CATALANI Michele in Colucci, Giuseppe, ANTICHITA’ FERMANE vol. II da p.100 segg. <estratto ripulito nel lessico, inoltre tradotto il latino nel testo>
“ORIGINI E ANTICHITA’ FERMANE DEL SIGNOR CANONICO MICHELE CATALANI ACCADEMICO ETRUSCO CORTONESE CON ALCUNE OSSERVAZIONI DELL’EDITORE “ <(Contro Colucci si pubblicò una replica)>
L’EDITORE (Colucci) A CHI LEGGE. Seguendo io l’adottato sistema di riprodurre in quest’opera le altrui erudite fatiche in argomenti analoghi al mio intento, nel trattare delle antichità Fermane m’è sembrato opportunissimo prevalermi di quanto aveva pubblicato su tale argomento il chiaro Signor canonico Michele Catalani dieci anni addietro (Fermo, Lazzarini 1778) . Le ricerche che si prefisse sono state difficilissime, poiché riguardano un argomento il più oscuro che vi sia nella storia. Ma coll’erudizione e con l’ingegno ha saputo spargere molta luce dov’era un perfettissimo buio. Senza ch’io dunque mi fossi a nuove ricerche impegnato, che malgrado qualunque fatica m’avrebbero condotto al medesimo scopo, era ben giusto che delle dotte sue fatiche mi fossi valuto a perpetua gloria dell’antichissima sua patria, cui intendo così far onore non meno ch’all’illustre scrittore, il quale deve da lei meritare eterna e ben degna memoria. Io per altro non so negare ch’in vari punti non conveniamo del tutto nel sentimento, nelle ricerche, le quali si aggirano sulle antichità più remote, per la grande scarsezza in cui siamo de’ monumenti di qualsivoglia maniera, conviene ammetter le congetture. Per quanto sembrino convenienti coi principi della storia, non è per altro che si vietino delle nuove, secondo come si vanno altri lumi scoprendo analoghi all’argomento. Quindi essendo impossibile uniformarsi nel sentimento, non era dall’altro canto conveniente il tacere la mia opinione; dato che nulla più ricercandosi che lo scoprimento del vero, ognuno deve indicare quelle strade, le quali mostrano colà menare più dritto.
(p.102) Accadeva questo principalmente sulla ricerca del sito in cui fu il castello navale degli antichi Fermani, da lui ravvisato nel moderno porto di Fermo, e altrove da me, come m’ingegnai di provare con una dissertazione in altro tempo prodotta (Macerata 1783) Senza omettere dunque quanto si disse dal nostro autore su tal proposito ho riferita in fine la stessa mia dissertazione, con cui si cerca di stabilire altrove il controverso navale. Così vedendo ognuno le ragioni che favoriscono ambedue i sentimenti, sarà in libertà di chi legge il determinarsi a quello che si troverà più ben fondato sulle ragioni. Del resto poi se in altre cose non convenissimo, o credesi opportuno aggiungere nuove riflessioni in conferma delle sue, dopo quel paragrafo su cui cade la discrepanza, o a cui è da aggiungersi qualche aneddoto faccio seguire le mie osservazioni; e talora, se trattasi di qualche avvertimento che niente altera la materia, ma istruisce soltanto il lettore, supplico con una nota la quale si troverà distinta con quest’asterisco* per non confonderle colle altre contrassegnate coi soli numeri, le quali sono le citazioni dell’autore medesimo riportate da lui in corpo, e da me in fine della pagina per non allontanarmi dal sistema che m’ho prefisso in quest’edizione. Qui per altro mi protesto per sempre che il discordare in piccole cose dal suo parere non mi fa diminuire la stima e ‘l rispetto che protesto d’aver per lui, e producendo queste mie osservazioni di luogo in luogo non intendo giammai offendere la somma sua erudizione, e l’alto merito; ma solamente di manifestare il mio qualsiasi sentimento con quella ingenuità che sulle stesse mie cose io bramerei che a me si facesse dagl’altri: lungi sempre dal pretendere di dar tuono colla decisione, né d’obbligar chicchessia a seguire il mio sentimento; da che ognuno deve solamente seguir la ragione.
(p.103) INDICE dei paragrafi. PARTE PRIMA Notizie generali della città e del suo castello
§. I. Distinzione della città dal suo castello.
§. II. Sito della città e del castello di Fermo.
Osservazione sul II. §.
§. III. Che cosa fosse il castello Fermano. Ragionasi degli antichi navali.
§. IV. Diversi generi di porti di mare, e loro struttura.
§. V. Relazione del castello colla città.
Osservazione sul V. §.
§. VI. Tre furono i navali nel Piceno.
§. VII. Come gli antichi geografi nominassero la città di Fermo.
Tre osservazioni sul §. VII.
§. VIII. Come da Fermo il Piceno fu poi denominato provincia de’ castelli.
Osservazioni sul §. VIII.
(p.104)
§. IX. Di che genere fosse il nostro porto e de’ suoi avanzi.
§. X. Della rocca e del campidoglio Fermano.
§. XI. Frammento d’iscrizione inedita illustrata.
§. XII. Del teatro e dell’erario Fermano.
PARTE SECONDA Ricerche d’un altro Fermo diviso dal nostro.
§. I. Due furono i Fermo.
§. II. Della tribù di Fermo Piceno. Illustrazione d’una inedita iscrizione.
§. III. Titolo sepolcrale inedito. Della voce filius ripetuta in alcune lapidi.
§. IV. Si conferma l’esistenza dell’altro Fermo.
§. V. Si risponde alle difficoltà contrarie.
§. VI. Si cerca in qual parte fosse situato l’altro Fermo.
§. VII. Delle città Ispaniche Colonia Augusta Firma, e Firmum Julium.
Osservazioni sulla parte seconda.
(p.105) PARTE TERZA Della colonia de’ Romani condotta in Fermo.
§. I. Fermo città confederata dei Romani.
§. II. Fermo Prefettura dei Romani:
Osservazione sul §. II.
§. III. Fermo prima colonia de’ Romani nel Piceno.
§. IV. Le colonie delle città Picene Adria e Castro Novo non sono più antiche della Fermana.
Osservazione sul §. IV.
§. V. Per qual ragione i Romani conducessero colonia in Fermo.
Tre osservazioni sul §. V.
§. VI. Qual fosse il giure della colonia Fermana, e quando acquistasse il diritto del voto.
Osservazione sul §. VI.
§. VII. Del territorio della colonia Fermana.
Osservazione sul §. VII.
§. VIII. Memorie del territorio Fermano, le quali si hanno in Frontino.
Osservazioni sul §. VIII.
§. IX. Annali della colonia Fermana.
Osservazioni sul §. IX.
(p.106) PARTE QUARTA Dello stato di Fermo sotto diversi popoli e della sua origine.
§. I. Fermo sotto i Romani.
§. II. Fermo sotto i Piceni.
Osservazione sul §. II.
§. III. Fermo sotto gli Umbri e i Liburni.
§. IV. Fermo sotto i Siculi, Situazione degli agri Adriano; Pretuziano, Palmense posseduti dai Siculi; e origine della loro denominazione.
§. V. I tre agri sono sempre stati nel Piceno compresi. Del suo confine a mezzodì.
§. VI. Fermo rimaneva antichissimamente situato nell’agro Palmense.
§. VII. Fermo metropoli dell’agro Palmense, e fondato dai Siculi.
Osservazione sul §. VII.
§. VIII. Del nome della città di Fermo.
Osservazione sul §. VIII.
(p.107) PARTE PRIMA Notizie generali di Fermo, e del suo castello.
Quantunque Fermo per memorie vetuste non sia inferiore alla maggior parte delle altre città, tuttavia le sue antichità rimangono per non so qual cagione affatto trascurate. Io non voglio far parola dei secoli di mezzo, i quali ci forniscono a dovizia di notizie storiche assai per noi onorevoli. A me però piace anzi d’illustrare quella parte di storia Fermana, la quale è a trattarsi più difficile, poiché riguarda l’età più remote. A dir breve intendo di esporre lo stato della città nostra dalla sua fondazione fino al cader della libertà Romana. La sola origine di Fermo avea io dapprima presa di mira: ma e la materia ora per se sola assai digiuna, e ‘l conoscere qual fosse la condizione delle città ne’ più antichi tempi giova anche al rintracciare la loro origine. Quindi in questo mio letterario lavoro ho fatto uso di un metodo retrogrado, che al mio uopo ho stimato più acconcio.
(p.108) In questa prima parte darò luogo alle notizie, che di Fermo ci hanno lasciate gli antichi geografi, si ragionerà delle branche più nobili, che lo decorarono: ma soprattutto le ricerche nostre saranno rivolte all’antico castello, il quale formava un pregio assai raro della nostra città.
§. I Distinzione della città di Fermo dal suo castello. Alcuni degli antichi autori hanno fatto menzione della città di Fermo, altri del castello di Fermo, da altri poi nominasi e la città, e il castello. Tolomeo: in mediterraneis Traiana, urbe Salvia, Septempeda, Cupra montana, Firmio, Asculo, Adria. Così da Frontino e da Paolo Diacono, e da altri vedremo annoverarsi Fermo tra le città. Plinio al contrario , e Mela nominano solo il nostro castello. Cupra Oppidum, Castellum Firmanorum, et super id colonia Asculum Piceni nobilissima. Così il primo (Plin. Hist. nat. Lib. 3. Cap.13) Castella autem Firmum, Adria, Truentum. Così il secondo (Mela De situ orbis lib. 2. cap. 4) . Strabone poi (Strabo lib. V) è stato più degli altri accurato: Paullum supra Mare Urbs Auximum est, deinde Septempeda, Potentia, et Firmum Picenum, et ejus navale castellum. Ma più che a Strabone siamo debitori all’itinerario di Antonino, e alla tavola Peutingeriana di questa distinzione, giacché da questi apprenderemo anche qualche cosa di più. Nell’Itinerario pertanto abbiamo:
A Septempeda Castrum Truentinum
URBS SALVIA.
FIRMUM M. P. XVIII.
ASCULUM M. P. XXIIII.
CASTRUM TRUENTINUM M. P. XX.
A Mediolano per Picenum et campaniam ad Columnam
POTENTIA CIVITAS.
CASTELLO FIRMANO M. P. XX.
TRUENTO CIVITAS M. P. XXVI.
CASTRO NOVO CIVITAS M. P. XII.
(p.109) Iter Flaminia ab urbe per Picenum Brundusium usque
ANCONA
NUMANA M. P. VIII.
POTENTIA M. P. X.
CASTELLO FIRMANO M. P. XII.
CASTRO TRUENTINO M. P. XXIIII.
CASTRO NOVO M. P. XII.
Non altrimenti nella tavola Peutingeriana ritroviamo segnata e la città ed il castello. Quindi nella via litorale, che si stende dalla estinta città di Potentia al castello Truentino estinto anch’esso, ma che rimaneva presso l’imbocco del fiume Tronto, troviamo segnato:
POTENTIA
SACRATA
FLUSSOR fl. VI.
TINNA fl.
CASTELLO FIRMANI II.
CUPRA MARITTIMA XII.
CASTRO TRUENTINO XII.
Anche la città di Fermo è notata nella tavola. Il gran Bergiero volle da questa ricavare il corso della via Salaria, e così descrisse (Berger De viis lib. 3. Sect. 24)
REATE
AQUAE CUTILIAE VIIII.
INTEROCRIO VII.
FOROECRI XII.
PALACRINIS IIII.
AD MARTIS XVI.
FIRMO PICENO X.
(p.110)
CASTELLO FIRMANI XII.
CUPRA MARITTIMA XII.
CASTRO TRUENTINO XVII.
CASTRO NOVO XVIII.
HADRIA VII.
Ora da queste sopra citate autorità vuolsi inserire per cosa certa, e indubitata, che vi è stata anticamente la città e il castello di Fermo, non come un solo, ma bensì come due luoghi fra loro separati e distanti di sito. Quindi errò Flavio Biondi il quale pretende che nell’alto monte, che Girone appelliamo, vi fosse pervetustum oppidum, quod castellum Firmanorum erat appellatum. Anche più errarono altri, i quali dissero che Fermo non era anticamente città, ma un ben forte castello, provandolo colla riferita autorità di Strabone, il quale dice ben tutt’altra cosa. Ma noi, dopo aver provata siffatta distinzione, facciamoci a ricercare qual fosse il §. II. Sito della città e del castello di Fermo. Moltissime sono le città, scrisse il gran Maffei (Verona illustrata lib. 2) le quali col volger de’ secoli hanno in tutto o almeno in parte cambiato l’antico sito. Non così è avvenuto alla città nostra, la quale che non sia stata soggetta a siffatto cambiamento, luogo non danno a dubitare gli avanzi delle antiche, che sono presso alla porta detta di S. Francesco, composte di grosse pietre e riquadrate, alle quali non può assegnarsi epoca meno remota dei secoli Romani: altri avanzi di somiglianti pietre si vedono nel palazzo arcivescovile, presso alla casa de’ signori conti Porti, e in altri siti della città. Vedremo appresso le fabbriche piantate nel Girone , e a lato di esso. Ultimamente non è mai Fermo stato soggetto a un totale devastamento o eccidio. Bensì è a Fermo, ciocché alle altre antiche città, addivenuto: cioè che il piano si è assai innalzato; onde vediamo rimaner sotterra un magnifico edificio sotto il convento di San Domenico, e nell’anno 1776 scavandosi il terreno per gettarvi le fondamenta a oggetto di ampliare il conservatorio delle proiette si scoprì un muro assai più
(p.111) antico di un condotto antico ancor esso, nel quale vi erano molte figline, che portavano segnato il nome dell’Imperatore Antonino Pio. Or dal fin qui detto si corregga la positura che di Fermo ci da la tavola Peutingeriana collocandolo di là dal fiume Tenna con manifesto errore. Ma non già come della città, così del castello è ugualmente sicuro l’antico sito, non avendo per questo gl’argomenti, che ho di sopra per quella arrecati. Con tutto ciò la tavola, e l’Itinerario alcun poco per noi corretti, qualche antico rudere ci renderanno sicura la nostra scoperta. Io affermo pertanto che l’antico castello Fermano era al lido del mare, ed ove ora è il porto di Fermo. In questo sito lo fissò anche l’accurato Cluverio 6 : Quod igitur Straboni navale Firmi (nomine) castellum, id Plinio dicitur castellum Firmanorum, itinerariis vero Castellum Firmanum. Hodie dicitur porto di Fermo, il che è quanto di vero e di buono si è fino ad ora scritto intorno a questo antico nostro castello. Ma essendo questa una scoperta antiquaria assai per Fermo onorevole, a me si conviene addurne le prove, cosa che non ha fatto il Cluverio. La Peutingeriana lo colloca in distanza di due miglia dal fiume Tenna: quella del nostro porto è a un dipresso di tre. Si condoni un picciolo errore: né sappiamo qual corso in quel secolo potesse avere il nostro fiume, o abbiamo anzi argomento a credere, che fosse meno lontano dal porto; onde forse non errò, o errò di poco l’autore della tavola. Dalla città di Potenza al castello Fermano nell’Itinerario si segnano la prima volta miglia XX, la seconda XII; onde in una delle due vi è errore. La città di Potenza dal Cluverio, e dall’Arduino si fissa al porto di Recanati, ma dagli altri più pratici di queste contrade nel territorio di Monte Santo, terra assai cospicua della diocesi Fermana (parere di Francesco Lancellotti nelle Antichità di Cupra Montana che esamineremo); e più precisamente fu nella badia di S. Maria in Potenza, in cui ancora esistono vari avanzi di antica fabbrica, i quali sono lontani circa un miglio dal fiume stesso Potenza. Or da questi ruderi al nostro porto contasi ora circa XVI miglia; quindi defalcando le antiche XX miglia di un quinto, ch’è il vantaggio delle antiche sopra le moderne, abbiamo egualmente distanti dalla città di Potenza il nostro presente porto, e l’antico castello. Correggasi pertanto nell’Itinerario quel XII in XX. Non so come prima di me non lo abbia fatto il diligente Cluverio. Facil cosa è le due unità di decussate, scrivendo male farle sembrar diritte, e lo X dividerlo in I I. Ma a sconvolgere quanto abbiamo stabilito è sufficiente la distanza del castello dalla città, la quale nella tavola Peutingeriana, secondo la copia trattane dal Bergiero, abbiamo veduto essere stata di miglia XII. Confesso che ancor io ne rimasi fortemente turbato. Ma avendo poi avuta dal non meno dotto che compito Sig. Annibale Olivieri una copia esattissima di quei segmenti della tavola della ultima edizione di Vienna, mi confermai nel giudizio, che aveva io già formato, cioè che il Bergiero malamente lesse Cluverius Ital. Antiqua lib. 2 cap. II
(p.112) E non bene applicò ai paesi le distanze. Dico pertanto che da Fermo al suo castello non è segnata nella tavola alcuna distanza, e quella supposta di miglia XII si deve riconoscere dal castello Fermano a Cupra marittima. Ciò chiaro si vede ancora nell’Itinerario sopra recato: in questo dal castello Fermano al castello Truentino si segnano miglia XXIIII; tolgasene XII, le quali correvano dal castello Truentino a Cupra, come abbiam veduto nel primo pezzo della tavola, e può vedersi anche nel Cluverio, ne rimangono altre XII, le quali formano la distanza di Cupramarittima al castello Fermano, e non da quello alla nostra città. Il molto spazio, che nella tavola vedesi giacer di mezzo fra Firmo Piceno, e castello Firmani avrà data occasione al notato errore di Bergiero. Ma, siccome ho avvertito, Fermo è mal situato nella tavola, e oltre a ciò passandosi da Fermo al castello lasciasi la via mediterranea e prendesi la marittima. Intanto questo errore di Bergiero ne ha per necessaria conseguenza tratti seco degli altri. Quindi difettosa è la distanza di miglia XII da Castro Truentino a Cupra, la quale non so donde se l’abbia tratta il Bergiero, ma che abbiamo veduta essere stata di sole XII, l’altra di XVIII da Castro Novo a Castro Truentino, la quale è verisimilmente da Castro Novo a Pinna, corrispondendo a un dipresso alla presente distanza di Città di Penne a Giulia Nova, presso cui rimaneva l’antico Castro Novo: difettosa è infine quella di miglia VII da Hadria a Castro Novo, la quale avrà forse tolta da Hadria al Macrinum; ma che non può sussistere, poiché nell’Itinerario per ben due volte se ne segnano costantemente XV; e di fatti Giulia Nova (*città delle frontiere dell’Abbruzzo confinante col nostro Piceno) è ora lontana da Atri (**città dell’Abruzzo ulteriore che era l’antica Adria e molto celebre per titolo di ducato, di cui si è decorata. Il di lei Vescovato è unito a quello di Penna)
circa miglia XII. Quindi io propongo la suddetta tavola più correttamente:
AD MARTIS
FIRMO PICENO X.
CASTELLO FIRMANI
CUPRA MARITTIMA XII.
CASTRO TRUENTINO XII.
CASTRO NOVO XVIII.
HADRIA XV.
Ma in tutta questa emendazione non pretendo io di essere giunto all’ultima esattezza, poiché il sito preciso dell’estinto Castro Truentino non ci è noto, e l’antico Castro Novo chiamato ne’ secoli cristiani S. Flaviano nel 1471 fu fabbricato col nome di Giulia Nova in distanza di un miglio dal sito antico.
(p.113) Ma prima di lasciare il Bergiero avvertiamo un altro suo errore. Dopo aver scritto il corso della via Salaria notò: si Itinerarii numeros in unam summam computes, habebis M.P. CLXVI, ut vitiose in libris impressis legatur CLVI. Ma gli altri editori dell’Itinerario hanno ogni ragione di segnare sole miglia CLVI. La diversità fra questi, e il Bergiero consiste nella distanza di Reate a Cutiliis. I primi ne pongono sole VIII il secondo XVIII. A chi dar si può ragione? Ai primi: poiché septuagesimo a Reate stadio abest clara Urbs Cutilia monti opposita, et ab ea non longe Lacus. Così ci lasciò scritto Dionisio Alicarnasseo (Dion. Hal. Lib. I. cap. 19) . Questi LXX stadi formano miglia VIII circa; onde l’Itinerario il quale sempre prende il numero vicino rotondo segnò VIIII miglia da Reate a Cutiliis; sebbene forse meglio avrebbe fatto a segnarne VIII. Se avesse posto mente a questo errore del Bergiero il Marangoni (Storia di Civitanova lib. I. cap. 5) che volle anch’egli descrivere il corso della via Salaria, avrebbe senza fallo conosciuta la cagione vera della discrepanza delle miglia, che passava fra l’Itinerario e la tavola. Ma egli di tal discrepanza prender non si dovea il minimo pensiero; poiché sebbene il principio e la fine, ossia i due termini estremi della via, Roma e Adria, sieno in ambedue i medesimi, non sono però i medesimi tutti quei luoghi, per i quali passa la via Salaria, poiché da Falacrino ad Adria sono diversissimi. Questa è la ragion vera, e non già quella, che il Marangoni adduce, cioè, dall’esser composti in diversi tempi l’itinerario e la tavola, e perché l’una dall’altro varia in alcun luogo diversamente nominato. Molto meno poi, senza sapersi il perché, doveva riprendere il Maffei nell’aver questi osservato che le miglia degli antichi fossero più corte delle nostre. Io però non avrei mai consigliato il Bergiero a voler nella tavola delineare il corso di quella via, e potrei forse notare qualche altro errore ivi da lui commesso. Ma dopo una sì lunga mia digressione tempo è di lasciarlo. Non così però lasciar si dee la tavola, e l’itinerario. Abbiamo già in questi osservato, che il castello Fermano era a XII miglia da Cupra Marittima. Questa illustre città sorgeva nelle vicinanze di Marano, come esporrò nel fine di questa operetta (*Questo §. Sarà omesso, dovendosi a parte e ben a lungo trattare di Cupra Marittima). Si osservano ancora gli antichi ruderi, e presso questi, non ha molti anni, si sono dissotterrati più antichi monumenti. Già poi la distanza di XII. miglia diminuita dalla quinta parte formano miglia VIII e passi 400.: non può essere più esatta; mentre altrettanta è al presente la lontananza del nostro porto dalle divisate vicinanze di Marano. Per tanto da tutto questo ben lungo discorso rimanga certo ed inconcusso, che il sito del antico castello Fermano, attese le sue distanze col fiume Tenna, colla città di Potenza e di Cupra marittima era nel presente porto di Fermo. Or sì non più si parli d’itinerario non più di tavola.
(p.114) OSSERVAZIONE SUL §. II. Nel determinare il sito di questo castello navale degli antichi Fermani io mi discosto affatto dal sentimento del nostro autore. Porto parere essere stato piuttosto nel territorio del moderno castello di Torre di Palma, nella foce del torrente, o per meglio dire del Fosso, chiamato oggi, Fosso Cognolo. E’ fondata tradizione esser ivi stato un porto, anche ne’ bassi tempi detto porto Cognolo. Qui non adduco le ragioni, che credo poter favorire il parer mio; da che sono espresse diffusamente nella dissertazione, che si vedrà riprodotta più sotto, e a cui rimetto il cortese lettore.
§. III. Che cosa fosse il castello Fermano. Ragionasi degli antichi navali. intendere che cosa fosse il castello Fermano bastano le parole di Strabone: Firmum Picenum, et ejus navale castellum; soltanto che dopo la parola navale si sottintenda, est, o nomine, onde il senso sia, che il navale di Fermo era il castello, oppure chiamavasi castello. Era dunque un paese marittimo chiamato castello, nel quale vi era il navale della città di Fermo. Prendiamo da Suida il significato della greca parola epinium, la quale usò Strabone: significat autem castellum, vel oppidum maritimum, ubi sunt urbium navalia: ut Piraeus Athenientium, et Nisaea Megarentium. Post autem etiam pro quolibet emporio vel oppido maritimo accipi. Ma chiaro è che l’epinium usato da Strabone dee qui prendersi nel primo significato rigoroso; giacché abbiamo la città, alla quale spettava il navale: Firmum, ejusque navale castellum; quindi, come si è per noi veduto, questo castello portava sempre l’addito di Firmanum. Era dunque il castello il nostro navale. Ma questa stessa voce navale è a più significati soggetta. Navale denota il luogo, ove si fabbricavano le navi. Isidoro: Navalia sunt loca, ubi naves fabricantur; anche quello in cui conservansi. Servio: navalia dicimus loca, ubi naves sunt. Navali si appellavano anche quei luoghi, i quali erano per ordinario le imboccature de’ fiumi, in cui approdavano le navi traendosi a lido. Sono celebri i navali di Roma fabbricati da re Anco, e ristorato da Emilio. Oltre i tre esposti significati della voce navale ve n’è anche un altro, ed è di vero porto di mare fabbricato a servizio di una città vicina, situata in distanza dal mare. Si fabbricava il porto
(p.115) e insieme col porto un paese o castello, il quale si denominava navale della città, dirò così, matrice. In questo ultimo significato navale corrisponde a porto di mare, ed i scrittori Greci adoperavano la voce epinium; il che resta anche comprovato dalla etimologia di questo Greco vocabolo, che riferirò più sotto. Ma lo dimostrano anche gli esempi. Suida chiama navale di Atene il Pireo, e Nisea navale di Megara; eppure a chi non è noto che questi furono due celebratissimi porti? Il Pireo, al riferir di Tucidide (Lib. I) , avea tre porti naturalmente fatti; ed era moenibus circumdatus, ut ipsam urbem dignitate aequipararet, utilitate superaret (Cornel. Nepos in Themist. Cap. 6) .Pausania anch’egli lo chiamò navale, e vi nomina il triplice porto: Piraeeus apud majores populus fuit non navale… Quum vero Temistocles ad rerum Atticarum gubernacula accessisset, Piraeum Atheniensibus navale construxit; quippe qui navigantibus commodius expositus videretur, continetque tre portus, quum unus tantum ad Phalerum pateret, quae navalia mea quoque aetate visebantur. Così Nisea è da Strabone (lib. 9) chiamata navale de’ Megaresi, e da Pausania (In Attic.): Navale Megarensium , quod tempore etiam nostro Nisaea appellatur. Non altramente Corinto avea due porti, il Cencreo, ed il Lecheo, i quali da Pausania, e Tolomeo citati dall’Ortelio (Thes. Geogr.) vengonom appellati navali anch’essi, e da Strabone (lib. 8) si descrivono per due paesi. Non furono due porti assai celebri in Italia quelli di Ostia, e di Anzio? Ostia, al dir di Strabone, est urbis Romanae navale. Il grande Alicarnasseo (Lib. 3. Cap.51) ci descrive di Ostia, ossia di questo navale, esattamente la origine: Quum Tiberis amnis ex Apennino praeter ipsam urbem defluens… non magnopere urbanis prodesset, quod nullum haberet circa ostium castrum, quod naves tum e mari appellantes, tum per fluvium descendentes acciperet pariter et redderet negotiantibus… decrevit navale ad ejus ostia condere, pro portu usus ostio ipso fluvii… Porro qua inter flumen et mare litus curvatur in cubiti speciem, oppidum Ancus muniit, quod ex re Ostiam appellavit, effecitque ut Roma quoque bona degustaret. Anzio la principale città de’ Volsci avea al mare il suo castello, in cui era il navale. Chiaramente raccogliesi dall’istesso Alicarnasseo (lib. 9. Cap. 62) Numicio ducenti exercitum ad Antium, quod tunc inter primarias Voscorum urbes erat, nullus exercitus se opposuit. Interea et ager eorum magna ex parte vastatus est… , et oppidum quoddam captum, quod Antiatibus erat navale simul et forum rerum ad victum pertinentium, quae vel negotiationibus maritimis vel latrociniis subvectae plurimum illis emolumenti importabant… Post haec consulis jussu incensae sunt aedes, diruta navium receptacula, aequata solo moenia, ne castellum relictum Antiatibus in posterum esset usui. Or questi esempi addotti, ed altri che addurre si potrebbono, giovano
(p.116) mirabilmente a provare ch’erano veri porti di mare questi epinii o navali fondati in castelli o paesi marittimi a servigio delle loro città padrone: queste poi, mercé appunto tali navali, benché dal mare distanti, non mediterraneis tantum, sed etiam marinis hominibus patentes transmarina quoque bona degustabant. Ma che per siffatti navali debbono intendersi veri porti, lo manifesta più di ogni altra cosa la etimologia del Greco vocabolo επινιον, la quale mi piace di riferire colle parole dell’immortale canonico Mazzocchi in quel passo delle sue tavole Eraclesi (Alex. Simmac. Mazocchi tab. Heracl. Pag. 111) in cui ragiona di Siri navale di Eraclea. Giuntami alle mani sì dotta opera dopo aver già stese queste mie osservazioni, ho goduto di vedermi da sì raro scrittore prevenuto, e di conoscere insieme che nel nostro castello vi era altresì un nobil emporio: Epinion hic et alibi vulgo navale reddunt: quod cave pro loco tantum navium construendarum aut subducendarum notat. De portu accipienda est Suidae etimologia nominis definitionem constituens = Epinion dicitur a natare, quod ibi Onerariae natent, remosque inhibeant cessim euntes = Tametsi quod onerariarum tantum meminit non tam quemlibet portum quam emporium designare voluit. Ac sane si usum scriptorum attendas, ea vox passim pro emporio accipitur, quod et a me observatum fuit. Confer in eadem sententiam H. Stephanum in Thes. et Tucididis Scholiasten, unde pleraque sua hic descripsit Suidas. Ergo Siris Heraclae ( noi diremo castellum Firmanum ) tum portus tum navium officina tum potissimum nobile emporium extitit. Fu dunque il nostro castello vero porto, e non già una semplice stazione di mare, come alcuni potrebbero opinare; giacché non mai da Greci scrittori per indicare stazione vedesi usato il vocabolo epinion, ma bensì ormos; come riflette il lodato Mazzocchi nell’opera citata (Id. pag. 524). Quo loco Ormon non portum cum interpetre, verum etiam navium stationem reddiderim: id quod Ormos saepissime notat, e lo Sceffero (De milit. Naval. Lib. 3. e 4). Che se era stazione di mercanti di mare, allora veggiamo usata anche la voce Emporium: Perciò dice il Mazzocchi (pag. 31) Porro stationes modo uphormos, modo emporia vocat Strabo. Può alcuno ricercare, perché siffatti porti furono dagli antichi appellati navali. Parmi esserne la cagione dell’avere il navale formata la principal parte degli antichi porti, e la più utile della città, e quella in cui seguiva il commercio, e il traffico di ogni mercanzia. Diamo una brevissima descrizione degli antichi porti di mare, la quale servirà anche a maggior rischiarimento di ciò che saremo per dire, e acciocché i nostri abbiano una qualche idea di quel porto, che rendeva già tanto lustro, e vantaggio alla loro città.
