ALESSANDRO MANZONI
Spiritualità del Manzoni.
La spiritualità del Manzoni è complessa ed armonica nello stesso tempo.
Spirito liberale, egli accoglie tutto ciò che di buono e di vero trova negli indirizzi filosofici, letterari e scientifici, economici con cui viene a contatto e riesce a cogliere il significato giusto degli avvenimenti e dei programmi della storia a lui contemporanea.
Indirizzi filosofici.
Egli professò, fino a che non conobbe il Rosmini (1828), la filosofia sensistica, non nel senso che di questa abbia accolto lo scetticismo metafisico a tanto meno il tono irreligioso, quanto nel senso che utilizzò di esso l’indirizzo concreto e il metodo di indagine rigoroso e chiaro. Sentì la filosofia sensistica più come illuminismo, cioè come indirizzo di indagine concreta sulla realtà umana col fine di individuare i diritti degli individui e dello stato, i mezzi per promuovere il progresso della civiltà, le forme più razionali della vita.
Del resto l’illuminismo era stato una applicazione del sensismo e del razionalismo insieme; e al Manzoni giovane la lettura delle opere dei sensisti francesi aveva eccellentemente giovato nel senso che l’aveva abituato ad esaminare i vari problemi della vita umana, sotto l’aspetto più pratico e più corrispondente all’esigenza del buon senso, evitando le impostazioni e procedimenti complicati, le soluzioni incerte e paradossali.
Egli simpatizzò per le idee illuministiche in generale, ma con senso critico, in quanto molti principi e molte riforme dell’illuminismo ripugnavano al buon senso e compivano ingiustizie. Il nonno suo, Cesare Beccaria, aveva abbattuto in pieno l’irrazionalità balorda della procedura penale tradizionale, che, nell’istruttoria dei processi, faceva uso della tortura; ed aveva criticato la pena di morte. Al Manzoni le affermazioni del nonno, del resto così ricche di buon senso, sembrarono così degne di essere accolte, che, pur senza citare affatto il nome del suo congiunto (citando invece le affermazioni sulla tortura di Pietro Verri), le applicò nella critica storica intorno al processo contro gli untori nella “Storia della colonna infame”. Il principio che in forza dell’uguaglianza della natura. tutti gli uomini sono uguali, e quindi hanno uguali diritti e doveri, principio-base delle dottrine politiche illuministiche, gli sembrò così giusto che ne fece uno dei motivi fondamentali dei Promessi Sposi, ove i potenti che, in forza della loro posizione sociale e delle loro ricchezze, si credono in diritto di spadroneggiare sugli umili, sono presentati come esseri abbietti e perniciosi. Il principio illuministico che il governo è al servizio del popolo e deve garantire la sicurezza e il benessere pubblico, attraverso leggi ed iniziative sensate e opportune, e attraverso uno stile di società decisa e comprensiva nello stesso tempo, dal Manzoni accolto ed illustrato nei Promessi Sposi, ove è evidente la satira del governo spagnolo, presentato come un governo inetto e rovinoso, vanaglorioso e meschino. Basta pensare alle “grida” contro i bravi, così piene di minacce e così vuote e ridicole nei risultati; basta pensare a quel famoso presidio spagnolo in Lecco, così bravo nell’opprimere il popolo, invece di presidiarlo; basta pensare ai disgraziati provvedimenti di Ferrer durante la carestia e alle trascuranze delle autorità durante la peste: e soprattutto basta pensare alla testardaggine con cui i Governatori condussero la guerra contro Casale, la quale lasciò le cose come erano prima, e tante sciagure attirò sul Ducato di Milano.
Particolarmente cari furono al Manzoni di principi di libertà, uguaglianza e fraternità che furono propugnati dall’illuminismo e applicati, pur fra tante aberrazioni, dalla Rivoluzione Francese. A lui, uomo di carattere umile, cordiale e affettuoso, vagheggiatore di una umanità concorde e industriosa, amante della sua patria e rispettoso delle patrie altrui, quei tre ideali apparivano come i fattori più solidi di un rinnovamento universale della storia.
Essendo il suo temperamento moderato e sereno, egli sentì e visse questi principi dell’illuminismo come uno stile sensato, senza pose polemiche o rivoluzionarie (eccetto un brevissimo periodo dell’adolescenza in cui compose il poemetto “Il trionfo della libertà” su imitazione de “Il fanatismo”, “ La superstizione, “Il pericolo” del Monti).
Qualcuno ha definito il Manzoni “razionalista” : la definizione è inesatta perché se è vero che egli fu un acuto ed esigente ragionatore non si diede mai le arie di critico spavaldo e intransigente, né si avventurò mai alla creazione di teorie o sistemi appariscenti. Il razionalista invece, normalmente, si impegna in polemiche presuntuose, sottopone a critica intransigente il pensiero altrui, si compiace di creare e mettere in circolazione teorie nuove e azzardate.
L’equilibrio ed il buon senso sono due doti evidentissime nella spiritualità del Manzoni, per cui non ci fa meraviglia se egli, dopo aver eseguito per un certo tempo il sensismo, simpatizzò per la filosofia del buon senso del Cousin e per la filosofia del Rosmini, in cui venivano garantite alla verità quella universalità e quella immutabilità che non erano affatto garantite nella filosofia sensista.
Ad ogni modo il Manzoni non fu né sensista né illuminista, né cousinista né rosminiano: del sensismo come si è detto accolse l’indirizzo pratico dell’indagine, senza affatto professare le teorie gnoseologiche; dell’illuminismo accolse i principi giuridici politici, economici, sociali, senza professare il razionalismo o il meccanicismo; per il Cousin ebbe soltanto una simpatia; e della filosofia del Rosmini disse soltanto che trovava in essa tanti principi che potevano costituire una base sicura del vero in generale (egli utilizzò la filosofia rosminiana nel “Dialogo delle invenzioni”).
Indirizzo religioso.
Il fattore spirituale che costituisce la sorgente inesauribile e profonda dei pensieri, degli affetti, del costume del Manzoni è senza dubbio la religione cristiana. Fino a 25 anni, cioè fino al 1810, il Manzoni non fu né religioso né irreligioso: professò un vago deismo al modo illuminista. Dal 1810 in poi egli professò nel senso più pieno della parola la religione cattolica, con la serietà ed equilibrio che caratterizzavano la sua indole.
In un primo tempo (cioè all’inizio della composizione dei “Promessi Sposi”) egli sentì la religione come religione, come complesso di principi dogmatici e motore potentemente attivo nella storia degli individui e dell’umanità in generale. Quando alla pratica religiosa si aggiunse anche la mentalità religiosa, cioè quando egli si abituò ad impastare, ad esempio animare e risolvere i problemi più svariati alla luce del soprannaturale, allora egli pervenne a quella visione della vita che da, Dante in poi, mai nessun poeta italiano aveva avuto e aveva dimostrato di avere.
Egli stesso in una lettera dichiara che il Vangelo è agli inizi, nel corso, e alla conclusione di ogni sua indagine; e tutto ciò senza fanatismo; senza ostentazione, senza presunzione. In Francia già nel primo decennio dell’ottocento, per opere di Chateaubriand sorge il liberalismo cattolico, il quale si propone di conciliare il Vangelo, cioè la religione cristiana con i principi giuridici, politici, economici, culturali propugnati dall’illuminismo e dalla Rivoluzione francese e accettabili per la loro evidente razionalità. La Chiesa stessa, dopo aver deplorato la Rivoluzione e aver sofferto da questa persecuzioni feroci, concludeva un concordato con il Bonaparte (1801)
esponente non fanatico, ma neanche languido della Rivoluzione.
Il Manzoni, che non se la sentiva di rinunciare alle belle verità, apprese dall’illuminismo e dalla Rivoluzione, sentì una gioia sincera, quando studiando la dottrina della Chiesa Cattolica, si accorse che quelle verità non solo erano già contenute nel Vangelo, ma che solo nello spirito di questo potevano avere un significato sicuro, essere attuate con efficacia, ed essere salvaguardate da aberrazioni, nell’interpretazione e nella applicazione. Egli comprese che, essendo la fonte della verità unica, cioè Dio, non potevano i principi della ragione contraddire a quelli della religione, ma dovevano da questa trarre luce per una più ampia interpretazione e vigore per una più decisa ed efficace applicazione.
L’illuminismo, particolarmente nella sua forma estremista, che era l’Enciclopedismo, in nome della ragione e della scienza, aveva affermato un contrasto tra le verità di fede e quelle di ragione, tra la Bibbia e la scienza, tra il magistero della chiesa e quello dei Dotti. Il Manzoni, una volta accettata la verità che Gesù Cristo è il figlio di Dio, accetta il magistero della Bibbia, interpretato dalla Chiesa, in quanto Gesù Cristo ha confermato l’ispirazione divina della Bibbia ed ha costituito la Chiesa interprete autentica della parola divina o rivelazione.
Il principio della perfetta concordanza tra ragione e fede ricollega il Manzoni a Dante, a S. Tommaso, a S. Agostino. L’accettazione di questo principio trae con sé conseguenze di portata vastissima. Anzi tutto in forza di essa si dichiara la perfetta armonia tra cultura profana e cultura religiosa, tra attività naturali (scienza, filosofia, politica, letteratura ecc.) e attività soprannaturali (teologia, pratiche religiose, vita della grazia).
Ma la conseguenza più importante, da un punto di vista pratico,, specie per una persona dotta, è la visione soprannaturale della vita, cioè l’abitudine di interpretare tutto il reale da un punto di vista religioso.
Il Manzoni soleva affermare che se il Vangelo è vero, come è vero, da esso deve partire e ad esso deve ritornare ogni nostro ragionamento. Parlando del Cardinal Borromeo, nel capitolo XXII dei promessi Sposi, dice così: “Trovò vere quelle massime e vide perciò che non potevano essere vere altre parole ed altre massime opposte, che pure si trasmettono di generazioni in generazioni, con la stessa sicurezza e talora dalle stesse labbra; e propose di prendere per norma delle azioni e dei pensieri quelle che erano il vero…..”.
Quando il Manzoni, dopo una lunga meditazione di circa 10 anni, riuscì a ricollegare la realtà, particolarmente la storia umana al soprannaturale, allora soltanto gli fu possibile dare di essa l’interpretazione più profonda e quindi più poetica. In un primo tempo, anche nel comporre inni sacri, ad una interpretazione dei soggetti trattati puramente esteriore e, diremo così infantile (un commento descrittivo dei fatti ed al massimo un commento affettivo di costume); dal 1821 egli si dimostra capace di sollevarsi sopra la realtà e di coglierla nel suo complesso intreccio, alla luce di Dio (interpretazione religiosa ella storia senza grettezze, ma con cordiale senso di liberalità).
Di particolare nota è degna la conseguenza di questa stessa concordanza fra vita e religione nel campo morale, che interessava sommamente al Manzoni, il quale, spirito concreto, sdegnava di professare la religione solo teoricamente, ma si preoccupava di applicarne i principi alla vita vissuta. Egli è chiaramente avverso alla distinzione, comunemente accettata dagli uomini e un tempo anche teoreticamente difesa dal Machiavelli, tra morale della vita e morale della teoria filosofica o religiosa, tra morale del pulpito e morale della pratica, tra religiosità in Chiesa e religiosità fuori di Chiesa.
Quando, nel capito V dei Promessi Sposi, Azzeccagarbugli fa notare a Padre Cristoforo che certe proposizioni stanno bene pronunciate sul pulpito, ma non hanno senso se vengono applicate al costume pratico del vivere, quasi che la verità cambi col cambiare di luogo, il Manzoni evidentemente non approva. La verità dunque è sempre uguale a sé stessa, e sul concetto dell’eternità e immutabilità del vero il Manzoni insistette con una severità intransigente, appunto perché non gli sembrava onesto cambiare la verità a seconda degli interessi individuali: il vero è oggettivo e sono gli uomini che debbono servire ad esso, non esso che deve servire gli uomini (nelle osservazioni sulla morale cattolica e precisamente nel I° capitolo, in risposta al Sismondi, il quale si scandalizzava perché nella Chiesa cattolica ci si tenesse tanto all’unità dei fede, il Manzoni affermava che se la Chiesa cattolica è convinta di essere nel vero, deve giustamente pretendere che tutti i credenti credano allo stesso modo; se il vero è vero, vale per tutti. Per lo stesso motivo, cioè per garantire l’immutabilità del vero, il Manzoni, nel 1828, aderisce, sebbene genericamente, alla filosofia rosminiana, in quanto questa assicura assai meglio del sensismo tale immutabilità. Infine al Manzoni democratico ripugnava che ci fosse una verità per i potenti e una per i deboli, così che fossero possibili doppi pesi e doppie misure: poveri e ricchi sono tutti soggetti agli stessi e immutabili principi).
