L’ARCIVESCOVO DI FERMO MONS. CARLO CASTELLI E IL FASCISMO. Cronistoria di un anno cruciale: dal novembre 1922 al dicembre 1923.( Studio di Emilio TASSI)
Per illustrare il tema del presente breve lavoro ci serviamo soltanto dei documenti di parte fascista. Lo scopo del presente articolo è infatti quello di verificare, sulla base di documenti non sospetti, che il regime, da poco instauratosi in Italia, avesse la netta sensazione di trovare a Fermo un forte nucleo di oppositori che trovavano nella figura di mons. Carlo Castelli un autorevole ispiratore e un deciso contestatore antitetico. Le testimonianze che i documenti ci offrono sono molto significative, dal momento che è risaputo come le autorità fasciste, preposte al controllo della pubblica opinione, fossero attente a percepire ogni indizio che rivelasse la benché minima opposizione al Governo in quel cruciale primo anno di regime autoritario. I documenti che utilizzeremo sono costituiti dalle relazioni che le autorità politiche periferiche e quelle di pubblica sicurezza inviavano al Ministero dell’Interno per informare sulla situazione politica esistente a Fermo. Essi provengono tutti dall’Archivio segreto dello Stato – Ministero dell’Interno – sezione affari riservati.
Già il 23 novembre 1922, appena 36 giorni dopo la marcia su Roma, in un rapporto del Prefetto di Ascoli, Wenzel, indirizzato al Ministro dell’Interno in persona, viene segnalato un sacerdote, residente ad Amandola, Don Giuseppe Cesetti, come antifascista e sovversivo, organizzatore nel passato delle Leghe bianche, definito, nel rapporto, come amico dai socialisti e dei comunisti. Egli sarebbe reo di organizzare riunioni “sperando di poter tutto osare per la mal compresa rinascita della libertà, valendosi della protezione dell’Arcivescovo di Fermo di cui egli è il confidente”. Il Prefetto ricorda di aver sollecitato mons. Castelli “perché si fosse compiaciuto richiamare ai suoi doveri quel prete ed io stesso l’ho fatto ritornare nel mio ufficio per diffidarlo assai severamente. L’Arcivescovo di Fermo, senza neppure informarsi sull’attendibilità delle accuse fatte al suo dipendente, ha voluto nel suo colloquio col signor Sottoprefetto di Fermo, strenuamente difenderlo”. (1)
Si legge evidente, tra le righe, l’irritazione di Wenzel non tanto per l’opera sovversiva svolta dal Cesetti, quanto per l’atteggiamento di mons. Castelli che egli doveva conoscere bene per il suo carattere serio e per i suoi sentimenti per nulla teneri nei confronti del nuovo Regime. In un rapporto siglato con la nota “riservatissimo” datato 15 gennaio 1923, sempre il medesimo prefetto di Ascoli Piceno traccia al Ministero degli Interni un quadro completo della situazione politica esistente nella provincia di Ascoli. La lettera si apre con l’affermazione significativa che: ”nella provincia di Ascoli il partito popolare e il clero sono più agguerriti che altrove perché risentono dell’antico potere e perché, nei paesi specialmente, hanno ancora l’ascendente del prestigio di un tempo”; la ragione vera però della sua forza sta nell’appoggio del Clero che, attraverso le Cooperative, le Casse rurali e i Circoli cattolici nonché “approfittando del pulpito e del confessionale”, continua a sostenerne e a propagandarne le idee. Dopo averlo riconosciuto nel deputato Umberto Tupini il capo del popolarismo nella provincia di Ascoli, Wenzel arriva al vero nodo della questione: “l’azione del Clero, diretta a valorizzare il Partito Popolare, a rinforzarlo e a renderlo più potente e temuto, fu sempre guidata con rara abilità dai Vescovi di Ascoli, Montalto e Ripatransone nonché dall’arcivescovo di Fermo. L’avvento del fascismo al potere ha reso più sottili e più abili i suddetti, ma non li ha disarmati, perché quello che essi prima compivano apertamente e coram populo, oggi compiono con maggior circospezione, agendo nell’ombra e simulando acquiescenza e rassegnazione, mentre sono i mandanti di continue provocazioni, specie dirette a stancare la pazienza dei fascisti per poter poi gridare all’untore e stigmatizzare qualche giusta e infrenabile reazione”. (2)
E’ interessante sottolineare come le violenze fasciste contro le organizzazioni cattoliche vengano definiti nel documento e giustificate come “qualche giusta e infrenabile reazione” nei confronti delle provocazioni degli oppositori al Regime. Dopo questa osservazione di carattere generale, il Prefetto passa ad elencare gli innumerevoli episodi di protezionismo intransigente (da parte dei Vescovi) di parroci e preti a loro sottoposti dell’avversione simulata, ma implacabile, contro i fascisti; della continua resistenza all’autorità che tenta ricondurre i sacerdoti alla loro vera funzione; del sabotaggio della Vittoria che ispirò al vescovo di Montalto su una lapide ricordante i caduti la frase che li definiva “traviati da errori e da colpe”.
