Cappuccina. Il Parodi, proveniente dal laboratorio vaticano di restauro, rivela una formazione accademica, che lo induce a esiti convenzionali, con una certa discontinuità stilistica, in queste grandi scene murali, a tinte dense e a passate ampie, quasi di un insicuro gusto impressionistico, e nelle figurazioni di donne bibliche nella volta della Chiesa, condotte con scolastica accuratezza di disegno e sobrietà di tinte, nel segno di un chiaro accento classicheggiante, che raffrena l’impeto ispirativo.
Il dipinto del presbiterio raffigura, in due sezioni, a sinistra la scena dell’Apparizione della Vergine col Bambino a Santina, in ginocchio in atto di offrirle fiori, a destra i Santi Francesco, Benedetto e Romualdo, fondatori degli Ordini cappuccino, benedettino e camaldolese, che nei secoli hanno custodito il Santuario dell’Ambro. Tutto è narrato in un tripudio di verde e di fiori, il quale più si accorda col paesaggio esterno che con lo stile dell’interno della Chiesa.

Sopra la porta d’ingresso campeggia il dipinto della Vergine dell’Ambro, con a sinistra i Soldati reduci dalla guerra del 1914-18, e a destra il Papa Benedetto XV, che invocò la Madonna “Regina della pace”, tutti in atteggiamento orante davanti al simulacro della Vergine dell’Ambro.

Nella fascia del soffitto il Parodi ha raffigurato le donne dell’Antico Testamento che hanno prefigurato la Madonna: Ester, Resfa, Anna, Giuditta, Rachele, Debora, Ruth e la Regina di Saba, tutte circoscritte entro il disegno di semplici nicchie.
Nelle formelle ottagonali il pittore ha rappresentato gli emblemi delle litanie lauretane e gli stemmi di alcuni Papi, benemeriti di questo Santuario. I quattro tondi sulle pareti dell’altare maggiore e di fondo raffigurano i Quattro Evangelisti.
Le pareti e le volte della Chiesa hanno riacquistato vivacità per i ritocchi di tinteggiatura de 1981.

16- Le cappelle laterali conservano oggetti d’arte antichi e pregevoli.

– La prima Cappella a destra è dedicata a S. Antonio di Padova. Gli stucchi e i dipinti, compresa la pala dell’altare, probabilmente risalgono al 1751, quando P. S. Lamponi istituiva in questa Cappella, eretta dalla sua famiglia, una cappellania laicale. E’ supponibile, comunque, che alcuni dipinti, per considerazioni stilistiche, possano ascriversi alla metà circa del secolo XVIII. La pala, raffigurante la Madonna col Bambino e S. Antonio, dal classicheggiante impianto marattesco, fa venire in mente le opere, di consimile fattura, uscite dalla feconda bottega di Ubaldo Ricci, fermano († 1751), proseguita dai suoi nipoti Filippo (1715-93) e Alessandro (1749-1829). […]
– L’altare successivo (mediano), già dedicato a S. Filippo e S. Liberato e ora a S. Giuseppe (statua), inizialmente fu eretto tra il 1613 e il 1624 dalla famiglia Benvenuti. A quegli anni risalgono gli stucchi dorati della volta. […]
– Più interessante storicamente e artisticamente è il terzo altare di destra, già dedicato a S. Antonio Abate, detto dei Cavallari, una congregazione di lavoratori, dediti al commercio dei cavalli e migranti nelle Maremme. Essi, verso il 1634, fecero costruire questa cappella, i cui stucchi e pitture sono attribuibili al Malpiedi, che nella Chiesa di S. Maria di Loro Piceno, stando al Cicconi, eseguì lavori quasi identici a questi. Di gusto popolare, molto espressivo, sono i dipinti delle pareti: Conversione di S. Paolo e Miracolo di S. Antonio. La pala dell’altare, raffigurante le Stimmate di S. Francesco, è del pittore contemporaneo Domenico Giacinti, donata al Santuario nel 1928 dalla famiglia Nisi. Essa si fa ammirare per intensità cromatica e per uno stile, in equilibrio tra richiami figurativi classicheggianti e suggestioni impressionistiche, specie nelle vibrazioni luminose, e ha momenti felici nella tensione estatica del Serafico inondato di luce.