Vediamo ora praticamente i principi fondamentali qui quali si regge la concezione manzoniana della vita. Nel capitolo XXII dei Promessi Sposi si afferma: “la vita non è già destinata ad essere un peso per molti ed una festa per alcuni, ma per tutti un impiego del quale ognuno renderà conto. Dio è padre di tutti gli uomini e questi sono fratelli fra loro”; “fatti tutti a sembianza d’un solo, figli tutti di un solo riscatto….siam fratelli”.
La vita è una prova che prepara ad un’altra vita, e quindi non ha fine in sé stessa. Come prova, poi, include il concetto e la realtà del dolore, il quale è permesso da Dio, o per purificare gli uomini o per offrir loro occasione di merito. La storia umana è un eterno combattimento tra il bene e il male: sembra talvolta che il male domini incontrastato e che sulla terra non si possa realizzare la giustizia; ma la Provvidenza veglia sul movimento della storia e porta a conclusione tale movimento o nel tempo o nell’eternità. La fiducia (non la rassegnazione inerte e oziosa) è la virtù caratteristica dei suoi insegnanti in questo combattimento, cioè la certezza che alla fine la vittoria sarà assicurata al bene
A frenare le cattiverie umane, a garantire il tranquillo svolgimento delle attività individuali e sociali Dio ha costituito l’autorità. Il governo deve governare; e governare significa servire la comunità sociale: “ nessuno il quale professi il Cristianesimo può negare che non vi è giusta superiorità di un uomo sopra gli uomini, se non in loro servizio”, (capitolo XXII dei Promessi Sposi).
Il vero costituisce la norma sicura del successo in ogni attività, anche se coloro i quali l’adottano sembrano, talvolta, proprio in forza della loro onestà, andare in rovina. La Provvidenza interviene immancabilmente in aiuto dei sostenitori del vero. Il fatto che gli uomini non vivono secondo verità non permette a nessuno di svalutare la verità stessa, perché questa è garantita dalla ragione e da Dio.
Il migliore stile di vita è quello ispirato al buon senso, alla comprensione della debolezza umana, alla tolleranza dell’opinione altrui, alla intransigenza nella professione del vero: insomma uno stile liberale che accolga tutto ciò che di buono, di bello, di utile vi è nella vita; compatisca i traviamenti; non ammetta capitolazione di fronte al falso e al male (non si accettano né i Don Abbondio né i don Rodrigo).
Pensiero politico
A base del pensiero politico manzoniano sono due principi:
a)- l’individuo gode di diritti a lui concessi dalla natura e a nessuna forza è lecito violarli,
né alla forza dei privati, né a quella dello Stato. Ogni uomo ha il diritto di svolgere la
sua attività liberamente nell’ambito di leggi giuste. Il Manzoni detesta la violenza che
è la nemica del diritto e della giustizia: tanto la violenza del signorotto, quanto quella
del popolo sfrenato, quanto quella dell’autorità che abusa del suo potere.
b)- gli uomini oltre che uguali per la comune natura, sono anche e soprattutto fratelli in
quanto figli di Dio e redenti dallo stesso Redentore.
Da questi due principi risultano le seguenti applicazioni nel campo politico:
– la legge deve garantire ai cittadini la libertà, cioè l’esercizio dei loro diritti naturali;
– la legge deve essere uguale per tutti;
– allo stato spetta il compito di fare leggi giuste e di farle osservare seriamente
(ricordare la satira delle grida e dei provvedimenti del governo spagnolo);
– il governo deve assumere tutte le iniziative più adatte per favorire il bene comune, nel
campo dell’igiene, della istruzione e dell’economia;
– al bene della società oltre che la legge contribuisce, in modo efficacissimo, la carità, la
quale è un complemento necessario del governo civile ed è l’espressione più alta
della civiltà (da ricordare l’opera del cardinale Federico Borromeo durante la carestia
e quella dei Padri Cappuccini durante la peste);
– il governo straniero è come una pianta parassita che sfrutta un organismo non suo:
esso è frutto di violenza e quindi è detestato da Dio (ricordare “Marzo 1821”); esso
impedisce lo sviluppo della vitalità della nazione oppressa; e infine si riduce ad uno
sfruttamento inutile per chi lo compie e per chi lo subisce;
– la causa degli Italiani, i quali aspirano alla libertà ed alla indipendenza, è causa
sostenuta da Dio, perché è giusta. Gli Italiani fidino per la soluzione del loro problema
solo in Dio e nelle loro forze: non fidino nell’aiuto di altri popoli: perché nessun popolo
aiuta l’altro per puro spirito di disinteresse (Coro dell’Adelchi “dagli atri muscosi, dai
fiori cadenti”;
– alla violenza degli stranieri è lecito rispondere con la violenza per legittima difesa: ma
è vergognoso imitare gli oppressori nel far del male. Il Carducci affermava che ai fini
della lotta risorgimentale contribuirono assi di più il Berchet e gli altri compositori di
inni patriottici del Risorgimento (Mameli, Bossetti, Fusinato, Mercantini Brofferio) che
la poesia politica del Manzoni (“Proclama di Rimini”, Marzo 1815”, “Marzo 1821”,
“Coro del Carmagnola” “s’ode a destra ecc…”, “Il coro dell’Adelchi” “tra gli abeti
muscosi”) e svariati passi dei Promessi Sposi.
Carducci infatti pensa che l’ardore dei primi ha acceso assai di più gli animi che non la meditata esortazione del Manzoni. Alla osservazione del Carducci si risponde che, se è vero che nessun entusiasmo è efficace senza convinzioni, la poesia politica manzoniana vale assai di più della poesia di battaglia dei poeti soldati: infatti il Manzoni non predicò affatto la rassegnazione al dominio straniero e alla tirannide; anzi convinse gli italiani che la loro causa era giusta e che Iddio era al loro fianco: ed ognuno sa che quando una causa e è presentata sotto un aspetto religioso, gli entusiasmi sono ben basati e con facilità creano l’eroismo.
Anche qui ci troviamo di fronte al solito metodo del Manzoni di rapportare tutto alla religione, perché da questa ogni iniziativa trae la giusta misura, l’indirizzo sicuro e soprattutto il coraggio per l’azione. C’è da notare soltanto che il Manzoni, uomo equilibrato e positivo, evitò sempre di abbandonarsi agli entusiasmi troppo facili, mentre si preoccupò sempre di porre buone basi intellettuali, affettive e morali all’azione. Del resto il Manzoni guarda con simpatia i movimenti arditi del popolo che mette in crisi i tiranni: basta pensare alle sue gioie per la insurrezione piemontese del 1821 e al compiacimento con cui segue il gesto della folla milanese, che accompagna con grida e sassate, la carrozza di D. Gonzalo, mentre questi va via dalla città.
– Manzoni fu propugnatore di riforme, ma aborrì l’uso della violenza e della demagogia
nel chiederle e nell’attuarle. Egli fu il liberale moderato, un riformatore ragionevole.
Basta pensare alla deplorazione con la quale egli segue il tumulto della folla milanese
nella rivoluzione di S. Martino.
– infine egli protesta contro la viltà e la soverchieria della polizia, la quale è forte con i
deboli e debole con i forti e preferisce sfogare piuttosto la sua prepotenza contro il reo
buon uomo che contro i veri colpevoli, capaci di resistere e di metterla in crisi.
Concezione dell’umanità.
Il Manzoni nei riguardi dell’umanità non è né eccessivamente pessimista né eccessivamente ottimista . Egli infatti è abituato a guardare le cose come sono; e a chi guardi l’umanità spassionatamente, risulta che essa è composta da una gran quantità di malvagi vittime dell’istinto e soprattutto dell’orgoglio, deplorabili sempre, compatibili il più delle volte, spregevoli qualche volta (quando sono maligni, ad esempio il conte Attilio con don Rodrigo).
I malvagi, spesso, sembra che neanche loro sappiano quello che fanno: la violenza delle passioni, l’ignoranza, i pregiudizi ambientali, costumanze deplorevoli, diventate norme di vita familiare e sociale, sono fattori che inducono spesso l’uomo al male: in tal caso la malvagità, sempre odiosa in sé stessa, è da guardarsi con senso di compatimento. I buoni sono pochi: essi sono caratterizzati soprattutto di rispetto e amore verso il popolo, da delicatezza di coscienza, da senso del dovere e da una filiale fiducia in Dio.
Sembra che il Manzoni nella concezione del buono, abbia tenuto presente che il Vangelo sintetizza la perfezione della vita religiosa nell’amore di Dio e del prossimo, e perciò egli si compiace di immaginare il buono: gentile, generoso, comprensivo e liberale. Padre Cristoforo, Lucia, il cardinale Federico e Padre Felice. Tra la discreta schiera dei malvagi e il tenue gruppo dei buoni, c’è la immensa moltitudine dei mediocri, cioè della gente alla buona, la quale nella vita si regola con un po’ di buon senso e con un po’ di cristianesimo e un po’ di paganesimo, senza cattiveria vera e propria e senza virtù vera e propria (Don Abbondio, Perpetua, Agnese, Renzo, Donna Prassede).
Il Manzoni, convinto che per giudicare l’umanità e per parlare di essa è necessario conoscerla e parlarne rettamente, è necessario non disprezzarla a priori in base alle propria convinzioni o, peggio ancora, in base al proprio orgoglio, si è sforzato di acquistare la maggiore esperienza possibile della vita, studiando situazioni e caratteri, indagando nel suo mondo personale, per cogliervi atteggiamenti, tendenze, miserie e virtù che, presso a poco, si ritrovano in tutti gli uomini.
La conoscenza degli uomini, secondo lui, è necessaria per essere umani e nei giudizi e nelle azioni. Ma il fattore che più dell’esperienza e della conoscenza degli uomini alimenta il senso della comprensione e della pietà per i malvagi, e il senso della stima e dell’affetto per i buoni, è senza dubbio la religiosità vera, ossia la religiosità evangelica.
Gli innocenti perseguitati, le folle senza pastore, ignoranti, affamate, appestate, suscitano nel Manzoni un senso di preoccupazione: gli sembra quasi che un triste velo di mistero copra l’esistenza di ogni infinità di gente e che davvero gli uomini non abbiano pastori né in cielo né in terra: è la sensazione che proviamo tutti di fronte allo spettacolo del male e della miseria. Però la fede, la quale afferma l’esistenza di un Dio perfettissimo, provvidente e giusto, chiarifica la fosca visione della realtà e accende la speranza in tutti coloro i quali, per disperazione, non vogliano negare tutto e aggravare la loro situazione.
La visione del lazzaretto è tale da provocare il dubbio se esiste o no per tante miserie un sollievo o una luce di speranza: tuttavia la visione di Padre Felice, Padre Cristoforo, degli ammalati che si aiutano a vicenda, perfino delle capre che compiono quasi funzioni materne verso i piccini rimasti senza latte, diffonde una luce soave nella scena orribilmente tetra. Padre Cristoforo, a Renzo e Lucia che sono costretti a lasciare il paesello natio, assicura che verrà in tempo in cui essi si troveranno contenti di ciò che ora accade; e al termine del famoso addio ai monti aveva dichiarato: “Dio non turba mai la gioia dei suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande”.
Il Manzoni nel comporre i “Promessi Sposi” si preoccupò di mettere in evidenza questa verità, perché il problema del dolore lo preoccupava troppo, e perché ci teneva sommamente a rendersi utile ai lettori: la fiducia in Dio che raddolcisce la tragedia della cita sgorga appunto da questa persuasione che coi travagli e tra le miserie, Dio prepara una allegrezza raccolta e tranquilla . Al Manzoni ripugna fare quello che hanno fatto scrittori a lui contemporanei, quali il Foscolo e il Leopardi, cioè insistere sulle sciagure umane per generare nei lettori il senso della disperazione, che oltre tutto, è vano in quanto non rimedia ai mali, bensì li aggrava.