(p.117) §. IV. Diversi generi di porti di mare, e la loro struttura. porti di mare comunemente distinguons’in due generi: Portus est duplex: natura alius, alius ab arte. Naturalis, quem fere flumina constituunt eo loco, ubi se dejiciunt in mare … Artificialis, qui fit manu, egesta nempe terra, et inducta aqua. Scheffero (Loc. cit.). Tal comune divisione pienamente non mi soddisfa, e vi aggiungerei una terza specie di quelli, che sono navali in parte, e in parte artefatti. Alii item portus sunt, scrisse il Bergiero (de viis lib 4. Sect. 48) , quos natura verius ruditer designatos hominum industriae reliquit, quam ipsa perfecit, qui tamen improbo labore et magna operarum vi redditi sunt optimi. Per ultimo fra i porti naturali distinguansi altri formati dalle imboccature dei fiumi, altri da due colline, o due punte di monte, che si avanzino al mare. Tale è il porto descrittoci da Virgilio (Aeneid. I. v. 163). Est in secessu longo locus: insula portum Efficit objectu laterum, quibus omnis ab alto Frangitur, inque sinus scindit sese unda reductos. Hinc atque hinc vastae rupes, geminique minantur In coelum scopuli, quorum sub vertice late Aequora tuta silent. Già poi di ciascun porto tre erano le parti principali. La prima che dava l’ingresso nel porto alle navi, formavasi da due braccia o curvature, le quali sporgevano nel mare, frenando la veemenza e gagliardìa de’ flutti, e dando alle navi ricovero. Ne’ porti artefatti chiamavansi Brachia o Cornua; e consistevano in grosse muraglie: nei naturali erano le opposte rupi chiamate da Vitruvio (Lib. 5) Acroteria e Promontoria. La seconda parte era uno stretto passo nella opposta estremità delle due braccia, per cui entravano, e uscivano le navi, latinamente detto Ostium e Fauces. La terza finalmente più intima e dentro terra, era il navale, innanzi al quale vi aveva il sito, in cui approdavano le navi, latinamente detto Crepido; questo videtur e lapide plerumque exstrui consuevisse hemicycli forma, come scrisse Scheffero. Aveva poi il navale un buon numero di stanze, nelle quali stavano in secco, e si custodivano al coperto le navi, si raffazzonavano, e vi si fabbricavano di nuovo. Seguiva poscia il foro, e la piazza di commercio e di negozio, e le botteghe degli artefici e lavoranti, i tempj, e altre fabbriche per
(p.118) uso pubblico e privato de’ cittadini e negozianti. Ecco per tanto come il navale era la precipua, e più utile parte del porto, e donde credo che sì fatti porti si appellassero navali.
§. V. Relazione del castello colla città. Per le notizie già esposte divengono per se manifeste alcune relazioni o corrispondenze del castello colla città. Questo riconosce la sua origine e fondazione dagli antichi Fermani, i quali avendo la loro patria in distanza di presso tre miglia dal mare decreverunt navale condere … oppi dum munierunt … effeceruntque ut Firmum non mediterraneis tantum, sed etiam marinis hominibus patens transmarina quoque bona degustarent: per adattare al caso nostro le parole del gran Dionisio. Il castello, dai Fermani fabbricato, era ai Fermani soggetto e dipendente, essendo una come colonia di Fermo. Ma la relazione principale, e che più giova al nostro intento sì è, che il castello era come una porzione o contrada della stessa città, e ambedue insieme uniti formavano come un sol paese, e per un solo venivano considerati; talmente che, allor quando uopo non vi era di speciale distinzione, lo stesso era dir Fermo che castello Fermano. Fu questa, se mal non mi appongo, una proprietà comune ai navali delle altre città. Esaminiamo di nuovo i sopra recati esempi. Il Pireo lontano d’Atene per IX. stadi, ossia per V miglia fu per opera di Temistocle con due forti e lunghe muraglie ad Atene unito, come fra gli altri conta Strabone (Lib. 9). Da Festo Atene nominasi Quadriurbs. L’Ortellio (Thes. geogr. Cit.) deriva di tal soprannome la etimologia dall’esser stata Atene formata da quattro città. Ma Strabone notato dall’Ortellio stesso nomina non quattro, ma ben dodici città, dalle quali insieme unite Teseo fabbricò Atene. Meglio il Cellario (Com. Cor. Nep. V. Themist.) derivò la etimologia della città, e dai tre porti o navali, che abbiamo già descritti; onde ne deriva una quadruplice città. Megara e Nisea, paesi fra loro distinti per XVIII. stadi , erano parimente fra loro unite dall’una e dall’altra banda con doppia muraglia per attestato pur di Strabone (Loc. cit.) , e di Tucidide (Lib. I). Megara anzi per testimonio di Pausania, Tolomeo, Suida citati dall’Ortelio fu un tempo col nome di Nisea appellata. Ma molti furono i navali, i cui paesi ebbero il nome colla loro città comune, siccome ha osservato il dottissimo Oderico illustrando la Greca medaglia inedita di Omalos di questo ch. Ab. Benedetti (Gasp. Oderic. In notis ad numismat. Graeca non evulg. Collect. Ab Ant. Bened. N. II. §.8). Dal Lecheo a Corinto vi era parimente la continuazione delle due muraglie, come si ha nello stesso Strabone (Lib. 8). Ma lasciamo alla magnifica,
(p.119) e ricca Grecia siffatte continuazioni di muraglie, per cui anche materialmente di due formavasi un sol paese. Un esempio più a proposito al nostro intento aver lo possiamo in classe di Ravenna, celebre pel soggiorno della flotta Romana, che guardava il mare Adriatico. Era classe un forte castello chiamato da Agazia (Agatius lib. I. de bell. Goth.). Castellum Ravennae suburbanum, e per mezzo di una strada di tre miglia chiamata Cesarea, in cui vi aveano interrotte abitazioni dall’una e dall’altra banda, si univa alla sua città Ravenna. Quindi Sidonio Apollinare chiamò Ravenna oppidum duplex, duplice per la città e pel castello di classe. Giornande poi ci rappresenta Ravenna come un paese triplice facendo conto anche della contrada Cesarea; e con triplice come appellato: Trino urbs ipsa vocabulo gloriatur, trigeminaque positione exulat, idest prima Ravenna, ultima Classis, media Caesarea inter urbem et mare. Mi duole di non potere al dì d’oggi mostrare la nostra città unita al suo castello per lungo tratto di mura, come era in Grecia, né per una contrada di abitazioni come Ravenna. Ma è troppo chiaro ch’esser vi doveva qualche sorta di congiunzione. L’antica strada, o vogliamo dire contrada che dalla città conduceva al castello non era alcuna delle due a mio avviso le quali abbiamo presentemente, ma era più breve e dritta, situata tra queste due, tenendosi però più accanto alla sinistra. Or nel corso di questa antica strada, mancata poi nei secoli posteriori, apparisce qualche vestigio di antica fabbrica, e vi si ritrovano antiche monete e simili monumenti. La città nostra antica era tutta rivolta al suo castello, come manifestano tuttora gli avanzi delle antiche mura e di altre fabbriche sopra descritti. Il presente porto di Fermo a differenza di tutti gli altri castelli dello stato fermano, benché sia fra questi uno de’ più ragguardevoli, non ha, né ha giammai avuto per l’addietro proprio e distinto territorio. Ecco di ciò la ragion prima e radicale: perché questo castello dai Fermani riconosce la origine, ed è stato da essi nel proprio territorio a loro uso e vantaggio fabbricato, e si considerava come una contrada della loro città. Si osservi ancora, come questo castello altro nome non aveva che quello di castello di Fermo, al quale è poi succeduto il presente di porto di Fermo. Ma io entrar non voglio né tempi presenti, e credo che le addotte osservazioni siano sufficienti a provare che vi aveva qualche sorta di unione fra la città e il castello, e che questo era come parte di quella. Resta questo stesso confermato dal modo, con cui dagli antichi geografi si è fatta menzione di Fermo. Prima però giova di stabilire quanti fossero i navali nel Piceno.
(p.120) OSSERVAZIONE SUL §. V. Il nostro autore congettura che tra il navale Fermano, e la città vi fosse comunicazione di fabbriche, come si sa essere stata fra Ravenna e il suo castello di Classe distante circa tre miglia dalla città. Ma se si eccettua la comunicazione della comoda strada, che fu anche strada militare, ricordata nella tavola Peutingeriana, io non crederei esservi stata altra comunicazione. Se quinci e quindi della strada vi fossero state fabbriche ne vedremo altri ruderi, e così con più sicuro argomento si potrebbe determinare il controverso sito di tal navale.
§. VI. Tre furono i navali nel Piceno.
on fu già solo Fermo nel nostro Piceno ad avere il suo navale: lo ebbero altre due ragguardevolissime città, Truento, e Adria. Truento fu città assai insigne, fabbricata per quel che dice Plinio dai Liburni, popolo assai antico, nomata dagli antichi geografi, e da Silio (Ital. Lib. 8.) qualificata per città forte: Quique Truentinas servant cum flumine turres, decorata in tempi più felici di sede vescovile, siccome può vedersi nell’Ostenio (In not. Ad Cluver.) e nell’Ughelli (Epist. antiq.). Avea questa nobilissima città Picena al mare e sulla imboccatura del gran fiume Tronto il suo castello notato nell’Itinerario,e nella Peutingeriana, e da Mela, come si è veduto, ricordato anche da Pompeo in una lettera a Domizio (Inter. Epist. Cic. Ad Attic. Lib. 8) e in una iscrizione del Muratori (Thes. veter. Inscript. Pag. 388 n. 2.) la quale è stata ripetuta (loc. cit. pag. 1092) come dall’altra diversa, ma che in sostanza è la medesima. Nessuno degli antichi, per quel che io mi sappia, ci dice espressamente che questo castello Truentino fosse il navale di Truento. Ma un castello posto alla imboccatura di questo fiume, notata da Tolomeo: Truentini fluminis ostia, e che portava il nome della città, attese le cose già da noi poste in nota, che altro mai era, se non che il navale della stessa città di Truento? L’antica città Picena Adria, ora ATRI nell’Abruzzo, è notissima. Non credo però che sia egualmente noto il suo navale; ma da Strabone si ha chiarissimamente: Matrinus fluvius ab Adrianorum urbe profluens, et navale Adriae habens nomen secum conveniens. In mediterraneo sunt Adria et Asculum. (manca nota 41)
(p.121) Così si legge nella traduzione del Casaubono: in quella poi dell’Heresbach abbiamo: Matrinus fluvius, ab Adrianorum Urbe fluens, emporium Adriae ejusdem appellationis habens. In mediterranea vero et ipsa est, et Asculum. Non so decidere se questo navale prendesse il nome dalla città e si appellasse castrum Adrianum, o piuttosto dal fiume e si chiamasse Matrinum. Il Cluverio decide pel secondo: Olim heic ( Porto di Atri) erat oppidum illud Matrinum, Adrianorum navale, cujus nomen in tabula itineraria corruptum legitur Macrinum. Ma io sono di opinione che si nomasse ancora castrum, o castellum Adrianum. Mela ci da tutto il fondamento di sospettarlo, siccome ora vedremo, esaminando
§. VII. Come gli antichi geografi nominassero la città di Fermo.
Dico che le espressioni degli antichi geografi nel nominar Fermo sono tali, che ancor essi hanno mostrato d’intendere per un solo paese la città ed il castello. Come può giudicarsi altrimenti? Plinio nomina il solo castellum Firmanorum. E’ egli verisimile che non fosse a notizia di Plinio la città di Fermo, ma il solo suo castello? No certamente: o si guardano i tempi di Augusto, dei quali egli si propose di scrivere, o quelli ne’ quali scriveva, Fermo era nobile e gran città: anzi, siccome osserveremo, fra le Picene fu la prima ad esser nota nella Romana storia. Non poteva dunque essere da Plinio trascurata: ma conviene dire che egli pensasse di soddisfare a questo suo obbligo col semplicemente nominare il suo castello. Di fatto il suo valente commentatore l’Arduino per quel castellum Firmanorum intese la città: Nunc paullum a mari semotum oppidum Firmanorum Fermo. Notò è vero il dottissimo P. Sarti (De Cupr. Mont. §. 19): Est, ut audio, qui Plinii locum alio modo distinguat, et legat: Cupra oppidum, castellum Firmanorum, et super id colonia; (idest Firmanorum) Asculum Piceni nobilissima. ma di tal lezione non si può entrar mallevadore, non venendo sostenuta da verun manoscritto. Or che diremo di mela, il quale dichiarò castelli le tre nobilissime città, Fermo, Adria, Truento? Castella autem Firmum, Adria, Truentum. Può egli ammettersi in un accurato scrittore questo triplice errore? Mai no: conviene però dire che egli unisse insieme queste tre città, le quali solo nelle provincia si costituivano e dalla città insieme e dai loro reperivi castelli: quindi è che non errò similmente Mela in alcun altro paese. Or si purghi Mela dall’accusa, che gli dà il Cluverio: Mela erravit, qui inter castella numeravit Firmum; e ragionando di Adria: Erravit haud modice Mela Adriam hanc castellum
(p.122) una cum ipso Firmo nobilissima colonia appellans. Di un simile supposto errore poteva altresì accusarlo rapporto a Truento: ma parmi che egli non sapesse distinguere la città Truentum dal Castrum Truentinum avendo scritto: Truentum, sive, ut alii habent, Truentinum castrum; e poi si occupa tutto nell’esaminare se dir si debba nel primo o nell’altro modo: la qual quistione dovea decidere col dire che Truentum chiamasi la città, e Truentinum il castello navale.
OSSERVAZIONE SUL §. VII. OSSERVAZIONE PRIMA
a ragione per cui Plinio nominò castellum Firmanorum senza dir altro di Fermo la recai nella Cupra marittima. Plinio altro non fece con quella sua descrizione che dare il nome dei popoli e delle città a segno che se ricordava la città non parlava del popolo: se nominava il popolo taceva la città. Ottimo accorgimento per uno che voleva osservare, come egli, una brevità sì precisa. Se esisteva una città avrà avuto il suo popolo. Se un popolo, avrà avuto la sua città. Dunque o il popolo, o la città che avesse nominato assicurava dell’esistenza e dell’uno, e dell’altro. Rammenta egli dunque il castello o di Fermo e lo disse Firmanorum. Or che aveva a dir di vantaggio? Ricorda il castello; e ricorda il popolo Fermano cui appartenne. Egli pertanto non ha preterito già Fermo, come alcuno crede, come non ha preterito né Falerio, né Osimo, né Veragra, né tante altre città di cui ricorda i soli popoli; e la notizia che ce ne lascia è tale che può bastare all’oggetto per cui egli faceva quella breve descrizione.
OSSERVAZIONE SECONDA
ice il nostro autore che la prima città ad esser notata nella storia Romana fu Fermo. Io per altro sarei una troppo necessaria distinzione. Se si vuol intendere pel rapporto che ebbe con Roma dopo sottomessi i Piceni egli ha ogni ragione. Essendo ivi stata condotta la colonia pochi anni dopo la sconfitta dei Piceni, e frequentata per ciò la città da gente Romana, si rese a Roma anche più affezionata di qualunqu’ altra città Picena dove non era seguita tale deduzione. Che però troviamo in Livio comendata la fede dei Fermani nell’urgenza della seconda guerra Punica, egualmente però che quella degl’Adriani altro popolo Piceno dove era seguita altra deduzione colonica. Similmente nell’ajuto prestato a M. Porzio Catone nella guerra contro Antioco re della Siria, conforme ricordasi da Plutarco; che accadde dopo la metà del sesto secolo di Roma; o in altre simili circostanze. Se poi per città nota prima delle altre
(p.123) nelle Romane storie intendesse il nostro autore dell’esistenza della città, in ciò è d’avvertire che Fermo deve cedere ad Ascoli di cui si verifica solamente una tal circostanza. Né intendo parlare del passo di Festo in cui si dice che Ascoli esistesse anche allora che i Sabini vennero a popolare il Piceno; giacché questo avvenimento così remoto non è da riferirsi alle Romane storie, ed in tal caso con Ascoli verrebbero in competenza Ancona, Numana, Truento città dichiarate da Plinio di altra origine sicuramente più antica. Parlo sibbene di L. Floro che, raccontando la sconfitta de’ Piceni, e la vittoria riportatane dai Romani, che si riferisce appunto alla relazione avuta in esse storie dai nostri Piceni nomina Ascoli come capitale della nazione vinta e sottomessa. Domiti Picentes et caput gentis Asculum.
OSSERVAZIONE TERZA
La lezione che dal P. Sarti si riferisce del passo di Plinio è da credersi un bel ritrovato di qualche adulatore. Dice bene il nostro autore che non se ne può entrare mallevadore; ma io crederei esser meglio detto doversi rigettare affatto come incoerente. Dico incoerente, e si prova dalla stessa espressione di Plinio che chiama la colonia Ascolana Piceni nobilissima. La più nobile colonia di tutto il Piceno non poteva riconoscere la sua deduzione da un’altra città provinciale come era Fermo. La metropoli allora sarebbe stata meno ragguardevole della colonia. Incoerente in secondo luogo per ciò che riguarda il costume dei Romani. Sono pure notissime le interne civili rivoluzioni della repubblica cagionate appunto dai dispareri nel doversi fare simili deduzioni. Or che sarebbe stato se una colonia a Roma soggetta, e che nessun diritto poteva avere sopra le altre città Picene, sebbene fossero prefetture, si avesse arrogata la facoltà di fare in Ascoli una deduzione? Ragioni tutte evidentissime per le quali la lezione riferita dal Sarti devesi rigettare del tutto.
(p.124) §. VIII. Come da Fermo il Piceno fu poi Denominato provincia De’ castelli.
Ora posta questa unione della città nostra col suo castello parrà più ben fondato il parere del dottissimo P. Beretti (Tab.chorog. pag. 259.) il quale stima che da Fermo principalmente fosse il Piceno ne’ tempi di mezzo denominato Provincia Castellorum; dopo aver con sode ragioni provato contra Monsignor Fontanini, che del Piceno, e non già della Emilia propria su tal denominazione: al Beretti si sono uniti due dottissimi r recenti scrittori. Monsignor Stefano Borgia (Mem. Ist. Di Benev. Par. 3. Vol. I. pag. 229), il Signor Francesco Maria Rafaelli (Mem. Di S. Esuperanzio lib. 2. Cap. 3.). Mi sia permesso di riferire l’intero passo del Beretti, benché un po’ lunghetto, il quale darà a noi lume, e forse anche da noi lo riceverà. “ Provincia castellorum nihil aliud est, quam pars Piceni, hoc est primo ager, territorium, sive comitatus Firmanus, inter Pentapolim ad occasum, ad ortum reliquum ducatus Spoletini… Insuper ampliorem tractum habuerit, puta a Miseone ad Truentum amnem, ubi et castellum Truentum Melae, quod castrum Truentinum Ciceroni: ad Miseonem vero Cingulum, quod oppidum Labienus constituerat, suaque pecunia exaedificaverat, ut ait Caesar. In eodem tractu Septempeda oppidum Frontino de coloniis. Etiam ab his castris dicta fuerit provincia castellorum: verum primo et a potiori denominatio provenerit ab eodem Firmo, quod fuit duplex, nempe oppidum Firmi,, et castellum Firmi , quae optime distinxit Strabo, cui primo Firmum Picenum, quod est oppidum aliquantum a mari recedens, ejus Emporium Castellum est, quod sorte majoris nominis, quam hoc solum memoret Mela scribens: castella Firmum Adria Truentum, et Plinius: Cupra oppidum; castellum Firmanorum. Hoc nedum superiori illo aevo celebre, verum et Theodosiano, quo scripta tabula Peutingeriana, in qua seg. III castello Firmum: item aevo medio, ut ex Luitprando lib. I. cap. 9, quo ut in locum tutiorem et munitiorem posthabitis Spoleto Camerino aliisque castris Spoletinae ditionis, se Agiltrudis recepit. Sed notabile est dictum S. Petri Damiani ep. I. ad Gregorium VI, ubi sanctus vitr Firmum autonomastice Castellanam urbem appellat; Tres, inquit, equidem sunt, quae testimonium dabunt, castellana sedes, Fanensis, et Pisaurensis.
(p.125) Approvo il ragionare di questo eruditissimo autore: merita però correzione in quel sospetto che il castello sia mai per avventura stato di maggior grido e rinomanza, che la città stessa. Fu egli tratto a così opinare dall’espressioni di Plinio, e di Mela: ma già si è data a queste la giusta spiegazione. Quella qualunque fama, che ha il castello goduta, riconoscer si dee provenutagli dalla città come da sua origine. Né Agiltrude già nel castello di Fermo prese ricovero, ma bensì nella città ch’era luogo assai acconcio alla difesa. Della città si devono intendere le parole di Luitprando: castrum vocabulo et natura Firmum, siccome le intese anche il Wessellingio nelle note all’Itinerario di Antonio, ragionando del castello Fermano: castellum hoc Firmanorum navale fuit, ut Strabo testificatus est. Castrum nomine et natura Firmum habes apud Luitprandum. Verum id oppidum videtur esse Firmum.Anzi le citate parole di Luitprando, alle quali il Beretti, dove di esse favella poco innanzi al passo da noi riferito, non sa dare una spiegazione che pienamente lo soddisfi, io così le intendo. Fermo aveva il nome, e la natura di castello: il nome perché da molti considerandosi come tutto un paese la città ed il castello, già usavasi di chiamarlo promiscuamente città di Fermo, castello di Fermo: ne aveva la natura, perché la città nostra fabbricata sopra un altissimo monte, e sopra a cui anche a quei tempi esser vi doveva qualche rocca, di cui fra poco si parlerà, aveva quella fortezza di sito, che propria era dei forti castelli. Ma io entrar non voglio a ragionare né punto né poco delle notizie del nostro castello, che riguardano i tempi posteriori. Non appartengono queste all’argomento da me scelto, e spero che saranno un dì maestrevolmente e con particolare impegno trattate dal ch. Monsignor Borgia, allorquando, acquistato un maggior ozio, continuerà la intermessa sua opera della marina pontificia.
OSSERVAZIONE SUL §. VIII.
Ammesso il parere del p. Beretti che per provincia de’ castelli ne’ tempi di mezzo intende il nostro Piceno, sempre con buona pace di sì grand’uomo, io dico non esser plausibile il credere che da Fermo derivasse tal nome. Converrebbe mostrare che tutti i castelli compresi allora nel Piceno, e per cui per antonomasia si diceva provincia castellorum fossero tutti compresi della giurisdizione Fermana. Cosa non tanto facile a potersi provare. Direi piuttosto che il Piceno si dicesse provincia castellorum per la moltitudine appunto dei castelli che v’erano; riedificati dalle rovine di grandi città distrutte dai barbari. Ma questo è un argomento di cui tratteremo di proposito quando sarò giunto alle antichità del medio evo.
(p.126) §. IX. Di che genere fu il nostro porto, e de’ suoi avanzi.
Rimane solo a vedere intorno al nostro castello di che genere fu il nostro porto. Dico che questo fu artefatto. Non possiamo dirlo naturale per la imboccatura di qualche fiume, poiché de’ due meno distanti l’Eta, ed il Tenna, il primo per un miglio, il secondo per tre è lontano dal presente porto di Fermo, e anticamente lo era almeno per due. Aggiungasi che del primo non trovo menzione alcuna negli antichi autori, del secondo l’abbiamo nella Peutingeriana, ossia ne’ tempi di Teodosio, come avvertì anche il Cluverio, il quale anche notò avvedutamente di questo nostro fiume: Tenna dicitur Orosio lib. V. cap. 19. Et Paulo Diacono his. mis. Lib. V. quamquam apud hos etiam id vocabulum ab imperitis exscriptoribus vitiatum est in Teanum, quod celebre fuit duarum Italiae urbium nomen… Verba haec illic leguntur.= Maruccini, Vestinique Sulpicio legato Pompeii persequente vastati sunt. Pompaeius et Obsidius Italici imperatores ab eodem Sulpicio apus fluvium Teanum horribili praelio oppressi et occisi sunt=. Haec quum in Picentibus, conterminisque populis gesta sint a Pompaejo ejusque legatis, quumque Sulpicius Picentes Pompejum Firmo oppido inclusum obsidentes, aggressus sit, dubitare minime licet quin fluvium Tennam scripserit Orosius, quod 2. mill. Pass. a Firmo abest. Non poté dunque l’antico nostro porto esser naturale per l’imboccatura di qualche fiume: ma neppure poté esserlo per due colline o punte di monte, le quali stendendosi nel mare formassero un seno acconcio a ricoverar navigli ed a fare imbarchi. Abbiamo presso il nostro presente porto una collina, anzi la continuazione di più colline da una banda, ma non sembra che siano state idonee a formar porzione di un seno di porto; e poi dall’altra è spiaggia tutta aperta: il dire poi che una collina, o punta di monte si sia dirupata nel mare egli è azzardare una mera assertiva senza veruna ragione o congettura. Fu dunque l’antico nostro porto lavorato dall’arte; ciò che resta comprovato dalla esclusione di qualunque altro genere di porto, e anche da alcuni avanzi di antica fabbrica, i quali tuttora sussistono. Si vedono in luogo presentemente abitato del nostro porto due lunghe continuazioni di archi distanti 1000 palmi l’una dall’altra. Questi archi verso terra procedendo per diritta linea terminano in un antico muro, il quale ne? Passati tempi era un muro castellano, e in cui tuttora si veggono alcuni grossi anelli di ferro, ne’ quali già si legavano le funi delle barche. A quali usi fossero questi archi destinati, in qual tempo fabbricati, a me non si appartiene di
(p.127) ricercare: non sono essi certamente di antica fabbrica Romana. Ma ben sono di fabbrica indubitatamente Romana alcuni ruderi di non piccola mole, i quali si vedono a queste estremità degli archi, le quali riguardano il mare, possiamo ragionevolmente sospettare che anche una porzione di detti archi sia stata su di altri antichi ruderi fabbricata. Già poi questo edificio era certamente fabbricato nel mare e in notabile distanza dall’antica spiaggia. Che altro dunque esser poteva questo edificio, se non appunto un porto di mare? Non possiamo da questi avanzi misurare l’ampiezza del nostro antico porto, non potendo noi affermare che parte di esso costituissero. Ma assai è al mio intento, che questi ne siano indubitati avanzi, e di aver poco meno che vendicato dall’oblio l’antico castello, e navale di Fermo. Contuttociò, per nulla dissimulare, due difficoltà si possono opporre contra questo da me divisato porto: la prima si può dedurre dalla notabile distanza del mare dal nostro porto, il secondo dal poco fondo di acqua, che ha il mare in quella riviera. Ma dopo le prove irrefragabili da me addotte per la esistenza di questo antico porto, ciascuno comprenderà la debolezza di tali opposizioni, e intenderà qual debba esserne la risposta. E’ cosa troppo nota che il mare si è da molti luoghi ritirato, e molti porti sono rimasti affatto interrati, ed inutile è lo sfoggiare in erudizioni, ed esempi. Ora è altrettanto addivenuto nella spiaggia Fermana: anzi dal nostro porto anche a memoria di chi vive si è l’Adriatico non poco allontanato. Or se a’ tempi nostri, e a noi vicini è seguito un sì notabile allontanamento del mare, e forse anche in secoli più a noi remoti, già più non può dirsi che l’antico porto fosse dal mare distante. Grande è la mutazione seguita in questa riviera, onde neppur ci è noto qual fosse un tempo il fondo di acqua. Dobbiamo però dire che non fosse scarso, come lo è presentemente, ma sufficiente come si richiedeva ad un porto. Ma le materie terrestri trasportate a lido dalle burrasche marittime, gli ammassamenti della sabbia, di sassi, e di materie limacciose trasportate dai fiumi ruscelli e torrenti hanno col procedere del tempo innalzato il lido, e riempito il vicino fondo del mare, ciocché in qualche parte anche al presente addiviene; onde l’antico porto è rimasto interrato affatto, a segno che scarsi avanzi solo ne rimangono, e la sua esistenza e situazione si deve colle autorità degli antichi comprovare. Avverto ancora che questo nostro antico porto di mare non fu già de’ più celebri d’Italia: non mai ho tal cosa preteso. Chi non sa che vi erano di questi altri più nobili e altri meno? Or di questo ultimo genere esser dovette il nostro, siccome quello che fu fabbricato non già per la opportunità di sito, ma per vantaggio e servigio della vicina nostra città, quali erano appunto i navali, de’ quali ben molti sono poi periti. Ultimamente si osservi di non confondere l’antico divisato castello Fermano col castrum Firmanorum di simile nome, il quale dal nostro statuto (Statut. Firm. Lib. 2. Rubr. 23).