– Il terzo altare a sinistra è consacrato a S. Michele Arcangelo, e fu costruito tra il 1620 e il 1634 dalla famiglia Pavoni. A quell’epoca risalgono gli stucchi e le indorature della volta, nonché il bel paliotto di cuoio. La pala raffigurante S. Michele in un volo di vesti, con la spada in mano in atto di colpire il mostro infernale, è ascrivibile allo stesso Domenico Malpiedi, in quegli anni attivo nel santuario (1634), o a qualche suo discepolo.
– Il secondo altare a sinistra (mediano) è consacrato al Crocifisso e risale al secolo XVII. Un tempo vi era un’opera d’ignoto autore, raffigurante il Cristo in Croce, S. Maria Maddalena e S. Francesco. Nel 1933 vi è stato collocato il Crocifisso ligneo, donato e benedetto da Pio XI, a ricordo del XIX centenario della Redenzione. L’altare in marmo policromo, settecentesco, proviene dalla Chiesa di S. Serafino da Montegranaro dei Cappuccini di Ascoli Piceno, ed è stato qui trasferito nel 1949, quasi a ricordo di quel Santo, il quale, in visita a questo Santuario, salito sull’altare per spolverare la statua della Madonna, nel dire: “Madonna mia, quanto sei bella!”, sarebbe stato rapito in estasi.

– Il primo altare a sinistra è detto della Madonna dei pellegrini e fu eretto nel 1864 col danaro di Fortunato Duranti, pittore, collezionista e fondatore della ricca Pinacoteca di Montefortino. Egli lo dotò di preziosi quadri. Anzitutto la pala dell’altare, che è splendida copia della Madonna di Loreto o dei pellegrini (200 x 150) del Caravaggio (1561-1633), il cui originale si ammira nella Chiesa di S. Agostino a Roma. […] Sulla parete il quadro rappresentante la Vergine con il Figlio, S. Giovanni Evangelista e S. Francesco orante, ha molto dei bei modi di Solimena (1657-1717) e di C. Giaquinto, suo discepolo.
Ammirevoli sono pure […] alcune figure lignee con scene profane, scolpite sul gradino, che facevano parte di una cinquecentesca cassa di sposa. Altre consimili figure in legno sono conservate nella Pinacoteca fortinese e sono giudicate dal Serra della “maniera di Antonio Lombardi” (fine secolo XVI). La stessa valutazione a queste piccole e delicate sculture lignee. Il Duranti donò ben 14 quadri per questa Cappella.
CONCLUSIONE
Fede, arte e natura convivono in questo Santuario mariano che da secoli accoglie miriadi di pellegrini, desiderosi di quiete interiore e, oggi, anche di spazi verdi e silenti. Qui sono venuti in pellegrinaggio santi famosi, come, presumibilmente, S. Liberato da Loro Piceno (†1620), Beato Antonio d’Amandola (1355-1450), e, certamente, S. Serafino da Montegranaro (1540-1605), S. Benedetto Giuseppe Labre (1748-1783) e la Beata Maria Assunta Pallotta (1878-1905).
Qui sono venuti e vengono fedeli con l’animo in pena per chiedere aiuto alla Vergine, prodiga di grazie. Qui accedono escursionisti e turisti.
Dal sorriso mite e materno della Madonna dell’Ambro a tutti giunge un messaggio di Amore e di Salvezza, che è nel Bimbo seduto sulle sue ginocchia, in soave gesto benedicente.
Da questo fondo valle si possono contemplare solo cime ardite di Monti e, più su, luminosi ritagli di cielo azzurro, limpido e carico di superiori allusioni.