Il Manzoni, dunque, positivo com’è, non solo nona nega che la vita è, presso a poco, un’immensa sciagura, come hanno affermato il Foscolo e il Leopardi (del resto nella religione cristiana la vita terrena è definita esilio, schiavitù d’Egitto, valle di lacrime), ma analizza in tutte le sue articolazioni infinite la realtà del dolore: tuttavia, essendo il suo scopo quello di rendersi utile alla umanità e di non tradire mai il vero, anche se le sue impressioni soggettive lo indurrebbero, talvolta, ad assumere atteggiamenti tragici e disperati, egli illustra con tono simpatico e convinto i motivi che debbono indurre gli uomini a sperare bene, anche nel dolore. Questa buona volontà di venire incontro alle sofferenze umane, lo induce a rendersi utile anche a coloro che soffrono mali causati dalla loro cattiveria: egli vuol mostrare che vi è speranza e luce anche per i traviati. C’è una possibilità di redenzione per la monaca di Monza, per l’Innominato, perfino per don Rodrigo, la cui sorte, a termine del romanzo, resta ancora indecisa, ma non definitivamente pregiudicata.
Il Manzoni ha voluto riassumere il suo pensiero circa il terribile problema del male, al termine dei Promessi Sposi, ponendo come sugo della storia, questa affermazione: “i guai vengono bensì spesso perché ci si è dato cagione; e quando vengono per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce e li rendono utili per una vita migliore”.
L Manzoni, dunque, riconosce che la vita è un complesso di guai, ma propone come mezzo per restar salvi nella lotta e per uscirne vittoriosi, la fiducia in Dio, ossia la certezza che Dio garantisce la vittoria del bene sul male: e ciò non vale solo per chi sempre nutrì tale fiducia militando nel campo dei buoni, ma anche per chi, dopo aver militato nel campo dei malvagi, esaurito dal male, ha sentito il bisogno di ritornare all’ovile e di mettersi al servizio di una causa un tempo osteggiata.
La visione dell’umanità soggetta alle forze del male è certamente la più impegnativa e quella a cui il Manzoni ha dedicato maggiormente la sua attenzione, ricollegando intorno ad essa la trama di tutto il romanzo tuttavia non mancano visioni di umanità lieta e discretamente evoluta: sono visioni che costituiscono una specie di oasi nella rappresentazione del grande dramma della vita.
Il Manzoni, amante della famiglia e di una tranquilla esistenza trascorsa nel lavoro e nel culto degli affetti più dolci, si compiace spesso, nelle sue opere, specie nei Promessi Sposi, di presentare al lettore scene di vita famigliare, pervase di decoro e di cordialità.
Qualche critico (Croce, Russo) ha affermato che la straordinariamente varia realtà della vita è stata dal Manzoni immiserita, in forza dei suoi pregiudizi religiosi e morali, che lo avrebbero indotto a dividere l’umanità in due gruppi: il gruppo dei bianchi e quello dei neri, il gruppo dei buoni e quello dei cattivi, e a giudicare con benevolenza gli uni e con rigida intransigenza gli altri; e che soprattutto il pregiudizio religioso gli avrebbe impedito di accogliere tante belle realtà della vita che non si conciliano con la sua angusta visuale cristiana. Ma a chi legge e comprende i Promessi Sposi non sfugge che la religione e la morale del cristianesimo non restrinsero affatto la mentalità del Manzoni , ma che, anzi, gli permisero di osservare il mondo umano da un punto di vista così vasto, e con un senso così liberale, che nessuna delle forme dell’umana esistenza sfuggì al suo intelletto e al suo cuore.
Pensiero letterario.
La poetica del Manzoni è in stretto rapporto con la sua concezione del vero e della vita. La critica illuministica soprattutto e quella romantica avevano insistito sulla necessità di porre la letteratura al servizio della vita e di bandire, una volta per tutte, per sempre, dal mondo moderno, il tipo di letterato adulatore dei potenti, chiacchierone a vuoto, presuntuoso e gretto.
Gli illuministi al poeta accademico di salotto avevano opposto lo scrittore che, in forma spigliata ed agile, illustrasse alle persone colte i problemi della vita moderna, impegnandolo, nello stesso tempo, in una spregiudicata polemica contro le irrazionalità delle tradizioni; i romantici proponevano una letteratura decisamente popolare, moderna, nazionale, naturale, che fosse accessibile anche alle persone di media cultura e, attraverso opere ricche di motivi fantastici e sentimentali, riuscisse a far penetrare nelle masse gli ideali della rinascita morale, politica e sociale della nazione italiana.
Tanto l’illuminismo che il romanticismo propugnano una letteratura sostanziosa nel contenuto, attraente e libera nella forma, adatta alla mentalità ed al gusto della generazione moderna. : l’unica differenza che intercorre tra i due programmi letterari è che gli illuministi propugnano una letteratura di pensiero per le persone colte, i romantici una letteratura di fantasia e di sentimento per il popolo, cioè, come dice il Berchet, per coloro i quali leggono, capiscono e si commuovono (il Manzoni accetta i letterati sostanziosi); i due indirizzi si diversificano per i destinatari e per la forma, in quanto gli illuministi si rivolgono agli intellettuali (non più ai soli letterati) e fanno uso di una forma espositivo-razionale variamente snellita ed avviata; i romantici si rivolgono anche alle persone di media cultura e fanno uso di una forma fantastico-sentimentale che è la più efficace quando ci si rivolge a persone di mentalità media, con le quali è sempre necessario adottare un metodo strettamente intuitivo.
Il Manzoni accoglie il principio illuminista e romantico che la letteratura non è autonoma, cioè non ha fine a sé stessa, ma, con tutte le altre attività della vita, ha la funzione di promuovere e potenziare lo sviluppo dello spirito umano. La religiosità seria ed attiva venne a confermare questa persuasione del Manzoni : la religione, infatti, insegna che la vita è un impiego utile di cui si dovrà rendere conto a Dio. Tra le attività umane, poi, il Manzoni sa che la più influente, per la formazione delle anime o almeno dell’opinione delle classi colte, è quella letteraria; e, perciò, è cosciente della grave responsabilità religiosa e morale che si assume dedicandosi alla missione di scrittore.
Se talvolta sembra sorridere sulla vanità degli scrittori che si reputano come dei in terra, e sembra svalutare l’attività letteraria con battute umoristiche, così frequenti nei Promessi Sposi, la cosa è da attribuirsi al fatto che il Manzoni giudicava il valore e la gloria dell’arte da un punto di vista tutto diverso da quello adottato dai poeti megalomani: questi si credevano sommi perché parlavano un linguaggio da ispirati e si sentivano del tutto superiori al volgo; Manzoni riponeva la vera grandezza nel sapersi rendere utile a sé stesso e agli altri. Perciò egli afferma che “se le lettere non avessero altro fine che quello di dilettare quelle persone le quali non fanno altro che divertirsi, esse sarebbero l’ultima, la più vile, la più servile delle professioni”.
Il poeta che vive appartato dalla plebe, che dimora perennemente nel regno delle Muse, o che vola come un cigno sopra la misera schiera dei mortali, è da considerarsi come un personaggio ridicolo; e il poeta che dimora nelle case dei ricchi e si presta con le sue trovate, più o meno insulse, a divertire gli oziosi, è una figura estremamente miserabile: né il primo con il suo orgoglio, né il secondo, con la sua viltà d’animo, sono in grado si assolvere quella sublime missione che la provvidenza ha affidato agli scrittori, che è essenzialmente missione di alto e delicatissimo magistero.
Il concetto base di tutta la poetica manzoniana è questo: il poeta è maestro dell’umanità, non soltanto maestro dei ricchi e degli intellettuali, ma anche e soprattutto delle persone umili. Dalla sua opera dipende l’elevazione spirituale del popolo. Perciò è suo dovere sacrificare il suo orgoglio, smetterla con le sue arie da superuomo, chiarificare la coscienza dei suoi impegni e delle sue responsabilità e sforzarsi il più possibile di intendere il cuore umano in qualunque petto palpiti e non più soltanto il cuore dei signori e delle dame. Per Renzo, già brillò nell’Osteria della Luna Piena, il poeta è come un cervello balzano, che nei suoi discorsi e nei fatti, ha più dell’arguto e del singolare che del ragionevole, un uomo che sembra perpetuamente in stato di euforia, ed è specializzato nel dire cose curiose.
Purtroppo il popolo ha del poeta una concezione del genere, eguale a quella di Renzo; evidentemente la colpa non è del popolo, ma del poeta. Gli umili, infatti, o meglio la massa in genere non ha mai veduto un poeta circolare nei suoi ambienti, interessarsi delle sue miserie, simpatizzare per le sue opere, non lo ha mai sentito pronunciare una parola di pietà e di incoraggiamento nei suoi confronti: lo ha soltanto visto in compagnia di ricchi, in splendidi salotti, tra eleganze e ozi, applaudito dai variopinti gruppi di dame e di gentiluomini che egli si sforza di tenere allegri.
Il Manzoni, seguendo il pensiero degli illuministi e dei romantici, e soprattutto seguendo l’impulso della sua religiosità, si accorge che è necessario smetterla con questo distacco tra scrittori e popolo.
Ammessa la necessità che lo scrittore esca dalle accademie e dai circoli letterari e discenda dalle false sublimità, per mettersi a contatto con i comuni mortali (e soprattutto con il popolo che fino ad oggi è stato trascurato e che, come la folla dei Promessi Sposi, sembra non avere né pastore né maestro, e che secondo lo spirito del Vangelo deve essere più curato perché ha bisogno di assistenza spirituale, si prospettano i seguenti principi fondamentali della poetica manzoniana.
Se il poeta non è un uomo specializzato nell’inventare cose curiose o nel divertire coloro che non fanno altro che divertirsi o nel parlare un linguaggio incomprensibile, ma un maestro di vita al maggior numero possibile di attori, egli deve dire la verità.
E ciò per questi motivi:
a)- perché no si concepisce un maestro che dica il falso, in quanto l’educazione ha come
unica base il vero;
b)- perché i lettori quando si accorgono che lo scrittore dice sciocchezze, sentono per lui
pietà e disprezzo benché egli sia riuscito a dar prova di una eccellente abilità tecnica
o di linguaggio;
c)- perché il senso morale e religioso proibisce a chiunque e quindi anche ai poeti di dire
il falso, anzi lo proibisce soprattutto ai poeti ai quali spetta una responsabilità
gravissima come educatori.
Vediamo ora in che senso deve essere inteso il termine “Verità” nella poetica manzoniana. Dalla lettera sul romanticismo, al marchese Cesare D’Azeglio, e da quella allo Chauvet “Sull’unità di tempo e di azione della tragedia”. E da altri scritti critici del Manzoni si può ricavare il concetto esatto di verità. In un’opera qualsiasi i fattori che entrano in combinazione sono: l’argomento o soggetto, l’ispirazione, la forma o modo di sviluppare il tema, il linguaggio. Il termine verità evidentemente viene applicato a tutti questi fattori e possiamo, perciò, parlare di una verità di argomento o di soggetto, di una verità di ispirazione, di una verità di forma, di una verità di linguaggio.
Verità di soggetto.
Evidentemente si parla di verità di soggetto quando questo è un argomento tratto dalla storia o dalla scienza: quando si tratta di un soggetto fantastico la verità interessa solo quei motivi che sono tratti dalla realtà del mondo umano e del mondo della natura.
Questa verità consiste nel rappresentare i fatti o i fenomeni così come essi sono avvenuti o come avvengono, senza pretendere di deformarli arbitrariamente o di sfigurarli per settarismo o di ignorarli per la lasciare la libertà al gioco dell’immaginazione. Al Manzoni, come vedremo, interessano particolarmente gli argomenti storici perché questi sono più ricchi di spunti educativi ed umani. Ebbene egli sostiene che allo stesso scrittore che tratti un argomento storico non è lecito falsificare i fatti, per nessun motivo: se lo facesse rischierebbe di screditarsi di fronte ad uno scrittore che avesse studiato e quindi conoscesse bene l’argomento da un punto di vista storico; in un secondo luogo commetterebbe un atto non onesto; in terzo luogo toglierebbe a sé stesso la possibilità di interpretare con esattezza il significato vero del fatto storico.