(p.128) Numerasi fra gli ottanta castelli, che allora aveva la città. Era questo diverso dal primo, nominandosi dallo stesso Statuto 47 anche castrum né era già di quella antichità, rimaneva ben lontano di sito, ed era estinto.
§. X. Della rocca, e del campidoglio Fermano.
o di sopra accennato che nell’alto monte, situato quasi nel mezzo della nostra città, a’ tempi di Luitprando vi era verisimilmente qualche fortezza: non già quella celebre e rinomata, che Girone di appellò con nome alle altre comune, quale dopo aver data principesca abitazione a Bianca Maria Visconti, venuta a moglie di Francesco Sforza, fu dai Fermani stessi liberatisi dal giogo sforzesco nel 1446 diroccata, e lasciò il solo suo nome al monte, su cui era magnificamente fabbricata. Questa ebbe probabilmente origine intorno al secolo XIII, allorquando si stabilì la libertà nelle città d’Italia, ma Fermo non fu mai senza qualche fortezza. A me però conviene parlare solamente de’ secoli Romani, e dico che anche in questi noi avevamo la nostra rocca. E che sia così egli è certa cosa incontrastabile che ne’ secoli Romani questo alto e spazioso monte del Girone fu abitato, e in esso sorgeva un qualche magnifico e assai forte edifizio. Sicuro indizio di tuttociò ne sono qualche picciolo avanzo di grosse e riquadrate pietre, che ancor sussistono, e assai più altri avanzi di muraglie di somiglianti pietre composte, le quali si dissotterrarono nell’anno 1770 in occasione del fabbricarsi l’ampia e maestosa via, che sì agevolmente ora conduce al monte soprastante. Queste muraglie apparvero in tutto somiglianti a quelle della porta di S. Francesco, e non si può loro assegnare epoca men remota de’ secoli Romani, siccome già dissi. In quella occasione si scoprirono ancora alcuni pavimenti di mosaico, e altri antichi ruderi. Fu però più singolare uno scavo, che in detto monte si fece nel 1548. Sarà bene di riferirlo colle parole del nostro canonico Adami (Fragm. Firman. Lib. I. cap. 8): Multae columnae diversorum lapidum, et epystilia Corinthia et Dorica aetate nostra reperta videntur… Alia tum in ipsa Urbe, tum extra vetustatis signa perspici possunt, tum ex monumentis, tum ex XVII urnis plinis numismatum aereorum et argentum in eodem monte repertis sub anno 1548 cum lamina, quae has inscriptiones habebat. ( Si riferirà più sotto). Reperta fuit et alia parva lamina cum his litteris: (bid. rubr. 26).
(p.129)
L. FESCENNIVS T.F.
MERCVRIO. DONO. DEDIT.
MERETO
Et cum bis parvum idolum, in quo hic titulus legitur: SACRA. IOVI. STIGIO
Anche il Grutero (pag. 52. N. II. e 12.) parla benché con piccola variazione di questi ritrovamenti. Or poi se qualche sorta di abitazione esser vi doveva nel girone, e abitazione forte, come manifestano quelle muraglie, qual altro edificio mai noi calcolar possiamo in un altissimo monte per sua natura inespugnabile, quanto una ben munita rocca? Si oda da Bartolomeo Fazio (Rer. Gest. Alfons. I. reg.) . Erat ea urbs ( Firmum ) magna atque opulenta totius Piceni longe munitissima. In ea eminebat rupes quaedam tantae altitudinis, ut ex ea perinde atque ex specula quadam excelsa omnis pene Picenus ager despectaretur. In ejusdem rupis cacumine planities modica ( a torto lo chiama modica. Chiunque è stato a Fermo può testificare quanto sia spaziosa. Ma il Fazio osservò la rocca solo all’esterno e in luogo, ove non molto grande poteva comparirgli) inerat, quae muro cincta crebris turribus impositis arcem inexpugnabilem fecerat. Eam vero arcem, quod in orbis prope formam natura circumcisa rupes fuerat, gironem vulgo appellabant, quam qui tenebat universam Picentium provinciam tumultu ac terrore quatiebat. Or non avranno avuto occhio i Piceni, ed i coloni Romani a conoscere il bel sito, che questa era per una ben intesa rocca? In questa antica rocca io credo certamente, che Pompeo Strabone inseguito da Afranio (Appian. Lib. I. bell. Civ.) prendesse ricovero, e che da questa rocca principalmente provenisse quella sicurezza, con cui si mantenne nella città nostra, facendo sloggiare il nemico come a suo luogo si dirà. Ma non la sola rocca, anche un altro nobile edificio esser vi doveva nel nostro girone. Era questo il Campidoglio Fermano. Non ho io per questo autorità di antichi scrittori, come l’ha il campidoglio di Capua e di Benevento, né di lapidi come quel di Verona, al quale da un anno a questa parte si aggiunge a quel di Falerone. Ma pure scrisse bene il Maffei (Ver. illust. Lib. 6.) che l’affetto ingenito delle città Romane alla loro matrice operava che anche in tutti i pubblici edifizj e nel nome loro cercassero di rendersi altrettante Rome. Però le città più illustri, e ch’ebbero colle dentro di se, ovvero a canto, anche il loro campidoglio si fecero. Non ragiona diversamente il ch. canonico Mazzocchi, altro gran lume della scienza antiquaria (Amph. Camp. Cap. 3). Nam simul hoc
(p.130) scito urbes celeberrimas ad Romae imitationem sua habuisse Capitolia. De capitolia Ravennae mentio est in Agnelli libro Pontificali in vita S. Apollinaris. Aliarum quoque nobilissimarum Urbium Capitolia memini legisse. Il ch. Olivieri, uomo come ognun sa, che ad una rara erudizione unisce una critica impareggiabile, e cui l’amor della patria non fece mai travedere in fatto di antichità, dal racconto di Livio (Hist. Rom. Lib. 41. Cap. 31) che Fulvio Flacco censore eresse in Pesaro un tempio a Giove, stabilisce anche in Pesaro il campidoglio (Livius Hist. Rom. Lib. 41. Cap. 31) . Dal P. De Aquino (Lex. Mil. V. Colonia) si registrano i campidogli di Colonia, Treviri, Tolosa: dal Baronio (In not. Ad Rom. Mart. Die 19 Decem.) quei di Cartagine, di Costantinopoli, e di altre città; e il dotto cardinale giudicò che di ciascuna città fosse proprio sì nobile edificio, al quale aderisce il citato Olivieri nelle sue memorie di Novilara in questo anno pubblicate, illustrando (Mem. Di Novilara pag. 18.) la indicata lapida Faleriense. Ma o tutte le città avessero il loro campidoglio, siccome il Baronio, e l’Olivieri hanno giudicato, o le più illustri colonie, come parve al Maffei, Fermo ad ogni patto doveva avere il suo, e se lo ebbe, per la ragione indicata fu fabbricato nel Girone. A Giove col titolo di ottimo massimo si dedicavano i templi capitolini. Io non posso mostrare verun indizio sicuro di questo tempio nel nostro Girone: ma credo che a questo già appartenesse oltre alcune colonne, le quali ora si osservano nei sotterranei della chiesa metropolitana fondata nel detto monte, anche un’aquila di basso rilievo antico di scalpello Romano, la quale oggidì è murata nel palazzo dello studio, ma che fu tolta dal Girone, come c’insegna la iscrizione sottopostavi, composta, cred’io, nel XIV secolo: Imp. Caesar. Aug. Pont. Max. Parens. Coloniae, Dedit. Et . Ex. Arce. Gironis. In. Aulam. Senatus. Inde. Ad. Perpet. Monum. Civitas. Huc. ranstulit. In questa iscrizione senza alcun fondamento si suppone che Augusto conducesse colonia a Fermo. Siccome pare che l’autore della iscrizione abbia indicato con quel Parens Coloniae dedit: ma più strana cosa ad ognuno sembrerà che l’imperatore Romano mandasse in dono alla colonia Fermana un’aquila effigiata in pietra. Si giudicherà assai più verisimile che questa restasse in qualche parte del tempio capitolino. Sappiamo da Tacito (Hist. lib. 3) che nel tempio capitolino di Roma vi aveano certe aquile, le quali sostenevano il fastigio ossia il frontespizio del tempio. Quindi, oltreché l’Aquila fu l’uccello sacro a Giove, abbiamo anche un’altra ragione per credere non tanto mal fondata la mia congettura. A questo tempio capitolino appartennero forse anche alcune iscrizioni dissotterrate nel secolo passato a piede del Girone e dedicate a Giove ottimo massimo. Del tempio Capitolino di Roma dice Dionisio di Alicarnasso (Lib. 4. Cap. 69.): Industria sunt Fana, quae aequali distantia communibus continentur lateribus alterum Junonis, alterum Minervae sub eodem laqueari eodem tecto. Il Maffei ed il Mazzocchi mi sembrano essere di opinione che anche ne’ campidogli delle colonie
(p.131) fossero allo stesso modo venerate tutte tre le divinità. Io non ne entrerei mallevadore. Osserva però il Fabretti anche dal Maffei riportato, che ad esse unitamente raro è che iscrizioni si veggano. Ma pure che nel nostro campidoglio vi fosse anche il fano di Giunone può congetturarsi da una costante e antica tradizione, che ove al presente è la chiesa metropolitana vi era anticamente un tempio a Giunone, e da alcuni bassorilievi murati in una delle porte di detta chiesa, ne’ quali si osservano più pavoni, uccelli come ognun sa, a quella dea dedicati. I campidogli delle cospicue colonie erano ornati di statue poste ai cittadini illustri, e ai padroni della colonia medesima. Solo per una statua posta ad Orbilio grammatico ci è rimasta indubitata memoria del campidoglio di Benevento (Sveton. De illust. Gram. Cap. 9). Per altra statua foede in Capitolio jacentem, come leggesi nella iscrizione (Maffei loc. cit.) abbiamo la sicura notizia del campidoglio di Verona. Io non posso certamente additare le statue già collocate nel campidoglio Fermano. Vi furono indubitatamente: ma siccome nello stesso monte in cui fu il campidoglio, vi è anche sempre stata una rocca, la quale mutò struttura col mutarsi de’ tempi, e quella ultima specialmente di sopra indicata è stata a molti assalti soggetta; quindi è assai credibile che in alcuno o in più di questi anche le statue, delle quali nulla in quella barbarie de’ tempi si apprezzava il valore, siano state miseramente rovinate. Che se alcuna di queste restò indenne dal furore straniero, non così si sarà salvata dal cittadinesco. Grandissimo fu questo nei Fermani. Ed eccedé ogni misura, allorquando partito dalla fortezza lo Sforza si diedero a demolirla, e ridurla al niente, come abbiamo nel manoscritto di Antonio Niccolò all’anno 1446 il quale era appunto di quel tempo pubblico notaio della città. Ma che però? Se perite sono le statue, non sono similmente perite più basi delle statue medesime colle loro iscrizioni. Alcune se ne dissotterrarono intorno al monte nel secolo passato; e due se ne vedono tuttora nell’ingresso del girone stesso. Mi piace riprodurre esattamente la iscrizione di una di queste assai pregevole, perché la vedo riferita con varie scorrettezze dal Grutero (pag. 359 n. 3.), dal Panvinio (Imper. Rom. C. 20. Et Civ. Rom. C. 26.), e dallo Schessero (De mil. Nav. lib. 4. C. 5) citata dal Gori (Inscript. Etrur. Urb. Tom. 3. Pag. 99).
(p.132)
T.APPALIO T. F. VEL.
ALFINO SECVNDO
PROC. AUGUST. XX HERED
PROC. ALPI ATRECTIANAR
PRAEF. VEICVL. SVB. PRAEF
CLASS. PRAET. RAVENN. PR
ALAE I. AVG. THRAC. TRIB. COH
I AELIAE. BRITTON. PRAEF
COH. IIII. GALLOR PATRON.
COLON. FLAMINI. DIVOR
OMNIUM AVGVR
II .VIR. QVINQ. BIS.
OB. MERITA EIVS
D . D
E’ singolare in questa lapida la memoria delle Alpi Attraziane, le quali nominansi ancora in altra bellissima iscrizione dissotterrata pure in Falerone, e stampata dal dottissimo Olivieri (Mem. Di Novil. Pag. 20), che anzi vedendosi in questa unite alle celebri Alpi Penine: Proc. Alpium. Atractianar. Et. Poeniar. , sospetto che quelle fossero una parte di queste, non mi essendo riuscito di ritrovarne una più distinta notizia. Merita anche riflessione la carica di sotto prefetto della classe pretoria Ravennate, ch’è rara ancor essa, ma si ha ancora nella citata lapida di Falerone. Dice il Gori (loc. cit.): Praefecto classis parebant subpraefecti, qui ea quae ab illis jubebantur, exsequenda curabant. Lo stesso ad un dipresso ci dicono gli altri autori sopra citati. A me però pare di riconoscere in questi una maggior dignità, e autorità da una sentenza (Gruter pag. 208.) data da Alfenio Senecione sotto prefetto della classe Misenate in proposito di certa controversia di sito. Decise egli se il terreno era compreso o no nella vendita: multò il litigante ob contemptum Religionis colla privazione del campo, e coll’assegnazione del medesimo al sepolcro dei soldati della classe Misenate. Sembra pertanto da questa sentenza, e anche dal nome stesso Sub Praefectus, che in assenza del prefetto esercitasse tutta la piena podestà. Da questa riferita iscrizione prendo occasione di mettere nel censo delle sospette, se non anche delle spurie altra iscrizione riferita dal Muratori (Thes. Veter. Inscript. Pag. 46. N. 1) Mercurio T. Appalins. T. F. Vellina. Alfinus. Secundus. II. Vir. Quinqu. Augur. DD. Il Ligorio, dal quale l’ha presa il Muratori, dice che esiste in Fermo. Ma in Fermo né vi è Né vi è mai stata; mentre in alcune antiche collocazioni di lapidi Fermane, nelle quali si registrano anche quelle che sono perite, la Ligoriana non si legge altrimenti.
(p.133) Il ch. Olivieri negli esami della iscrizione di L. Antidio Feroce, e del Bronzo Lerpiriano ha rilevato quali fossero le arti del Ligorio nell’imposturare. Io credo che della genuina riferita iscrizione abbia preso il nome e le cariche del nostro Appalio, e ponendo a capo quel Mercurio, coniasse questa nuova iscrizione.
§. XI. Frammento d’iscrizione inedita Illustrata.
iacemi di aggiungere la iscrizione di altra base di statua dissotterrata non ha moltissimo tempo, alle falde del Girone. La base destinata tosto ad altro uso fu ridotta ad una forma ovale, onde la iscrizione è anzi divenuta un frammento.
… L V L. S.
.P. PRAEF. CO.
.. VIVM. ROMAN..
.N RAETIA TRIB. MIL.
LEG VI FERR. IN SYRIA
. ALAESTINA AVG ET
. ATRONO COLONIAE
… I ET FLAMINI DIVOR
OMNIUM
DOC…. D.. TI..
.. N …
Chi ora possiede la lapida (*Si possiede dai Sigg. conti Bonaventura, Giuseppe, e Vincenzo Paccaroni la cui sorella è madre dell’autore) ne brama da me qualche illustrazione, ed io per la stretta congiunzione di sangue, e per altri titoli non posso negargliela; onde, quantunque non sia difficile, mi sia permesso di farla brevemente. La base dunque, in cui è la iscrizione, sosteneva una statua collocata già nel nostro campidoglio, ed eretta a un gran personaggio, illustre per le cariche sostenute in guerra specialmente, e ch’era protettore insieme della nostra colonia. Il nome di questo non ci è stato conservato, e manca nel principio: manca parimente nel fine alcuna o parecchie delle seguenti memorie, che si solevano porre al fine di siffatte iscrizioni: cioè il sito in cui si poneva, ed i nomi a cui spese si poneva la statua, la cagione per cui si onorava il personaggio, la dedicazione della statua, ed i regali, che in tali dediche facevano talvolta gli onorati Decurioni o alla plebe, la concessione del luogo pubblico, espressa colle solite sigle L. D. D. D. Locus Datus Decreto Decurionum. Quel che nella nostra iscrizione ci è rimasto, ch’è poi il più essenziale, leggesi: … Praefecto Cohortis Civium Romanorum in Raetia, Tribuno militum Legionis Sextae Ferratae in Syria et Palestina, Auguri, et Patrono Coloniae… et Flamini Divorum omnium. Forse prima della lettera P. leggevasi MIL. O 7. COH. P. Militi, o Centurioni Cohortis Praetoriae, mentre verisimilmente doveva esprimersi una carica militare, né so nel nostro
Tom. II. E 2 caso
(p.134) sostituirne altra migliore. Il Centurione presedeva ad una compagnia di cento uomini, i quali componevano una centuria: due di queste un manipolo, tre manipoli una coorte. La coorte pretoria era quella che sempre stava al fianco del supremo comandante della guerra. Le coorti, le quali avevano per capo il prefetto non erano legionarie, ma di quelle le quali stabilivansi dagli imperatori in vari luoghi per conservare i presidi; queste si appellavano civium Romanorum, allorquando i cittadini Romani in esse militavano. Dieci coorti componevano una giusta legione: queste prendevano il suo nome dall’ordine, e da vari fonti anche il soprannome. La nostra legione sesta da qualche avvenimento o genere di armatura il soprannome prese di ferrata. A ciascuna legione poi risiedevano sei tribuni: erano questi in una carica di gran lustro, e perciò nella iscrizione fra le militari si pone in ultimo luogo. Ciascuna colonia aveva i suoi protettori Patroni. Plinio il giovane fu uno dei patroni della nostra colonia, come s’inserisce da una lettera a Sabino cittadino Fermano (Plin. Epist. 28. Lib.6.): Rogas ut agam Firmanorum publicam causam, quod ego, quamquam pluribus occupationibus distentus, adnitar. Cupio enim et ornatissimam coloniam advocationis officio, et te gratissimo tibi munere obstringere. Nam quum familiaritatem nostram, ut soles praedicare, ad praesidium ornamentumque tibi sumpseris, nihil est quod negare debeam, praesertim pro patria petenti. Quid enim precibus aut honestius piis, aut efficacius amantis? Proinde Firmanis tuis, ac jam potius nostris, obliga fidem meam, quos labore et studio meo dignos, cum splendor ipsorum, tum hoc maxime pollicetur, quod credibile est optimos esse inter quos tu talis extiteris. Vale. Al padronato succeder doveva nel marmo altra carica colonica, che più non apparisce. I Flamini erano sacerdoti al culto di una particolar deità consecrati, dalla quale prendevano il nome, come Flamen Dialis da Giove, Flamen Martialis da Marte. Vi erano anche quelli di tutti gli Dei, de’ quali nelle lapidi si è conservata memoria. Il Panvinio (De civ. Rom. Cap.26.) scrisse che questi Flamini erano propri dei municipi. Adduce egli tre esempi presi da tre lapide, le quali sono tutte Fermane: ora a queste può aggiungersi la quarta, Fermana anch’essa. Ecco pertanto qual fu il campidoglio Fermano, campidoglio per altezza ampiezza e natura di sito, per la unione delle due fabbriche rocca e tempio a quello di Roma assai somigliante. Al nome di campidoglio col lasso del tempo quello fu sostituito di castello. La nostra chiesa Metropolitana spesso chiamasi nelle antiche scritture S. Maria de castello, denominazione, la quale tuttora dura presso alcuni del basso volgo. Così il campidoglio di Verona, perciò che ne dice il Maffei, prese parimente il nome di castello.
(p.135)
§. XII. Del teatro, e dell’erario Fermano.
Trovo anche un’altra somiglianza del campidoglio nostro col Veronese, poiché al lato settentrionale di questo colle vi fu un magnifico teatro, e di una grande ampiezza, fabbricato colla solita industria degli antichi, per dirlo col Maffei (Ver. ill. par. 2. Cap. 2.), di valersi con molto risparmio di spese del piè di una collina, collocandovi sopra la gradazione dell’uditorio. Si osserva ancora di questo nostro antico teatro una continuazione di molti pezzi di archi, i quali procedono in figura semicircolare o semiellittica. Dirò di questi, come il Maffei degli archi Veronesi, che sono le più sensibili e cospicue reliquie del nostro stabile teatro, dalle quali però per la gran trasformazione seguita nel sito, è poco meno che del Veronese vanissima immaginazione il pretendere di poter ricavare la pianta, e precisa conformazione. Altre reliquie di questo nostro teatro apparvero nei già accennati scavi, intrapresi per la fabbrica del conservatorio delle proiette, le quali erano porzione della scena, che si stendeva, siccome è noto, dall’uno e dall’altro corno del teatro. Si ritrovarono ancora moltissimi pezzi di marmo, che furono già posti in uso nella fabbrica del teatro (*Dopo scritte queste mem. Dal n. a. si scoprirono vari frammenti di lapidi, e qualche statua, una delle quali rappresentante un genio dal nostro degnissimo mons. arcivescovo fu regalata al sommo pontefice PIO VI. che assai la gradì). Così negli ultimi scavi di Falerone si scoprì che anche il teatro di quella città era similmente ornato di marmi. Scrive il canonico Adami (Frag. Firman. Lib. I. cap.3.) che a suo tempo verso la parte orientale del detto colle si osservavano i vestigi di un sontuoso anfiteatro, seguito in ciò anche dal Compagnoni (Reg. Pie. pag. 48.), e riportano anche il frammento, ora perito, di una antica iscrizione a’ caratteri cubitali, la quale per mio avviso non in una sola, come quelli la riferiscono, ma in più linee era compresa:
……………………..
…… LIVS. HADRIA
…… RGIT. ERAT
…… ET. RE
(p.136) La iscrizione così disposta può aver qualche senso e interpretazione, come la seguente o simile: S. P. Q. F. ex pecunia, et quam Imp. Caes. T. Aelius Hadrianus Antoninus etc. la RGIT us EP. AT, refecit, ET Restituit. Spettava questa senza dubbio a qualche nobile edifizio: ma che questo fosse l’anfiteatro, ora che mancati sono i vestigi, e più non sappiamo il luogo, in cui posta era l’iscrizione, io non oso di affermarlo, ben sapendo quanto facile cosa era agli antichi il prendere errore nel chiamare anfiteatro quelli, che tali veramente non erano. Contuttociò non è irragionevole il sospettare che anfiteatro fosse in Fermo, siccome vi era indubitatamente in Recina, ed Urbisaglia, de’ quali ancora rimangono sicuri avanzi, e col proceder del tempo, per la gran trasformazione del sito e per le nuove fabbriche siano mancati quei sicuri vestigi, i quali sussistevano a’ tempi dell’Adami; cioè poco meno di due secoli e mezzo fa. Anche del sito di un tal edificio è perita ogni memoria; ma che forse fu presso al campidoglio, siccome già in Roma. E’ questo il pubblico erario, il quale esser doveva in Fermo, siccome nelle altre colonie, e che veramente vi fosse, argomentar lo possiamo da una preziosa lamina di bronzo, dissotterrata nel girone l’anno 1548, che ho di sopra accennata coll’Adami. Detta lamina esiste ora nel nobile museo Veronese, come costa dal Maffei, il quale la stampò (Mus. Ver. pag. 469. N. 2). Ma ripeto che la lamina per origine è nostra, siccome può vedersi nel Grutero, e nell’Adami (Locc. citt.) e qui ancora si conserva speciale memoria dello scavo fatto. E di quello che si trovò. Il Ligorio, che notò anche egli queste antichità ritrovate nelle rovine della rocca di Fermo, scrisse che le lamine erano due, l’una delle quali ebbe il Cardinal Ranuccio Farnese, e l’altra il Cardinale Bernardino Maffei, per quanto io congetturo, che essendo questi vissuto da cardinale dall’anno 1547 al 1553, ed era insieme amante degli antichi monumenti, e aveva nel suo ricco museo molte iscrizioni e tavole di bronzo, siccome può vedersi nel marchese Maffei (Ver. Illustr. Pag. 2 lib.4. ). Or seguita la morte di questo erudito cardinale, è troppo verisimile che la lamina passasse in Verona sua patria, e quindi sia stata in quel magnifico museo collocata. Ho voluto tutto ciò avvertire, per confermare a Fermo la gloria di aver posseduto sì nobile monumento, e perché non lo avvertì il Maffei, il quale forse lo ignorò. Ora riproduciamo la iscrizione, come ce la porge lo stesso Maffei coll’elogio e colla spiegazione che egli ne dà, dalla quale si può apprendere la figura di alcune lettere, che io non rappresento nella stampa. Solo al primo nome di Terentio aggiungo il prenome T. Tito, che or più non leggesi, ma si leggeva al tempo dell’Adami. Forse anche sarà stata rosa dal tempo la lettera O del quarto nome ALBANIO, ch’esser vi doveva, e vi è nella copia, che ne dà un antico manoscritto.
(p.137)
T. TERENTIO. L. F.
A. RVPENIO. C. F.
L. TVRPILIO. C. F.
M. ALBANI. L. F.
T. MVNATIO. T. F.
QVAISTORES
AIRE. MOLTATICOD
DEDERONT
Inter antiquissimas Latinas computes velim. Ad angulos tria visuntur adhuc clavorum capita, quibus olim fuit infixa. Littera L et P eadem forma, qua in Senatu Consulto de Baccanalibus. AI pariter pro AE, O pro V, et D in dictionis fine, ut in illo. Quintilianus lib. I. c. 7. = Latinis veteribus D plurimis in verbis ultimam adjectam.= Tabella sub donario stetit e pecunia multaticia oblato. Quaestores fecerunt, quod apud T. Livium plures Aediles Curules faciunt. Epigraphen Fabrettus ex Schedis Barberinis hausit, sed perperam MOLTAT. CON. Quod novus Thesaurus iterat, ubi in archetypo MOLTATICOD. Latinae sincerae hac vetustate perrarae sunt. Ora ritornando al nostro proposito i questori nella iscrizione nominati altri non sono, se non che i questori dell’erario, ossiano quelli che presedevano al pubblico erario della nostra colonia. Che le colonie avessero il loro proprio erario è cosa notissima: chi fosse vago di ben sincerarsene legga il Mazzocchi (Amph. Camp. Cap. 5), in cui troverà anche quali fossero l’entrate dei detti erarj. Ei aerario, avverte lo stesso, qui praeerant plerumque quaestores dicebantur, et quaestorum Campanae coloniae in fragmento fastorum Campanorum extat luculentissima mentio, sicuti et in aliis nostris marmoribus. Per simil modo abbiamo nel Maffei (Ver. illustr. Inf. 13). Q. Aer. in Grutero (pag. 333 n. 2 et pag. 1026 n.9), Quaestor ab. Aerario (Idem Grut pag. 455. N. 2 1093. N. 5); Quaestor Aerar nel Muratori (Thes. veter. Inscript. Pag. 354. N. 5); Quaestori. Aerarii Spoleti. nelle iscrizioni della Toscana del Gori (Inscript Hetrur urb. Extant. Tom. 2. Pag. 20). Quaestori. ad. Aerarium; onde non sono infrequenti nelle lapidi i questori dell’erario. In Roma, siccome è notissimo, fino all’anno 709 e poi dall’imperator Claudio fino a Nerone all’erario soprastarono i questori. Sotto Augusto e Tiberio e Caligola l’erario era in cura di due pretori almeno ch’esercitato avessero l’impiego di pretore. A questi pure lo restituì Nerone, i quali però più non si nominarono Praetores, ma Praefecti Aerarii. Quindi frequenti sono nelle lapidi i secondi, ma non già i primi. Uno di questi ne abbiamo in Grutero (Pag. 360 n. 3), altro in Muratori (Pag. 328 n.2) . Un pretore dell’erario, che fiorì appunto sotto Augusto e Tiberio, lessi io pure nell’anno scorso in una bella lapida di Montecchio, ch’è l’antica città di Treia, la quale diligentemente trascrissi dall’originale, e qui riproduco.
(p138)
M I. VIBIO. M I. F.
VEL. BALBINO
TR. MIL. PR. FABR. PR
EQ. Q AED. PL. PRAET.
AERARI. LEG.
DIVI AUG ET
TI CAESARIS AUG
PRO COS. PROVINC.
NARBONENSIS
Era veramente questa di già pubblicata dal p. Lupi (Dissert. 6. Pag. 82) e nel museo Veronese (Maffei Museo Veronese pag. 369 n. 1). Ma nella copia del Lupi leggesi con error manifesto Praefecto Aerarii, mentre nella lapide apparisce nitidamente PRAET. AERARI. La colpa fu veramente di chi gliela trascrisse; egli non vide il marmo, poiché fu il Lupi in Montecchio l’anno 1730, come raccolgo dalla sua lettera XVIII, e la lapida venne alla
luce nel 1734. Dovea bensì entrare in sospetto della sincerità della copia dal sapersi che sotto Tiberio
e Augusto non vi erano ancora i prefetti dell’erario. Avvertasi anche altro errore del Lupi nel nome della tribù VEL., che egli spiega VELIA, quando ognun sa che esser dee VELINA. La copia poi nel museo Veronese è mancante della quarta, e parte ancora della terza linea: e a torto segna i vestigi della quinta (*lapide da me riferita ed illustrata nella mia Treja Illustr. Part. I. cap. 6).Sarà ad alcuno di meraviglia, che cinque fossero i nostri questori, quando neppure in Roma furono mai in sì gran numero. Ma già è noto che in molte colonie maggiore era il numero dei magistrati di quello che era in Roma. Il supremo di Roma era comporto di due, detti consoli: il corrispondente nelle colonie soleva essere parimente di due chiamati Duumviri, ma in molte vi avevano i Treviri, in moltissime i quatuorviri, ed in alcune forse anche i Seviri. Questo maggior numero non dipendeva già da una maggiore necessità, ma solo dall’ambizione dei cittadini colonici. Or questa stessa ambizione, e non già moltissime rendite, che aver potesse la nostra colonia, fece sì che cinque fossero in Fermo i questori. Sei erano per ordinario i capi dell’ordine degli Augustali: ma per la detta ambizione, e forse anche per la gran popolazione della colonia, i nostri furono in numero di otto, come si deduce da una lapida esistente in Falerone, e già stampata dal Muratori (Loc. cit. pag. 1047 n. 2). Ma poiché nella copia è mutato, sia bene il riprodurla esattamente:
(p.139)
C. FVFICIO
C.L. GENIALI VIII
VIR. AVG. FIRMI
ET FALERIONE
CARDANA. T. F.