NOTA: L’autore Santarelli nel 1981 dava la bibliografia sul Santuario: P. FERRANTI, Memorie storiche della città di Amandola, Ascoli P. 1891 e ediz. totale 1985 ; G. CICCONI, Il Santuario dell’Ambro in Montefortino, Fermo, 1910: studio fondamentale che si avvale di una doviziosa documentazione fra cui un Compendio storico di Maria SS. dell’Ambro…… compilato per cura di un divoto Fortinese; P. LUIGI DA MONTERADO, Cronaca del Santuario dell’Ambro (1906-1929), ms conservato nell’Archivio del Santuario; IDEM, La Madonna dell’Ambro – Cenni storici, Tolentino, 1934; P. SEBASTIANO DA POTENZA, Cenni storici del Santuario della Madonna dell’Ambro, Tolentino, 1951; IDEM, Martino Bonfini pittore della Madonna nel Santuario dell’Ambro, Ascoli P., 1958; C. UGOLINI, Il Santuario Madonna dell’Ambro, 1972 e 1984; G. CROCETTI, S. Leonardo. L’eremo dei Sibillini, Santuario dell’Ambro, Montefortino, 1978, 111-124; e articoli nel periodico “Voce del Santuario Madonna dell’Ambro”
(La digitazione del libro è stata effettuata da Albino Vesprini.
Si ringrazia vivamente l’autore che ne consente la divulgazione)

EXCURSUS

LE SIBILLE DEL BONFINI NEL SANTUARIO DELL’AMBRO (P.Giuseppe SANTARELLI)
Il pittore Martino Bonfini, tra il 1610 e il 1611, ha dipinto la Cappella dell’Apparizione del Santuario dell’Ambro, narrandovi i momenti salienti della vita della Madonna e raffigurandovi Profeti e Sibille tutto intorno. Egli è stato guidato nel suo lavoro da una chiara concezione teologica: ha voluto rappresentare le profezie bibliche e pagane relative alla Madonna e il loro compimento nelle varie fasi della vita di lei. In ciò il Bonfini non fu originale, perché si ispirò sicuramente al rivestimento marmoreo della S. Casa di Loreto, che quell’alta concezione esprime in sovrane forme scultoree, e forse anche al Pomarancio che, fra il 1605 e il 1610, affrescando la Sala del Tesoro loretano, ripeteva, proprio in quegli anni, l’idea teologico- figurativa del rivestimento marmoreo.
Ciò che sorprende nel Bonfini è il fatto che egli, mentre dedica solo quattro spazi alla raffigurazione di altrettanti Profeti (Mosè, Salomone, Geremia e David), riserva ben dodici riquadri alla rappresentazione di altrettante Sibille, otto disposte a cerchio sulla volta, di piccole dimensioni, e quattro dipinte sulle pareti quasi a grandezza naturale (Cumana, Eritrea, Ellespontica e Agrippa). Nel rivestimento marmoreo della S. Casa di Loreto la disposizione delle figure dei Profeti e Sibille e delle scene della vita di Maria è artisticamente e teologicamente più persuasiva, giacché a ogni statua di Profeta, collocata in una nicchia in basso, corrisponde in alto, in altra nicchia, la statua di una Sibilla, in una simmetria di concetti e di forme tipicamente rinascimentale.