Rispetto, dunque, alla verità storica. Al genio dello studioso è riservato il compito di non falsificare i fatti , ma di interpretare l’intreccio psicologico che li ha generati e che dalla storia è rarissimamente individuato ed esposto, cosicché egli riesce a riempire i vuoti lasciati dalla storia tra un momento e l’altro di una vicenda. Ad esempio volendo trattare il soggetto storico “Il conte di Carmagnola”, è necessario studiare con attenzione le vicende della vita di quest’uomo e tener presente tutto l’intreccio dei fatti quale risulta dalla critica storica oggettiva: tra un momento e l’altro della vicenda la storia lascia dei vuoti; al poeta spetta riempirli individuando sempre, alla luce del filo dei fatti, il filo della psicologia che li ha generati. Per questo è necessario che ogni scrittore, il quale voglia trattare un argomento storico, studi prima scientificamente l’argomento stesso. Il Manzoni prima di comporre “Il Conte di Carmagnola”, fece un lungo studio storico per rendersi conto se il conte fosse stato o no veramente colpevole; prima di comporre l”Adelchi” fece un lungo studio sulla condizione degli italiani durante il dominio longobardo in Italia (“Discorsi sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia”); prima di comporre “I Promessi Sposi” studiò a fondo le grida del governo spagnolo nel Ducato di Lombardia, la “Historia patria” del Ripamonti, i “Ragguagli” del Tadino, le “Osservazioni sulla tortura” del Verri. Al termine della storia della “Colonna infame” deplora che il Parini abbia commentato poeticamente senza rendersi conto se gli untori giustiziati a Milano, al tempo della peste del 1630 (sul luogo del supplizio fu eretta una colonna detta “infame” con una scritta che tramandava ai posteri l’esecranda memoria dei colpevoli), fossero o no veramente colpevoli. Il Manzoni cerca di spiegare l’atteggiamento del Parini in questo modo: ai tempi del Parini si credeva che al poeta spettasse il privilegio (che non si concede a nessuno) di utilizzare il vero e il falso, purché si riuscisse o con l’uno o con l’altro a generare nei lettori impressioni forti o piacevoli. Su questo privilegio sciocco e ingiusto il Manzoni osserva: il pubblico concedeva, a quei tempi, un simile privilegio ai poeti perché dicessero questi il vero o il falso, nessuno credeva che facessero sul serio. E il Manzoni conclude: appare strano che i poeti potessero essere soddisfatti e del privilegio e del motivo di esso: confermare un pregiudizio, utilizzare la propria autorità di scrittore per infamare gli innocenti o per esaltare dei criminali, è un privilegio che non deve essere concesso a nessuno.
Verità d’ispirazione.
La poesia non consiste nell’inventare vicende e intrecci, perché si può fare poesia anche con argomenti tratti dalla realtà. L’essenza della poesia è nella interpretazione del soggetto che si tratta, sia esso inventato che storico, e nel modo di esprimere questa interpretazione.
Il primo passo della poesia, dunque, consiste nella interpretazione della vita intima del soggetto; il secondo consiste nel trovare lo sviluppo adatto di questa vita intima; il terzo nel trovare la parola adatta per rappresentare agli altri questo sviluppo: si tratta di tre argomenti sono teoreticamente distinti, perché in pratica, l’interpretazione della vita intima del soggetto, sviluppo di essa, linguaggio per rappresentarla agli altri normalmente sono concomitanti nel tempo.
Vediamo i che cosa consista la verità d’ispirazione o d’interpretazione e in che modo si possa giungere ad essa.
Ogni soggetto, o storico o inventato, presenta svariati aspetti che contribuiscono a determinare la fisionomia morale. Ad esempio il Bonaparte è un personaggio che si può considerare da svariati punti di vista: dal punto di vista militare, politico, civile, morale, religioso, affettivo: tutti questi aspetti, presi a sé non ci danno il vero Bonaparte, presi insieme invece, rapportati fra loro e armonizzati, ci danno la vera fisionomia del grande personaggio: egli incarna la potenza umana, riflesso di quella divina che sfolgora nell’azione e scompare nella miseria, per riapparire in una luce nuova più pura e più simpatica. Questa fisionomia spirituale del soggetto si chiama anche vita intima di esso. La vita intima del soggetto dunque è il significato più profondo di esso, quale risulta dalla sintesi di tutti i suoi aspetti. Il poeta che interpreta solo un aspetto, dice del soggetto solo un cosa e il suo svolgimento poetico è unilaterale. Il poeta che interpreta aspetti secondari, fa uno svolgimento superficiale; il poeta che coglie tutti gli aspetti, ma non riesce a sintetizzarli, fa uno svolgimento dispersivo e confuso.
Per individuare, dunque, la vita intima del soggetto, cioè la forma più completa e significativa di esso. È necessaria una eccellente capacità di analisi e di sintesi, cioè la capacità di cogliere nei vari aspetti del soggetto, un motivo comune che li raccoglie organicamente in una immagine vitale.
Per approfondire l’analisi e la sintesi, è necessaria una luce che permetta, allo spirito del poeta, di vedere chiaro nell’intimità del soggetto: tale luce è costituita dalla cultura, particolarmente dalla cultura filosofica e religiosa.
Siccome per il Manzoni ogni sintesi deve essere compiuta alla luce della verità somma, cioè alla luce della verità cristiana, ogni soggetto deve essere interpretato alla luce dei principi del vero naturale e soprannaturale: interpretazione religiosa del soggetto, data la grandiosità e la vastità dei principi cristiani, è sempre la più sicura e la più significativa.
Tanti scrittori, forniti di ottima intelligenza e di straordinaria sensibilità, non riescono a cogliere la forma più significativa dei loro soggetti, perché non hanno una mentalità filosofica o religiosa in cui inquadrarli, e nella quale, soltanto, sarebbe loro possibile coglierli negli aspetti più universali e più espressivi. In un passo delle opere inedite e rare, il Manzoni deplora che il Victor Hugo, così geniale nell’inventare intrecci e situazioni, non riesce, spesso, a capire il significato vero dei motivi che svolge.
Essendo la verità unica, è chiaro che il vero significato di una soggetto è unico e che quindi l’interpretazione più profonda e più piena di un soggetto è ugualmente unica: i poeti riescono ad avvicinarsi ad essa con maggiore o minore fortuna: rarissimi sono coloro che riescono a coglierla pienamente (e questo sono i geni).
Verità di espressione o di forma.
La forma è l’organismo in cui si incarna il significato ultimo del soggetto trattato. Il poeta una volta individuata nell’interpretazione la vita intima del soggetto, la sviluppa, cioè la incarna in un intreccio di vicende, in situazioni psicologiche e causali, in sentimenti, in pensieri, in gesti, in parole in azioni. In altri termini: definito il soggetto nel suo aspetto e nel suo significato più vero, il poeta fa in modo che esso si muova coerentemente alla sua natura intima. Si può dire, infatti, che nella fase della interpretazione il poeta scorga la forma del soggetto in nucleo e che nella fase dello sviluppo alimenti questo nucleo con le risorse della sua fantasia, della sua intelligenza e del suo sentimento, in modo da farlo crescere in forma di vero e proprio organismo.
Riguardo allo sviluppo di questo organismo, cioè riguardo alla forma, sono da notarsi i seguenti principi:
a)- ogni soggetto ha la sua forma. Infatti ogni soggetto ha la sua vita intima particolare e
quindi esige un particolare sviluppo di essa. Il Manzoni deplora il principio dei retori
classicisti i quali hanno sostenuto per tanti secoli che per soggetti diversi, purché
appartengano allo stesso genere, valgono le stesse leggi di sviluppo: ad esempio
per soggetti tragici, appunto perché appartengono al genere tragico, valgono le
stesse leggi di unità di tempo, di luogo e di azione, con la conseguenza che vite d
diverse, con energie e potenzialità diverse, debbano seguire lo stesso ritmo di
sviluppo. E’ per questo motivo che il Manzoni rifiuta (lettera al D’Azeglio) le regole arbitrarie dei retori: esse non fanno altro che sviare l’attenzione dello scrittore dalla forma intima, che è propria di ciascun soggetto, per concentrarla sul problema insolubile dell’adattamento di una vita particolare entro forme fisse, comuni a tutti: di qui l’artificio, la innaturalità e, spesso, la irrazionalità di certi sviluppi.
b)- forma naturale. Nella prefazione al “Conte di Carmagnola” il Manzoni dichiara
esplicitamente di abbandonare le unità di luogo, di tempo, di azione fissate dai retori
alla tragedia, per non essere costretto a sacrificare la naturalità dello svolgimento.
Per naturalità il Manzoni intende la corrispondenza tra la forma interiore del
soggetto e la forma che il poeta sviluppa: evidentemente in uno sviluppo naturale la
forma creata dal poeta si identifica con la forma del soggetto, in quanto quella
nonché questa è passata dallo stato nucleare a quello di organismo maturato.
c)- forma verosimile. Ogni forma deve essere verosimile, ossia il poeta deve far pensare,
sentire, agire e parlare i suoi personaggi, così come nella vita vissuta penserebbero,
sentirebbero, agirebbero ecc. come persone che si trovassero nella stessa situazione.
Lo sviluppo, dunque, della vita intima del soggetto, pur essendo autonomo, cioè pur traendo legge solo dalla su natura, e non dal di fuori, tuttavia deve essere condotto sulla falsa riga della realtà, perché l’arte consiste nel creare una vita e ai lettori è nota la vita reale dell’umanità. La corrispondenza tra la vita creata dal poeta e la vita reale si chiama verosimiglianza.
Nemica della verosimiglianza è la stravaganza, cioè la innaturalità di certe situazioni, di certi sentimenti e di certe iniziative che vengo attribuite al soggetto. La stravaganza è frutto di arbitrio, di artificio voluto dall’artista o imposto dalle regole, ed è propria di coloro che non hanno nessuna intenzione di interpretare la vita e di educare i lettori a viverla, ma hanno solo intenzione di divertirsi o di divertire. In conclusione la forma è individuale (cioè propria di ogni soggetto), naturale (cioè coerente con la vita intima del soggetto), verosimile (cioè coerente con la realtà della vita vissuta). Forma vera , dunque, è quella che corrisponde alla vera vita intima del soggetto e alla vita reale dell’umanità.
Perché lo scrittore possa sviluppare la vita intima del soggetto, con verosimiglianza, ossia perché possa far pensare, sentire, operare i suoi personaggi così come nella vita vissuta operano personaggi reali che si trovino nelle stesse situazioni di quelli inventati dal poeta, è necessario che questi abbia una profonda e vasta conoscenza della psicologia umana. Per questo motivo è necessario che il poeta esca dal chiuso del suo studio, delle accademie e dei salotti, e si metta a contatto diretto con gli uomini veri.
Il tipo del poeta che vive solitario nel regno delle Muse e trae ispirazione dalla sua fantasia esaltata dalla suggestione o falsata dai ricordi letterari, secondo il Manzoni era tollerabile in un’età in cui il popolo o l’uomo in generale non aveva alcuna funzione nella vita pubblica, essendo il destino di una nazione affidato all’arbitrio e all’egoismo di uno solo o di una sola famiglia.
Nell’età moderna il poeta deve essere a contatto con il popolo o con l’umanità, perché l’affermarsi della democrazia esige che tutte le attività della vita, e la letteratura in particolare, passino al servizio del progresso. Al giovane Marco Coen che in una lettera si lamentava col Manzoni perché il babbo non gli concedeva il permesso di dedicarsi alle lettere piuttosto che al commercio, il Manzoni rispondeva osservando che, tra la letteratura e il commercio non esiste affatto contrasto, in quanto la pratica degli uomini, che si acquista attraverso la pratica del commercio, è di straordinaria utilità al poeta a cui è necessaria una profonda conoscenza della vita.
Tuttavia il Manzoni esclude decisamente la pretesa di certi romantici( e di certi scrittori veristi più tardi) che al poeta fosse necessario e lecito sperimentare tutte le forme di vita, anche quelle proibite, per poterle poi descrivere con fedeltà: il Manzoni osserva che per conoscere le varie forme di vita, basta semplicemente osservarle con intelligenza ed ampiezza mentale, e non è affatto necessario sperimentarle direttamente.
Verità di linguaggio.
Come il pittore si serve delle linee e dei colori, lo scultore si serve delle linee e dei giochi di ombre e di luci nei rilievi, il musicista si serve dei suoni, per esprimere ciascuno il suo mondo interiore, così il poeta si serve della parola per esprimere la vita del soggetto che egli interpreta e sviluppa interiormente. Ogni uomo mentre pensa e sente, pensa e sente parlando a sé stesso: la parola infatti sia interiore che espressa, è l’incarnazione del pensiero e dell’affetto.