PROCVLA. VXSOR
POSVIT
Il Muratori notò: Pro VIII VIR. haberi in Lapide VI VIR AVGVSTALI opinor. Lo stesso avea notato in altra lapida di Falerone (Idem pag. 687 n. 3.) la quale incomincia: D. M. C. VALERIO. C. L. ONESIMO, e non già, com’egli stampolla: CAIO CASSIO. VALERIO. Ma egli poteva essere pur sicuro che in ambedue le lapidi si ha VIII VIR, come ho io più volte osservato. Avvertasi anche contro la copia del Muratori che il nostro Fuficio fu liberto, e il grado di capo degli Augustali anche dai liberti si conseguiva, siccome notò il Maffei (Ver. Illustr. Lib. 5.). Ma riprendiamo la lamina, dalla quale possiamo prendere altra ragione per assicurare l’antico campidoglio. Saviamente riflette il Maffei: Tabella sub donario stetit e pecunia multaticia oblato; per conseguenza questa doveva rimanere in un tempio. Or qual’altro tempio esser potea quello che sorgea in un altissimo monte fuorché il capitolino? Aggiungo che in Roma il danaro ritratto dalle multe solevasi per lo più impiegare ad ornamento del tempio capitolino. Abbiamo in Livio (Histor. Lib. 20. Cap. 30) Quum signa tria ex multatitio argento facta in Capitolio posuissent, e (Lib. 35 cap. II) Multos pecuarios damnarunt: ex ea pecunia clypea inaurata in fastigio Jovis Aedis posuerunt; e (Id. lib. 35 cap. 32) De multa damnatorum quadrigae inauratae in Capitolio positae in cella Jovis supra fastigium aediculae, et XII clypea inaurata. Or dunque è assai verisimile che anche nelle colonie la bisogna procedesse allo stesso modo, e quindi che i nostri questori col danaro ritratto da più multe collocassero un insigne donario nel tempio capitolino, del quale vollero poi perpetuare la memoria in bronzo.
(p.140) PARTE SECONDA Ricerche di un altro Fermo diverso dal nostro.
Non si è fino ad ora conosciuto altro Fermo, fuorché il Piceno, né si è da alcuno dubitato che altro esser ve ne potesse negli antichi tempi; eppure sembra che un altro ben diverso n’ebbe sicuramente. Me ne fece avvisato l’incomparabile Sig. Annibale Olivieri in una compitissima sua lettera scrivendomi: ” Io sospetto che due fossero i Fermi in Italia, e forse non molto l’uno dall’altro distanti. Osservai che in alcune iscrizioni, e, se mal non mi ricordo, militari, si dice Firmum Picenum. Per qual ragione mai doveasi aggiungere Picenum, se non per contraddistinguerlo da qualche altro Fermo, il quale rimanesse situato in una delle vicine provincie? Le sole città dello stesso nome distinguevansi con questi soprannomi. Ma a lei basta di aver accennata la mia osservazione”. La ricerca adunque del doppio Fermo sarà il soggetto di questa parte seconda, nella quale si dovrà provare che veramente due furono le città nomate Fermo, e poi ricercare dove fosse l’altro Fermo dal nostro diverso. Per rendere poi più varia la materia da trattarsi mi sarà permesso di allontanarmi talvolta dal soggetto con alcuni digressioni.
§. I. Due furono i Fermi
regola costantemente dagli antichi osservata di aggiungere un qualche soprannome alle città dello stesso nome. Rechiamo le parole del grande antiquario il Passeri nella sua scoperta dei due Vercelli inserita nella nuova raccolta Calegoriana (Tom. 22.):” Quando alla città si dava un soprannome, era
segno infallibile che vi era un’altra città dello stesso nome, ma contraddistinta anch’essa con un altro soprannome. Infiniti esempi ne abbiamo in Plinio, e in altri geografi antichi, come per esempio: Albalonga, e Alba Pompeja, Interamnates Nabartes e Interamnates Succafini, Aretini veteres, Aretini Fidentes, e Aretini Julienses, Bituriges Cubi e Bituriges Ubisci, Bovianum
(p.141) Vetus e Bovianum Undecumanorum etc… . Aggiungasi l’Urbinum Ortense e l’Urbinum Metaurense con i Pitulani Pisuertes, ed i Pitulani Mergentini, quattro città illustrate e restituite nel vero lor sito dall’incomparabile Sig. Annibale degli Abati Olivieri… Per questi esempi si vede che gli antichi soltanto davano un cognome alle città, in quanto nella stessa nazione ve n’era un’altra del nome stesso, per non confonderle, e il cognome si dava ad ambedue… Di qui ancor ricaviamo, che quando nella stessa nazione non v’era altro, che una città che portasse quel tal nome, non le si dava alcun soprannome, poiché non potea confondersi con un’altra”. Leggasi anche quanto su questo proposito notò il citato ch. Olivieri nella scoperta dei due Perini (Oliver. mar. Pisaur. pag. 65). Or nelle lapidi adunque e negli antichi geografi convien osservare se il nostro Fermo abbia sempre avuto l’addito di Piceno, e se l’ebbe, risulterà ad evidenza l’esistenza di un altro Fermo diverso dal nostro. Veniamo alle lapidi.
I .(Murat. Thes. vet. Inscript. Pag. 953. N. 6).
L. TERENTIVS
L. F. VEL
SIMPLEX
FIRMO PICEN
SPEC. COH
VII. PR. 7. SEI
MIL. ANN
XVI. VIX ANN
XXXVI
II. (Muratori loc. cit. pag. 2035 n. 4)
D . CORONA QUERNA M.
T. RAVCLENVS
T. F. VEL. DONATVS
FIRMO PIC. MIL.
COH. XIIII. VRB.
7. VINDICIS. VIX
ANNIS XXXVIII.
MILITAVIT. AN.
XX. FECIT HERES
B. M.
Tom. II. F 2 III.
(p.142)
III. (Muratori loc. cit. pag. 1103 n. 5)
CLAUDIA VSSVNA MATER
IVLIAE SABINAE F
JVLIVS. M. F. AVXIVS
C. AVXONIVS. P. F. LEG. XX.
D. FLAVIAE. COL. FIRMI PICENI
E. SE VI MANCIPATVS
F. FECIT SIBI ET FLAVIAE
G. Q. AVXI. Q. F.
IV (Grut. Pag. 533 n. 4)
C. AXONIVS. Q. F. PAP.
LEG. XX. NAT. COL.
FIR. PICENO SE VIVO
MONVMENTVM FECIT
SIBI ET FR. Q. AX. Q. F.
V (Pabr. Inscript. Dom. C. 9. N. 302)
P. OFLINVS
P. F. VET.
PRIMVS
FIRMO… CEN
MIL. COH.. PR.
VI (Malòvas. mar. Fels. Sect. 5. C. 9. Pag. 213)
M. VETTIVS. M. F. AVFIDIVS FIR. PIC.
VII (Cori in Etrur. Urb. Tom. I pag. 3)
SEVERV S FIRM PIC.
VIII (Murat. Loc. cit. pag. 2040 n. 2)
L. ALVIVS L. F. VES. MQAXIMVS FIR. PIC
…… S. T. F. NIC. IVVENIS FIR. PIC.
M. PACILIVS M. F. VEL. FORTVNATVS FIR. PIC.
(p.143) Facciamo alcune brevi osservazioni sulle addotte iscrizioni. Nella II. nota il Muratori: Firmum Picenum Patria fuit militi Velina tribu donato. A me par meglio che donatus debba intendersi per cognome di Tito Raucleno, o a dir più giustamente Rauclenio. La III. e la IV., esistono in Portogallo, e sono riportate ancora da Andrea Pessondio (Antiq. Lusit. Lib. 4), da Ludovico de’ Ponti (Hist. Hisp.), da Pietro Leon Casel (De primis Ital. Col. Pag. 80.). Ma io specialmente della terza ne avrei bramata una copia più esatta. Il Muratori che erroneamente la collocò in Fermo, e la trascrisse dal Compagnoni (Reggia Picena pag. 8.) notò: Legio XX. Flavia nusquam mihi repetitur. Io sospetto che nel marmo fosse scolpito IIII. O altro numero, su cui chi trascrisse la iscrizione più agevolmente abbia preso errore; ben si conosce che la lapida doveva essere assai rosa dal tempo. La V. e la VI. si ritrovarono in Roma; la prima nella villa Angeloni fuori di porta Salara, la seconda presso il monte Palatino. Il marmo di questa è dal Malvasia chiamato pezzo di una colonna, in cui erano nominati molti soldati, e da lui trasportato in Bologna. Quantunque siano state ambedue prodotte da due valenti antiquari, e le abbiano trascritte dal marmo originale, tuttavia pare che abbisognino di un più diligente riscontro; la prima nel nome OFLINVS, ch’esser dovrebbe OFLINIVS, la seconda nel cognome AVFIDIVS, che esser dovrebbe di una diversa desinenza. Vero è però che i noti canoni i quali prescrivono che il nome gentilizio debba terminare in IVS, e così e converso non possa terminare il cognome, soffrono per qualche eccezione. Non nego che molte volte hanno errato i copisti nel trascrivere, siccome osservò il Maffei (Dissert. de nom. Roman.): così il nostro Tito Appalio Alfino, la cui iscrizione abbiamo riferita di sopra, era stato cambiato in Tito Appeo Alfinio, e per tale da dottissimi uomini riconosciuto. Ma come io diceva, i noti canoni si veggono talvolta trasgrediti in lapidi niente sospette di falsità. Questo stesso riflette il Conte Cammilo Silvestri (Nelle spieg. Di gioven. Tom. I. pag. 285.) nella sua lapida. SEX. CARPENVS SEX. F. TERTIVS &c: Forse però nel nostro primo marmo vi doveva essere in OFLINVS la lettera I mancante congiunta connesso alla terza asta della N e prolungata; ma o nel marmo più non si ravvisava, o tralasciò di scolpirverla il quadratario, siccome accadeva più volte e in questa lettera, di cui parliamo, e nella I semplice posta in cambio di una | prolungata. Anche di questa ultima non mancano esempi in gran copia, a’ quali mi piace di aggiungere due titoli sepolcrali inediti, il primo de’ quali presso di me conservo, il secondo fu non ha molto dissotterrato in distanza di un miglio e mezzo da Urbisaglia;
(p.144)
A. CASSIDI A. POMPEI
A. L. BASSI A. L. SAL. VI
Leggo Cassidii nel primo, e Pompeii. Aali. iberti. Salvi nel secondo, seppur non piacesse ad alcuno di leggere Salvii, non mancando esempj di cognomi de’ Liberti colla desinenza in IVS, come quello del Silvestri (Dett. Nel cit. luog.). M. Coccejus M. L. Ianuarius. Leggo pertanto SALVI, o SALVII, non prendendomi fastidio di quel punto dopo la prima sillaba, il qual è una mera ridondanza, siccome hanno molti in altre lapidi osservato. Ridonda parimente il punto nel fine della seguente iscrizione scolpita in un bel cippo sepolcrale, dissotterrato di fresco col suo coperchio in poca distanza dalla nostra città: OSSA
TVSIDIAE. L. L.
CHLOE.
E’ più anche singolare la interpunzione del seguente marmo inedito, e ritrovato non molto lontano dall’antico nostro navale.
D cor M
TERENTIO
PAVLINO IVBEN
PROBISSIMO . QVI
VIXIT. ANN. XXXV. MES. II
DIEB. XV. VINDIA
RESTVTA . MATER. CORCULUM
ET. ATILIA. TERTIA.
CONIVX. DECEPTA.
CVM. FILIS POSVERUNT
. B . M .
La VII. è in un latercolo militare, il quale era in Firenze, murato nell’ingresso di quella real galleria. Era già stata stampata nel Grutero (Pag. 301. N. 2. Lin. 46.) ma in margine ritrovasi corretto FORMIS senza veruna ragione, poiché si legge nitidamente FIRMI PI C. , come mi assicurano oculatissimi antiquarii, che hanno conosciuto il marmo.
(p.145) §. II. Della Tribù di Fermo Piceno.
Illustrazione di una inedi<t>a iscrizione.
a iscrizione VIII da noi riferita è parimente in un latercolo militare. Merita anche questa un più diligente riscontro, in quel NIC. della seconda linea, in
cui par che vi sia errore. Ma deesi senza fallo correggere nella prima linea quel VES, siccome anche il VET della v. iscrizione in VELina. La Velina era la tribù Fermana, siccome costa da alcune iscrizioni riferite, e da molte altre che potrei addurre. In cosa nota ne produrrò soltanto una inedita dissotterrata nel territorio di Monsanpietrangeli, terra di questa diocesi: è incisa in una pietra sepolcrale quadrilatera, alta palmi romani 2. once 5., larga in ogni suo lato palmi I. once 4. Nei due lati destro e sinistro è effigiato un genio alato colla face spenta: sotto la iscrizione la figura di un animale alato con tre teste, e coda di toro.
C . VETTI. L. F.
VEL. TVSC I
LEGIONIS. IIII
MACEDONICAE
AQVILIFEREI sic
Il luogo, in cui fu la lapida dissotterrata è distante dalla nostra città circa VII. miglia, ma ne’ secoli Romani era certamente compreso nel territorio Fermano. Dalla gente Vezzia abbiamo memoria anche in altre nostre lapidi; ed è noto che molti degli antichi avevano i sepolcri ne’ loro predj, benché lontani, e in questi portavano le ceneri de’ loro defunti; onde par chiaro, che C. Vezzio era un cittadino Fermano. Merita la lapida speciale osservazione per la Legione Quarta Macedonica, di cui il Vezzio era aquilifero, il che io non so far meglio che col riferire l’articolo di una lettera del tanto celebre Ab. Oderico, il quale nella spiegazione degli antichi monumenti si è un assai raro merito procacciato: “ La iscrizione di Vezzio Tusco, di cui ella mi ha favorita una copia, è rimarcabile per la quarta legione Macedonica ivi nominata. Avrà osservato
(p.146) in Muratori (Loc. cit. pag. 852. N. 2): Nulla fuit legio quarta Macedonica, sed quidem quincta, et sic fortasse legendum: questa decisione è appoggiata sull’autorità del barone di Bimard. Egli è verissimo che si trova citata più volte negli antichi monumenti la legione quinta Macedonica; e non sarebbe quindi inverisimile, che sia sfuggita all’incisore o al copista una unità e che abbiasi da leggere IIIII. Questa maniera di notare il numero V non è però vero dire così frequente, pure non dubito che non possono esservene degli esempi, siccome ve ne sono del numero VI notato con sei unità. Io non so però, se a favor di questa quarta legione Macedonica oltre la presente iscrizione, la Muratoriana citata, e altra che dee esser in Fabretti (C. IX n. 529.), se giusta è la citazione da me veduta, si potesse produrre ancora una iscrizioncella Gruteriana (Pag. 557. N. 3.) in cui leggesi: Plancus Curator Veteranorum Leg. IIII. Macedonicae Decuriae T. F. I. . Scaligero fa un addiettivo di decuria della voce Macedonica, non so però con qual autorità ed esempio. Mi nasce sospetto, che questa lapida sia mancante. Credeva di ritrovarla ne’ marmi Turinesi, giacché il Grutero, se non erro, la pone Augustae Taurinorum, ma non ce l’ho veduta. Un’altra iscrizione trovo in Muratori (Pag. 812. N. 5.): M. Ennius L. L. Veter. Leg. IIII. Med. . Il Muratori fantastica sulla voce Med. . Potrebbe leggersi : M. Ennius L. L. Veteranorum legionis quartae medicus, e potrebbe anche leggersi : M. Ennius L. F. Veteranus legionis quartae Macedonicae. A sostenere però che vi avesse una quarta legione Macedonica più decisiva sarebbe l’autorità di Tacito (Hist. lib. III. Cap. 22): Quamquam alii tradiderint quartam Macedonicam dextro suorum cornu, quintam et quintadecimam cum vexillis nonae etc…, se non che Giusto Lipsio negli analetti de re mil. pare che dubiti di questa lezione, e che si abbia da leggere quinctam: il che però non so quanto sussister possa con trovarsi nominata immediatamente la quinta. Ei nulla dice nelle note del testo, e nulla ne dicono gli altri commentatori di Tacito, e nulla il diligente e dottissimo Brotier; quindi io non veggo perché non debba ritenersi la comune lezione. Della figura scolpita sotto l’iscrizione non so che dirle. Non mi ricorso di aver mai veduto o il Pegaso con tre teste, o il Cerbero con le ali. La coda di toro non mi darebbe fastidio nel Cerbero, e potrebbe attribuirsi all’imperizia dell’artefice.
(p.147) §. III. Titolo sepolcrale inedito. Della voce filius ripetuta in alcune lapidi.
Già poi ritornando alla nostra tribù, io diceva che questa fu la Velina una delle tribù rustiche, le quali erano presso i Romani assai più onorate e pregiate delle urbane. Leggesi è vero nella prima iscrizione riferita la tribù Papia, ed in altra la Palatina. Ma già da Mons. De Vita (Disserta. I. pag. 52) e da altri, che cita il dotto prelato, si è osservato che questa diversità di tribù fra i cittadini di uno stesso paese nasceva o da deduzione di nuova colonia, o perché quei di città ad altri ascrivevansi per adozione, o per abitazione, o per accusa, vale a dire allorquando l’accusatore passava alla tribù del reo condannato, se questa fosse di condizione migliore della sua. Oltre la Papia, e la Palatina si legge anche la Lemonia in una iscrizioncella scolpita in una mia urna sepolcrale, e già scavata nel territorio Fermano, alta palmi 2. once., e larga palmi 5. once 8.
L. PAPIRI. C. F. LEM.
ADOPTATI. F.
In questa nulla vi ha di rimarcabile, fuorché quella ultima lettera F. la quale a prima vista par che ridondi. Il ch. Giovenazzi nella sua bellissima dissertazione di Aveja (Loc. cit. pag. 60.) ha osservata la ripetizione in alcune lapidi di questa sigla, e trovando talvolta tutta distesamente ripetuta la voce FILIUS, argomenta a ragione che Filius debba in simili casi interpretarsi la sigla F. Così FIL. troveremo ripetuto in altra iscrizioncella appartenente ad Urbisalvia, che recherò in fine; onde possiamo esser sicuri di questa interpretazione, qualora però non possa spiegarsi per Fecit, come si può in quella bella iscrizione, con cui il Maffei chiude le sue Osserv. Lett. T. TRVPPICVS T. F. F. Or che significa questa voce Filius ripetuta? A me è piaciuto di raccorre a sentimenti di varii, onde altri più di me erudito possa darne una giusta decisione. Il lodato signor Giovenazzi è di parere che il primo Filius indichi la ingenuità de’ natali di coloro, i quali si dicono figli, il secondo poi dinoti che siano.
(p.148) appunto figli di quei genitori, de’ quali si dice nelle lapidi che siano. Ma io contro di questa spiegazione trovo una forte non ingiusta difficoltà: ed è, che in moltissime, anzi nella maggior parte delle antiche lapidi dovremmo trovare ripetuta la voce Filius, cioè in quante si nominano persone ingenue; e noi all’opposto la ritroviamo ripetuta in pochissime, onde par che vi sia stata una più particolar ragione. Due ne ho ritrovate ne’ marmi Turinesi (n. 61. e 90). Quei dotti illustratori pretendono che con questa ripetizione si distinguano i veri figli dai figliastri. Rechiamo la prima delle citate due lapidi. Lucilla. L. F. Prima. Sibi. Et. L. Aebutio. Pallaeo. Viro. Aebutiae. L. F. Optatae Filiae. T. F. I. la qual commentando essi dicono. Non est inutiliter repetita vox Filiae; nam potuit Aebutia Optata esse Lucii Aebutii Pallaei Filia ex altera conjuge, non ex Lucilla Prima. Più mi soddisfa questa spiegazion e, ma non so se sia adattabile alle altre consimili. Non voglio omettere altra spiegazione di questo eruditissimo ab. Benedetti; stima egli che questi, i quali due volte diconsi Filii, siano figli naturali, e poi legittimati; onde Cajo Papirio per figura ebbe in figlio naturale Lucio, cui poi legittimò: questi veniva ad essere due volte figlio di Cajo, l’una per natura, l’altra per legittimazione. Esponevano poi questa doppia figliolanza per adire alla eredità e agli altri diritti della famiglia. Riferite le altrui sentenze, mi sia lecito di produrre la mia; questa è che nella mia iscrizione sia posta quella ultima iniziale F. per distinguere il nostro Papirio dal suo padre, il quale fosse anch’egli figlio di un Cajo; e per conseguenza si chiamasse anch’egli L. Papirius C. F. Adoptatus. A questa interpretazione mi dié motivo una lapida riferita dal ch. Zaccharia (Sacra. ISTAT. Lapida. Pag. 84) nella quale abbiamo; L. SCRIBONIVS. L. F. LIBO. PATER.
L. SCRIBONIVS. L. F. LIBO. FIL. &c.
Questa spiegazione non è tanto mia, quanto del sopra lodato ch. ab. Oderico, il quale saviamente riflette che non solo col proprio padre, ma con altri potea nascere l’equivoco, per cui togliere fosse ripetuta la voce Filius. Mi fo un onore di riferire altro paragrafo di sua lettera: “ Fra le varie spiegazioni, che si danno alla voce Filius ripetuta, sembrami che quella degli autori de’ marmi Turinesi soffra l’eccezione di non essere adattabile a tutti i casi: per esempio alle tre iscrizioni citate dal Giovenazzi. Quella del nostro sig. ab. Benedetti mi pare un po’ ricercata, né sembra assai verisimile che quel L. Apisio nominato nella iscrizione del Giovenazzi volesse far pompa di tre figli naturali. Nella spiegazione del lodato Giovenazzi ella benissimo riflette, che ove questa sussistesse, in troppe più lapidi dovrebbe vedersi ripetuta la voce Filius. Io congetturo che una siffatta
(p.149) ripetizione non avesse altro oggetto, che quello di togliere l’equivoco facile a nascere allorché in una stessa famiglia, o gente si trovavano più persone con gli stessi prenomi, nomi, cognomi, e filiazione. Io non so che vi siano iscrizioni, le quali apertamente mostrino la falsità di questa mia congettura; onde non so ancora dipartirmi dalla medesima. Mi ci confermano l’osservare in alcune lapidi le voci Pater, Filius dirette senza dubbio a togliere simili equivoci. Così in una lapide citata dallo Zaccaria pag. 84. leggesi : L. Scribonius &c. e in altra pag. 245. M. Helvio. M. F. M. N. Serg Agrippae F. … M.
Helvius. Agrippa Pater.
Se ella vorrà esaminare le iscrizioni citate dal Giovenazzi, ed altre, vedrà che possono benissimo conciliarsi colla mia congettura: un padre , uno zio, un cugino, etc. dello stesso prenome etc. poteva rendere incerto di chi si parlasse. La voce Filius ripetuta toglie questa incertezza. Sulla ultima delle citate dal Giovenazzi : M. LAEVIUS. T. L. DIONYSIUS. HOC. MONUM. FECIT. M. LAEVIO M. F. PAL. NIGRO. F. S. ET. SIBI, vuò osservarsi che la ripetizione di detta voce era necessaria, perché non cadesse in pensiero che il M. LAEVIO M. F. Pal. Nigro fosse anzi il padrone che il figliuolo di Dionysio, come potea facilmente succedere”.
§. IV. Si conferma l’esistenza dell’altro Fermo.
Tempo è oggi mai di riprendere il filo del traviato discorso. Abbiamo osservato le molte lapidi, che danno a Fermo l’addito di Picenum. Il Muratori lo giudicò tanto proprio, che pubblicando una iscrizione mutilata di Osimo, in cui leggesi: REIP.FIRMANORVM… ICINENSIVM (Loc. cit. pag. 1043. N. I.) notò: Aliqua mihi suspicio est, scriptum ibi fuisse Firmanorum Picenensium. Nam uti ejus populos appellatos videmus Picentes, Picenos, Picentinos, fieri etiam potuit, ut in barbarica inscriptione, cujusmodi sane haec est, Picenenses locum habuerint. Certe Firmum Picenum ea civitas apud veteres cognomentum hoc gerit. Ma in ciò dal dottissimo uomo dissento. Forse anche in quel FIRMANORVM pretenderà di scuoprire l’altro Fermo, e che quella tronca voce ICINENTIVM sia il suo soprannome. La scoperta a me sembra appoggiata a troppo debole fondamento, e stimo che debba leggersi RICINENTIVM, siccome già lesse il Compagnoni (Reg. Pic. pag.. 51).
(p.150=52) cioè i cittadini della distrutta città Recina. Ma se mal supplì il Muratori, ben però avvertì che il nostro Fermo porta il soprannome preso dalla provincia, mentre in alcune poche lapidi, nelle quali leggesi solamente Firmo, Firmanus, voglionsi queste voci intendere per cognomi di persone, anziché per nome proprio o derivativo della nostra città. Abbiamo di sopra avvertito che anche gli antichi geografi usarono di aggiungere tali soprannomi come dioristici, alle città omonime. Così con Fermo adoperarono. Strabone, quantunque già dichiarato si fosse di descriver la nostra provincia, tuttavolta dié a Fermo il nome di Picenum, siccome anche ad Ascoli. In Frontino lo vedremo darsi ben due volte. Anche Valerio Massimo nominò la patria del nostro Lucio Equizio Firmo Piceno. Che più? La tavola Peutingeriana non segna, gli antichi geografi, le lapidi danno costantemente a Fermo l’addito di Piceno, dobbiam tenere per cosa certa, che siavi stato un altro Fermo dal nostro diverso.
§. V. Si risponde alle difficoltà contrarie.
Eppure potrebbe alcuno rimanersi dal così opinare per ciò che contro la regola da noi nel principio assegnata scrisse l’autore della istituzione lapidaria, e il ch. Giovenazzi nella sua dissertazione di Aveja, uomini ambedue, siccome ognuno fa, di ogni rara erudizione forniti. “ Avvertasi, scrisse il primo (Gioven. Dissert. d’Aveja pag. 139) trovansi talora dati a città, che non aveano altre del medesimo nome, solo per torre ogni equivoco, che nascer potesse. Io son debitore di questa opportuna riflessione all’eruditissimo Mons. Compagnoni, il quale me ne ha suggeriti due esempi”. Uno di questi è appunto Fermo, del quale altro non si cita, fuor che la lapida ci Cajo Axonio da noi in quarto luogo riferita, l’altro è di Capitolo negli Ernici, tratta da una tronca iscrizione del Muratori (Loc. cit. pag. 2049 n. 4.). Dal Giovenazzi poi (Dissert. d’Aveja cit. pag. 21.) si scrisse:” Non pare che i certi aggiunti fossero sempre segni dioristici, e adoperati nella sola circostanza di omonimia…. Io quanto a me credo che in molte occasioni la facessero da idioti ancor essi quei buoni antichi, e che per ciò gli usassero non ad
(p.151) altro di segno, se non se per dire quello unicamente che tali e tali altre città e popoli erano, come la cosa stava e non altro”. Conferma il suo parere coll’esempio di Peltuino, che quantunque fosse solo. Pure fu nominato coll’aggiunta Vestinorum in una lapida Muratoriana (pag. 363), e senza tale aggiunto in altra iscrizione, che il dottissimo autore pubblica ed illustra. In questa ad Aveja si aggiunge Vestinorum, e non le si aggiunge in altra iscrizione. Or avrem noi a dire di Fermo lo stesso, che dicesi di Capitolo, di Peltuino, di Aveja? Con pace di questi due valentissimi autori, io sostengo di no: poiché tante ragioni mi conducono a credere la esistenza di altra città Fermo, quante forse non occorrono per altra giammai. Per rispondere poi agli esempi addotti in contrario, io dico che dal primo dei due dottissimi autori citar non si potea l’esempio di Capitolo vi fu pure nella Celesiria, nominato nei digesti (Cap. 50 de censib.). Vero è che questo si disse latinamente Capitolias; ma osservò il Grutero Grev. (Praef. Tom. I. antiquit. Rom.) che si usò nell’un modo e nell’altro. Né pel dotto autore dovea ostare, che l’altro Capitolo era situato fuori della Italia, siccome fra poco vedremo. Ma checché sia di questo, il non saper noi che vi fosse altro Capitolo, altro Peltuino, altra Aveja è ella buona ragione per credere che senza motivo si dessero gli aggiunti di Hernici, e di Vestinorum? Scrisse pur bene il lodato Giovenazzi :” Non mica discende, che una città sia stata al mondo, sol perché a notizia mia, o di altri non è, che stata sia”. Chi può in oggi render ragione di tutte le antiche città o comunanze? Non si sono anche a dì nostri scoperte città, delle quali nel secolo passato non si avea notizia alcuna? Per gettare a terra un canone sì ben fondato, quale è il nostro, non bastano gli esempi di tre paesi, de’ quali non sappiamo se altri tre ve ne siano stati omonimi; ma converrebbe recarne ben molti di città, delle quali sia certo e indubitato che furono uniche. Ma che più? Voglio anche concedere, che le tre più volte nominate città fossero uniche, quantunque distinte col loro soprannome; forse a queste dovremo unire ancor Fermo? Mai no, per questo non possono già addursi lapidi, nelle quali non sia contraddistinto col suo soprannome, ma al contrario ben molte con tale aggiunto; alle lapidi si aggiunge la Peutingeriana, si uniscono gli antichi geografi; qual cosa adunque più certa, che il nostro Fermo ebbe costantemente presso gli antichi il suo soprannome? Quali iscrizioni essere vi possono più semplici e più brevi di quei latercoli militari? Tuttavolta in questi non mai si lascia Fermo senza l’addito di Piceno. Ond’è che nelle stesse lapidi e latercoli non si danno tali aggiunti se non alle città omonime? Già poi se Fermo costantemente si soprannomò Piceno. Discende per giusta illazione, che vi ebbe un altro Fermo oltre il Piceno.