Non è che il Bonfini, rappresentando dodici Sibille di fronte a quattro Profeti, volesse attribuire maggiore importanza alle antiche veggenti, perché egli, assai probabilmente, è stato indotto ad una simile ripartizione soltanto da esigenze decorative, pago di realizzare una simmetria teologico-pittorica nelle quattro figure di Profeti, poste a fronte delle quattro figure grandi di Sibille. Le piccole figure delle altre otto Sibille sulla volta, pertanto, debbono considerarsi elementi decorativi nell’intera economia artistica dell’opera. Tuttavia, l’osservatore comune spesso non sa spiegarsi perché mai le Sibille, profetesse del paganesimo, siano entrate a far parte di certe costruzioni teologiche del cristianesimo. Qui non intendiamo affrontare il problema di fondo sulla esistenza storica delle Sibille, ammessa da alcuni e negata da altri, per le spesse incrostature mitiche che le respingono nella sfera della leggenda: vogliamo solo ricordare che i Padri della Chiesa, a cominciare dal Pastore di Erma fino a S. Clemente Alessandrino, a Origene, a Lattanzio e a S. Agostino, non solo non dubitarono dell’esistenza delle Sibille, ma le considerarono inconsapevoli profetesse dell’avvento di Cristo, fino a che, specie nel Medioevo, non furono addirittura equiparate al Profeti biblici. Lo testimonia un noto verso del Dies irae; “ teste David cum Sibilla” cioè, il Profeta David e la Sibilla sono elevati al ruolo di testimoni nel giorno del Giudizio universale.
Da qui l’enorme fortuna delle Sibille nell’arte cristiana che, abitualmente in numero di 10, le raffigurò più volte nel Medioevo e nel Rinascimento, fino ai fastigi supremi dell’arte di Raffaello, che le dipinse nelle Stanze Vaticane, e di Michelangelo, che le rappresentò nella Cappella Sistina. Ad ogni Sibilla si attribuiva un detto profetico, riferito a Cristo o alla sua Vergine Madre. Ad esempio alla Sibilla Ellespontica veniva messo in bocca questo vaticinio: “Un vergine, predestinata alla divinità, partorirà un figlio sfolgorante di luce”; l’Eritrea (proveniente da Eritre nell’Asia Minore) avrebbe pronunciato questa frase: “Dal cielo verrà un futuro re dei secoli, che una vergine ebrea, di nobile stirpe, porterà”; la Cumana, la più celebre di tutte per essere entrata nel poema di Virgilio, avrebbe così profetato: “Allora Dio, dall’alto Olimpo, invierà un re, e una sacra vergine nutrirà col suo latte il re dell’eterna milizia”.
E’ ovvio che si tratta di vaticini spuri, cioè inventati o, per lo meno, sostanzialmente aggiustati all’era cristiana (e in tempi neppure tanto remoti). Ma il fatto rivela una profonda concezione cristiana, che intende coinvolgere nell’avvento di Cristo tutta la storia, sacra e pagana, anche questa tesa a realizzare inconsapevolmente, per un misterioso disegno di Dio, l’era messianica della salvezza, che trova in Cristo il punto di arrivo e di partenza di tutta la storia umana.
Vorremmo, infine, far notare come la figura della Sibilla Cumana nel Santuario dell’Ambro sia raffigurata in forme prosperose di una giovane donna, nella quale potresti leggere una segreta seduzione femminile per il suo florido e vivace aspetto, che maggiormente spicca di contro alle forme, quasi avvizzite, delle altre tre Sibille. Per spiegare il fatto ci si potrebbe ricollegare al mito della profetessa del vicino Monte Sibilla, identificata con la Sibilla Cumana fin da Andrea da Barberino nel suo famoso Guerin Meschino. E siccome la leggenda della celebre grotta sibillina parla di una profetessa, la Cumana appunto, che nel Medioevo si trasforma in una Circe ammaliatrice, chiusa in un regno di voluttà e intenta a invischiare, nei suoi amori fatali e infernali, cavalieri d’ogni parte d’Europa, ecco allora che il Bonfini, dipingendo in un Santuario situato quasi ai piedi della fatidica grotta, poté essere indotto a riassumere nella figura della Sibilla Cumana tanto il tema della profezia, espressa nel libro del vaticinio, quanto il tema della voluttà, alluso nelle forme di una donna dai maliardici connotati.