A proposito del linguaggio, i classicisti al tempo del Manzoni , e prima di lui, avevano sostenuto che esiste una lingua e un linguaggio cosiddetti poetici. Ad esempio cigno invece di poeta, liquido cristallo invece di acqua, desio invece di desiderio; sono termini poetici. Il Manzoni osserva che nessuna parola di per sé stessa è poetica, né impoetica;
semmai si può fare una distinzione fra parole del linguaggio letterario e parole del linguaggio comune. Ma anche quest’ultima distinzione dal Manzoni è rifiutata, essendo stata da lui rifiutata la distinzione tra letteratura e vita.
Il linguaggio per il Manzoni è poetico solo quando esprime con precisione ed efficacia il pensiero. E siccome il poeta deve parlare agli uomini del suo tempo, per farsi intendere da questi deve adottare la loro lingua, cioè una lingua viva ed una lingua che sia parlata dal maggior numero possibile di persone, cioè una lingua universale.
Il Manzoni, specie dopo la unificazione dell’Italia, si occupò del problema della lingua nazionale, cioè si propose di individuare la lingua che doveva essere adottata da tutte le persone colte italiane negli scritti letterari, negli atti ufficiali della amministrazione pubblica, nella conversazione tra persone colte. Tuttavia, già subito dopo la prima edizione dei “Promessi Sposi” (1827), egli si interessò del problema e lo risolse. Egli partiva dal concetto già affermato dagli illuministi e particolarmente dal Cesarotti (nel “Saggio sulla filosofia delle lingue”) che la lingua è l’espressione dei pensieri e dei sentimenti e che, essendo pensieri e sentimenti in continua evoluzione, anche la lingua è in continua evoluzione. Proporre una lingua arretrata di 500 anni, come facevano i sostenitori del vocabolario della Crusca, significava costringere gli uomini dell’800, la cui civiltà era assai diversa da quella del ‘500, a fare uso di una lingua inadeguata e spesso incomprensibile.
Il Manzoni anche nella soluzione del problema della lingua procede con logica razionale. Egli ragiona così: la lingua di una generazione è quella parlata dal maggior numero possibile di persone che vivono nella generazione stessa; noi italiani, per l’influsso esercitato sugli scrittori e sulle persone colte in generale, dai primi grandi scrittori della nostra letteratura, che erano toscani (Dante, Petrarca, Boccaccio) da tanto tempo abbiamo appreso la lingua toscana: questo è un dato di fatto: tutti noi oggi toscaneggiamo in lingua.
Sicché la lingua toscana è la lingua del popolo italiano, ossi è la lingua universale in Italia. Ma un’altra caratteristica della vera lingua è essa sia viva, cioè parlata dalle generazioni in cui vive lo scrittore. Applicando il concetto di universalità e di attualità al problema della lingua italiana, la conclusione è senz’altro questa: la lingua toscana parla dalle persone colte toscane (non è il toscano del ‘300) è la lingua degli italiani.
Così il Manzoni trovava una lingua che era, nello stesso tempo, universale e viva.
A chi si scandalizzava perché egli proponeva come lingua nazionale la lingua viva di Firenze, quasi che intendesse proporre il dialetto popolaresco fiorentino, egli osservava che intendeva parlare non del “ribobolo” (dialetto popolaresco fiorentino), ma della lingua delle persone colte.
In base a quest’ultima soluzione, egli, fin dal 1828, iniziò la correzione dei “Promessi Sposi”, ricorrendo all’aiuto di persone esperte della lingua toscana viva e colta (Giusti, Emilia Luti, Capponi). E quando, nel 1867, la Commissione Governativa per l’Unità della lingua italiana invitò i grandi letterati del tempo ad esporre la loro opinione, il Manzoni presentò la sua “Relazione sull’unità della lingua e dei mezzi di diffonderla”, relazione la quale esponeva la soluzione che abbiamo riferito sopra: nessuna distinzione fra lingua scritta e lingua parlata.; la lingua italiana è quella adottata dalle persone colte di Firenze. Tuttavia non si deve credere che il Manzoni non abbia riconosciuto altra fonte di lingua all’infuori del vocabolario, della grammatica e della sintassi delle persone colte fiorentine: egli, infatti, capiva che la lingua di Firenze non era assoluta e che quindi poteva non offrire tutti i mezzi di espressione necessari praticamente ai vari scrittori: perciò a chi non avesse trovato le forme linguistiche necessarie nel patrimonio linguistico fiorentino, egli consigliava di utilizzare lo splendido patrimonio linguistico del passato, cioè opere dei grandi scrittori ed anche il “Vocabolario della Crusca”
Tutto questo per quanto riguarda la lingua, cioè i mezzi di espressione attraverso la parola. Nessuna distinzione tra lingua letteraria, scritta, nessuna distinzione tra la lingua poetica e lingua comune.
Circa il linguaggio tuttavia, ossia circa l’uso della lingua che fa ogni scrittore e ogni parlante, il Manzoni riconosce che si può fare una distinzione tra uso poetico e non poetico della lingua e fra linguaggio della prosa e linguaggio della poesia.
Il linguaggio della poesia è più preciso ed efficace di quello usato per esporre semplicemente il pensiero di un discorso puramente espositivo. La poesia, sia essa in versi, come in prosa, per essere efficace fa uso di immagini, specie nel discorso lirico in cui una ispirazione di tono intenso si esprime con un linguaggio normalmente concentrato, ossia tale che in breve dica molto e dica in modo intuitivo. Il linguaggio è poetico solo in forza della capacità espressiva dello scrittore, non in sé stesso.
Conclusione intorno al concetto del vero.
Nell’ode “In morte di Carlo Imbonati” il Manzoni, ansioso di giungere alla vera poesia e soprattutto all’originalità, si faceva rivolgere, dal defunto amico della madre, questo consiglio: “sentire e meditare….. il santo vero mai non tradir”. Benché ancora ventenne il Manzoni intuiva, in quest’ode, i principi fondamentali della sua poetica futura: l’arte è frutto di meditazione, cioè di pensiero, l’arte è frutto di sentimento: oggetto della meditazione e della passione del poeta è il vero, ogni vero, rapportato sempre al vero sommo, cioè a Dio.
Concetto di interessante.
Il Manzoni nella prima edizione della “Lettera al marchese Cesare D’Azeglio” sul Romanticismo (la prima edizione è del 1823, la seconda del 1845) afferma che il vero poeta deve proporsi l’utile per scopo, il vero per soggetto e l’interesse per mezzo. Il concetto di utile è già stato illustrato quando si è detto che il poeta è maestro del popolo: si tratta di una utilità morale, in quanto l’arte non deve mirare a divertire, ma ad arricchire lo spirito umano. Abbiamo illustrato anche il concetto di vero. Vediamo che cosa intenda il poeta per interessante.
Interessante è ciò che attrae l’attenzione del lettore; e lo scrittore deve preoccuparsi di tenere desta l’attenzione dei suoi lettori con una sapiente scelta dell’argomento e soprattutto con la presentazione di scene della vita umana in cui ciascuno ritrovi parte di sé stesso e ritrovi l’eterno volto dell’umanità.
Il Manzoni non simpatizza per i temi e gli intrecci irreali che dilettano soltanto la curiosità della fantasia: egli preferisce, come già si è detto, i temi storici, e precisamente di storia che abbia un certo rapporto coi lettori immediati dell’opera (ad esempio per i suoi lettori lombardi egli sceglie la storia della Lombardia del secolo XVI con richiami a località e personaggi ben noti agli abitanti di quella regione).
Allo svolgimento di descrizioni paesistiche, che il più delle volte si risolvono in esercitazioni di bravura, egli preferisce la descrizione della psicologia umana, individuale e collettiva. Insomma egli è convinto che all’uomo interessa soprattutto l’uomo, la vita vera nei suoi eterni aspetti.
Arte e morale.
Il Manzoni affronta il problema del rapporto tra arte e morale con mirabile chiarezza di idee e con perfetta coerenza ai principi della sua poetica basata sul vero. Egli distingue anzitutto l’osceno dall’immorale: osceno è ciò che è vergognoso mettere in vista o perché schifoso o perché provocante alla sensualità, e che la natura stessa, dandoci il pudore, ci ha insegnato a coprire. Evidentemente osceno possono essere soltanto le cose (ad esempio certe parti del corpo). Immorale è ciò che non è conforme ai principi ed alle leggi della morale: può essere immorale una azione o una affermazione (ad esempio affermare che un delitto è una buona azione, significa fare una affermazione immorale; similmente deridere il bene, significa commettere un gesto immorale).
Applicare i concetti di osceno e di immorale all’arte.
Il Manzoni, come tutti i romantici, afferma che nessuna realtà è esclusa dal mondo della poesia, in quanto nessun soggetto di per sé è impoetico, tuttavia, per motivi di decenza e di rispetto verso i lettori, e soprattutto per non essere responsabili di turbamenti passionali e quindi di colpe, è bene che il poeta rinunci il più possibile a trattare soggetti schifosi o scandalosi. Si potrebbero anche trattare soggetti scabrosi, ma bisogna saperli redimere con una profonda interpretazione del loro significato umano, e soprattutto bisogna svolgerli con la massima prudenza e con il massimo decoro (ad esempio l’episodio della monaca di Monza nei Promessi Sposi).
Quanto all’immoralità il Manzoni esclude decisamente che essa possa rientrare nel campo dell’arte: infatti l’immoralità è una forma di falso (dichiarare bene ciò che è male e viceversa), e il falso, per quanto sia esposto con bella forma, è sempre falso ed il poeta che ,lo approva fa l’impressione o di ignorante o di furfante, mentre la sua missione è quella di essere maestro dell’umanità.
Pensiero critico.
Criticare un’opera letteraria vuol, dire definire il valore estetico di essa. Secondo il Manzoni per poter giungere a formulare il giudizio estetico sono necessarie tre cose:
a)- leggere e capire l’opera nel suo senso letterario;
b)- avere la capacità di ripercorrere spiritualmente lo stesso cammino spirituale
percorso dal poeta durante la composizione;
c)- individuare l’intenzione dello scrittore ed individuare fino a che punto egli l’ha
realizzata.
Evidentemente quando si giudica bisogna avere un neutro criterio a cui rapportare l’opera sottoposta a giudizio: per questo motivo il critico ha il dovere di dire quale, secondo lui, avrebbe dovuto essere lo svolgimento perfetto del tema, qualora trova l’opera malfatta.
IL Manzoni, per conto suo, adotta il criterio estetico della verità, quale è stato già esposto. Non tutti sono capaci di capire e gustare un’opera d’arte. A questo proposito il Manzoni distingue una capacità artistica attiva e una capacità artistica passiva: la prima consiste nel saper creare la poesia, la seconda nel saper rivivere il processo creativo seguito dal poeta con tutto il complesso della sensazioni che lo hanno accompagnato nel suo lavoro. Alcune persone posseggono l’una e l’altra capacità: altre posseggono o l’una o l’altra: in questo secondo caso i bravi poeti non sono bravi critici e i bravi critici non sono affatto bravi poeti.
Opere minori del Manzoni.
“Il trionfo della libertà” è un poemetto in quattro canti, scritto dal poeta nel 1800, a sedici anni, quando era ancora in collegio ed era imbevuto delle idee giacobine, ed era sotto l’influsso della poesia del Monti. Di questi, infatti, nel suo poemetto, egli imita
”Il Fanatismo”, “La superstizione”, “Il Pericolo”, di ispirazione anticlericale e antitirannica
al modo giacobino. Il Manzoni immagina che la libertà, su un carro trionfale schiacci mitre e scettri, ed esalta i grandi che per la libertà sono morti. Il poemetto è in forma di visione, come tanti poemetti del Monti: abbondano le personificazioni, i simboli, le esclamazioni, le invettive, le espressioni crude. Più tardi, quando nel 1845, fece l’edizione di tutte le sue opere, non escluse dalla raccolta questo poemetto, dicendo che se il contenuto era deplorevole, lo spirito con cui l’aveva scritto era stato sincero, e che non la religione ma gli uomini di religione egli aveva voluto colpire.
“I sermoni” (1801-1804). Sono tre “Panegirico e Timalcione” contro l’avarizia e la lussuria. “Contro i verseggiatori d’occasione”, in cui deplora gli scrittori faciloni e presenta la figura del Parini quale esempio di onestà letteraria. “A Giovan Battista Pagani”, in cui dichiara che si sente portato alla poesia satirica. Nel complesso sono assai significativi tutti e tre, per il robusto senso morale che il giovanissimo poeta in essi rivela: un po’ di baldanza, ma molta sincerità. Li chiamò “sermoni” ad imitazione di Orazio (sermone = satira).