(p.152) §. VI. Si cerca in qual parte fosse situato l’altro Fermo.
Sarà ciascuno bramoso d’intendere dove mai si stesse questo secondo Fermo diverso dal nostro Piceno. Ma io subito mi protesto, che quanta è certa la esistenza di questo Fermo, altrettanto ne è ignota la ubicazione, e che inutili sono state le mie molte ricerche per rinvenirlo. Né ciò dee recar punto di meraviglia, poiché assai altre città vi furono un tempo, delle quali, siccome di questa, perita è ogni memoria, e vestigio. Ma se con la precisa situazione, possiamo almeno restringerla ad alcune provincie. Dico pertanto che questo Fermo estinto non fu nel Piceno, fu nell’Italia, e in provincia non molto dalla Picena distante. Che non fosse nel Piceno la ragione parmi evidente: questi soprannomi usavansi unicamente per distinguere fra loro le città dello stesso nome. Or se nella nostra regione era situato anch’esso l’altro Fermo, già il nostro era ben da questo contraddistinto col soprannome di Piceno, il quale sarebbe stato ad entrambi comune. Quindi questi soprannomi possono partirsi in due classi: altri sono presi dalla provincia, siccome il nostro Fermo, e di Ascoli, di Teano detto Teanum Sidicinum, ai quali si contrapponevano Asculum Appulum, Teanum Appulum: altri poi prendeansi dai fiumi o da altre città vicine di qualche rinomanza, o da altra qualunque si fosse proprietà del luogo. A questa seconda classe appartengono Tifernum Metaurense, e Tifernum Tiberinum, Urbinum Metaurense, e Urbinum Hortense, Cupra Marittima e Cupra Montana, Pitinum Pisaurense e Pitinum Mergense. Or in diverse provincie deggionsi ricercare le città distinte coi primi soprannomi, nelle stesse per ordinario ma non sempre quelle dei secondi.. Non fu dunque nel Piceno l’altro Fermo, ma fu bensì in provincia alla Picena unita o non molto da essa distante. Solamente alle città omonime non moltissimo fra loro disgiunte usi furono per ordinario gli antichi di aggiungere i soprannomi. Quindi non portarono alcun soprannome le città Picene di Adria, Castro Nuovo, Falerio, Potenza, quantunque vi avessero pure altra Potenza nella Lucania, altro Falerio a Castro Nuovo ne’ Toscani, altra Adria ne’ Veneti. Adunque pari verisimile che l’altro Fermo distrutto fosse situato o nell’Agro Gallico, o nell’Umbria, o nella Sabina, oppure fra Marsi, Vestini, Maruccini e altri antichi popoli del presente Regno di Napoli.
(p.153) Già poi se l’altro Fermo distrutto fu in una delle nominate provincie, rimane anche provato che fu in Italia, ciocché in secondo luogo proposi. Tuttavia merita questo stesso qualche particolar disamina, e da me omettere non sui vuole, onde possa io mostrare che tutto si è per me ponderato. Dunque dalla Italia dipartendoci convien che ragioniamo.
§. VII. Delle città Ispaniche Colonia Augusta Firma, e Firmum Julium. a Plinio (Plin. Histor nat. Lib.3 Cap. I) e da molti antichi monumenti abbiamo nella Spagna ulteriore la città di Astigi soprannominata Colonia Augusta Firma. Una medaglia di Golzio di questa città fu dal Cluverio al nostro con errore attribuita, del che dal Muratori (Pag. 1047 n.1) e da altri ne fu meritatamente ripreso. Or denominandosi Astigi ne’ pubblici monumenti Colonia Augusta Firma, dirà taluno che a togliere ogni equivoco, che nascer potesse col nostro Fermo, fu a questo aggiunto il dioristico di Piceno. Ma un tale equivoco non poteasi ragionevolmente prendere da chicchessia. La nostra colonia, siccome ho di sopra accennato, non ebbe giammai il titolo di Augusta, e se avuto lo avesse, ritener dovea il suo nome possessivo, e chiamarsi Colonia Augusta Firmum, oppure prendere il suo derivativo Firmana, come per figura Felix Augusta Nolana. Sicché lasciamo pure la città di Astigi, la quale par che nulla monti al nostro proposito. Altri poi si fermerà nel Sexti Firmum cognomine Julium, ossia Sexti Firmum etc Plin. Loc. cit.<.come leggono altri>. Per questa città possono essere le congetture alquanto meglio fondate. Ma avvertasi parimente che su una stessa città Sexi, e Firmum Julium; quindi da Tolomeo si chiama semplicemente Sex, da Mela Hex, ed Exitani chiamansi da Strabone i suoi cittadini. Sollevata poi forse a municipio da Giulio Cesare avrà da questo preso il cognome di Firmum Julium. Ora quantunque questa città nella Spagna avrà ancora ritenuto il suo nome primitivo di Sexi, tuttavia è da dire che dai Romani fosse col novello nome latino appellato. Così veggiamo ne’ pubblici monumenti che spesso segnavano la sola nomenclatura latina quelle città Ispaniche, le quali furono soggette a siffatto cambiamento di nome, siccome le antiche medaglie ed iscrizioni ampiamente ci fanno fede. Adunque, dirà taluno
(p.154) i Romani avendo un Fermo nella Spagna, e un Fermo in Italia, appellavano il primo Julium con soprannome assai a quella provincia comune, e soprannominavano Picenum il secondo. Tal congettura potrebbe anche acquistare maggior peso dal riflettere che Fermo non è il nome primitivo della città nostra, ma posto le fu dai Romani, siccome in fine esporrò. Contro di questa opinione militano già le difficoltà da me sopra esposte. Osservisi ancora, come nelle città Ispaniche poste in nota da Plinio moltissime ve n’ebbero, le quali portarono soprannomi comuni a nomi di città Italiche; eppure queste non ebbero alcun dioristico: appunto perché erano troppo fra loro distanti per poter essere equivocate. Vero è che dal più volte citato autore dell’istituzione lapid. (Zacc. Loc. cit. pag. 138.) si nota: “ Interamnia Umbriae presso il Muratori (Pag. 799 n. 4) per distinguere il nostro Terni dall’Interamnia di Spagna”. Ma, a dir vero, questa Interamnia Umbriae è un esempio troppo singolare, e venendo dal Ligorio la iscrizione citata, io la reputo assai sospetta, e, quasi dissi, spuria. E’ troppo noto che i Ternani cognominavansi Nohartes o Nartes e anche Nartii dal celebre vicino fiume Nar: né contradistinguevansi dagl’Interamnati di Spagna, ma da quei de’ Volsci, che aveano il dioristico di Succafini, e secondo Plinio (Loc. cit. lib.3 Cap. 5.) anche di Lirinati; e forse anche dagl’Interamnati del nostro Piceno, la cui città è oggi Teramo. E questi qual cognome aveano? Secondo Frontino, Igino, e Balbo sembra di Palestini o Pelestini come può vedersi nell’Ortelio (Thes. Geog.). Ma che ha che fare questa Palestina o Pelestina con una città Picena? Chi ha giammai letto tal nome in autori non sospetti di correzioni, i quali favellino delle nostre contrade? Nota Plinio nella Regione VI certi Pelestini, o, come altri leggono Pestini, i quali dall’Ortelio e dal Martinier son posti nel Borgo di Piobigo: ma forse Plinio, la cui geografia è tanto malconcia, anche in questo passo abbisogna di correzioni. Abbiamo in Livio (Histor lib. 10. Cap. 3) una Plestina ne’ Marsi. Ma qual necessità avea l’Interamnia del Piceno di prendere un cognome da una città lontana, e fuor di provincia? Meglio è dunque il dire che anche l’Interamnia del Piceno ebbe verisimilmente qualche cognome, ma che quello di Palestina conservatoci da Frontino e Balbo sia corrotto. Né piacemi di correggerlo in Praetutiana, siccome fa il Cluverio, per esser stata la città antichissimamente compresa nel territorio Pretuziano, siccome a suo luogo vedremo; giacché sono queste due voci troppo fra loro diverse, per credere che la prima sia una corruzione della seconda. Or là ritornando donde ne partimmo, per le addotte ragioni io non so persuadermi che il nostro Fermo d’Italia fosse con soprannome distinto per non essere equivocato col Fermo di Spagna. Che se altri se ne persuadesse, io gliene menerò rumore. A me sia lecito di credere che l’altro Fermo
(p.155) non fosse dal nostro moltissimo distante, e che è perito senza lasciare di se memoria alcuna, o a dir più giusto, a me non è riuscito di rinvenirla. Che se altri più fortunatamente la rinverrà, io non invidia ma somma obbligazione gli professerò. Intanto ho il piacere, giusto per quanto mi lusingo, di aver dietro la scorta fattami dall’incomparabile Sig. Olivieri ritrovata la ragione vera, per cui Fermo portò costantemente il cognome di Piceno.
OSSERVAZIONE SULLA PARTE SECONDA.
Considerando io col nostro autore l’aggiunto Picenum che si trova dato a Firmum o nelle lapidi o negli scrittori osservo che niuna di queste lapidi si può riferire ai tempi della Romana repubblica libera, e niuno degli autori aver scritto in tale remota età, ma tanto gli autori che le lapidi esser posteriori alla vittoria di Azio e al principio dell’anarchia. Laddove tutti gli altri autori o che hanno nominato Fermo relativamente a’ tempi anteriori ad una tal epoca, o che veramente hanno scritto anche prima nessuno dà a Fermo un tale aggiunto. Se come riflette il nostro autore questo le fu dato per contraddistinguerlo da altra città di tal nome rifletterei che questa città non vi sia stata in quei tempi ne’ quali a Fermo non si aggiungeva la notata distinzione. Ma che per questo? Eccolo se non erro. Dice il nostro autore che il nome di Firmum Julium fu dato a Sexi città della Spagna da Giulio Cesare, potrebbe perciò esser verisimile che al nostro Fermo si cominciasse posteriormente ad aggiungere il Picenum per non lo confondere. Del resto io nol cercarei nelle provincie Italiche contermini, non avendone alcun lume né dagli antichi geografi né dalle lapidi. Taccio di Valerio Massimo, di Frontino. Ma Strabone che al Firmum aggiunge il Picenum avrà saputo il motivo per cui lo faceva. E se lo seppe perché nella sua geografia omise affatto quell’altro Fermo? Perché l’omise l’autore della Tavola Peutingeriana? Il canone stabilito dai dotti antiquarj dell’aggiunto dato a tali città omonime per discernerne una dall’altra è appoggiato su degli esempj, che lo fanno chiarissimo. Ma quando questi esempi venisser meno, e si parasse innanzi qualche altro fondamento perché non sarà lecito di usarne! Tale mi sembra occorrere nel caso nostro. Troviamo spesse volte nelle lapidi il cognome di Firmus, e Firmanus dato a persone. Non sarebbe già una stranezza il pensare che per non confondere un nome proprio d’una persona col nome proprio di una città si cominciasse a distinguere questo con degli aggiunti.
(p.156) PARTE TERZA Della colonia de’ Romani condotta In Fermo.
n nessun tempo le città Italiche dimostran meglio la loro antica grandezza e nobiltà, che allorquando vennero in potere dei Romani. Questi volendo ritrarre dalle città soggiogate non già il piacere di vendetta, ma un sodo vantaggio, le stringevano alla Repubblica, partecipando loro in maggior o minor copia le Romane prerogative e diritti, e fino anche la cittadinanza medesima. Questo savio istituto dei Romani spiccò in singolar modo nel dedurvi che fecero le loro colonie. La condizione di questa città, scrisse Gellio (Lib. 16. Cap. 13.) è migliore e più illustre reputata per la nobiltà e il decoro del popolo Romano, di cui queste colonie sembra che siano picciole immagini e simulacri. Io però non intendo di parlare di tutto ciò che alla colonia condotta in Fermo appartiene: nulla dirò de’ suoi magistrati, nulla del governo civile e di altrettali cose, le quali furono alle altre comuni e sono già state da tanti copiosamente dichiarate. Solo investigherò quelle particolari condizioni e circostanze, che accompagnarono la deduzione della colonia nostra, e che o non sono state ancor tocche o non pienamente poste in chiaro. Ma sia bene di prima esporre i diversi reggimenti politici, ai quali fu soggetta la città
sotto i Romani innanziché questi vi conducessero la colonia.
(p.157) §. I. Fermo città confederata dei Romani
tre sorti di governo fu soggetto Fermo sotto i Romani, e a tre epoche le riferisco. Si fissi la prima epoca nell’anno di Roma 454, in cui si stabilì quella reciproca alleanza fra i Romani ed i Piceni, che ci lasciò notata Livio (Histor. Lib. 10. Cap. 5.): Foedus ictum cum Picenti populo est. (*Vedi la dissertazione 8 del Tom. I. su tal argomento nella pag. 235) I Piceni diedero tosto ai Romani un segno non equivoco della loro lealtà : Alterius belli… fama Picentium novorum sociorum indicio exorta est: Samnites arma et rebellionem spectare: seque ab eis sollicitatos esse. Picentibus gratiae actae (Loc. cit.). Or tre sorti di confederazioni usarono i Romani, le quali leggonsi in Livio, riferito dal Sigonio (De antiq. Jur. Ital. Lib. I. Cap. I.): Unum, quum bello victis darentur leges: ubi enim omnia ei, qui armis plus posset, dedita essent, quae ex iis habere victos, quibus multari velit, ipsius jus arbitriumque esse. Alterum, quum bello pares aequo foedere in pacem atque amicizia venirent: tunc enim repeti reddique per conventionem res… Tertium, quum qui hostes numquam fuerint ad amicitiam sociali foedere inter se jungendam coeunt, eos neque dicere neque accipere leges; id enim victoris et victi esse. La prima sorte di alleanza chiamavasi foedus iniquum, importando la vera soggezione del popolo vinto al vincitore, e assai impropriamente col nome di foedus appellavasi. Foedus aequum era la seconda, la quale non era perfettamente equa imponendosi per essa ai popoli confederati : Majestatem populi Romani comiter conservent. A Cicerone (Pro Bald. Apud Sigon. Loc. cit.) riferito dal Sigonio parve siffatta condizione iniqua anziché no. La terza ultimamente era foedus aequissimum, per cui con perfettissima uguaglianza stabilivasi la società amicizia alleanza fra un popolo e l’altro. A questo ultimo genere di alleanza appartenne quella che i Romani stabilirono coi Piceni, co’ quali avuta non aveano guerra di sorta alcuna, ma già forse ne temevano la moltitudine e la forza. In vigore di questa alleanza Fermo non soffrì mutazione alcuna nel suo politico governo. Era costretto in occasione di guerra a prestare ajuto ai confederati Romani militando nelle loro legioni, e vicendevolmente ad essa i Romani, ma continuò in quella libertà nativa, ch’esser dovea propria di tutte le città Picene.
(p.158) §. II. Fermo prefettura dei Romani.
Si fissi la seconda epoca nell’anno 484, nel quale aspra e crudel guerra vi fu fra i Romani e i Piceni (*Vedi parte IV della dissertazione preliminare). Forse la sola ambizione dei Romani, scrissero gli accurati storici Catrou e Rovillé (Stor. Rom. Lib. 22) fece considerar come rei i Piceni. Ma qualunque fosse la cagione, I Piceni posero a morte un grandissimo numero de’ nemici. Un improvviso e spaventoso terremoto atterrì fortemente ambedue gli eserciti. Il console Sempronio, fatto pria voto di erigere un tempio alla dea Tellure, tosto incoraggiò i suoi Romani men dei Piceni superstiziosi, e dopo aspro conflitto riportò dei nemici compiuta vittoria, siccome narrano Frontino, Orosio ed altri riferiti dal Sigonio (Fast. Consul. Ad ann. Cit.). Fermo come tutte le altre città della provincia dopo questa sconfitta dalla condizione di confederata passò a quella di prefettura.La condizione di prefettura era la più trista di ogni altra, poiché la città veniva spogliata delle rendite dei suoi terreni in quella quantità che piaciuta fosse ai dominanti Romani, e perduta ogni sorta di libertà, soggiacer dovea a’ quei prefetti, i quali creati o dal popolo o dal pretore urbano spedivansi annualmente in provincia ad amministrar la regione Conservava una certa apparenza di repubblica non libera, ma soggetta al prefetto, e avea solo quei minori magistrati, i quali o stabiliva il detto prefetto, o questi permetteva che creati fossero dalla repubblica. Non abbiamo noi una espressa menzione negli antichi autori che fossero a prefetture ridotte le città Picene; ma sappiamo che a questo duro stato condannavano i Romani que’ popoli, i quali ingratamente con loro diportavansi, e quei specialmente, che violata avessero la confederazione; e comecché in realtà forse non erano i Piceni rei di tal colpa, pure come tali pare che fossero dai Romani considerati, dicendo Eutropio (Lib. 2. Cap. 9): Picentes bellum commovere. Sappiamo che le campagne Picene divennero agro pubblico del popolo Romano, poiché 37 anni appresso alla nostra sconfitta si promulgò la celebre legge agraria Flaminia De agro Gallico et Picenti viritim dividendo (**Vedi parte IV della dissertazione preliminare.). Cesare nomina le prefetture del Piceno, e quantunque ivi si ragioni de’ tempi posteriori alla legge Giulia, per cui tutte le città Italiche furono ammesse
(p.159) messe alla cittadinanza Romana, e molte cambiarono i nomi di colonia, o municipi, o prefetture, pure è verisimile che Cesare chiamasse prefetture quelle che prima erano state rigorosamente tali, e sappiamo esservene state di quelle, quae in vetere Praefecturae nomine sibi placerent, come notò il Mazzocchi (Tab. Heracl. Pag. 397). Da tutto ciò possiamo a buona equità inserire che Fermo sia stato soggetto a questo stato prefetturale.
OSSERVAZIONE SUL §. II.
ell’articolo primo della dissertazione decima del tomo primo ai §§. I. e II. seguitai ancor io il sentimento dei due storici Catrou e Rovillé approvato anche dal nostro autore, e causa della guerra mossa dai Romani ai Piceni reputai la sola ambizione dei Romani. Il ch. Cav. Tiraboschi nella sua lettera dei 17 Febbrajo 1786 a me diretta, ed inserita nel citato primo tomo alla pagina XLI sembra che discordi. Dice egli che non pare potersene addurre concludenti ragioni, alle quali altre se ne potrebbero opporre favorevoli ai Romani. Noi lasceremo questo punto nella sua oscurità senza curarci di sapere se i nostri Piceni avessero o no ragione di ribellarsi.
§. III. Fermo prima colonia de’ Romani nel Piceno.
La terza epoca finalmente si fissi nell’anno 489, in cui fu a Fermo prima che in qualunque altra città del Piceno condotta una colonia de’ Romani, onde dallo stato più duro ed infelice passò al più nobile ed onorevole. Che in detto anno fosse in Fermo condotta la colonia si prova coll’autorità di Vellejo (Lib. I.): Initio primi belli Punici Firmum et castrum colonis occupata; il qual principio della guerra Punica, benché da alcuni si ponga nel 488, pur noi, per entrare in una disutile quistione, col Sigonio (De antiq. Jur. Ital. Lib. 2. Cap. 5.) e colla più comune opinione lo fisseremo nell’anno seguente 489 (*Assai diffusamente tratta di quest’epoca il ch. Sig. arch. Erioni in una dissertazione inedita che recitò agli Acc. Erranti di questa città). Non è così chiaro però che Fermo sia stata la prima colonia
(p.160) nel Piceno, perché opporre se ne possono altre due più antiche, Adria e Castro Novo coll’autorità dell’Epitome di Livio (Histor. Lib. II): Curius Dentatus Consul, Samnitibus Caesis et Sabinis, qui rebellaverant, victis et in deditionem acceptis, his in eodem magistratu triunphavit. Coloniae deductae sunt Castrum Sena Hadria. Triumviri Capitales tunc primum creati sunt. Or variano gli autori nel fissar l’anno delle deduzioni di queste tre colonie. Parliamo prima precisamente di questa Sena, oggi Senigallia, colla quale vanno del pari nella epitome le altre due. Il Sigonio (ivi) la fissa nel 471, il Cluverio nel 463, i PP. Catrou e Rovillé nel 464. A chi presteremo fede? L’anno preciso dee ricavarsi meglio che si può dalla epitome: secondo questa furono dedotte le colonie fra la vittoria dei Sanniti e Sabini, e la istituzione dei triumviri capitali; il che cade appunto negli anni 463 e 464. Pertanto in uno di questi due anni la epitome fissa la colonia di Sena; ma in nessuno de’ due può in alcun modo sussistere la deduzione di questa colonia: dunque non possiamo prestare alcuna fede all’epitome. Eccone due prove, una di ragione, e l’altra di autorità, ambedue convincentissime. I Romani secondo il loro antico istituto, non variato certamente in questo contorno di tempi, non mandavano, anzi non potevano mandar colonie se non in paesi da loro per armi acquistati, e divenuti di loro ragione per giure di vittoria. Ora i Senoni, de’ quali era la città di Sena, furono sconfitti dai Romani nell’anno 469, come infra gli altri può osservarsi ne’ fasti del Sigonio; onde non prima di detto anno i Romani divennero padroni de’ paesi Senonici, e non prima di questo poterono i Romani condurre colonia in Sena. Abbiamo poi una chiarissima autorità di Polibio (Hist. 2. Cap. 1) per fissarla appunto nel detto anno: Manium Curium in ejus (Lucii consulis) locum suffecere. Hic statim etc… Cum Gallis Senonibus prodire ausi manus conferunt: quum Romanis secunda pugnae fortuna fuisset, partem maximam ceciderunt, reliquos sedi bus expellerunt. Ita potiti universa Senonum ditione primum in Galliam coloniam mittunt. Sena haec dicitur de eorum nomine, qui prius tenuere. Or questa sconfitta dei galli sotto il consolato suddetto di Manio Curio cade appunto nell’anno 469, come si vede nello stesso Sigonio (Fast. Cons. ad ann. Cit.), e negli altri. Ecco dunque provato che in Sena fu condotta la colonia nel 469, e non già nel 463 o 464, come segna l’epitome; e neppure nel 471, siccome la fissa il Sigonio ne’ suoi fasti, ed il Panvinio (Imp. Rom. Cap. II.), nel quale anno essendo consolo Cornelio Dolabella, di nuovo si mossero i Senoni a offesa dei Romani e ne furono vinti. Hanno forse questi due scrittori equivocata l’una vittoria coll’altra: ma la colonia di sena deve fissarsi dopo la prima, siccome se n’è espresso Polibio, scrittore tanto bene informato delle cose Romane, e dal quale più che da nessun altro prese, e trascrisse Livio, come disse il
(p.161) Maffei (Ver. illust. Lib. I). Laonde sopra inconcusso fondamento posando stabiliamo pure che nell’anno 464. non poté condursi, né si condusse colonia in Sena, e che in ciò non può darsi alcuna credenza all’epitome.
§. IV. Le colonie delle città Picene Adria a Castro Novo non sono più antiche della Fermana. e all’epitome non possiamo prestar fede nell’epoca della colonia di Sena, neppure il potremo in quella di Adria e Castro Novo. Ma per queste due città la ragione già da noi indicata acquista forse maggior forza; giacché i Romani, siccome abbiam veduto, non prima dell’anno 484 s’impadronirono per giure di vittoria delle nostre città Picene, e ridicola cosa è il ricercare una colonia de’ Romani in alcune di queste ben venti anni innanzi alla nostra sconfitta. Il dottissimo Froinsemio né suoi supplementi a Livio si mostrò del tutto proclive a discostarsi in ciò dall’autorità della epitome (ivi) avendo scritto : verumtamen nondum eo usque pacatis illis regionibus, magis est ut accedam auctoribus aliis, qui colonia rum istarum originem ad inferiora tempora retulerunt. Il Mazzocchi (Tab. Heracl. Pag. 532) avrebbe voluto che dal Froinsemio si citassero gli autori : Quam vellem, quos autores in eo secutus sit, edidisset. A mia notizia certamente neppure uno ne avrebbe potuto produrre; ma ben produrre potea, e farsi forte su di una ragione che equivale ad autorità di qualunque peso. Il Sigonio, il quale già errò nell’epoca della colonia di Sena, errò anche in quella di Adria : In Hadriam, in Picenum coloni missi, ut scriptum legimus in epitoma, credo anno postquam Picentes devicti sunt. Ma s’egli seguita l’autorità dell’epitome nel credere che in Adria fossero spediti i coloni Romani, perché non la seguita altresì in siffarle quell’anno, che l’epitome stabilisce? O che ragioni ha in questo di abbandonarla? Il Cluverio di Adria Picena ragionando si attiene all’epitome anch’egli, e dove di Castro favellò si avvide forse delle autorità discordi di Vellejo e della epitome, e a nessuna delle due attenendosi concluse : Haud dubie post hoc bellum ( Picenum ) Coloniae deductae sunt in eorum agrum Castrum et Hadria. Pecca egli ancora di incoerenza siccome il Sigonio.
(p.162) Ma questa Adria, e questo Castro sono veramente due città Picene? E non sono anzi l’Adria de’ Veneti, e il Castro de’ Toscani? Sarebbe stato desiderabile che gli antichi avessero almeno in certe occasioni dato i cognomi alle città omonime benché lontane: ora noi non ci troveremmo in tale impaccio. In queste ultime due propende a riconoscere le colonie Romane il Panvinio (Imp. Rom. Cap. II.). Di questo Castro giudicò il Sigonio (Loc. cit.) che parlasse Vellejo, avendo scritto : Firmum Picentum, Castrum Tuscorum fuit, utrumque marittimum. Per Adria Veneta sono i PP. Catrou e Rovillé (loc. cit.), ma non già per Castro della Toscana, sebbene a questo Castro Appellato nel loro indice. Inutil cosa è il riferire le opinioni di molti; mentre chi è per l’una delle due città omonime, e chi per l’altra , ma da nessuno ho veduto recarsi sode ragioni. Quel che di sicuro abbiamo si è , che non possiamo intendere l’epitome di Adria Veneta, poiché, come dimostra il Maffei (Ver. illust. Lib. 2), i Veneti non prima dell’anno 534 passarono sotto i Romani, e vi passarono non per forza di armi, ma per loro volontaria dedizione. Di qual de’ due Castri parlasse Vellejo, io non saprei deciderlo, ma sembra più verisimile che intendesse del Castro di Toscana, poiché questa città era già indubitatamente colonia dei Romani nell’anno 559, come si raccoglie da Livio (Lib. 36 cap. 2). Certo parimente si è che era colonia l’Adria Picena nell’anno 545, siccome abbiamo dallo stesso Livio (Lib. 27. Cap. 12.). L’ordine topografico, che Livio usò nelle sue descrizioni delle colonie, ci rende sicuri che egli ragioni di queste due città. Ultimamente sicura cosa è che senza fondamento alcuno di ragione o di autorità anno alcuni autori da me citati asserito che Adria e Castro del Piceno ricevessero le colonie Romane immediatamente dopo la sconfitta de’ Piceni e per conseguente prima di Fermo. Aggiungasi che, se ciò sussistesse, non doveva omettere di registrare Vellejo, siccome non omise le colonie di Potenza, e di Osimo molto tempo dopo nel Piceno dedotte; molto più trattandosi di colonie dedotte per prime in una nazione testé soggiogata. Erano quelle troppo a notizia di tutti, e gli antichi scrittori notata la vittoria riportata sopra una nazione, incontanente notarono anche le colonie dedottevi. Che se, ciò non ostante, volesse alcuno sostenere che Vellejo intendesse di Castro Piceno, il sostenga pure a sì mal partito. Abbia pure Fermo in questa prerogativa avuta altra città a compagna; non per questo si potrà diminuire la forza a quanto sarò per dire in appresso, ma al più si accumuneranno altri pregi.
(p.163) OSSERVAZIONE SUL §. IV.
Come non si può intendere che l’epitome di Livio parli di Adria Veneta quando tratta della deduzione della colonia ivi seguita, così nemmeno di Castro nell’Etruria, ma del nostro Piceno. La forte ragione che muove il nostro autore a credere che s’intenda di Adria Picena è il sapere che i Veneti non prima dell’anno 534 passarono sotto i Romani per sola volontaria dedizione, e che perciò non avrebbero potuto condurre colonia in quelle terre quando loro non appartenevano. All’incontro sapendosi da noi che quando si parla della deduzione di Castro l’ Etruria non ancora in potere dei Romani, per la stessa ragione non potevano averci fatta deduzione, e resta escluso così il Castro dell’Etruria in concorrenza del nostro Piceno. Tutto sarà diffusamente trattato nei rispettivi luoghi, nei quali sarò per illustrare le memorie appartenenti sia a Castro che ad Adria.