E si ricordi che, secondo la leggenda, come scrive Andrea da Barberino, la profetessa Cumana fu esiliata sugli impervi Monti Sibillini, per essersi orgogliosamente irritata contro Dio, che aveva scelto la Madonna e non lei quale Madre del Salvatore. E così, da vergine profetessa e inaccessibile, si trasformò in donna diabolica e seduttrice, regina di un fatale regno di lussuria; e da profetessa delle glorie di Maria, divenne superba rivale di lei, precipitando in un luogo di eterna perdizione, evocato con sortilegi infernali. (“Voce del Santuario della Madonna dell’Ambro” n. 96, a. 2000-1 pp. 15-16)

I CAPPUCCINI E IL SANTUARIO DELL’AMBRO (p. Giuseppe santarelli)
La prima notizia di una presenza pastorale dei Cappuccini nel santuario della Madonna dell’Ambro risale alla seconda metà del secolo XIX, quando il rispettivo cappellano don Domenico Viceré- morto intorno al 1891 – durante la sua vecchiaia, si serviva nei giorni festivi dell’aiuto dei Cappuccini del convento di Amandola. Il loro servizio regolare, ebbe inizio nel 1890, quando Antonio Serafini, avendo riscattato nel 1889 il convento dei Cappuccini di Amandola, dal governo italiano che lo aveva confiscato nel 1867, lo restituì gratuitamente ai frati e volle, come contropartita, che essi assumessero il servizio regolare del santuario dell’Ambro, dalla primavera all’autunno di ogni anno. Un’apposita convenzione, datata 12 maggio 1890, e approvata dalla curia generale dei Cappuccini e dall’arcivescovo di Fermo cardinale Amilcare Malagola, regolò questo servizio.
P. BASILIO DA MONTEPRANDONE – P. FRANCESCO DA SAN GINESIO – P. BERNARDINO DA CASTELFERRETTI – P. LUIGI DA MONTERADO …
Il primo cappellano o rettore cappuccino del santuario fu p. Basilio da Monteprandone (1890-1892). A lui successe p. Francesco da San Ginesio (1892-1913) cappuccino di santa vita, il cui nome è legato principalmente alla consacrazione della chiesa, richiesta da lui e dal Serafini ed effettuata dall’arcivescovo di Fermo, Carlo Castelli, il 7 settembre 1908. Con p. Francesco l’accoglienza ai pellegrini si fece pastoralmente più attenta ed incisiva.
Al successore p. Bernardino da Castelferretti va il merito di aver ottenuto dal Capitolo Vaticano l’autorizzazione di incoronare la statua della Madonna dell’Ambro, avvenuta dopo il suo rettorato, il 19 agosto 1925, quando gli subentrò – dopo breve pausa – p. Luigi da Monterado (1925-1947) che ha lasciato un segno indelebile nella storia del santuario. Uomo di fervente zelo e di spiccate capacità organizzative, p. Luigi diede vita alla “Pia Unione di Maria Santissima dell’Ambro” per promuovere il culto; effettuò la decorazione della chiesa, nelle pareti e nella volta, affidandola al pittore romano Virgilio Parodi, il quale, tra l’altro ha dipinto, sopra l’altare, L’apparizione della Vergine a Santina, il dato essenziale del racconto di fondazione del santuario. Dotò la chiesa di un organo; ottenne in dono da Pio XI un bel Crocifisso ligneo che fu esposto alla venerazione in una cappella laterale; fece abbellire la facciata dall’architetto Giuseppe Breccia. In tal modo il santuario cambiò volto all’interno e all’esterno, assumendo un nuovo decoro artistico. Tutto, il p. Luigi riuscì a completare con le offerte dei devoti, entrando in collusione, talora, con la commissione amministrativa laica del santuario. Egli morì tragicamente in un’incursione ladresca, nella notte del 22 aprile 1947. Dopo i brevi rettorati di p. Corrado da Offida (1947) e di p. Federico da Mogliano (1947-1949) subentrò