“Adda”(1803). E’ un invito che l’Adda fa al Monti a passare qualche giorno lungo le sue rive: viene rievocata la figura del Parini che, poco lontano dalle rive del fiume, aveva avuto i natali (a Bosisio in Brianza).
Ode “In morte di Carlo Imbonati” (1805). Carlo Imbonati in nascita fu cantato dal verri, nell’undicesimo compleanno dal Parini (“L’educazione”), in morte fu cantato dal Manzoni. L’ode è in forma di divisione: il poeta rivendica l’onor del morto e soprattutto l’onore della madre sua Giulia Beccaria, che dell’Imbonati era stata l’amante. L’ode è famosa perché dall’Imbonati, a cui ha chiesto consiglio perché possa divenire poeta se non sommo, almeno originale, si fa rivolgere il famoso consiglio: “sentire e meditare….. il santo ver mai non tradir…..non proferir mai verbo che plauda al vizio o la virtù derida”.
“Urania” (1809) E’ un poemetto d’ispirazione e di forma neoclassica: il poeta vuole esprimere il concetto che la poesia deve essere ricca di grazie, cioè di attrattive nelle immagini e nel linguaggio. Pindaro, poeta greco, sconfitto in una gara poetica da Corinna, si lamenta con Urania, dea della poesia astronomica, e da lei si sente dire che la sua inferiorità di fronte a Corinna era dovuta al fatto che questa era devota delle grazie, mentre lui non aveva coltivato questa devozione.
“Aprile 1814”, è un’ode in cui il poeta si compiace che con la caduta di Bonaparte sia cessato il tempo delle guerre e dei soprusi e rivela fiducia nell’opera degli uomini di governo radunati a Vienna.
“Aprile 1825 o proclama di Rimini”. Un’ode in cui il Manzoni applaude all’iniziativa di Gioacchino Murat, il quale ha rivolto agli italiani un appello all’unione. Famoso il versetto di quest’opera “liberi non saren se non siam uni” (vedi Conte di Carmagnola).
“Inni sacri (1812-1815): “Risurrezione”, “Nome di Maria”, “Natale”, “Passione”.
Quando il Manzoni compose questi quattro inni si era convertito da poco alla pratica religiosa; perciò non era ancora in grado di interpretare il significato vero, ossia la vita intima dei soggetti trattati. Egli sentiva ancora la religione come tema venerabile, ma non ne comprendeva la funzione vitale nella storia dell’umanità. Così il “Natale” è un commento descrittivo della nascita di Gesù Cristo con spunti tratti dalla liturgia natalizia e dalla scenografia tradizionale della nascita del Redentore (non manca neanche il solito ninna nanna): il significato storico della nascita di Gesù Cristo, l’importanza di questa data nella vita dell’umanità non sono né colti né rappresentati. Similmente nella “Risurrezione” il poeta svolge motivi descrittivi tratti dalla liturgia e pone infine una esortazione a trascorrere la festa della Pasqua in spirito di carità: ma il significato vero della risurrezione dei morti, non è neanche individuato. Nel “Nome di Maria” il poeta si avvicina al significato vero del tema, cioè al valore che il nome di Maria ha per i mortali, ma si nota in tutto l’inno troppa dispersione. La “Passione”, oltre tutto, è anche incompleta, il significato vero della morte del figlio di Dio non è neanche colto e il poeta si disperde nello svolgimento di motivi secondari. Si vede bene che il Manzoni in questi inni, invece di meditare e di sentire, tenendo l’occhio fisso al soggetto, ha prestato orecchio a suggerimenti che non venivano dal cuore, ma dalla liturgia o dalla tradizione innografica.
“Sulla morale cattolica. Osservazioni” (1919). In risposta allo storico svizzero Sismondi, il quale nella “Storia della Repubbliche Italiane del medioevo” aveva affermato che la morale cattolica era stata causa di corruzione per l’Italia, il Manzoni dimostra che la morale cattolica “è la sola morale santa e ragionata in ogni sua parte; che ogni corruttela viene dal non conoscerla o dall’interpretarla alla rovescia; che è impossibile trovare contro di essa un argomento valido; e che non lo è alcuno di quelli addotti dall’illustre autore della “Storia delle repubbliche italiane”. Il Manzoni cita le singole affermazioni del Sismondi e le confuta nei vari capitoli. Rivela in quest’opera una straordinaria capacità di ragionamento e una moderazione ammirevole nella poetica. Nella seconda edizione aggiunse una appendice intorno al sistema che fonda la morale sull’utilità, in polemica con le teorie di Bentham.
“Marzo 1821” E’ un’ode politica scritta per i moti liberali di Piemonte del Marzo 1821.
Siccome i carbonari piemontesi oltreché ad ottenere la costituzione miravano anche alla guerra all’Austria, il Manzoni esalta la decisione dei patrioti di fare dell’Italia una nazione unita; ammonisce gli stranieri che è la volontà di Dio che essi se ne vadano da una terra che non è loro madre; e infine si rallegra che gli italiani abbiano finalmente deciso di rivendicare la loro libertà con le loro forze.
“5 Maggio 1821” E’ un’ode in cui il Manzoni commenta il Bonaparte morto proprio il 5 Maggio 1821. Egli presenta la figura di Napoleone nella sua fisionomia più significativa, cioè come fulmine di potenza e di azione, costretto all’inerzia nella prigionia di S. Elena e redento dalla sofferenza.
“Pentecoste” (1822) E’ il migliore fra gli inni religiosi del Manzoni , infatti egli riesce ad individuare la vita intima del soggetto che tratta, cioè ad individuare il significato umano e storico della discesa dello Spirito Santo sugli Apostoli, e quindi dell’entrata della Chiesa nella civiltà umana. Finalmente il Manzoni riesce a vedere la funzione di un avvenimento sacro nella storia generale dell’umanità; e soprattutto in quest’inno egli individua nella libertà, nella uguaglianza nella fraternità predicata dal Vangelo, i veri fattori della civiltà, rifiutando quindi la base giacobina o materialistico-rivoluzionaria che avevano preteso di dare alla civiltà gli esponenti della rivoluzione francese.
Si rivela, per la prima volta, con chiarezza in quest’inno, il Manzoni cattolico-liberale, cioè sostenitore degli ideali di libertà, uguaglianza e fraternità in nome del Vangelo.
“Conte di Carmagnola” (1819). Il Manzoni premise a questa tragedia una prefazione nella quale avvertiva i lettori che egli non avrebbe seguito le faziose unità di luogo, di tempo e di azione, dichiarandole arbitrarie e causa di artifici irrazionali nella rappresentazione delle passioni umane: non è possibile, dice egli, che una forte passione possa sorgere, svilupparsi ed esplodere tragicamente nello spazio di ventiquattro ore entro i limiti dello stesso luogo, interessando solo un ristrettissimo numero di persone. Egli, dunque, rifiuta le unità, in nome della naturalità dell’opera d’arte; rifiuta uno svolgimento imposto dall’arbitrio dei regoli, per sostituirlo con lo svolgimento richiesto alla vita intima del soggetto.
Nella tragedia egli introduce una novità: il coro. Non si tratta del personaggio collettivo che veniva introdotto nella tragedia classica per commentare, da un punto di vista morale o religioso o patriottico, le varie fasi dell’azione; ma si tratta di un brano lirico, inserito dal poeta in alcuni punti dell’azione la cui importanza ed il cui significato egli teme che sfugga ai lettori. Questo brano lirico (destinato alla recitazione) è, come dice il Manzoni stesso, “un cantuccio” dal quale il poeta fa sentire la sua opinione circa alcuni motivi dell’azione che sono della massima importanza. Così il coro manzoniano conserva la funzione del coro classico, ossia “è l’organo dei sentimenti del poeta che parla in nome dell’intera umanità”; ma rispetto al coro classico ha il vantaggio di non scompigliare l’orditura dell’azione e di placare la tentazione del poeta di comunicare ai suoi personaggi le sue idee, in quanto per esprimere le sue idee, al poeta è appunto riservato questo brano lirico. E’ evidente in questa invenzione del Manzoni l’influsso del Romanticismo, in quanto i romantici avevano dato alla letteratura un indirizzo nettamente soggettivo, cioè avevano abituato il poeta non tanto a riprodurre la realtà in forme più o meno realizzate, quanto ad esprimere quello che egli sentiva di fronte alla realtà stessa. Il Manzoni non accolse il soggettivismo esasperato dei romantici esagerati; tuttavia vide opportuno che il poeta fosse sempre presente con il suo spirito nel corso di una narrazione o di uno sviluppo drammatico.
Del resto il concetto che il Manzoni ha del poeta, quale educatore degli spettatori, comporta come conseguenza che lo scrittore esponga, ove lo creda più opportuno, il suo pensiero circa un argomento che a lui sembra importante. Infine quella cordialità tra lo scrittore ed il pubblico, tanto caldeggiata dai romantici, giustifica e quasi esige questa forma di colloquio diretto tra il poeta ed il pubblico, qual è il coro manzoniano.
Nello sviluppo dell’azione drammatica del Conte di Carmagnola, ad un certo momento l’esercito veneziano e quello milanese stanno per azzuffarsi sul campo: il poeta teme che agli spettatori sfugga il fatto che quei due eserciti sono composti di italiani e che quindi i fratelli si apprestano ad uccidere i fratelli, con grande gioia dello straniero, il quale vede favoriti i suoi piani dalla strage fraterna italiana.
Il Manzoni interviene allora con il coro a mettere in evidenza il triste significato della battaglia di Maclodio e ad ammonire gli italiani a non logorarsi in lotte criminali, gli stranieri a non approfittare delle sciagure altrui, per i loro interessi, e tutti gli uomini a non provocare la vendetta divina, che maledice colui che infrange il patto della fratellanza universale.
Il nucleo tragico del Conte di Carmagnola è esposto dal Manzoni stesso in una lettera: “Un uomo di animo forte ed elevato e desideroso di grandi imprese che si dibatte con la debolezza e la perfidia dei suoi tempi, e con istituzioni misere, improvvide, irragionevoli ma astute, e già fortificate dall’abitudine e dal rispetto, e dagli interessi di quelli che hanno l’iniziativa della forza”. Insomma il contrasto è tra la lealtà e generosità del Conte da una parte e l’egoismo duro e spregiudicato della politica. L’uomo generoso soccombe, ma la provvidenza lo compensa della perdita della vita con in concedergli la fede. Questa tragedia è i impostazione romantica, nel senso che svolge soprattutto il dramma interiore dei personaggi, con uno studio psicologico assai attento e con una densità evidente di sentimenti. Non ci troviamo più di fronte alla tragedia alfieriana, in cui essendo state definite in precedenza le psicologie dei personaggi, l’azione si riduce ad un contrasto esteriore fra di essi: qui, invece, è lotta di anime, di mentalità di aspirazioni; peccato che al dramma psicologico non corrisponda un vivace dramma esteriore.
“Adelchi” (1822). Il poeta si preparò alla composizione di questa tragedia con uno studio storico intitolato “Discorso su alcuni punti della storia longobardica in Italia”, in cui dimostra che fra Longobardi e Latini, per colpa dei primi che si stimavano superiori perché più forti, non avvenne mai una vera e propria fusione, anzi, in un primo tempo i Latini furono in una condizione di semischiavitù in quanto non godettero mai dei diritti politici e fu loro proibito di portare le armi.
Il Manzoni coglie questo contrasto fra la stirpe latina e longobarda, fra gli oppressi ed oppressori nella sua ultima fase, cioè al tempo della lotta fra Desiderio e Carlo Magno.
Adelchi, figlio di Desiderio, animo gentile, del tutto diverso da suo padre e dai suoi connazionali violenti e soverchiatori, aspira, nel suo segreto, ad una civiltà di pace e di collaborazione con i Latini.: però, in quanto figlio di Desiderio, ha il dovere di servire la causa longobarda che egli detesta in cuor suo. Di qui il dramma di questo personaggio, il quale riassume in sé il contrasto fra due civiltà, fra la civiltà della violenza e quella del diritto e della pace. Il contrasto è tutto interiore, le manifestazioni esteriori sono minime: l’azione si riduce più che altro ad una sceneggiatura della guerra fra Carlo e i Longobardi.