Il primo episodio citato da Wenzel, che dimostrerebbe la malafede dei Vescovi, è quello che chiama in causa il Vescovo di Ripatransone che, proprio nell’ufficio del Prefetto, osò biasimare tre preti che avevano confessato a verbale di aver definito S. Ecc. l’on. Mussolini un maestrocolo di scuola elementare che avrebbe avuto al potere assai breve durata. Detto Vescovo disse che male avevano fatto i tre preti ad ammettere di aver detto ciò, mentre sarebbe stato loro agevole il negarlo. Egli elevava così un altare alla menzogna”.
Passando a parlare della situazione esistente nel fermano, Wenzel cita per primo il caso di Don Giuseppe Cesetti, parroco nel circondario di Amandola. Ricorda innanzitutto che fu proprio lui l’animatore della lotta sviluppatasi nel 1920 tra i contadini e i padroni e conclusosi con la vittoria dei primi: fu sempre lui che sostenne la lista dei Popolari nelle successive elezioni ”condotte con l’intimidazione e la violenza e i più arrabbiati coloni di parte Popolare e analfabeti divennero reggitori della pubblica amministrazione, animata dal Cesetti”. Al sorgere del fascismo egli definì i fascisti “malfattori e causa di ogni malanno e, per combatterli, si unì con il social-comunisti, con gli anarchici e con i pregiudicati comuni”; per questo le autorità fasciste gli imposero di allontanarsi da Amandola. L’arcivescovo di Fermo, afferma Wenzel, “si fa ora mallevadore del prete e ne pretende il ritorno, dichiarando non esser veri questi fatti, definendoli gratuite asserzioni dell’autorità civile”.
Altro prete definito “visceralmente antifascista”, e anche lui protetto da mons. Castelli, è Don Raffaele Moscoloni, arciprete di Sant’Elpidio a Mare. Sostenitore e di animatore del partito popolare, “egli ha avuto l’ardire, in pubblico caffè, di proferire turpitudini ledenti l’onore delle donne dei fascisti… L’arcivescovo di Fermo, invece di punirlo, gli scrisse una lettera di conforto tanto carezzevole, da destare disgusto, specialmente quando apparve su un giornale a fianco delle sconcezze del Moscoloni”. (3)
Il Prefetto poi riferisce il caso di due sacerdoti di Montedinove, Don Caferri e Don Scalabrone, che, profittando di un lascito di don Agasucci, usano della rendita per finanziare l’attività dei Popolari “per dotare di mandolini, di biciclette e giochi da tavolo il Circolo giovanile cattolico allo scopo di attirare i giovani del paese, ai quali permettono il gioco delle carte e il vizio del bere, trasformando così il Circolo cattolico in una taverna che è palestra di odi e di propaganda antinazionale. Ho recentemente fatto chiudere detto covo perché pericoloso all’ordine e offensivo della moralità minorile”. Qui si scopre qual è la vera preoccupazione dei fascisti: l’impegno dei preti nell’educazione della gioventù. Anche in questo caso i due sacerdoti trovano appoggio e protezione da parte del Vescovo di Montalto.(4)
Il Vescovo di Ripatransone, da parte sua, difende e valorizza l’opera di tre preti scopertamente antifascisti della città: Don Evangelisti, Don Capriotti e Don Calcagni. Il vescovo di Ascoli, seppure in maniera più velata e meno rigida, fa la sua parte nel difendere il parroco di Ripaberarda Don Calosi, definito nel rapporto “la copia fedele di don Cesetti”. Da ultimo il rapporto di Wenzel denuncia l’avvenuta riunione clandestina dei dirigenti del Partito popolare, tenutasi a Fermo di notte e presieduta dall’on. Tupini; ad essa erano presenti due influenti sacerdoti fermani: Don Flippo Maria Cipriani, parroco di S. Pietro a Fermo e più tardi Vescovo di Città di Castello, e il fratello, Don Biagio, fondatore ed animatore del Ricreatorio San Carlo, costretto alla fine degli anni venti a lasciare Fermo a causa delle sue idee antifasciste: egli deve abbandonare in tal modo la preziosa opera di direzione dell’Azione Cattolica e di educazione cristiana della gioventù di Fermo e della diocesi. (5)