P. SEBASTIANO DA POTENZA PICENA (1949-1960).
Durante il suo mandato, il santuario fu affidato alla cura pastorale dell’intera fraternità Cappuccina di Amandola e così riprese nuovo slancio. Il rettore provvide a diversi lavori di abbellimento nella chiesa e nella cappella dell’apparizione. Realizzò un nuovo altare maggiore, benedetto dall’arcivescovo di Fermo, Norberto Perini il 26 marzo 1951. Promosse interventi di ripristini e manutenzione anche fuori della chiesa. A lui si deve, oltre al resto, il prolungamento del “conventino” a fianco della chiesa, che fu fatto costruire dal Serafini nel 1905. Iniziò la pubblicazione di un bollettino de Santuario e diede alle stampe alcuni utili opuscoli sulla storia e sull’arte dello stesso. Durante il mandato, dopo laboriose trattative, fu approvata, il 1 aprile 1960, la Convenzione, che regola i rapporti tra i Cappuccini delle Marche e il capitolo metropolitano dell’archidiocesi di Fermo.
P. DANIELE DA MOGLIANO – P. VITO DA VENAROTTA – P. CESARE UGOLINI –
Successe al p. Sebastiano, p. Daniele da Mogliano (1960-1964) che intraprese diversi lavori per un maggior decoro della chiesa e, su suggerimento di p. Cesare, progettò una Casa del Pellegrino. Di seguito, P. Vito da Venarotta (1964-1967) si prodigò, come i suoi predecessori, nella manutenzione del santuario con diversi interventi, tra cui l’elettrificazione delle campane e il componimento di una penitenzieria per gli uomini, ricavata nel lato nord della chiesa.
Sotto il primo rettorato di p. Cesare Ugolini (1967-1973) furono realizzate due opere di grande importanza per il santuario: la Casa dei pellegrini, inaugurata dall’on. Danilo De Cocci il 3 settembre 1972, e la nuova strada di collegamento da Amandola al santuario dell’Ambro, compiuta, dopo lunghe pause, nel luglio 1973. Le due opere hanno dato notevole incremento al flusso peregrinatorio.
Durante il rettorato di p. Maurizio Pierantoni (1973-1979) è stata ripristinata, nel 1974, la facciata della chiesa su disegno di Aldo Pettorossi, il quale l’ha alleggerita della tribuna eseguita dal Breccia; e sono stati restaurati i muri della torre campanaria e del “conventino”. I lavori di risanamento continuarono con p. Aurelio Pera (1979-1982) il quale provvide a ricavare nuovi locali per uso dei religiosi e a risanare l’abside della chiesa. E curò una nuova sistemazione dell’Altare maggiore, secondo le nuove disposizioni liturgiche. Promosse poi la costruzione del monumento in bronzo a Santina, posto presso la “cascata”, opera di Edgardo Mugnoz, inaugurata nel 1982.
I rettori successivi, ormai compiuti i lavori di carattere logistico, curarono soprattutto la cura pastorale dei pellegrini, non trascurando l’ordinaria manutenzione nel tempio con varie iniziative. Si sono susseguiti nel mandato: p. Michele Germondari (1982-1985), p. Gregorio Ambrogi (1985-1988; 1994-1997), p. Cesare Ugolini (1988-1994), p. Serafino Rafaiani (1997-2004), p. Saverio Santini (2004-2011) e p. Gianfranco Priori, insieme con i confratelli in Amandola.
Da questa rapida rassegna potrebbe apparire che l’attività dei rettori e dei loro confratelli si sia limitata ad iniziative di carattere edilizio e logistico. Così però non è perché essi hanno avuto a cuore, in primo luogo, l’accoglienza dei pellegrini, offrendo loro la possibilità di accostarsi facilmente al sacramento della Penitenza; di assistere alle celebrazioni dell’Eucaristia di e di partecipare a funzioni liturgiche di vario genere.