§. V. Per qual cagione i Romani conducessero colonia in Fermo.
iverse furono in diversi tempi presso i Romani le cagioni del condurre le colonie, e dal Sigonio (De antiq. Jur. Ital. Lib. 2. Cap. 2.) a sei si riducono: cioè a tenere in soggezione i popoli vinti, a reprimere le scorrerie dei nemici, a propagare la stirpe Romana, a provvedere la plebe bisognosa, a quietare le sedizioni popolaresche, a premiare i soldati veterani. Ma allor quando si tratta di colonie, le quali furono condotte prima di qualunque altra in una provincia di fresco conquistata, si deggiono in queste riconoscere le cagioni nel primo e nel secondo luogo assegnate, le quali possono ambedue ad una agevolmente ridursi. Ciò con più esempli può di leggieri confermarsi, e parecchi se ne possono vedere nel Sigonio (loc. cit) . Ma senza più la ragione istessa insegna, che uopo è di qualche presidio per mantenere in devozione un popolo recentemente sottomesso. I Romani poi anziché edificar fortezze o presidj costumarono di dedurvi le colonie, siccome notò Appiano (Bell. Civ. lib. I) riferito dal Maffei (Ver. illust. Lib. 2) assicurando in tal modo con popolazioni benevole e interessate i paesi di loro conquista. Era ciò necessario in particolar modo
(p.164) modo di fare nella nazione Picena, essendo questa di una maravigliosa popolazione e assai prode in fatto d’armi, siccome a lor gran costo esperimentato aveano i Romani medesimi. Già poi luogo non è a dubitare che in questa primiera deduzione di colonia scelta far si dovesse di quelle città, le quali per fortezza, per magnificenza, per opportunità di sito sembrassero le più acconcie a sì grand’uopo : Hoc in genere disse Cicerone (Agr. 2. Cap. 27) sicut in caeteris reipublicae partibus, est operae pretium diligentiam Majorum recordari, qui colonias sic idoneis in locis contra suspicionem periculi collocassent, ut non oppida Italiae sed propugnacula Imperii esse viderentur. Così disse della colonia di Narbona nella Gallia (Cic.Pro Fontejo cap. I.): Est Narbo Marcius colonia nostrorum civium, specula populi Romani, ac propugnaculum istis ipsis nationibus oppositum. Fu dunque un raro pregio della nostra città l’essere stata scelta a preferenza delle altre per propugnacolo dell’Impero Romano.
OSSERVAZIONE SUL §. V.
ttima è la ragione che reca il nostro autore rilevando la causa perché seguisse in Fermo la deduzione colonica. Ma questa stessa ragione dimostra che se per tenere in soggezione il popolo Piceno vinto, e sottomesso di fresco fu necessaria la deduzione colonica in Fermo, che venne a formarsi come un propugnacolo della provincia, doveva seguirne altra simile e in Adria e in Castro. Fermo poteva resistere benissimo ad ogni violenza dei popoli confinanti, ma come poi tenere in soggezione i popoli che restavano di là del Truento fino a Pescara? Se fu dunque un sommo accorgimento dei Romani formare una colonia in Fermo per sicurezza delle loro conquiste, eguale fu ancora averle collocate in Adria e in Castro per assicurare in tal maniera tutto il litorale, e tutta la regione.
(p.165) §. VI. Qual fosse il giure della colonia Fermana, e quando acquistasse il diritto del voto.
e condizioni dell’antica nostra colonia furono le più onorevoli, essendo questa stata non militare ma civile, e dedotta per ordine del medesimo senato di Roma, non di consoli, o di altro magistrato; giacché di queste parlò Vellejo. Non è così chiaro se avesse il Jus Latii, o il Jus civium Romanorum, il quale secondo giure era assai del primo più nobile, e più al pubblico e privato esser de’ cittadini vantaggioso. Io congetturo che godesse appunto del secondo, e a così congetturare mi porge ragion grandissima il dotto mons. De Vita (Antiq. Benev. Diss. I. c. 3), poiché tutti gli argomenti, che questi con giudizio sommo produce pel giure di cittadini Romani in favore dei Beneventani, militano anche in favor dei Fermani. Desumonsi questi da Livio, il quale chiama colonie non già Latine ma del popolo Romano quelle trenta, le quali in tempo della seconda guerra Punica erano nel Lazio e nella rimanente Italia stabilite, e col nome di Romani ne appella i cittadini, dalla fedeltà delle ventotto colonie in quelle torbide circostanze della repubblica, la quale non poté altronde procedere se non che da quella somma attenenza, la quale produce la comunicazione di un medesimo diritto: prendesi anche altra ragione da Vellejo, il quale ragionando delle colonie, condotte dopo la presa di Roma fatta dai Galli fino ai Tempi di Silla, dice di essersi per mezzo di queste civitatem ( Romanam )propagatam, auctumque Romanum nomen communione juris. Veggansi questi ed altri argomenti nella citata opera del ch. prelato maestrevolmente trattati, onde con sodo fondamento congetturar possiamo che le colonie di Benevento e Fermo godessero il giure di cittadini Romani. Solo mi sia lecito di aggiugnerne un altro, il quale desumo dall’avere i Romani cambiato il nome alla nostra città nel condurvi che fecero la loro colonia; giacché, come prima di me lo fece il gran Mazzocchi (Tab. Heracl. Pag. 509.), in talibus deductionibus ( Coloniarum Civ. Rom.) facilius nova nomina imponi consuevisse observavi. Benevento fu egualmente soggetto a siffatto cambiamento di nome, essendosi prima appellato Malevento. Il primitivo nome della nostra città più sotto sarà luogo a ricercare.
(p.166) Lunga e intricata quistione sarebbe il ricercare se la nostra colonia avesse fino dalla sua origine il giure de’ suffragj ne’ Romani comizj, o lo acquistasse nell’anno 663 colle altre città Italiane in vigore della celebre legge Giulia. Il Sigonio, il quale lo riconosce in alcune colonie Latine, ma dipendente dalla volontà de’ consoli, e per grazia non per legge, intorno a tutte le altre lasciò scritto (Sigon. Loc. cit. lib. 2. c. 3.). De jure autem suffragiorum ferendorum, aut Magistratuum Romae petendorum, quoniam in hoc vetera prope muta sunt monumenta, facile adducor ut credam nullum Colonis ullis ante legem Juliam patuisse. Ma il dottissimo testé lodato De Vita (Antiq. Benev. Loc. cit.). approfondatosi più a dentro nella materia porta ferma opinione che a tutte le colonie de’ Cittadini Romani non solo fosse conceduto, ma per proprio e natural diritto competesse il diritto de’ voti. Le ragioni, che adduce, mi sembrano convincenti: ma non opis est nostrae tantas componere lites. Io non ho per Fermo alcun argomento speciale, quanto non vogliasi per tale considerare il non essersi Fermo unito alle altre città Picene, anzi colla massima parte dell’Italia nella gran guerra sociale, intrapresa per la repulsa riportata dalla cittadinanza Romana, e possiam dire dal diritto di votare, giacché in questo propriamente consisteva il fondo della cittadinanza.
OSSERVAZIONE SUL §. VI.
Che Fermo avesse il diritto del voto nei Romani comizj io non farei per rivocarlo in dubbio. Lascio in dietro tutte le ragioni che adduce il Sigonio citato dal nostro autore e mi attengo a quella sola di trovare i Fermani non solo alieni dalla guerra mossa dagl’Italiani, e specialmente dai nostri Piceni contro i Romani appunto per avere un tal diritto; ma del partito di questi in guisa che sconfitti nelle vicinanze del nostro fiume Tenna diede loro sicuro asilo dentro la propria Città. Se gl’altri Piceni si mossero a prendere il partito delle armi appunto perché si offesero delle repulse avute nel chiedere questo diritto; molto più se ne sarebbero dovuti offendere i Fermani che più degli altri avevano nelle urgenze sostenuta la repubblica. Ma veggendoli di contrario partito credo per cosa certa esser seguito perché essi appunto già godevano di un tal diritto. Osservo inoltre, che la pretenzione degl’Italiani, e de’ nostri Piceni insieme per avere tal diritto del voto doveva aver avuta origine dal veder appunto altre città Italiche ammesse a tale onore. Poste così in emulazione dovevano vendicare i propri diritti, e non esser tenute da meno delle altre. Ma le altre città ammesse a tal grado di onore quali dovevan essere se non le più benaffette? Fermo non può negarsi che tale non fosse, e perciò doveva Fermo di un tal diritto godere. Su di tal argomento è da sentirsi ciò che farà per dire il sig. archidiacono Erioni e particolarmente nella seconda sua dissertazione, che sarà prodotta in appresso.
(p.167) §. VII. uesta voce territorio è termine agrario, indicante l’intero agro, che spettava ad una città, ed è insieme nome di giurisdizione, la quale dai magistrati della città si esercitava in tutto il divisato tratto di paese, il quale comprendeva pagi, vici, castelli e talvolta anche prefetture coloniche. Soggiogato dai Romani il Piceno, e divenuta agro pubblico del popolo Romano tutta questa assai fruttifera, le nostre città rimasero prive di quel territorio agrario e giurisdizionale, che prima aveano. Per acquistarlo sotto i Romani necessaria era una legge, siccome ha recentemente osservato il ch. Olivieri (Append. Alle mem. Di Novilara pag. III), la quale accordasse a questi luoghi il giure di municipio, ovvero vi si mandasse una colonia. Quando questa spedivasi, allora toglievasi una porzione dell’agro pubblico del popolo Romano, e le si assegnava per proprio territorio: la sua estenzione poi si misurava dal maggior o minor numero dei coloni, e dalla quantità di terreno, che a ciascuno se ne assegnava. Il territorio, dopo essere stato stabilito, veniva circoscritto da mete certe e da certi confini, e distinto con termini, i quali chiamavansi territoriali. Ora queste notizie premesse, dal non essere stato nel Piceno alcun municipio o alcuna colonia anteriore alla Fermana, discende che la nostra città fu la prima ad acquistar proprio territorio sotto i Romani, e che questo per ogni parte confinava coll’agro pubblico. Ma quanto era egli esteso il territorio Fermano? Quali ne erano i confini? Non abbiamo memorie bastanti da poterlo decidere. Frontino (Pag. 122. edit. Goes.) ci lasciò solo notato che i confini del nostro territorio erano come quelli di Foronovo. Di questo poi scrisse: Foronovanus per limites et centurias est assignatus. Termini vero Tiburtini et Augustei, canabulae vel novercae, muri, maceriae, putei. Sed et sacrificales pali affixi sunt, qui distant a se in pedes CCL. et supra usque in pedes CCCC. variis autem locis per instructuras, arcas, rivorum vel fluminum cursus. Sed et juga montium atque supercilia fines servantur. Ma oltreché Frontino, siccome dirò in appresso, parla di tempi posteriori non poco alla prima deduzione della nostra colonia; è una follia il pretendere di rinvenire i luoghi, ne’ quali erano quei descritti termini collocati. Solo sarebbe da valutarsi il corso de’ rivi e de’ fiumi, e le sommità de’ monti: ma da qual banda fossero questi rivi, questi fiumi, e questi monti, chi potrebbe indovinarlo? In questa mancanza di sicuri monumenti, io mi conterrò nella generale notizia che assai esteso esser dovesse il territorio Fermano, per cui provare farò uso di due sode conghietture. Traggo la prima dalla regola già indicata
(p.168) di misurare la estensione degli antichi territorj, vale a dire dal numero dei coloni, e dalla quantità di terreno a ciascuno divisa e assegnata; sebbene a dir vero questa regola non è esattissima, giacché non entravano nella divisione i monti, e il terreno non atto a coltura, e quello che lasciavasi per la conservazione delle strade, de’ fiumi, delle fonti, e de’ termini. Era immune dal ripartimento il terreno destinato pe’ tempj, e altri luoghi religiosi, per l’erario della colonia per gli antichi abitanti, e per altri oggetti. Ma queste eccezioni erano comuni ai territorj di tutte le colonie, e la maggiore o minore quantità del terreno, che non entrava nella divisione, dipendeva solo dalle particolari circostanze del luogo. Già poi quantunque gli antichi autori non ce ne abbiano lasciata distinta memoria, noi abbiamo tutto il fondamento da credere che e moltissimi fossero i coloni a Fermo venuti, e che a ciascuno toccasse una non iscarsa misura di terreno. Quanto al numero dei coloni, noi sappiamo che Fermo fu la prima colonia del Piceno, e nel Piceno condotta per tenere in soggezione un popolo assai numeroso e assai valente nel mestiere delle armi. Chi dunque non vede che ben molti di numero esser dovettero i coloni Romani a Fermo dedotti? In Piacenza, colonia di 46 anni alla Fermana posteriore, ne furono condotti 6000, siccome abbiamo da Asconio (In Pison.) e 27 anni appresso, allor quando la maggior parte dei primi coloni esser dovea in vita, decrevit senatus, come nota il Sigonio (De antiq. Jur. Ital. Lib. 2. c. 5), uti C. Laelius sex millia familiarum conscriberet, quae Placentiae et Cremonae dividerentur. Perché in Piacenza, e lo stesso può dirsi di Cremona un sì gran numero di coloni ? perché erano come due propugnacoli e fortezze contro i Galli, siccome negli autori dal Sigonio citati può osservarsi. Or per la stessa ragione moltissimi esser dovettero di numero i Romani, i quali si recarono in Fermo a stabilirvi la colonia. Aggiungasi che in questa nostra sì estesa provincia Fermo non solo fu la prima colonia, ma per lungo tratto di tempo fu unica. Nell’anno 521, o 522 per la indicata legge Flaminia fu divisa viritim parte dell’agro Piceno, siccome leggesi nel frammento di Catone, e siccome attestano Cicerone e Polibio, ma sine ulla coloniae mentione, vale a dire senza costituire alcun nuovo territorio, come ha scritto l’accuratissimo Olivieri (Appen.cit. pag. 113). In Adria, la qual città rimaneva assai ben lontano da Fermo vi si trova già dedotta nell’anno 545, in Potenza vi si dedusse nel 571, in Osimo nel 597. Or dunque avendo i Romani sì tardi spedite altre colonie nel Piceno, uopo è di credere che già si tenessero sicuri della soggezione di questi popoli per mezzo di un gran numero di coloni collocati in Fermo. Già queste medesime ragioni c’inducono a credere che non fosse a ciascun colono assegnata una scarsa misura di terreno. In Potenza, quando già
(p169) era stata esecuzione data alla legge Flaminia, furono assegnati sei jugeri siccome ne fa fede Livio (Hist. Lib. 39). Né fu già questa una delle assegnazioni maggiori: ma crederemo noi che condotta la colonia in Fermo, allor quando tutto il Piceno era agro pubblico del popolo Romano, si assegnasse meno di sei jugeri a ciascun colono? Pertanto se ogni buona ragione ci persuade che e ben molti di numero furono i coloni venuti in Fermo, e a ciascuno rimanesse assegnata una buona quantità di terreno, già rimane chiaro che assai esteso esser dovette il territorio della colonia Fermana. A provare però siffatta estensione di territorio meglio giova la mia seconda congettura, la quale traggo dalla grande ampiezza della diocesi Fermana. Questa, a vero dire, non congettura ma convincentissima ragione si dee appellare. Scrisse già l’immortal Maffei 181: La più certa e quasi unica scorta per rintracciare l’antica estensione de’ territorj, noi troviamo essere l’osservazione delle diocesi; posciaché la civil giurisdizione a perpetue mutazioni fu sottoposta o per guerre fra’ popoli, o per contratti, o per varii accidenti: ma non così l’ecclesiastiche, le quali persistean sempre, e con tutte le variazioni della podestà secolare religiosamente si mantenevano, ond’è che veggiam sì spesso, diversi essere i confini della giurisdizione de’ vescovi e della temporale. E in appresso chiama egli questa regola una evidente dimostrazione, e di cui cosa non vi ha in tutta l’antichità più manifesta aggiugniamo l’autorità di mons. De Vita (Antiq. Benev. Diss. I. cap. 3). Hac voce territorii olim uti consuevit ecclesia ad designandas, quas nunc greco vocabulo novimus appellari dioceses; ita ut idem territorium quo colonici magistratus jurisdictio significabatur, pro ecclesiastica seu spirituali potestate, quam singuli episcopi intra certos propriae ecclesiae fines habebant, etiam usurpatum legamus. Il dottissimo p. Sarti (De eccl. Eugub. Pag. 84), dopo aver ricercata l’estensione del territorio civile di Gubbio, scrisse: Quod de territorio Eugubino dictum est, de diocesi Eugubina similiter dicendum puto. Ma intorno a questa corrispondenza dei territori colonici colle diocesi ecclesiastiche, leggasi la più volte citata appendice alle mem. di Novil. (Oliv. Appen. Cit. pag. 93. e 94) in cui riportansi anche le osservazioni del Muratori e altra del Maffei. Applichiamo dunque la regola sì giunta e sicura alla ricerca dell’antico nostro territorio. Quanto grande sia l’ampiezza della diocesi Fermana, quanti luoghi e quanto ragguardevoli essa contenga, come superi di molto le altre diocesi della provincia, ella è cosa troppo nota per essere quì da me dichiarata. Adunque tutto questo vastissimo tratto di paese, che ora costituisce la nostra diocesi, costituiva altresì un tempo il territorio Fermano? Non già: avrebbe questo formato il territorio ad una non ristretta provincia, anziché ad una città. Per usare giustamente la divisata regola, converrebbe ricercar la estensione della nostra diocesi nella sua primiera istituzione e negli antichi tempi. Conciosiaché vi ebbero già alcune sedi vescovili
(p.170) in questa parte di paese, ossia nella presente nostra diocesi le quali poi mancarono: tali sono quelle di Potenza, Truento, Falerio, forse di Urbisaglia, di Pausola, città la quale come giustamente inserisce il Lili (Storia di Camerino parte I lib. 3) dalla Tavola Peutingeriana, e dagli antichi ruderi e monumenti, esisté ove ora è Monte dell’Olmo, terra assai cospicua della nostra diocesi, o, a dir più giusto, nel presente territorio, e vicino alla terra di Monte dell’Olmo, ed ove era il castello anche né tempi posteriori chiamato Pausola. Queste città ebbero anche il loro territorio, ossia il loro agro assegnato, siccome consta da Frontino (Pag. 118 edit. Goes.) e cessarono di avere il proprio vescovo verso la fine del VI secolo, siccome hanno osservato il Fontanini (Consult. De eccles. Cingul.) e il Raffaelli (Memorie di S. Esuperanzio lib. I. capitolo I. e lib. 3 cap. 7). Ora le diocesi delle chiese Faleritana; e Pausolana furono senza dubbio incorporate tutte nella Fermana, delle Potentina, e Truentina, se non tutte, almeno una massima parte, e qualche parte ancora se ne dovette aggiungnere della Urbisalviense. Ma notinsi su questo proposito due badiali errori del citato monsig. Fontanini. Il primo è Episcopatus Truentinus ad ecclesiam Ripae Transonis migravit. Il secondo Urbis Salviensis Episcopatus accessit cathedrae Maceratensi. Come può dirsi che il vescovado Truentino passò alla chiesa di Ripatransona, mentre mancò il vescovado Truentino nel VI. secolo, e quello di Ripatransona fu eretto da S. Pio V nell’anno 1571 e dalla Fermana fu presa una buona parte della diocesi per assegnarla alla nuova chiesa, e della diocesi Fermana era pur Ripatransona prima di tal tempo? Non è poi cosa sicura che quel Lampadius Episc. Urbis Albensis, il quale nell’anno 499 intervenne al primo concilio Romano sotto Simmaco Papa (Lab. Tom. 4. pag. 1315) fosse vescovo di Urbisalvia, e che debba leggersi Urbis Salviensis. L’Ughelli (Epis. Antiq.) con qualche ragione lo riferisce ad altra città nomata Alba. Nulla però di meno abbia avuto il proprio vescovo la nostra Urbisalvia, siccome è assai verisimile; non perciò si può a buona equità dire, che ejus Episcopatus accessit cathedrae Maceratensi, giacché Macerata acquistò la cattedra vescovile nell’anno 1320, e per l’innanzi spettava alla diocesi di Camerino e di Fermo. Ma di tutto ciò, che riguarda le antichità della diocesi Fermana, forse mi verrà altra volta più acconcia occasione di favellare. (*Cfr. De Ecclesia Firmna ed. 1783) Per ora solamente, siccome io diceva, si avverta che all’antico territorio Fermano non appartennero almeno per ogni tempo quei tratti di paese, i quali spettavano già alle estinte divisate chiese. Io quì non voglio in alcun modo ricercare gli antichi confini di queste, e forse nol saprei fare a sufficienza pel nostro intento. L’ampiezza della diocesi Fermana doveva esser sempre maggiore delle altre ad essa unite, e più esteso per conseguenza esser
(p.171) doveva il nostro territorio. Io già dissi che non voglio assegnare i precisi confini; pur piacemi d’indicare che dalla parte del mare confinò forse molto tempo dopo la sua prima istituzione il nostro territorio con quello di Cupra marittima, e dalla parte settentrionale con quello di Potenza, per modo che nel nostro rimanessero compresi i due luoghi di Cluana oggi S. Elpidio, e di e di Novana oggi Civita Nova. Forse alcuno si meraviglierà in sentire che questi due antichi luoghi spettassero alla giurisdizione Fermana: ma io sono di opinione che, se questi furon città, assai tardi salissero a tal rango. Certamente in Frontino noi ritroviamo i territori di tutte le antiche città Picene: solo di Cluana e di Novana, né in Frontino, né in altro antico autore ne ho potuto rinvenir memoria. Ora è egli possibile che a’ tempi specialmente di Augusto, allor quando questi, per rimunerare i suoi soldati, fé loro dividere quanto mai vi era di agro pubblico del popolo Romano, e, se questo stato non fosse sufficiente, ordinò che si comperasse anche il privato : Militi veteranoque, quorum opera pax Orbi terrarum et …. ager publicus P.R. dividitor. Quod si is non suffecerit, privati quantum satis erit Curatores coemunto (Goes. Rei agr. Leg. Var. Pag. 35). E’ possibile, dissi, che gli agri di Cluana e di Novana sarebbero stati immuni da tal divisione? Conviene dire pertanto che questi fossero compresi nel territorio Fermano, e già con questo assegnati e divisi, e che i due paesi fossero prefetture della colonia Fermana, e alla giurisdizione di questa soggette, siccome proprio era di simili prefetture.
OSSERVAZIONE SUL §. VII.
n vigore della Legge Flaminia già diviso il nostro agro Piceno non meno che il Gallico, il nostro autore è di parere che per tale divisione non si formassero nuove colonie con i loro propri territori, e in conferma reca il sentimento dell’Olivieri. Vedemmo per altro in una delle dissertazioni preliminari, in cui si trattò di questa legge, che la seguita divisione equivalse alla deduzione di altrettante colonie quante furono le città. Se poi si vuol ammettere ciò che con somma erudizione ed ingegno ha osservato il ch. Rafaelli sopra le espressioni di Frontino troveremo noi facilmente anche l’epoca di queste deduzioni.
(p.172) §. VIII. Memorie del territorio Fermano, le quali si hanno in Frontino.
el libro di Frontino De coloniis abbiamo le tre seguenti memorie del nostro territorio (Front. Pag. 118. ed. Gaes ): Ager Firmo Piceno limitibus III viralibus in centuriis per jugera cc. assignatus (ivi pag. 122) Firmo Picenus. Ager ejus lege III virali in centuriis singulis jugera cc. Finitur sicut ager Foronovanus (ivi pag. 125). Ager Firmanus Triumviralibus limitibus in centuriis per jugera est assignatus. Or che vuole intendersi per questa legge triumvirale e per questi limiti triumvirali? Nulla ne dicono e commentatori Goesio e Rigalzio : io esporrò brevemente il mio parere. Non credo già che in questi tre luoghi di Frontino si contenga l’antica deduzione della nostra colonia, giacché di colonie di tale antichità non suole Frontino averci conservata memoria, e pare che avrebbe dovuta usare ben diversa espressione. Né parmi che Frontino ragioni di una deduzione posteriore, non rintracciandosi questa dalle riferite parole, e non essendovene memoria negli antichi autori, o monumenti. Stimo dunque probabile che quì si parli dei triumviri, i quali in vigore della legge Sempronia misurarono di nuovo i territori, e quei limiti, che in tale occasione furono di nuovo collocati. Dilucidiamo l’istoria, per quanto basta, con ciò specialmente che ce ne dice il più volte ma non mai a sufficienza lodato ch. Olivieri nella illustrazione del marmo XIII de’ Pesaresi, e nella spesso citata appendice, in cui dà la sincerissima copia di quel marmo. Volendo Tiberio Gracco provvedere la plebe bisognosa, condurre nuove colonie, e rimettere in osservanza la legge Licinia, la quale ordinava che nessuno possedesse più di 500 jugeri, promulgavit et aliam legem qua sibi latium agrum patefaceret, ut iidem omnino II Viri judicarent qua publicus ager, qua privatus esset (Epit. Liv. 58). Dovettero i triumviri per tal legge creati prendere nuove misure dei territori, e stabilire qual fosse agro pubblico del popolo Romano, e qual privato delle pertiche coloniche, giacché verisimilmente aveano i coloni trascesi i confini degli agri loro assegnati, e occupava parte del pubblico. Che se questa usurpazione era avvenuta nella maggior parte delle colonie, con maggior ragione doveva essere accaduta nella Fermana, la quale era antichissima
(p.173) ma, e dedotta 133 anni innanzi a tal legge Graccana. Fu dunque per legge dei triumviri chiamati III.Viri A. D. A. I. : agris dandis, adsignandis, judicandis misurato tutto il territorio Fermano, e riconosciuto da ogni banda, giacché per ogni banda confinava coll’agro pubblico, fuorché per avventura a settentrione verso il mare, giacché da questa parte forse era diviso dal potentino; e in questa nuova misura furono posti in opera i limiti triumvirali, siccome Frontino li appella. Finalmente riguardo al territorio Fermano meriterebbe di essere illustrato il rescritto emanato dall’imperatore Domiziano in proposito di una lite dei successivi, la quale verteva fra i Fermani, ed i Faleriesi. E’ riportato anche nella diplomatica del Maffei (Diplom. Lib. I. cap. 22)con alcune osservazioni. Ma questo oltrepassa quei tempi, dei quali ci siam proposti di ragionare; e sarà poi egregiamente illustrato dal dottissimo ab. Antonio Morcelli, dal quale io riconosco i primi affetti e i primi elementi a siffatto genere di studj, in una elaboratissima opera, che in Roma prepara: De stilo Inscriptionum Latinarum, la quale arricchirà il pubblico anche di molte interessanti scoperte antiquarie: onde meglio è di attendere quanto a suo tempo ne sarà egli per dire(* in vol I p.8)
OSSERVAZIONE SUL §. VIII.
Il nostro autore è di parere che, quando dai triumviri ordinati a rimisurare e terminare gl’agri colonici, fu misurato, e terminato l’agro Fermano, questo non avesse altra colonia contermine che la Potentina verso settentrione. Ma, se non si vuol credere tanto antica la colonia di Cupra marittima, dove lasciamo e la Pausolana tra ‘l settentrione e ponente, e a ponente la Faleriese? Su di ciò rimetto i leggitori a quanto sarò per dire nella dissertazione sopra a Falerio inserita in questo tomo, e sopra a Pausola di cui saremo per parlarne nel seguente.