Parallelo al dramma di Adelchi è quello della sorella di lui, Ermengarda, la quale è stata ingiustamente ripudiata da Carlo e si sforza di dimenticare il suo amore senza mai riuscirvi: la sofferenza ingiustamente patita fa sì che lei passi dal mondo dei soverchiatori a quello degli oppressi e diventi, quindi, degna di essere compianta.
Il poeta rivela in questa tragedia un senso pessimistico della vita, in quanto la vede soggetta ad un incessante contrasto fra i soverchiatori e gli umili, con la vittoria quasi costante dei primi: “una feroce forza il mondo possiede: non resta che far torto o patirlo”. In questa tragedia si trovano due cori: uno nel momento in cui si accenna all’esercito longobardo in fuga sotto la pressione dell’esercito franco (e in questo coro il poeta esorta i latini a non sperare che i Franchi li aiutino a liberarsi dal giogo straniero, e questo monito è rivolto anche agli Italiani dell’800 che speravano nell’aiuto straniero); l’altro nel momento in cui viene presentata sulle scene Ermengarda moribonda (e il questo coro il poeta vuol rivelare ai lettori il significato della vita di Ermengarda, soprattutto il significato del dolore di lei, vista come mezzo di purificazione dalle tracce dell’impuro sangue longobardo).
E’ una tragedia psicologica più che d’azione.
“I Promessi Sposi” (1822-1827)
“Lettera al Marchese Cesare D’Azeglio sul Romanticismo”(1823): espone il programma dei romantici nella sua parte negativa: i romantici rifiutano la mitologia, le regole arbitrarie dei retori, l’imitazione servile dei classici. Essi propongono di essere moderni naturali e originali.
“Lettera allo Chauvet sulle unità di tempo di luogo e di azione nella tragedia” (1823):
amplia i concetti esposti nella prefazione al “Conte di Carmagnola”, insistendo sul concetto che le unità drammatiche costringono l’autore a falsare la psicologia umana e i fatti.
“Storia della colonna infame” (1829): è una revisione del processo fatto dai giudici di Milano nel 1630 contro alcuni poveri disgraziati accusati di aver diffuso la peste con unzioni venefiche. Il Manzoni segue gli atti del processo e critica la condotta dei giudici, i quali avrebbero potuto evitare il tragico errore di condannare quattro poveri innocenti, se non fossero stati mossi da orgoglio, da paura del giudizio del popolo, da disprezzo della persona umana. Al termine di questo studio si trova il rimprovero famoso al Parini per aver creduto e confermato il pregiudizio calunnioso contro i quattro poveri innocenti.
“Saggio sul romanzo storico” (1845). Il Manzoni svolge la tesi che l’opera dell’artista consiste nel trovare idee, non nel crearle: le idee non si creano perché esistono indipendentemente da noi. Dove esistono ? Nella mente di Dio. E come le raggiungiamo ? Dio ha infuso in noi l’idea universale dell’essere: in questa vita sono racchiuse tutte le altre idee, l’invenzione consiste nell’individuare le singole idee nel complesso universale. Evidentemente in quest’opera il Manzoni dimostra di aderire alla filosofia del Rosmini, il quale ammette innata in noi l’idea dell’essere universale e considera la scoperta della verità come una determinazione progressiva di questa idea universale.
Soprattutto il Manzoni vuole in quest’opera affermare che nessuna mente umana crea la verità e che l’artista, come tutti i mortali, è anch’egli legato ad una realtà oggettiva che non gli è lecito falsare e a cui deve il più possibile adeguarsi per coglierla nella sua pienezza.
“Saggio comparativo tra la rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859 (II^ guerra di indipendenza). Il Manzoni insiste sul concetto che la violenza non produce nulla di duraturo, allorché viene adottata come metodo e come mezzo, sia nella vita, che nei grandi rivolgimenti politici. La rivoluzione francese che adottò il metodo della violenza oppresse i popoli in nome della libertà, la rivoluzione italiana del 1859 fu un moto spontaneo del popolo per rivendicare la giustizia conculcata e si concluse, perciò, con il trionfo della vera libertà: “diversità di effetti dovuta ad una diversa applicazione di quel principio e che dovrebbe guidare ogni consorzio civile, cioè il principio di giustizia.
“Scritti intorno alla lingua”:
“Lettera sulla lingua italiana a Giacinto Carena” (1845), “Relazione intorno all’unità della lingua e ai mezzi di diffonderla” (1868), “Lettera al Bonghi intorno al libro del “De vulgari eloquentia di Dante” (1868), “Lettera al Bonghi intorno al vocabolario”. In queste opere il Manzoni svolge i concetti già esposti quando abbiamo parlato del suo pensiero circa la lingua in generale.
“I Promessi Sposi”. E’ un romanzo storico, in cui l’invenzione è inquadrata in un periodo storico con l’intento di dare maggiore verosomiglianza all’azione inventata attraverso la storia, e di illustrare il periodo storico mediante l’azione inventata.
Il Manzoni inquadra la vicenda dei suoi fidanzati nella storia della dominazione spagnola in Lombardia nel ‘600 e precisamente negli anni 1628-1630 (anni ella guerra per la successione al ducato di Mantova e Monferrato, della carestia e della peste).
Il poeta ebbe l’idea di comporre questo romanzo attraverso lo studio storico della vita della Lombardia sotto il governo spagnolo: lesse la “Historia patria” del Ripamonti e i “Ragguagli della peste” del Tadino, le “Osservazioni sulla tortura” del Verri. L’idea che egli trasse da queste letture, circa la vita della società lombarda sotto la dominazione spagnola, fu questa: il governo spagnolo non governava, quando un governo non governa vige l’anarchia, chi ha il sopravvento è sempre il più forte, e quindi l’eterna lotta fra il bene ed il male in tale regime si accentua, diventa più evidente.
Il Manzoni scelse questo soggetto per svariati motivi:
a)- per motivi religiosi e morali. Egli infatti concepisce la vita e la storia come una eterna
lotta fra il bene ed il male: lotta in cui entrano in gioco tre forze: la malvagità, la virtù e la Provvidenza divina. Egli volle attraverso le vicende dei suoi Promessi Sposi mostrare ai lettori che se il male è forte, specie quando non è frenato dalla legge, cioè dalla autorità civile e religiosa; se i buoni spesso debbono soffrire a causa dei malvagi, tuttavia l’intervento della Provvidenza ristabilisce l’equilibrio e garantisce la vittoria del bene. Il problema del dolore, nei primi decenni dell’800, interessò quasi tutti gli spiriti più elevati: Foscolo, Leopardi e soprattutto il Manzoni. Siamo negli anni in cui la filosofia enciclopedistica insegna agli uomini che la vita dell’uomo è un puro fenomeno della materia e che la corsa del cuore umano dietro l’assoluto è vana; e siamo anche negli anni in cui le idee liberali (libertà, eguaglianza, fraternità), sostenute dai francesi, in un primo tempo sono servite a questi per ingabbiare i popoli d’Europa, in un secondo tempo erano state soffocate violentemente dalla reazione: i buoni, che avevano creduto in quegli ideali, furono ingannati dai francesi e furono condannati dai tiranni.
Lo spirito umano, bisognoso di assoluto, messo di fronte ad una visione materialistica, desolata e nuda, esprime la sua angoscia con Foscolo e con Leopardi: il primo tenta di dare valore alla vita (che di per sé non ha valore) tentando di uscire dalla sua miseria con le illusioni, in forza delle quali riesce a creare un surrogato dell’assoluto (hanno infatti qualche cosa di assoluto benché non siano assolute, le seguenti realtà: il bello, l’amore, l’azione, la poesia, la patria): servendo queste illusioni si riesce a dimenticare la miseria della vita e si riesce ad operare.
Il Leopardi, partendo anch’egli dalla visione realistica della vita, bramoso com’è di assoluto e non potendo trovare questo in una esistenza vista come un momento insignificante dell’enorme moto dell’universo, non sorretto come il Foscolo da una fede religiosa, incapace, a differenza del Foscolo di crearsi un assoluto, risolve il problema della miseria umana assumendo un atteggiamento di protesta contro la natura e contro il fato e accettando, dopo disperati tentativi di trovare una consolazione, l’inerzia o noia, cioè l’indifferenza assoluta di fronte a tutto.
Proprio nel 1827, quando il Manzoni pubblica in prima edizione “I Promessi Sposi”, il Leopardi pubblica le operette morali, in cui muove una critica appassionata al fato (cioè a Dio) perché infonde nell’uomo il bisogno dell’infinito e dell’assoluto e gli dà come cibo in questa fame di infinito, il mutevole, il nulla.
Il Manzoni sentì anch’egli vivissimo il problema del dolore: egli, nella conclusione dei “Promessi Sposi” afferma esplicitamente che la vita è un complesso di guai causati dalle imprudenze e dalle colpe, causati dai malvagi, causati dalla natura con le sue forze avverse, mandati spesso da Dio direttamente come prova: i guai sono il male e il male, nella concezione cristiana, costituisce il fattore di prova dell’uomo nel periodo terreno. Se la vita è prova, deve essere dolorosa, perché nessuna prova è senza dolore: i vincitori in questa prova sono quelli che hanno fiducia in Dio, cioè quelli che, sicuri che Dio vede tutto e sostiene la causa dei buoni, compiono il loro dovere di combattenti con la certezza della vittoria. Se i buoni che avevano sostenuto i buoni ideali di uguaglianza, libertà, fraternità, erano stati battuti dalla storia, non voleva affatto dire, secondo il Manzoni, che non ci fosse una Provvidenza: voleva solo dire che quegli ideali dovevano essere contrastati, perché è destino del bene essere combattuto dal male, ma che, presto o tardi, la provvidenza avrebbe garantito il loro trionfo. Ci troviamo di fronte ad una interpretazione cristiana della storia e della vita; e nelle vicende di Renzo e Lucia egli coglie il dramma della lotta fra il bene e il male e il trionfo della Provvidenza.
b)- in secondo luogo scelse come soggetto la vita della società lombarda sotto il
dominio spagnolo per mettere in evidenza le tristi conseguenze di un mal governo , che ignorava i veri compiti dell’autorità politica, quali furono messi in evidenza dall’Illuminismo: cioè il compito di reprimere le soverchierie, di garantire la sicurezza ai cittadini, di provvedere alla sanità pubblica e al rifornimento dei viveri, alla sicurezza dalla invasione di milizie straniere. E chi e che non vede che, mettendo in cattiva luce il governo spagnolo, che era un governo straniero, il Manzoni volle mettere in cattiva luce anche il governo austriaco, che al suo tempo opprimeva la Lombardia ? Quindi anche un intento politico e patriottico indusse il Manzoni a scegliere come soggetto la vita della società lombarda sotto il dominio spagnolo.
c)- infine non mancò certo di influire sulla scelta il gusto proprio del romanticismo.
Piacevano ai romantici i motivi della lotta fra i tiranni e i deboli, dei rapimenti di donzelle, dei castelli paurosi, delle fughe, delle separazioni dolorose, delle vendette.
Il Manzoni equilibrato com’era, utilizzò questo motivi cari ai colleghi romantici, con molta moderazione: egli svolge il motivo della soverchieria, presenta un signorotto persecutore e lussurioso, svolge il motivo del rapimento tentato e del rapimento riuscito, il motivo del mistero tenebroso, il motivo del bandito dal buon cuore, il motivo della conversione religiosa, il motivo della città desolata dal flagello della peste, con scene commoventi e strazianti, non carica mai le tinte, non si compiace della descrizione fosca per spaventare i lettori, si preoccupa, dopo scene di intensa emozione, di sollevare lo spirito dei lettori, con lo sviluppo di motivi sereni o addirittura comici.
Questa è la differenza tra il romanticismo del Manzoni e quello degli stranieri, soprattutto tedeschi e inglesi: egli accetta il principio romantico che la letteratura deve essere a contatto con la vita, deve sottrarsi alla tirannia della retorica e cogliere soltanto la forma che è insita nel soggetto che si tratta, che i temi da scegliere sono quelli moderni, i quali interessano di più i lettori, che la forma ed il linguaggio debbono essere anche accessibili ai lettori di media cultura, ma rifiuta il sentimentalismo, il soggettivismo, lo spasimo drammatico, la mania di confessarsi, le descrizioni fosche, il tono irruente ed esagitato, che sono tutte cose molto care ai romantici stranieri.