Tutte le realizzazioni sono state finalizzate esclusivamente a un’accoglienza decorosa del pellegrino, in base al presupposto secondo cui una pastorale adeguata ha bisogno di strutture adeguate. (p. Giuseppe Santarelli storiografo dei Cappuccini Marche \ Voce del Santuario, n. 112 anno 2008 -2, pp. 6-9)

AGGIUNTA DI ALCUNE ISCRIZIONI NEL SANTUARIO DELL’AMBRO
Dentro alla cappella della Madonna dell’Ambro. Nelle immagini i nomi: 1- MOISES; 2- DAVID; 3- SALOMON; 4- HIEREMIAS
Alle immagini delle sibille:
.1.- SI (billa) ERITHEA = HUMILIABITUR PROLES DOMINA UNIETUR UMANITATI DIVINITAS (trad. Sarà umiliato Il figlio sovrano: la divinità si unirà all’umanità).
.2.- SI. CUMANA = MAGNUS AB INTEGRO SAECULORUM NASCITUR ORDO JAM REDIT ET VIRGO, REDEUNT SATURNIA REGIAQUE PROGENIES COELO DIMITTITUR ALTO (trad. Un ordine potente è originato dalla pienezza dei secoli: già arriva anche la vergine; le feste saturnali ritornano e la regale progenie è fatta scendere dall’alto dei cieli).
.3.- SI. AGRIPPA (senza frase)
.4.- SI. HELLESPONTICA (senza frase)
.5.- DELFICA = NASCETUR PROFHETA ABSQUE MATRIS COITU EX VIRGINE EIUS (trad. Un profeta nascerà dalla vergine sua madre, senza coito).
.6.- CHIMICA (Int. Cimmeria) = IN P(rima) FACIE VIRGINIS ASCENDET PUERI FACIES PULCRA, SEDENS SUPER SEDEM STRATAM PUERUM NUTRIENDUM ET JUSPONENDUM (trad. Nella prima bellezza della vergine il bel volto del bambino s’innalzerà, mentre lei sta seduta su una sede preparata per dover nutrire e cullare il bimbo).
.7.- LIBICA = UTERUS MATRIS ERIT STATERA CUNCTORUM (trad. L’utero della madre sarà bilancia di tutti).
.8.- SAMIA = ECCE VENIET DIVES ET NASCITUR DE PAUPERCULA (trad. Ecco verrà il ricco e nasce da una poverella).
.9.- PERSICA = ET GREMIUM VIRGINIS ERIT SALUS GENTIUM (trad. E il grembo della vergine sarà la salvezza delle genti).
10- FRIGIA = ANNUNCIABIITUR IN VALLIBUS DESERTORUM VIRGO (trad. La vergine sarà annunciata nelle valli dei deserti).
11- TIBURTINA = O FELIX ILLA MATER CUIUS UBERA ILLUM LACTABUNT (trad. O felice quella madre le cui mammelle lo allatteranno).
12- Immagine di sibilla senza nome

INDICE
Vicende
.1- Nell’incanto delle leggende dei Sibilini .
2- Una piccola Lourdes tra i Sibillini .
3- Sotto la custodia dei monaci .
4- La nuova immagine della Madonna .
5- Sisto V e la Diocesi di Fermo .
6- Sul modello del Santuario di Loreto .
7- Il Santuario nei secoli XVIII-XIX .
8- I Cappuccini custodi dell’Ambro. .
9- L’incoronazione della Vergine dell’Ambro .
10- Il rettorato di P. Luigi da Monterado .
11- Nel ritmo incalzante dei tempi nuovi
Tesori d’arte
12- Il Monumento.
13- La Cappella.
14- I dipinti di Martino Bonfini
15- Opere d’arte nella Chiesa.
16- Le Cappelle Laterali.
Excursus: \- Le Sibille \- I Cappuccini all’Ambro… Laus Deo et Mariae

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