(p.174) §. IX. Annali della colonia Fermana.
e Roma dié a Fermo la preferenza la preferenza di condurvi la prima colonia della provincia, non mancò la nostra città di darle i più sinceri attestati di sua non mai interrotta fedeltà, e del suo più insigne valor guerresco. Non tutte le imprese ci sono giunte a notizia, ne era sperabile che ci giugnessero: ma pure di parecchie ce n’è rimasta memoria negli antichi autori, per modo che non dobbiamo neppure in questo invidiare la sorte della maggior parte delle altre antiche colonie. Io le descriverò brevemente disponendole per seria cronologia. Nell’anno CDLXXXIX. e seguenti, di ciò che operassero i Fermani in occasione della prima guerra Punica nol sappiamo. Ma ben credere dobbiamo, che quanto pochi anni addietro si erano mostrati valorosi ad offesa de’ Romani uniti agli altri Piceni, altrettanto in questa guerra si mostrassero prodi ed impegnati a loro difesa, vedendo la loro patria sollevata a colonia di cittadini Romani, e se militare nelle Romane legioni, laddove i rimanenti Piceni erano ascritti fra gli ausiliari. Nell’anno DXLV, correndo la seconda guerra Punica, Fermo con altre diciassette colonie si mantenne fedele alla repubblica Romana, la quale si ritrovava in estremo pericolo, e le promise quanta soldatesca avesse mai voluta, e che avrebbe con sommo impegno eseguito tutto ciò che piaciuto le fosse di comandare. Livio (Hist. Lib. 27. cap. 12) ci ha conservati i nomi delle diciotto colonie fedeli, e in poche parole tessé loro il più magnifico elogio: Ne nunc quidem post saecula sileantur fraudenturque laude sua: Signi fuere… et Venusini et Hadriani et Firmani et Ariminenses… Harum Coloniarum subsidio tum imperium populi Romani stetit. Nell’anno DXII. guerreggiando contro Antioco re della Siria Manio Acilio Glabrione in qualità di supremo comandante, e di tribuno de’ soldati M. Porzio Catone, i Fermani diedero una rara riprova del loro insigne valore, e dell’attaccamento alla repubblica Romana. Rechiamo le parole di Plutarco: (Vit. Cat. Cens. Herm. Crus. Interpr.) Jam lux apparebat, et unus visus est sibi strepitum exaudire: mox videre sub rupe castra, et stationem Graecorum. Eo loco substinuit Cato agmen, semotisque reliquis, Firmanos, quorum fideli et prompta opera fuerat usus, accersivit;
(p.175) quibus concurrentibus ait: Unum desidero ex hostibus vivum capere, ut quaenam haec statio sit, et quam multi, quae omnium descriptio vel ordo apparatus, quo nos expectant. Ad hoc celeri raptu et audacia mihi opus est; sicuti inermia leones animosi timida petunt animalia. Vix ea dixerat Cato, quum Firmani, sicut convenerant, confestim ruentes decurrunt montibus ad stationes, in quas ex improviso irrumpentes, omnes turbaverunt, dissiparuntque: Unum cum armis raptum Catoni obtulerunt. Nell’anno DLXXXV contribuirono i Fermani alla vittoria che di Perseo re della Macedonia riportò il console Emilio Paolo. Una nostra coorte viene in primo luogo notata da Livio (Histor lib. 44. c. 35) fra le tre che militavano sotto il Legato C. Cluvio: Sub. C. Cluvio Legato tres Cohortes Firmana, Vestina, Cremonensis. Nell’anno DCLXIII essendo nel suo maggior furore la gran guerra sociale, di cui più terribile non sostennero i Romani, la fedele colonia di Fermo fu alla repubblica il vero porto di salute. Non solo la città nostra non si unì colle altre nella gran rivoltura, ma accolse entro le sue mura Pompeo Strabone col suo esercito fuggitivo, ed inseguito dai tre distaccamenti Giudalizio, Afranio, e Ventidio. Lo tennero i nemici per più mesi assediato; ma non mancarono di fedeltà i Fermani in sì torbido tempo, e sì era inespugnabile la città nostra, che non fu a quelli giammai possibile di farne conquista. Giunto finalmente Sulpizio col suo esercito a difesa degli assediati, escirono questi dalle porte della città, attaccarono il nemico, e lo conquisero, siccome fra gli altri narra il tutto Appiano (Bell. Civ. lib. 44. cap. 35). Ciascuno ben vede la gran rovina, la quale sarebbe a Roma sopravenuta, se la nostra colonia, anziché mantenersi fedele, unita si fosse alle altre città ribelli. Io non dubito che i Romani non premiassero un si raro attestato della nostra fedeltà; e sospetto che in questo tempo appunto riportassero i Fermani per senatorio decreto il cospicuo titolo di fratelli dei Romani, del qual titolo ci ha Cicerone (Epist. 8. lib. 4 ad Attic.) serbata memoria : Permulta ad me detulerunt non dubia de Firmanis Fratribus. Ma la fedeltà e il valor nostro legò in modo speciale gli animi di Pompeo Strabone, e del suo figliuolo Pompeo il grande. Narrano Plutarco (Vit. Pomp. Mag.) e Appiano 203 (loc. cit lib.2) che questi avea nel Piceno ampj poderi, e dice Vellejo (lib. 2) che il Piceno totus paternis ejus clientelis refertus erat. Ma queste tenute le avea certamente nel territorio Fermano, come s’inserisce da Cicerone (Philip. 13.), il quale trattando di ciò, che restituir si dovea a Sesto Pompeo figliuolo del grande, dice anche: firmanum a Dolabella recuperabit. Anche di ciò un bel monumento, dirò così parlante, lo abbiamo tuttora
(p.176) dinnanzi agli occhi, poiché valle pompeiana si è sempre denominata, e tuttavia si denomina quella che dalle mura della città si stende fino al mare, ed è allato dell’antica contrada, che univa la nostra città al suo castello. A pié di questa valle, e in piccola distanza dal mare si osservano tuttora quà e là sparsi alcuni ruderi, sicure reliquie di ben antica fabbrica e molti monumenti figurati e scritti si sono in quei contorni ritrovati. Di questo qualunque si fosse vetusto edificio molte cose si sono dette da molti; ma io non sono lontano dal sospettare che in quel sito fosse già fabbricata una villa dallo stesso Pompeo. Abbiamo una costante tradizione che dentro la nostra città, ed ove ora è il convento dei padri Domenicani, vi fosse il palazzo dello stesso Pompeo, del quale tuttora sussistono molte spaziose stanze nei sotterranei del detto convento. Questa popolare tradizione viene anche confermata da molte antiche nostre scritture. Ma a me basta di avere accennata la popolare opinione, non avendo argomenti né da confutarla né da sostenerla. Nell’anno DCLXX andò il nostro Pompeo in età ancor fresca a favore di Silla contro Carbone e Mario e Piceno legionem adducens (loc. cit. lib.1.). Le grandi imprese operate da Pompeo con questa legione e con altre due, che poscia assoldò sono note nella Romana istoria. Nella legione Picena il principal luogo lo ebbero senza fallo i Fermani verificandosi in ispecial modo di Fermo ciò che del Piceno dice Appiano : in qua regione gratiosus erat ob paterni nominis memoriam. I Fermani si distinsero con Pompeo il padre, e sì anche con lui stesso giacché nell’anno DCCIV accesasi la gran guerra fra Pompeo e Cesare, la maggior parte delle città Picene, se non tutte, si gettarono dal partito del secondo, e nulla giovarono al primo le tante clientele e aderenze. Cesare stesso (Com. bell. Civil. Lib.1) narra a disteso i grandi ajuti che riportò dal Piceno per questa sua guerra, e fa special menzione di Ancona, Osimo, Cingoli e Ascoli, e di tutte le prefetture, e pare che se ne rechi vanto. Ma in un sì minuto dettaglio non descrive già Fermo; che se avuto lo avesse dalla sua, dato anzi gli avrebbe il principal luogo fra le altre città; poiché troppo gli tornava contro il mostrare di aver guadagnata questa tanto affezionata al suo nemico. Sappiamo anzi da una lettera di Pompeo a Domizio Proconsole (Post. Epist. 12. lib. 8 Cic. Ad Att.) ch’egli fu a Fermo almen di passaggio: Quod audieris Caesarem Firmo progressum in Castrum Truentinum venisse; Quindi convien dire che Cesare o vi passò senza molestarne i cittadini, i quali troppo ben conoscea essere attaccati alla persona del loro Pompeo, o che, se tentò di assalire la nostra città, ne fosse tosto respinto. Per tanto il silenzio di Cesare sempre più dimostra che i Fermani si tenessero saldi nel partito di Pompeo, ch’era poi
(p.177) quello della più nobil parte della repubblica, e che fedeli si mantennero fra quelle diciannove legioni, le quali nel Piceno ebbe il gran Pompeo (Epist. Cit.). Nell’anno DCCX, ossia nella guerra del senato contro Marco Antonio, i Fermani furono i primi a promettere a quell’augusto consesso il denaro sì necessario in tali circostanze. Dall’esempio forse dei Fermani si mossero poi altri a fare la stessa offerta; ma essi soli meritarono dal principe della Romana eloquenza il bello elogio, che dovessero essere commendati da un senatorio decreto per una tale promessa : laudandi sunt ex hujus ordinis sententia Firmani, qui principes pecuniae pollicendae fuerunt. (Cic. Philip. 7) Avea Cicerone, giacché ci è avvenuto di riferire questo suo elogio dei Fermani, stretta amicizia con un nostro assai virtuoso cittadino, nomato Lucio Tarunzio L. Taruntius Firmanus familiaris noster. Era questi valentissimo nelle scienze filosofiche, ma imprimis Caldaicis rationibus eruditus, siccome Cicerone stesso se n’esprime (Cic. Divin. Lib. 2) e da Solino (Cap. 2) fu chiamato Mathematicorum nobilissimus. Per impulso di Varrone altro suo amico con sommo studio ricercò e stimò di aver ritrovato l’anno il mese il giorno e per fino l’ora della nascita e del concepimento di Romolo, e poi anche della fondazione di Roma (Plut. Vit. Romul.). Sarebbe stato desiderabile che questo letteratissimo nostro cittadino non a quella vana e insussistente, sebbene a quei tempi assai apprezzata, ma ad altra più nobile ed utile scienza rivolto avesse i suoi studj, e per tal modo avesse un maggior lustro alla sua patria arrecato. Qui abbian fine le mie ricerche, e memorie della colonia Fermana, giacché qui ci abbandonano i tempi di Roma libera, i quali ci siam proposti di non oltrepassare. Ma ciò che abbiam posto in nota credo esser sufficiente a formare una giusta idea di quella nobiltà, e di quello splendore, ch’ebbe la nostra città sotto la repubblica Romana.
SUL §. IX. OSSERVAZIONE I.
Ra familiar cosa dei senatori e cavalieri Romani aver molti predj, ville, e delizie nelle città provinciali dell’Italia. Appena si sottometteva una nazione era costume di privare le città d’una parte di territorio. Sull’esempio appreso da Romolo da principio vi si conducevan colonie. Ma introdotto il lusso, e la mollezza, la prepotenza, e la forza ne’ cittadini, i campi che si sarebbono dovuti destinare al ripartimento
(p.178) de’ cittadini bisognosi, e della plebe, si cominciarono ad usurpare dai Romani patrizj. Ecco gl’ostacoli alle leggi agrarie prodotte dai tribuni; ecco i clamori, e gli ammutinamenti della plebe che gli esigeva. Successero alle civili deduzionj nelle loro possidenze. Non avvezzi i soldati alla marra, né ad incallir sull’aratro, e mal soffrendo le fatiche della vita oscura e campestre, il sudar sulle glebe, il mangiar parco cedevano ai ricchi o per poco o per nulla le terre assegnate, e questi accrescevano assaissimo i loro fondi. Sopraggiunsero finalmente le leggi di Trajano, e di M. Aurelio, i quali per affezionare i Romani all’Italia, e rifrequentarla di popolo ordinò che tutti i senatori avessero nell’Italia i loro poderi. Tanto bastò per aumentare a dismisura i loro poderi con indicibil danno per l’agricoltura; come osserva il ch. sig. Francesco Mencotti nella sua dottissima dissertazione sul commercio degli antichi Romani meritamente coronata dall’imparziale accademia di Francia. Non sarà perciò meraviglia il sentire che Pompeo avesse dei grandi predj nel Piceno, e specialmente in Fermo, dove non è da dubitare che avesse ancora la sua magnifica villa nella contrada che tuttora si chiama villa Pompejana; nome conservatosi anche tralle barbarie dei secoli in quella purità che corrisponde al latino Valles Pompeiana cioè valle di Pompeo. In essa valle contigua alla città verso marina per andare a S. Maria a mare si osservan tuttavia di ruderi di quella antica fabbrica, e si vien rinvenendo delle anticaglie. Se ivi coi poderi su anche la villa sarebbe restata lungo la via consolare che da Fermo conduceva al navale.
OSSERVAZIONE II.
uando narra il nostro autore che Pompeo in età ancor fresca andò a favore di Silla contro Carbone e Mario si condusse seco una legione dal Piceno, come dice Appiano; crede che in questa legione il principal luogo l’avessero i Fermani. Ma sempre con buona pace dell’erudito scrittore, io osservo che non si può questo asserire senza mostrare un qualche spirito di patriottismo, alieno invece dal nostro autore e senza fare un torto alle altre città del Piceno. Direi piuttosto che i Fermani vi militassero indistintamente cogl’altri Piceni, e che tutti insieme operassero con gran valore e a favore della repubblica, e del comandante Pompeo; tanto più che allora ascritte tutte le città dell’Italia al diritto del voto in forza della legge Giulia non i soli Fermani ma tutti di tutte le città militavano nelle legioni.
(p.179) PARTE QUARTA Dello stato di Fermo sotto diversi popoli, e della sua origine
Ssai poche di numero sono quelle città, delle quali ritroviamo negli autori consegnata la epoca della loro origine, ed il nome dell’eroe, o della nazione, dalla quale furono fondate; anzi di alcune sarebbe a ricercare, quali sicuri monumenti quelli avessero nel tramandarci l’una o l’altra o ambedue le notizie. Nulla noi abbiamo di Fermo, e credo inutil cosa il riferire ciocché hanno i maggiori nostri opinato, essendo tutto insussistente; né però dee dirsi che inutil sarà ancora per esser o affatto vana la nostra ricerca. Alla mancanza di prova diretta supplir deggiono le congetture, e quando queste sieno ben fondate e sostenute da quella critica antiquaria tanto a dì nostri perfezionata, s’intendono equivalere ad una piena prova. Di questa medesima regola farò io uso nel rintracciare la origine della mia patria in questa ultima parte, nella quale mi sia lecito, siccome ho fatto nelle altre, di uscire in alcune digressioni secondo che porterà il discorso.
§. I. Fermo sotto i Romani.
er rintracciare al meglio che si può nella total penuria di monumenti le origini della città, metodo migliore non vi ha di quello, che adoperò il ch. Olivieri nella sua tanto celebre dissert. della fondaz. di Pesaro: cioè di incominciar la ricerca a rovescio. Adunque noi ancora facendo uso di questo metodo riandremo con passo retrogrado rintracciando quei popoli, i quali soggiornarono in Fermo, e in quello ci fermeremo, cui il lume di sode congetture ci farà scorgere che non avesse alcuno a sé anteriore in tal soggiorno, e che fosse il fondatore della nostra città. Già poi prima di qualunque altro popolo ci si rappresenta il Romano, il quale fin dall’anno 484. s’impadronì del Piceno, e cinque anni appresso condusse colonia
(p.180) in Fermo. In qual conto i Romani tenessero la nostra città a preferenza delle altre picene, già si è per noi osservato: quì conviene soltanto riflettere che nell’anno 489 Fermo era già fabbricato. I Romani degli antichi tempi, siccome scrisse l’Olivieri (Oliv. Dissert. Della fondazione di Pesaro) conducendo per l’Italia le colonie non fondavano città, ma quelle in città vinte e soggiogate collocavano. In tale anno però Fermo non solo già esisteva, ma era una città assai grande, magnifica, ricca e può dirsi che era la principale di tutta la provincia sì estesa. Questa mia seconda assertiva è sostenuta da quanto abbiamo già provato nella terza parte; onde uopo non è di quì ripeterne gli argomenti. I Romani quà venuti si dierono a fortificare la città, cingendola con muraglie lavorate di grosse pietre, le quali con grande spesa fecero venir da lontano paese, fabbricarono la rocca, e il campidoglio, ed altri pubblici edifizi. Non minor cura si saranno presa del vicino navale, col farvi i monumenti necessari per assicurarsi un sì gran vantaggio. A dir breve presero tutti quei provvedimenti, i quali potevano accrescere ornamento e fortezza alla prima colonia del Piceno, ch’è quanto dire ad una piccola e novella Roma.
§. II. Fermo sotto i Piceni.
nteriori ai Romani nel dominio della nostra città furono i Piceni. Non parlerò io già del suo stato politico sotto questa nazione; dacché non è sperabile di ritrovare notizia negli antichi scrittori, e non è poi richiesto all’istituto del nostro ragionare. Credo che a quella stagione tutte le nostre città godessero piena libertà, unite fra loro con qualche sorta di alleanza, onde negli affari più urgenti della nazione spedissero tutti i loro legati alle assemblee provinciali. A mio giudizio non vi furono i re del Piceno, giacché qualche memoria ne sarebbe rimasta negli antichi autori, allor quando hanno favellato della confederazione, e delle guerre che i Piceni ebbero coi Romani. Quindi anche per questa ragione io credo insussistente ciocché nelle prime parole della Reggia Picena scrisse il Compagnoni : la regione dapprima ebbe i re; e del supposto re Esi, che porta l’autore, veggasi quanto io osservai nella mia dissertazione. (Dissertazione della origine dei Piceni riprodotta nel primo tomo §. 4). Ma quì, come diceva, a me solo si appartiene il ricercare se dai Piceni può a Fermo essere derivata la origine. Io provai già (Dissertazione citata §. 25.) che questo popolo partì dal contado
(p.181) dei Sabini, e venne a popolare le nostre contrade circa i tempi della fondazione di Roma. Vero è che il ch. Monsig. Guarnacci nelle sue Origini Italiche (Tom. 3. Cap. 8. lib. 8) il quale, quando scrissi, non ancora io avea fralle mani, dice che i Piceni cadono necessariamente prima di Deucalione, (op. cit. cap. 10) che li troviamo ne’ vecchi autori essere stati nell’inclinare nella fine del secolo di Saturno, o che al più hanno toccato il detto aureo secolo ma cadente. Ma in una voluminosa opera, in cui non poteva di ciascuno de’ tanti popoli ricercare esattamente l’epoca, non è meraviglia se gli uscì di penna siffatto errore, e fra le molte nazioni gli paresse di aver ritrovata ne’ vecchj autori anche la Picena prima di Deucalione, o sulla fine del secolo di Saturno, quando veramente non è sperabile il rinvenirla. Io non so dipartirmi da quanto allora stabilj, e credo che meco converrà chiunque porrà mente alle più antiche memorie dei Piceni, alla vera epoca dei Sabini nostri padri, e alle altre ragioni, che con sommo studio adunai. Or ciò posto dall’arrivo dei Piceni fino al dominio Romano abbiam noi un lasso di circa cinque secoli e mezzo, nel quale poté Fermo esser dai Piceni fabbricato. Siccome poi le città non vengono e grandi e ricche e potenti in un tratto, ma anzi collo spazio di lunghissimo tempo, così ogni ragion vuole il credere che una delle principali città dai Piceni tosto fondate sia stata questa di Fermo. Si aggiunga che la opportunità del sito, in cui e fondata, è stata sempre la stessa, onde i Sabino Piceni l’avrebbero tosto adocchiata e scelta per l’edifizio di una nobil città. Questo è un giusto raziocinio, che far si può da chiunque vuole riconoscere Fermo di origine Picena, cui non veggo che cosa opporre si possa, dal quale anche per giusta illazione discende che Fermo nella sua origine è a Roma coetaneo, o non molto posteriore. Noi Fermani paghi esser possiamo di questa epoca a sì sode congetture, e direi quasi ragioni appoggiata. Ma pure non è ella una temerità, se noi più in alto risalendo investighiamo, se anche prima dei Piceni verisimilmente Fermo esistesse: giacché è follia il persuadersi che prima dei Piceni in sì estesa provincia non vi fosse qualche paese di già fabbricato. Non sappiamo è vero qual popolo determinatamente dominasse prima dei Piceni in queste contrade, ma che parecchi ve ne furono, già io lo provai con irrefragabili antiche autorità nella citata mia dissertazione (Dissert. Cit. §§. 17. e 18). Stolta cosa è poi il credere che gli antichi abitatori sloggiando da un tratto di paese atterrassero pria le città da loro fondate senza lasciarne avanzo al popolo, dal quale o erano violentemente via cacciati, o con cui pacificamente insieme univansi, o cui infine libero lasciavano il dominio della provincia: anzi in nessuno di questi tre casi, l’un dei quali dovea necessariamente seguire, era lecito il farlo, quando anche si fosse voluto. Quindi ci è noto da Plinio che Ancona e Numana città poi Picene erano già state fabbricate dai Siculi, Truento dai Liburni: Adria prima di esser
(p.182) picena era già stata città Greca, siccome può vedersi nel Maffei (Osserv. Lett. Tom. 5. pag. 381) e nel Mazzocchi (Tab. Heracl. Pag. 532) il quale una greca medaglia di questa città produce ed illustra. Quanto è verisimile, che i Piceni come Adria e Truento, così ritrovassero fabbricato anche Fermo, il quale al pari di quelle due ebbe già il suo navale? Risaliamo dunque anche sopra i Piceni, e consideriamo
OSSERVAZIONE SUL §. II.
empre converrei col nostro autore limitandomi a ripetere la origine di Fermo dai Sabini. Sono plausibili le ragioni che adduce, credendo che fosse una delle prime, fabbricata dopo venuti quì nella provincia. Aggiungerei quella del viaggio che fecero nel venire, quasi disegnando il corso della via Salaria. Da Ascoli calarono alla marina. Ivi trovato Truento, s’istradarono verso di noi; e al più si saran potuti fermare verso Cupra. Di là costeggiando il litorale altra città non troviamo fuori che Fermo, né sito più acconcio all’uopo loro. Finalmente il vedere la città situata sulle vette di una collina, per quasi tre miglia discosta dal mare dà a sospettare che i fondatori non furono di quelli che fabbricarono e Ancona, e Numana, e Pesaro, e Rimino città poste sulle spiagge marittime, ma d’altro genere, che amava di abitar le colline, e godere insieme l’amenità della marina, come furono appunto i Sabini.
§. III. Fermo sotto gli Umbri e i Liburni.
li Umbri e i Liburni precederono senza fallo i Piceni nel dominio di tutta, o più verisimilmente di una porzione della nostra provincia, secondo quello che provai nella mia dissertazione (Dissertazione citata § 17 e 18 cit.). Ma dai Liburni facil cosa è il dimostrare che non poté esser fondato Fermo coll’autorità di Plinio (Histor. Nat. lib. 3. cap. 13), mentre ai tempi di Augusto, de’ quali quegli scriveva, la sola città di Truento era rimasta in tutta Italia fra le fabbricate da questo popolo: Truentum cum amne, quod solum Liburnorum in Italia reliquum est. A stabilire che Fermo sia opera degli Umbri, di qual fondamento mai o congettura si può far uso? Di nessuno affatto. Che questi abbiano posseduto il Piceno, solo alcune probabilità ce lo persuadono: ma di autorità precisa
(p.183) altra non abbiamo da quella di Scilace Cariadense in fuori, che già difesi: Post Daunitas Umbrorum gens sequitur, et in ea civitas Ancon. A mal partito si ritroverebbe chi stabilir volesse edificata dagli Umbri alcuna città Picena. Ma cresce la difficoltà se trattisi di una città marittima, quale poteva a ragione chiamarsi la nostra. Si nomina è vero da Scilace Ancona come posseduta dagli Umbri, ma non già come dagli Umbri edificata; e Ancona riconosceva già la sua origine dai Siculi, siccome Plinio ci attesta. Gli Umbri sempre amarono piuttosto di fortificarsi verso la montagna, e nei luoghi dal mare lontani, anziché presso la riviera. Veggasi quanto su questo proposito notò l’Olivieri nella citata sua dissertazione (pag. 11). Nei Liburni dunque e negli Umbri non possiamo in alcun modo riconoscere la origine di Fermo.
§. IV. Fermo sotto i Siculi.
Situazione degli agri Adriano, Pretuziano, Palmense posseduti dai Siculi; e origine della loro
denominazione. eggiamo se Fermo esisteva al tempo dei Siculi, e se dai Siculi può riconoscere la sua origine. Furono questi gli abitatori del Piceno più antichi: dissi più antichi, giacché appena forse alcun popolo in Italia vi ebbe, il quale il Siculo in antichità pareggi. La dimora dei Siculi nel Piceno resta da due autorità grandissime di Plinio, seguito da tutti i recenti scrittori, e da altre ragioni comprovata, siccome già dimostrai nella mia dissertazione (dal §. 27 al 29). Or sia bene di riscontrare qual tratto del Piceno possedessero i Siculi, giacché Plinio è stato tanto cortese di tramandarci questa notizia ancora, e di vedere se Fermo vi abbia il suo luogo : Siculi et Liburni plurima ejus tractus (Agri Gallici) tenuere : imprimis Palmensem Praetutianum Hadrianumque Agrum. La notizia di questi tre territori costituisce una parte di corografia del Piceno assai interessante, trattandosi di una divisione antichissima, e anteriore
(p. 184) al dominio dei Romani, e al contrario da nessuno è stata posta in una sufficiente chiarezza. Per assegnare i confini di ciascuno dei tre territori, l’unica luce si ha da Plinio (Loc. cit.) e questa un po’ confusa : Picentes tenuere ab Aterno amne ubi nunc ager Hadrianus, et Adria colonia …. flumen Vomanum, ager Praetutianus, Palmensisque. Item Castrum Novun, flumen Batinum, Truentum cum amne …. Flumina albulates, Suinum, Helvinum, quo finitur Praetutiana regio, et Picentium incipit. Cupra oppidum, Castellum Firmanorum, et super id colonia Asculum etc… Il Cluverio, e dietro di lui il Signor Durandi (Sagg. Stor. Pag. 35) pretendono che dall’antico Matrino, oggi Piomba, fino all’altro fiume Vomano oggi corrottamente chiamato Umana si stendesse l’agro Adriano: dal Vomano all’Elvino, ch’è per lui il Salinello d’oggi, il Pretuziano. Ma non so se abbiamo mirato diritto. Certamente il Beretti nella nota tavola corografica, il Muratori nella sua inserita nel Tomo I. (Script. Rer. Ital.) e il Mazzocchi in quella, che dié fuori nella parte prima delle sue tavole Eraclesi, estendono l’agro Pretuziano a più ampi confini verso settentrione. Tutti riconoscono per confine l’Elvino, ma nessuno lo colloca nel presente Salinello. Il primo lo pone fra il castello Fermano e il Tronto, il secondo ed il terzo fra il detto castello e Cupra marittima, talmente che questi tre scrittori hanno riconosciuta una maggior estensione nell’agro Pretuziano. Veramente gli antichi autori hanno più spesso fatta menzione di questo agro Pretuziano, e pare secondo questi che aver dovesse più ampi confini, che non sono quelli dal Cluverio assegnati.