Per il Manzoni il romanticismo non è un fine, ma un mezzo: cioè egli non scrive per essere romantico, ma utilizza le proposte romantiche per meglio interpretare e descrivere la vita intima del soggetto che tratta. Se uno domandasse quale sia il tema vero dei Promessi Sposi bisognerebbe rispondergli che non è il complesso delle vicende di Renzo e Lucia, né la vita della società lombarda sotto il dominio spagnolo, ma la vita umana nei suoi aspetti esterni, intesa come lotta fra il bene e il male: la vita della società lombarda, le vicende di Renzo e Lucia, non sono che mezzi per illustrare questo tema più generale e profondo. Si potrebbe dire che l’eterna lotta tra il bene e il male, è inquadrata nella vita della società lombarda e incoronata nelle vicende di Renzo e Lucia, in quanto in quel quadro risalta meglio.
Stile dei Promessi Sposi.
E’ uno stile medio, un modo equilibrato di interpretare e rappresentare la vita, senza forzatura di temi coloristici o passionali, senza impostazioni grandiose dei motivi, senza intenzioni polemiche aggressive. Il poeta esprime il suo mondo interiore con naturalezza, con verosimiglianza, con misura.
Nel romanzo rientrano gli aspetti e le forme più svariate della vita:personaggi di ogni classe, le situazioni più diverse, psicologie svariatissime: nello svolgimento di questi motivi diversissimi, il Manzoni si preoccupa solo di essere vero e di mettere in luce, con semplicità, il mistero del cuore umano. Degna di particolare attenzione è la preoccupazione con cui il Manzoni cerca di temperare i toni intensi e impressionanti: egli non vuole divertire la fantasia del lettore e tanto meno si compiace di far venire la pelle d’oca a chi legge i suoi passi foschi della vicenda. Per questo, a visione tenebrose o emozionanti fa seguire sempre visioni liete: generalmente chi fa le spese di questa esigenza di rasserenamento è don Abbondio. (ad esempio dopo che ha tenuto il lettore in apprensione e in emozione per il rapimento di Lucia e per la drammatica conversione dell’Innominato, introduce il motivo di don Abbondio al castello. Ancora, descritta la scena della povera gente che fugge di fronte alla discesa dei Lanzichenecchi, scena di pene e di miseria, ecco don Abbondio anch’egli in fuga, che brontola contro l’imperatore, il re di Francia, il governatore e contro i compagni di sventura).
Al termine del romanzo, nelle ultime battute della vicenda, viene presentato il fosco quadro della peste, i carri dei cadaveri, l’angoscia dei mortali, la madre di Cecilia, il Lazzaretto, l’incontro di Renzo con Padre Cristoforo, Lucia e don Rodrigo, sono scene ricche di emozioni: subito dopo entra in scena, per l’ultima volta, ormai libero da paure e quindi in piena euforia, don Abbondio. I numerosi personaggi comici (Gervaso, Perpetua, Azzeccagarbugli, Fra Fazio, certi tipi della rivoluzione di S. Martino, il conte zio, il sarto del villaggio, Donna Prassede, Don Ferrante ecc.) sono disseminati qua e là nel romanzo e posti in particolari condizioni proprio col fine di equilibrare il tono che, talvolta, diventa troppo grave o troppo emotivo.
Possiamo inoltre definire lo stile del Manzoni cordiale. Il poeta immagina di raccontare la sua vicenda a 25 lettori che tiene sempre presenti e con i quali volentieri si sofferma a fare qualche considerazione. Egli immagina i suoi lettori gente alla buona, cordiale anch’essa, fornita di buon senso, sensibile alle pene degli uomini, capace di giudicare il bene e il male.
Il Manzoni non di dà le arie di ispirato, di sapiente che sa tutto, di nume sovrano e possente, né quelle di ingegnaccio o spiritaccio sbrigliato e bizzarro: mantiene sempre il contegno del buon uomo, comprensivo, ma decisamente onesto, cordiale, ma serio.
Perfino evita di apparire moralista, anzi si preoccupa soprattutto di non apparire moralista, nonostante che, cosciente della sua funzione di educatore, colga tutte le occasioni più opportune per influenzare la moralità dei suoi lettori.
Per rendere più simpatica e più accettabile la sua morale Manzoni fa uso del tono umoristico. L’umorismo è il modo di esporre verità amare o principi severi o critiche taglienti con un sorriso bonario e svagato, come di persona che conosce le miserie umane, la ridicolaggine dei difetti umani, la costanza di certi difetti nella nostra natura, e, non potendo sdegnarsi perché sarebbe troppo, né potendo piangere perché sarebbe ridicolo, né potendo star serio perché realmente certi aspetti della vita per quando deplorevoli sono comici, sorride maliziosamente con i suoi lettori.
Questo tono umoristico rende amabile la sua morale. Egli ha ereditato questo tono leggero e spigliato dagli scrittori illuministi, i quali erano soliti esporre le verità più serie con il tono più vivace possibile, ma esso è soprattutto l’espressione più bella del suo carattere sereno ed equilibrato. Ci ritroviamo qualche cosa della bonaria malizia di Orazio dell’Ariosto e di tutti coloro che, esperti della vita, sono diventati comprensivi e un pochino sfiduciati nei confronti di certe forme deplorevoli di vita, che sono e saranno comuni agli uomini di tutti i tempi.
Raramente il Manzoni esce in espressioni amare e taglienti: lo fa solo quando si trova di fronte ad enormità ripugnanti (ad esempio quando ci presenta il padre di Gertrude a colloquio con la badessa, oppure quando ci presenta la figura del conte Attilio, in cui egli vedeva incarnata la malignità). Del resto la morale del Manzoni, pur conservando una severità intransigente di principi, è comprensiva. (ad esempio il matrimonio di sorpresa è una cosa che non sta bene, però, dice Agnese, diventa necessario quando non si può procedere per le vie normali. Il servo di don Rodrigo che fa la spia, non fa certo un’opera bella in sé stessa, ma per parare i colpi briganteschi del padrone, diventa legittima. Renzo che strepita in casa di don Abbondio, sembra un soverchiatore ma si trova là a strepitare perché don Abbondio non ha fatto il suo dovere).
Il tono equilibrato e cordiale del Manzoni non piace specialmente ai lettori giovani, i quali amano i toni foschi e ardenti: Lucia, ai lettori avidi di sensazioni forti, appare un personaggio sbiadito, la vicenda del rapimento di Lucia piacerebbe di più se fosse condotta fino in fondo e si sentisse strillare la povera vittima fra le mani di don Rodrigo: ma il Manzoni non ama spaventare nessuno, egli scrive per la gente equilibrata, non per gli emotivi, perciò per comprendere i Promessi Sposi è necessaria una buona maturità di mente e di gusto.
Possiamo, infine, definire lo stile del Manzoni oggettivo, ossia rappresentativo della realtà, senza commenti personali più o meno oratorii, tanto cari particolarmente ai romantici. E’ noto che i romantici invece di interpretare e rappresentare la realtà come essa era, preferivano esprimere quel che essi sentivano nei confronti di essa: di qui la prevalenza del tono lirico nella produzione romantica in generale; e la mania dei poeti romantici di far conoscere a tutti il loro cuore, le loro aspirazioni, il loro giudizio, il loro sdegno, il loro entusiasmo.
Il Manzoni, scrittore cordialissimo, nutrito di forti convinzioni religiose, morali, mosso da seri propositi educativi, simpatizzante per la letteratura romantica, era in una tentazione fortissima di introdurre la sua soggettività nel racconto. Quali sarebbero state le conseguenze se si fosse lasciato vincere da questa tentazione?
Avrebbe disprezzato i personaggi avversi alla sua mentalità, avrebbe esaltato i personaggi concordi con i suoi modi di vedere, avrebbe espresso in tono declamatorio giudizi, condanne, elogi, avrebbe insomma impacciato l’azione e la rappresentazione della vita con continui interventi personali più o meno inopportuni.
Il Manzoni lascia parlare le situazioni e i personaggi, perché avendo interpretato il significato vero dei vari motivi, gli è sufficiente svilupparli senza aggiungere nulla: solo il poeta che è insoddisfatto delle situazioni e dei personaggi , che pure ha liberamente scelto nella invenzione, sente il bisogno di piangere, di urlare, di maledire, di gioire con essi, facendo un po’ la parte del presentatore di burattini. Però non bisogna pensare che il Manzoni per rendere omaggio alla oggettività si sia condannato all’assenza dal mondo dei suoi personaggi : egli sente che quel mondo è sua creazione, è espressione del suo modo di vedere la vita e perciò o segue con l’interesse che si può immaginare: ed inoltre egli si è impegnato con i suoi 25 lettori non solo per u n racconto nudo e crudo, ma soprattutto per una rappresentazione della vita tale da essere educativa.
Perciò, con molta modestia, egli si ferma, brevemente e nei momenti più opportuni, a fare qualche piccolo commento di significato umanissimo e di tono simpaticissimo: si tratta normalmente di una battuta umoristica con la quale, quasi d’intesa con i lettori, sottolinea certe situazioni che non possono fare a meno di provocare la malizia delle persone di buon senso. Raramente la sottolineatura assume tono severo: se talvolta sente il bisogno di fare un fugace commento amaro, lo mette in bocca all’anonimo, fingendo di non assumerne la responsabilità.
Così la oggettività si concilia con le esigenze di una oggettività equilibrata: basterebbe pensare, a questo proposito, al modo brillante in cui egli risolve il problema dell’intervento soggettivo, perfino nel corso di una azione drammatica: cioè alimentazione del coro, all’invenzione del coro, a quel “cantuccio” che non rovina le scene della vita che viene rappresentata e nello stesso tempo permette al poeta di far capire il suo pensiero, e di evitare che i suoi personaggi si mettano a predicare.
Il Manzoni e il Romanticismo.
Il Manzoni accolse del Romanticismo i seguenti principi:
1)- la letteratura ha una funzione educativa e per educare deve ispirarsi al vero ;
2)- la natura è la fonte della poesia;
3)- la poesia deve interessare affinché possa essere compresa, gustata, assimilata; e per
essere interessante deve svolgere motivi moderni con mentalità e forma moderna.
4)- ogni soggetto ha la forma in sé stesso e non può essere costretto entro forme fissate
dai retori.
5)- lo studio dei classici ha valore soltanto formativo, cioè serve a formare la cultura, ma
non ha affatto la funzione di abituare alla imitazione servile.
6)- ogni composizione letterari deve essere originaria.
Il Manzoni discorda dal Romanticismo nei seguenti punti:
1)- non la fantasia soltanto, ma tutto lo spirito contribuisce alla creazione poetica.
“Sentire e meditare”, anzi prima meditare e poi sentire, perché non può sorgere alcun
sentimento non alimentato da convinzioni; queste sono le fonti della poesia, e le
convinzioni si formano attraverso l’esperienza e il ragionamento.
Così il Manzoni, pur ammettendo che la fantasia abbia la sua importante funzione nella genesi della poesia, insiste sul concetto che le forme che si generano nella fantasia, ricevono sostanza e vita dall’esperienza, dall’intelletto e dal cuore, cioè da tutto lo spirito.
2)- la poesia deve essere educatrice del popolo, ma per svolgere questa sua funzione
non solo non deve accogliere gli errori della mentalità popolare, ma deve correggerli.
I romantici affermavano che il poeta deve utilizzare tutto ciò che è caro al popolo e
non si accorgevano che talvolta al popolo sono cari anche i pregiudizi: il Manzoni
afferma che il poeta deve soltanto utilizzare il vero.
3)- i romantici non avevano un concetto preciso del vero benché insistessero sulla
necessità che il poeta deve ispirarsi ad esso.
Il Manzoni riconosce come criteri di verità la ragione e la rivelazione, e dà al vero
una sostanza oggettiva, cioè indipendente dalla così detta attività creatrice del
soggetto, tanto esaltata specie dai romantici tedeschi, che si ispiravano all’idealismo.
Il poeta non crea, ma inventa, cioè scopre realtà che già esistono.
4)- i romantici insistono sul concetto che il poeta deve manifestarsi con tutta la
pienezza della sua soggettività nell’opera che compone e che permette maggiore
evidenza tale soggettività; deve riversare la pienezza tumultuosa dei suoi sentimenti
nello sviluppo dei motivi con temperatura, per così dire, incandescente.
Il Manzoni afferma che è necessario non solo controllare la materia, ma anche la
forma, evitando di cadere, nello stesso tempo, nell’anarchia e nell’artificio della
espressione: si può esprimere il proprio stato d’animo senza che sia necessario
assumere toni clamorosi e teatrale. <<Appunti digitati da Vesprini Albino>>