Il rapporto del Prefetto si conclude con queste significative parole: “dalla esposizione di questi fatti risulta provata la nefanda azione del Partito Popolare e del Clero in questa provincia e che è necessario, guardarsene”. Certo è che nei mesi successivi la situazione non subisce alcuna modifica, anzi la convinzione delle autorità fasciste che l’ispiratore segreto (ma non troppo) di tutto l’antifascismo di parte cattolica nel fermano fosse proprio l’Arcivescovo Castelli, si radica sempre di più fino a diventare certezza. Lo dimostra il fatto che, a seguito di un rapporto del nuovo Prefetto di Ascoli, Edoardo Fassini Camossi, del 4 settembre 1923 sulla condotta politica di mons. Castelli il Capo di Gabinetto del Ministero dell’Interno, per ordine diretto di Mussolini, trasmette una vera e propria denuncia al Ministro di Grazia e Giustizia contro l’Arcivescovo, invitando il Ministro a proporre alla Magistratura lo svolgimento di una formale inchiesta giudiziaria, seppure in maniera riservata, data la rilevanza del Prelato. Quali erano i nuovi elementi d’accusa emersi a carico di mons. Castelli ?
Prima di tutto il comportamento del Prelato in occasione della festa patronale di Amandola e una sua frase pronunciata per giustificare la sua assenza e inoltre il divieto fatto a mons. Curi di rappresentarlo in tale occasione. (6) L’Arcivescovo era stato ufficialmente invitato a presenziare alla solenne festa in onore del beato Antonio da Amandola. Qualche mese prima don Giuseppe Cesetti era stato costretto dalle autorità fasciste ad abbandonare la sua parrocchia. Mons. Castelli rifiutò l’invito e proibì a mons. Augusto Curi di rappresentarlo, giustificando tale suo atteggiamento con questa frase: ”nell’attuale stato di cose non è possibile né l’intervento mio né quello di altri”. La “Voce delle Marche”, il combattivo settimanale della Diocesi, il 1 settembre aveva esaltato l’atteggiamento dell’Arcivescovo, facendo risaltare in modo aperto che il gesto di mons. Castelli suonava condanna e disprezzo nei confronti delle autorità fasciste locali e nei confronti dello stesso Regime. A nulla valse il tentativo del Vicario generale, mons. Antonio Rocchetti, di sdrammatizzare il fatto, se è vero che il Prefetto afferma: “i precedenti poco lusinghieri dell’Arcivescovo, che in parecchie circostanze si è ostentatamente rifiutato ad intervenire o ad aderire a cerimonie di carattere schiettamente patriottico, giustificano pienamente le vive proteste suscitate nel campo fascista. Del resto egli tiene, nel complesso, un comportamento di ostilità mal dissimulato verso il fascismo e l’indirizzo della Voce delle Marche ne è la prova migliore”. Il Prefetto Camossi, nel medesimo rapporto, tenta di presentare un quadro generale diverso da quello descritto da Wenzel e afferma: “la grande maggioranza del Clero e del laicato cattolico della Diocesi di Fermo non condivide i criteri dell’Arcivescovo, che è solo affiancato, nella sua intransigenza e diffidenza verso il Governo attuale, dai due fratelli Cipriani, sacerdoti del luogo, i quali, insieme a pochi altri, formano i resti del Partito Popolare di marca sturziana e migliolina”. La preoccupazione del Prefetto Camossi riguarda soprattutto l’indirizzo del settimanale diocesano La Voce delle Marche, giornale giudicato ostile al fascismo; responsabile di tale indirizzo sarebbe, in modo scoperto, l’Arcivescovo mons. Castelli. Scrive infatti il Camossi: “Tutto ciò sta a dimostrare come si tenti da parte di quell’Arcivescovo ogni mezzo per attaccare e criticare aspramente il Governo nazionale”, e conclude: “per queste ragioni, a mio subordinato parere, sarebbe più che giustificato un intervento energico del governo per richiamare l’arcivescovo ad un contegno più confacente con l’indirizzo che nei rapporti del fascismo mostra di seguire la suprema Autorità religiosa (forse è da leggere la Santa Sede), se veramente si vogliono evitare incresciosi incidenti che un giorno o l’altro non mancheranno di verificarsi, nonostante qualsiasi servizio di prevenzione e di vigilanza, qualora mons. Castelli mostrasse di persistere nell’attuale intransigenza deplorevole e non compatibile con i doveri del suo alto Ufficio”. In calce alla lettera si legge, scritto di pugno del Capo di Gabinetto del Ministero dell’Interno: ”Presi gli ordini da S. Ecc. il Presidente del Consiglio, si ha il pregio di riferire quanto sopra all’Ecc. Vostra (si tratta del Ministro di Grazia e Giustizia Oviglio) per le determinazioni che crederà del caso e delle quali tornerebbe gradito a questo Ministero avere poi cortese notizia”.