Ma il Cluverio dié quella decisione appoggiandosi ad un’autorità di Tolomeo, la quale vedremo essere di nessun peso: e dove più sotto ragiona dell’agro Palmense con alquanto di incoerenza stabilisce per confine fra i due agri il fiume Tronto: qua ratione Truentus fluvius terminus videtur inter utrosque (agros) extitisse, e nell’agro Pretuziano riconosce la città di Castro Novo, onde se si fosse guardato dall’autorità di Tolomeo, avrebbe costantemente senza fallo protratto anch’egli il confine a settentrione dell’agro Pretuziano, o non avrebbe riconosciuto l’Elvino nel Salinello d’oggi. Riferite le altrui opinioni è da venire alla nostra. Dico dunque che il confine dell’agro Pretuziano fu veramente l’Elvino, siccome chiaramente consta da Plinio : Helvinum, quo finitur Praetutiana regio. Questo Elvino dovea giacere fra Cupra marittima e il Tronto, dicendo Plinio stesso: Flumina Albulates, Suinum, Helvinum, quo finitur Praetutiana regio, et Picenum incipit: Cupra oppidum, castellum Firmanorum etc… Dico ultimamente che questo ricercato confine ossia l’antico Elvino dobbiamo riconoscerlo nel fiume di oggi chiamato Tesino; il quale è distante da Cupra marittima circa IV miglia verso la parte del Tronto. Altro fiume di considerazione non vi è da Cupra al Tronto; e il presente nome
(p.185) non varia moltissimo dall’antico specialmente se si riceva la lezione del mss. di Plinio della biblioteca Riccardi di Firenze, nel quale si ha: Flumen Albula Tervinum; onde possiamo esser sicuri che fino a questo fiume giugnesse l’assai esteso agro Pretuziano, e che d’indi cominciasse il Palmense. Or da che fonte derivò la denominazione a questi tre agri? Da tre città, secondo che io stimo, le quali fossero le principali in quei tempi remotissimi, e che mi sia lecito di chiamar le metropoli. Né tempi di sì remota antichità, de’ quali trattiamo, non era certamente la Italia sì popolata di paesi, come lo fu poi ne’ meno antichi, ne’ secoli Romani, e come lo è specialmente ne’ nostri. Una sola città avea amplissimo territorio, nel quale poi, venuta più numerosa nazione, sorsero più paesi. Ora in questi nostri tre agri del Piceno io stimo che da nazione antichissima fondate fossero tre principali città, o vogliam dire metropoli, dalle quali derivò il nome ai tre tratti di paese. Una buona ragione di questa mia congettura noi l’abbiamo nell’antichissima città di Adria, la quale è troppo chiaro che dié il nome all’agro Adriano. Lo stesso dee essere addivenuto degli altri due agri Pretuziano e Palmense: ma col lasso di lunghissimo tempo si estinsero forse le altre due metropoli, e tuttavia rimase il nome dell’agro. Così è accaduto nei tempi posteriori; e per non uscir di casa, come suol dirsi, nel nostro antico statuto contasi ben ottanta castelli dello stato Fermano: molti di questi son poi periti, ma sempre è continuato e continua tuttora il loro nome nel territorio, il quale spettava all’estinto castello. Ma più verisimilmente le metropoli dei due agri forse non perirono: solo fu cambiato il loro nome, ciocché ai tempi specialmente dei Romani facil cosa era ad accadere; e tuttavia durò l’antico nome derivativo nei due antichissimi agri, siccome accade fra noi ne’ territorj de’ nostri castelli, benché stati soggetti ad una tale estinzione, ma non già ad una semplice mutazione di nome. Queste denominazioni dipendono dal libero arbitrio del popolo, il quale suole essere tenace delle antiche, e male si assuefà alle nuove. Veduta la situazione, e la origine dei tre agri, pria di ritornare al nostro proposito, convien intorno a questi stabilire che
(p.186=88) §. V. i tre agri sono sempre stati nel Piceno compresi. Del suo confine a mezzo dì. Questa mia proposizione va a ferire il Cluverio, il quale scrisse: Loca, quae trans Helvinum ad Matrinum usque flumen sub Romanis equidem imperatoribus Piceno adtributa fuerunt, ut ex Strabonis maxime patuit geographia, ante vero tenuerunt populi a Picenis plane alieni, quorum alteri appellantur Praetuti i, et regio Praetutianus Ager, alteri Hadriani ab Hadria, et regio Hadrianus Ager. Con picciola variazione ne parla il Cellario: Si autem laxe Picenum accipiatur, Praetutianum et Hadrianum agros eo vocabulo complecti Plinius testatur. L’autorità del Cluverio può ad alcuno imporre e ha di fatto imposto a moltissimi; onde sia bene di confermare l’ampiezza della nostra provincia, e mostrare come il termine del Piceno a mezzodì almeno giugneva fino al Matrino anche prima degli imperatori Romani. Quali sono le ragioni che per la sua sentenza adduce il ch. geografo? Praetutios fuisse gentem a Picentibus alienam constat etiam ex aliis auctoritatibus : Livius lib. 22. Hannibal usque ad Spoletum venit, inde in agrum Picenum avertit iter. Mox .Ubi satis quieti datum profectus Praetutianum Hadrianumque agrum, Marsos inde Marrucinosque etc. = et lib. 27. Praemissi per agrum Lavinatem Marruccinum Frentanum Praetutianum, qua exercitum ducturus erat =. Et Silius lib. XV. Tum qua vitiferos domita : Praetutia pubes Laeta laboris agros. … Cujus generis fuerint difficile dictu est… Ptolomaeus Beretram et Interemniam, quarum haec etiam nunc est, Praetutiis tribuit. Or quanto ai due testimonj di Livio chi non vede che in questi nominansi è vero oltre il Piceno gli agri Pretuziano e Adriano, ma non già i popoli Pretutj e Adriani ? e molto meno si ha che questi non fossero Piceni. La ragione poi, per cui Livio fece special memoria di questi due agri sì è, perché essendo la nostra provincia per lunghezza assaissimo estesa, a meglio individuare il viaggio di Annibale, volle far’ espressa menzione di questi due agri, distinguendoli come parte del tutto, e altra special ragione la vedremo più appresso. Né poi sempre
(p.187) per la voce ager indica una special provincia: Frontino la usò a significare il territorio di una città; e in Livio medesimo quante volte si trova usata nello stesso significato? Or non sarebbe follia intenderla sempre per provincia, e in tal modo collocar molte provincie in mezzo ad una sola? Nel caso nostro però è destinata la voce ager ad indicare non il territorio di una città, o provincia, ma di una gran contrada, o vogliam dire gran tratto di paese, che riteneva ancora questa antichissima denominazione. Silio nomina veramente la gioventù pretuzia: ma Silio è poeta; onde su questo particolare non possiam far tanto conto della sua autorità. Ed io stimo che per pubes Praetutia intendess’egli la gioventù dell’agro Pretuziano; ciocché invero ad un poeta era cosa lecitissima. Ma che Silio non riconoscesse questa provincia Pretuziana, e questo popolo Pretuzio come provincia e popolo dal Piceno distinto, mi si fa chiaro da ciò, ch’egli stesso (Silius Ital. Lib. 2) riconosce nel nostro Piceno il fiume Vomano e la città di Adria. Veniamo a Tolomeo: nomina è vero questi le città de’ Pretuzj che sono più orientali de’ Marsi, e ai Pretuzj ne assegna due , le quali sono Beretra e Interemnia. Ma Tolomeo ci si mostra poco informato di questi paesi; mentre più città supposte Pretuziane dovea egli noverare: anzi delle due togliere si deve ad ogni patto la prima cioè Beretra; sicché ad una intera nazione rimane una sola città.Saviamente di Beretra dice il Cluverio: Situs oppidi incertas est; e meglio poi riflette: Si ulla Ptolomeo fides. Io dico nel nostro caso: Ptolomeo nulla fides, ed ha questo geografo trasportato nel territorio Pretuziano questa Beretra, cui anche il Cluverio corregge in Beregra, la quale per attestato di Plinio fu in assai rimota parte del Piceno, e verisimilmente presso alle terre di Montefano e di Montefilatrano, siccome coll’ajuto ancora di una iscrizione prova il canonico Turchi (De ecc. Camerin. Diss. Praelim.). Tutti gli antichi e moderni hanno riconosciuta una sola città, e in questi contorni di sito. Ma convinciamo Tolomeo con Tolomeo medesimo. Se stata vi fosse questa nazione Pretuziana dalla Picena distinta, certamente e anche con più ragione dovea essere distinta anche l’Adriana, la quale confinava a settentrione colla Pretuziana, e più che questa era dal Piceno distante. Ma Tolomeo stesso, e Silio, e tutti gli antichi geografi e autori pongono costantemente Adria per città Picena; dunque anche Interamnia era città Picena, e città Picene erano le altre di quell’agro, ed i Pretuziani non erano popoli dai Piceni diversi. Tolgansi dunque nella geografia di Tolomeo queste città de’ Pretuzii; e le due Interamnia e Beregra pongansi ai loro siti fralle Picene; tanto più che altre ragioni ci persuadono la insussistenza di questi Pretuziani e Adriani. Conciosiaché chi mai nella storia Romana ha letta di questi novella? Quando mai ebbero guerra coi Romani? Qual consolo li debellò? Fin quì contra l’opinione del Cluverio, dal quale furono molti tratti in errore.
(p.188) Ma qualcuno si è avvisato di ritrovare i Pretuziani anche in Cicerone (Pro Cael. C. 2): Nemini unquam praesenti Praetutiani majores honores habuerunt, quam absenti M. Caelio. Ma i Pretuziani o fossero Piceni o nol fossero, nulla vi hanno a che fare, e qualunque sia la lezione genuina della parola, o Praetori o Praetoriani o piuttosto Puteolani o altra, quella supposta di Praetutiani non può in conto alcuno ritenersi, ed è contra tutte l’edizioni, e Mss, come può chiunque osservare in Lambino ed in Grutero. Si osservi ultimamente che, quantunque vi fossero stati questi Pretuzii cinti per ogni banda dai Piceni, mal però s’inserisce ch’essi ancora non fossero Piceni, non essendo nuova cosa che gli abitatori di un tratto di provincia assumessero talora un, direi quasi, loro cognome. Così gl’Irpini erano Sanniti per attestato di Strabone, e per dirlo col chiaro Giovenazzi (Dssert. D’Aveja pag. 51) non distinguevasi dai Sanniti altrimenti, che come una specie si distingue dal suo genere, o come dal tutto fa una parte. Diamo infine autorità convincenti, le quali ci mostrino che anche prima degl’imperatori erano dai Piceni posseduti i due nominati agri. Lasciamo Paolo Diacono, il quale (Lib. 2 cap. 19) scrisse della nostra provincia : Haec usque ad fluvium Pescariam pertendit, in qua sunt civitates Firmum Asculum Pinnae … Adeia. Lasciamo Mela, il quale nel Piceno ripone Fermo, Truento, Adria. Forse queste due autorità sarebbero dal Cluverio rigettate. Ma è troppo chiara la espressione di Plinio, il quale ci volle dare lo stato d’Italia secondo la descrizione fattane da Augusto : Picentes tenuere ab Aterno (Pescara) amne ubi nunc Ager Hadrianus Praetutianus Palmensisque. Or se i Piceni dominarono (tenuere e non già tenent) fin dall’Aterno anche prima di Augusto, e dove erano i tre agri, con qual ragione può dirsi che i luoghi giacenti fra l’Elvino e il Matrino, ossiano gli agri Adriano e Pretuziano furono dagl’imperatori al Piceno assegnati, e prima li nominavano popoli a Picenis Plane alieni? Né credo io già che Strabone (libro V) il quale fiorì sotto Augusto ci volesse descrivere il Piceno secondo lo stato in cui poi lo posero gl’imperatori : Longitudo Piceni ab Aesi amne usque ad Castrum juxta litus stadia colligit DCCC Graeca est urbs Ancon … supra mare Auximum … mox Septempeda etc… Firmum Picenum ejusque navale castellum; dein Cuprae Fanum … tum Truentum fluvius; ejusdemque nominis Oppidum; inde Castrum Novum et Matrinus amnis … intus est ipsa Hadria et Asculum … ultra o supra Picenum sunt Vestini, Marsi etc… E poco appresso : In litore est Aternum Piceno conterminum. A queste belle autorità si aggiungano due congetture trattate da questi due principi dell’antica geografia. I Piceni a detta di Strabone 235 incolunt regionem in longum quam in latum porrectiorem; e a detta di
(p.189) Plinio (lo. Cit.): Regio Piceni quondam (cioè in tempi di Augusto assai anteriori) uberrimae multitudinis CCCLX millia Picentium in fidem populi Romani venerunt. Or se dei Piceni non fossero anche stati in ogni tempo i due territori Pretuziano e Palmense, va da se che non sapremmo rinvenire questa regione assai più per lunghezza estesa che per larghezza, e molto più ci troveremmo imbarazzati a dovere in sì ristretto paese ripiegare un popolo di sì meravigliosa popolazione. Per compimento di questo trattato ricercar si dovrebbe se il Matrino veramente o piuttosto l’Aterno sia stato il confine meridionale della nostra provincia, oppure lo sia stato e l’uno e l’altro fiume ma in tempo diverso e successivo. Ma ora ciò a me non monta, ed assai è per me che almeno il Matrino sia stato il confine, e che fisso rimanga essere stati nel Piceno compresi i nominati territori. Or dopo queste due lunghe digressioni, le quali non ci hanno veramente trasportati via dal sentiero, ma ce lo hanno anzi agevolato, tempo è di osservare che
§. VI. Fermo rimaneva antichissimamente situato nell’agro Palmense.
Molto si è per noi ragionato dei due agri Adriano e Pretuziano e nulla del Palmense; eppure in grazia di questo ultimo si sono intraprese le ricerche dei due primi. Già per le cose dette appare manifesto che questo agro Palmense fu sempre compreso nel Piceno, e dai Piceni abitato. Ciò veramente appena ci era mestiere di avvertire, poiché nessuno ne ha giammai dubitato; ma ne avrei dubitato ben io, veggendo ch’esser non si dee veruna special ragione per questo terzo agro. E’ certo altresì da Plinio, e dal Cluverio, e da tutti i recenti scrittori che questo agro Palmense confinava a mezzodì col Pretuziano: ma per le cose vedute è certo ancora che il preciso confine fu nel fiume Tervino o Elvino, oggi Tesino poche miglia di là da Cupra e che d’indi procedendo verso la spiaggia marittima stendevasi verso il settentrione. Per tutte queste ben comprovate notizie discende che Fermo, il quale era circa dodici miglia distante da Cupra, antichissimamente rimaneva situato in detto agro, anzi forse nel più bel mezzo dell’agro. Ma per collocar Fermo in detto agro si aggiunge una forte congettura, la quale fu anche dal diligente Cluverio avvertita. Avendo anch’egli riconosciuto l’agro Palmense in queste nostre contrade soggiugne : Quousque
(p.190) autem in litore extensus fuerit, incertum est … Specula maritima in litore Firmano hodie vocatur Torre di Palma, quae an priscam Palmensis agri memoriam servet, haud facile divinarim … Apud Plinium Lib. XIV Cap. 6. legitur : “Ex reliquis vinis a supero mari Praetutia, et Ancone nascentia, et quae a Palma una sorte enata Palmensia minime dubito: nisi sorte a graeco aliquo auctore, qui graeca formula palmension appellavit vinum, haec sumpsisse Plinium suspiceris. Quod si caeterorum verborum satis certa veraque existimanda sit scriptura, non dubie jam constaret a palmea ista vitae appellatum esse agrum, in quo gignebatur, Palmensem. Ora per ragionare di questo ultimo passo di Plinio, la correzione di Palmesia in Palmensia a parere di tutti dee sembrare giustissima; e molti codici hanno appunto Palmensia ; ed e converso nel citato Mss Riccardi (loc. cit.) leggesi Ager Palmesis, 237 e non già Palmensis; onde pare che siasi detto nell’un modo e nell’altro. Né veggio poi cagione per cui dubitare si debba della lezione di quel passo di Plinio; poiché ognuno conosce che ivi ragionasi dei vini che nascono nel territorio di Ancona, e nell’agro Pretuziano, onde i vini Palmensi altri esser non poteano fuorché quelli del nostro agro Palmense. Di fatti dal fiume Tesino verso al porto di Fermo s’incontrano continui colli brecciosi, i quali sono attissimi a produrre e producono ottimo vino. Ma questi vini Palmensi sono anche da altri autori nominati, e di essi veggasi il nostro Andrea Bacci (De vin. Ital. Lib.5) Vina Plamensia in Picenis. Egualmente se non anche più giusta è la prima congettura del Cluverio della memoria rimastaci dell’agro Palmense in Torre di Palma, castello dello stato Fermano e a Fermo vicinissimo. Giacché sicura notizia è che queste contrade appartennero all’agro Palmense, che in questo territorio germogliavano i vini Palmensi, e anche in tempi al Cluverio posteriori si è scoperto che in moltissimi nomi della moderna geografia si ravvisano quelli di una remota antichità. Io non conto molto sui riscontri dei nomi antichi coi moderni, ma quando questi sieno sostenuti da altre memorie, siccome avviene nel nostro caso, ogni buona critica vuole che si ammettano.
(p.191) §. VII. Fermo metropoli dell’agro Palmense, e fondata dai Siculi.
Dopo tante premesse notizie, le quali hanno reso assai facile il cammino, tempo è finalmente di discendere alla fondazione di Fermo, e di scuoprire da qual popolo noi dobbiamo riconoscere la nostra origine. Ma questa notizia è totalmente connessa e dipende dalla prima, cioè dall’essere stato Fermo la città principale, o come a me piace di chiamarla, metropoli dell’agro Palmense. Eccone di ciò gli argomenti. A nessun altra città meglio che a Fermo compete questa prerogativa; anzi nessuna città forse vi è, da Fermo in fuori, la quale possa essere stata la ricercata metropoli. Prima di qualunque altra ci si para innanzi Cupra marittima, la quale fu invero assai nobile e ragguardevole città: ma di questa proverò con un §. a parte che la sua prima origine riconoscer si dee dai Piceni, onde a quanto dirò in appresso io rimetto i lettori (*omesso perché sta in Cupramarittima).
Non può dirsi già che sia stato il nominato castello di Torre di Palma: giacché in questo non apparisce il menomo vestigio di antichità. La memoria più antica di questo castello è a mia notizia dell’anno 1202. in una carta dall’archivio di Osimo stampata correttamente dal ch. Zaccaria (Excurs. Litter. Per Ital. Pag. 259) in cui si vede nominato fra gli altri castelli del Contado Fermano: nos Firmani et homines Comitatus ejus, vide licet homines Turris de Palma, Podii S. Juliani, Murri, Montis Luponi, Montis Sancti etc. e vien per simil modo nominato in altra carta dell’anno 1203. riferita dal Calcagni ist. Di Recanati (pag. 33). Non solo in Torre di Palma non si vede indizio alcuno di antichità, ma attesa la gran vicinanza a Fermo, città non solo d’indubitata antichità, ma che vanta le memorie più antiche di qualunque altra città del Piceno, venuto che questo fu nel dominio dei Romani, in sì gran vicinanza dissi di Fermo esservi non potea altra città. Assai è se vi fu qualche pago di Fermo; ma città non possiamo in conto alcuno figurarvela: e la memoria dell’agro Palmense noi dobbiamo riconoscerla nel territorio, il quale senza dubbio spettava a Fermo. In questo territorio Palmense si sarà fabbricato ne’ secoli posteriori, e certamente dopo l’undecimo una qualche torre come fu fatto in altri molti luoghi, e col procede-
(p.192) re degli anni anche delle abitazioni, onde poco a poco ne sorse un castello appellato Torre di Palma. Federico II nel secolo XIII accrebbe di abitazioni questo castello, come impariamo da un privilegio dato alla nostra città dal Cardinal Raniero Legato Pontificio nell’anno 1248, ed esistente nel nostro archivio. Ma forse più a lungo del bisogno si è provato che questo castello esser non poté la ricercata metropoli. Or proseguiscasi il viaggio lunghesso la spiaggia marittima senza far conto di Fermo. Non sappiamo il confine settentrionale del nostro agro Palmense: sembra certo che non molto si stendesse da questa banda, e verisimilmente anche questo come tutti quelli degli altri due agri fu un qualche fiume. Non prendasi il nostro Tenna, e allargando in misura figuriamoci pure che il sopradetto confine sia stato nelle vicinanze del Chienti appellato anticamente Cluento, e forse anche Flussore. Ora in queste vicinanze altri antichi luoghi non abbiamo di Cluana e Novana in fuori. Ma sono questi assai discosti dalle memorie del’agro Palmense, e ho già di sopra provato, che questi due paesi non sono già di una remotissima antichità, e verisimilmente non furono in alcun modo anteriori al dominio dei Romani: solo ci compariscono, per quanto io mi ricordi di Plinio, né in verun altro antico autore o monumento. Ora escluse le altre città ci rimane il solo Fermo a credere che fosse la metropoli dell’agro Palmense. Fermo rimaneva situato presso la spiaggia marittima; e questi tre agri li ravvisiamo appunto presso la detta spiaggia, e per luoghi marittimi. Ma questo è poco: Fermo è stata una gran città e di una molto rimota antichità. Neppur ciò basta: Fermo era indubitatamente situato nell’Agro Palmense e a nessun altro antico luogo più che a Fermo sono vicine le memorie di detto agro. Or questa proprietà sì unita alle altre due sembra sufficientissima a persuadere che fosse Fermo la metropoli dell’Agro Palmense. Aggiungasi altra forte congettura: abbiamo osservato che la denominazione di agro Palmense cessò assai prima di quella di Adriano, e Pretuziano; e anche da Livio, il quale fa espressa menzione di questi ultimi due, non nominasi già il Palmense, ma questo si confonde col resto del Piceno. Chiara n’è di ciò la ragione: i Romani condussero in Fermo prima che in qualunque altra città del Piceno la colonia, e colonia di cittadini Romani, siccome già osservammo, e gli dierono un nuovo nome, come fra poco osserveremo. Quindi venuti essendo nella nostra città e territorio nuovi e moltissimi abitatori, e mutato essendo alla metropoli il nome, meraviglia non è che cessasse l’antica denominazione di Agro Palmense , non venendo dai Romani abbracciata né ritenuta. Durò al contrario più a lungo tempo la denominazione di agro Adriano, perché Adria la metropoli sollevata a colonia Romana non fu come Fermo soggetta al cambiamento di nome. Durò anche quella del Pretuziano, perché in questo agro assai tardi si condusse colonie, e forse soltanto militari: nessuna certamente n’era stata condotta in quei tempi, dei quali scriveva Livio e Silio Italico nei luoghi già da noi riferiti; onde
(p.193) meraviglia non è che veggiamo in questi nominati distintamente gli agri Pretuziano e Adriano e non già il Palmense. Noi non sappiamo, né io ho ricercato qual fosse la metropoli dell’agro Pretuziano. Truento fu la più ragguardevole, e la più antica di quell’agro. Se ne fu anche la metropoli, ciocché parmi assai probabile, avremmo in tal caso a metropoli dei tre agri le tre città, le quali sole, come già dimostrai, ebbero il loro navale. Dopo aver stabilito che Fermo fu situato nell’agro Palmense, e che fu di questo agro la metropoli, facil cosa è il provare che fu anche fondato dai Siculi. Si è già con più ragioni provato che i Siculi dominarono nel Piceno, e distintamente nei tre divisi agri; e quando altri argomenti fossero mancati, sarebbero state sufficienti le parole di Plinio : Siculi et Liburni tenuere in primis Palmensem Praetutianum Hadrianumque agrum; nelle quali quell’avverbio in primis c’indica un dominio de’ Siculi nei tre agri più speciale o forse anche di maggior durata che in qualunque altro luogo. Or se in questa lunga dimora nei tre agri dovettero i Siculi fabbricare le loro città; noi dobbiam certamente riconoscere come da loro fondate le metropoli dei tre agri. Non può già dirsi che Fermo sia opera dei Liburni, poiché per attestato di Plinio lo fu il solo Truento; sebbene assai più verisimilmente io stimo che anche Truento riconoscesse la sua prima origine dai Siculi, ma che divenuto poi principale sede dei Liburni, fosse per modo da questi la città restaurata e ampliata, onde credere si potesse che fosse opera dei Liburni. A tutti è noto come gli antichi autori siano soliti di dire fondate da una nazione quelle città, le quali solo furono ristorate o ingrandite. Né può già dirsi che da altro popolo ai Siculi anteriore fosse già Fermo fondato, giacché è follia il ricercarne veruno nel Piceno più dei Siculi antico. Quindi a tutta ragione affermar possiamo che queste tre principali città dei noti agri, (se piace riconoscere in Truento la metropoli del Pretuziano) ch’ebbero tutte al mare il loro navale, che furono le più ragguardevoli della provincia, siano state dai Siculi fondate, e che da queste riconoscere appunto si debba la denominazione degli agri. Ecco pertanto il mio parere riguardo alla origine di Fermo. Non mancherà qualche rigido censore, il quale lo disprezzi come non sostenuto da fondamento di limpida ragione. Ma chi è anche mezzanamente versato in tale studio di storia antica già sa ch’è follia il pretendere queste limpide ragioni nella ricerca delle origini dei popoli delle città; e che all’opposto solamente le giuste e sode congetture suppliscono a quella mancanza di prove, che s’incontra in sì remota antichità; e ultimamente che equivalgono ad una piena prova, quando quelle sieno giuste e sode e sostenute da quella critica antiquaria tanto ai dì nostri perfezionata, siccome mi sono studiato di fare.
(p.194) SUL §. VII OSSERVAZIONE PRIMA.
Per provare che Fermo sia stato fondato dai Siculi dice il nostro autore che è stato di una molto rimota antichità. Ma quest’antichità io non trovo che rimonti all’epoca di Ancona e di Numana segnata da Plinio, né a quella di Ascoli indicata da Festo. Che però di quest’antichità io non farei molto caso per provare un’origine Sicula, potendosi sempre dire che la più antica memoria a noi pervenuta di Fermo altra non esser che quella dataci dall’Epitome di Tito Livio quando ci segna l’epoca della deduzione colonica.
OSSERVAZIONE SECONDA. Fermo in vero era città più di ogni altra vicina all’agro Palmense, ma non sappiamo se prima di Fermo vi sia stata in quelle vicinanze altra città distrutta, come sarebbe probabilissimo. Poteva anche essere stata una delle città dei Liburni mancare nell’Italia prima di Fermo, e tal città poteva essere metropoli insieme dell’agro Palmense.
OSSERVAZIONE TERZA. E’ troppo vero che la denominazione dell’agro Palmense cessò molto prima degli altri due Pretuziano, ed Adriano; ma già dissi altrove esser ciò seguito a motivo che nell’agro Palmense vennero tosto i Sabini, e lo denominarono Piceno, laddove negli altri due passaron più tardi, e però ritennero le più antiche denominazioni.
OSSERVAZIONE QUARTA. bbiamo finalmente dal nostro autore che stabilita Adria per metropoli dell’agro Adriano, Truento del Pretuziano, Fermo del Palmense tutte ebbero il proprio loro castello navale; furono le più ragguardevoli della provincia, e furono fondate dai Siculi. In quanto alla fondazione di Adria io non dissento riconoscerla dagli antichissimi Siculi; ma di Truento nol potrei asserire avendo in contrario l’espressione di Plinio; e di Fermo non l’oserei per l’osservazione già fatta sul II §. Né mi muoverebbe il sapere che tutte e tre ebbero i loro navali. Costando a noi per sicuro che
(p.195) Truento con tutto il navale ebbe origine affatto diversa e da quella di Adria, e da quelle di Fermo, possiamo insieme persuaderci che tutte esse tre città poterono aver sortita la origine da tre popoli diversi. Non posso nemmeno accordare che esse tre città furono le più ragguardevoli nella provincia. Abbiamo Ancona in antichità la più nota, e già la più antica metropoli ricordata da Scilace. Abbiamo Ascoli altra metropoli dopo Ancona, e quando i Piceni furono sottomessi dai Romani; il che si prova col detto di L. Floro. Che però se furono ragguardevoli e Adria e Truento e Fermo non possono arrogarsi la preminenza sopra tutte le altre come generalmente si asserisce.
Il §. VIII contiene le notizie dei Siculi siccome da noi si sono date nella dissertazione . Art. I. §. 1. e 2. si omettono in questo luogo per non moltiplicar cose inutilmente.
§. <VIII> (non IX) Del nome della città di Fermo.
Diamo luogo per ultimo ad alcune osservazioni, siccome ho già più volte promesso, sul nome medesimo, che ora porta la nostra città. Mal si oppone chi la origine di una città rintracciando fa gran fondamento sulla lingua, dalla quale deriva il suo nome; e mal sarebbe per la città nostra, giacché essendo il suo nome Firmum pretto prettissimo latino, ne seguirebbe che questa traesse origine dai Romani, il che abbiamo dimostrato essere affatto impossibile. Stabiliscasi dunque che questo nome Firmum fu alla nostra città imposto dai Romani, allorquando vi condussero colonia, e diverso era il nome primitivo e più antico, del quale non ci è rimasta memoria alcuna. A tutti è noto che i Romani nell’impadronirsi di una città spesso spesso ne mutavano il nome. Fu tale uso praticato anche dai Greci, siccome osservò il Passeri nella sua prima lettera Roncagliese, ed in Plinio ne abbiamo mille riscontri. Lo stesso può dirsi anche degli Etruschi: sia un esempio fra molti che potrebbero recarsi la Etrusca città Cere, la quale, come lasciò scritto Dionisio Alicarnasseo (Dyonis. Halicarnas. Lib. 3. cap. 82.) olim, dum a Pelasgis teneretur, Agylla dicta est, post sub Etruscis caeteris nomen accepit. Ora i Romani tennero diverse regole in siffatti cambiamenti di nomi: alle volte al nome pellegrino davano una desinenza, e direi un’aria in latino. Disse di Cortona lo stesso Dionisio (ivi cap. 26) Croton vero… cives mutavit et nomen, Cortona vocata, et facta Romanorum colonia. Così Ancon nome greco fu dagli stessi Romani
(p.196) in Ancona cambiato. Piacque anche ai Romani e assai frequentemente di tradurre in nome, ossia di recare il nome primitivo straniero in latino dello stesso significato: la città di Potenza nel Piemonte si chiamava prima con greca voce Carrea, i quali due nomi latino e greco riconoscono la stessa etimologia di luogo forte o potente. Questo modo di mutare i nomi fu ai Romani familiarissimo, ed il can. Mazzocchi (Tab. Herac. Pag. 521) dice di averne adunati moltissimi esempi nella sua disser. della origine dei Tirreni, la quale non ho io alle mani. Talvolta poi cred’io che operasse di loro talento, un nuovo nome imponendo alle città, indipendente affatto dal primitivo: così m’immagino che si diportassero allor quando mutarono Anxur in Terracinae o Tarracina, Nequinum in Nursia prendendo forse la etimologia del nuovo nome da uno di quei quattro fonti, che accenna il Passeri, e riportai nella mia Dissert. (dell’orig. Dei Pic. §. 22). Assai di rado poi avveniva che ritenendo il nome antico lo unissero al nuovo, come avvenne in Vibo Valentia. Né ho io inteso di parlare delle colonie militari, delle quali disse Vellejo (lib. I) et caussae et auctores et ipsarum praefulgent nomina, ed i cui nomi non fanno al nostro intento. Or quale dei divisati modi tennero i Romani nell’imporre il nuovo nome Firmum alla nostra città? Qual era il suo primitivo? Di che linguaggio? Son questi belli quesiti a proporsi, impossibili ad essere disciolti. Dico solo che i Romani non diedero una desinenza latina al nostro Firmum, sicch’esser potesse poco da questo diverso; poiché tal voce è prettissima latina, né può in essa da chi non vaneggi riconoscersi etimo alcuno o greco o etrusco ossia di quell’antica italica lingua a tutti comune. Ma in una di queste due lingue era certamente composto il primitivo nome, e più verisimilmente nella prima come vediamo essere avvenuto in Pesaro Ancona Truento Adria, città tutte fondate dai Siculi. Il suo significato era forse di luogo fermo forte sicuro, siccome è il presente latino che abbiamo, onde i Romani semplicemente lo abbiano tradotto; forse anche era diversissimo, e dinotava qualche proprietà dell’agro Palmense, sicché i coloni Romani considerando solo la fortezza del sito della nostra città, in cui piantavano la prima colonia, appellaron quella Firmum senza nulla curarsi di lasciar vestigio del primitivo nome. Ma a qual utile fine vogliamo ulteriormente rivolgere queste nostre ricerche sopra un vocabolo da tanto tempo perduto, e che non ha dopo di sé lasciata memoria alcuna?
(p.197) OSSERVAZIONE SUL §. VIII.
L’Etimologia del nome Firmim dal nostro autore si riconosce interamente dal latino. Dice perciò che quando i Romani ci menarono la loro colonia le cambiarono affatto il nome anziché latinizzare l’antico. Tutto questo non sarebbe già strano; né una cosa del tutto nuova al popolo Romano, di cui ne abbiamo altri esempj. Osserverei peraltro che se questo nome non è né greco, né etrusco, né italico antico, può benissimo aver avuto origine dalla lingua Sabina. E chi non sa che quella aveva moltissima affinità colla latina, e che per la vicinanza, per l’amicizia, e pel commercio che i Sabini ebbero coi latini moltissime voci Sabine poterono essersi dai Latini adottate? Se col etimologia consideriamo a un tempo stesso anche il significato della parola troviamo che vuol dire luogo fermo, e sicuro. Qual cosa più propria, qual nome più opportuno alle circostanze dei giovani Sabini dopo aver errato quà e là per varj siti essersi finalmente fermati e stabiliti in questo colle, e contrasegno della loro sicurezza aver alla città da loro ivi piantata imposto il nome di Firmum? Sia questo peraltro una mia congettura, e quando non credasi di qualche peso si prenda come detta per fare sul nome di Firmum qualche osservazione.