Dai documenti successivi si può seguire lo svolgimento dell’intera vicenda: in data 16 ottobre 1923,la Divisione XI: “Giurisdizione e Polizia ecclesiastica” del Ministero di Grazia e Giustizia, rispondendo alle sollecitazioni del Ministero degli Interni, comunica di aver inoltrato alla Procura Generale della Corte d’Appello di Ancona il rapporto del Prefetto di Ascoli e di aver sollecitato al Magistrato di Ancona l’apertura della inchiesta giudiziaria a carico di mons. Castelli. La risposta da Ancona arriva il 2 novembre. E’ stato incaricato dell’inchiesta il Procuratore del Re del Tribunale di Macerata. Questi, dopo aver precisato di aver assunto informazioni da persone autorevoli e non legati a partiti politici, dichiara: “in linea di massima gli addebiti sono stati confermati nelle loro materiali ed esteriori apparenze, ma non sembrami ben chiaro se gli apprezzamenti sui sentimenti del detto Prelato verso il fascismo ed il Governo attuale e sul di lui comportamento nelle varie circostanze siano giustificati da una sostanziale e reale condizione di ostilità dovuta a contraria concezione politica e un diverso indirizzo programmatico, informato all’assoluta intransigenza”. Dopo aver rilevato che l’Arcivescovo Castelli non sembra essere benvoluto dalla gente perché accusato di avarizia, il procuratore spiega come la impressione dei fascisti fermani può essere provocata dal fatto che mons. Castelli, geloso della indipendenza e della dignità del suo Clero, tende a difendere i suoi preti in ogni caso, anche quando questi dimostrano di covare sentimenti contrari al Regime, così come il giudizio severo dei fascisti locali può essere provocato dal fatto che il Presule non ama partecipare alle cerimonie patriottiche. Il Procuratore del Re poi esprime il suo giudizio di Magistrato inquirente: “che egli abbia sentimenti antinazionali e che li abbia, comunque, dimostrati non mi è risultato in veruna maniera”; sarebbe opportuno, ad avviso del Procuratore, convincere l’Arcivescovo “a rimuovere ogni motivo di dubbio e di sospetto ed ogni ragione ed occasione di lamento, disingannando la opinione che di lui e attorno a lui possa essersi formata”. Quanto all’eventuale richiamo, il Procuratore consiglia cautela e prudenza e suggerisce di adottare, caso mai, una forma blanda “mons. Castelli potrebbe essere opportunamente richiamato, con i riguardi dovuti al suo grado, …. ad una più giusta comprensione delle imprescindibili esigenze del momento politico attuale…., astenendosi da ogni manifestazione di sapore politico, specialmente per ciò che riguarda il giornale La Voce delle Marche, notoriamente sovvenzionato dalla Mensa arcivescovile”.
Il Procuratore generale del Tribunale di Ancona, accompagnando con una sua missiva le risultanze emerse dalle indagini condotte, si mostra ancor più cauto in quanto sostiene che non gli sembra opportuno procedere ad alcun richiamo nei confronti dell’Arcivescovo di Fermo e così conclude le sue considerazioni: “si potrebbe forse far presente alla superiore Autorità ecclesiastica (forse la Congregazione Concistoriale), a mezzo del consueto tramite, il caso di mons. Castelli per quei provvedimenti che ritenesse di adottare; ma per la verità, neppure tale comunicazione mi sembrerebbe opportuna”. Da tutto ciò si ricava che l’autorità giudiziaria, pur ammettendo una netta freddezza del Presule nei confronti del Regime, non ravvisa nel suo comportamento nulla di illegale e definisce esagerati gli appunti che i fascisti fermani avanzano nei suoi confronti e prive di fondamento le preoccupazioni del Prefetto di Ascoli. Il caso si chiude nei primi giorni di dicembre: il 4 dicembre il Capo di Gabinetto scrive al Ministro Oviglio, esprimendo la convinzione dell’opportunità di sollecitare la superiore autorità ecclesiastica a compiere un richiamo nei confronti dell’Arcivescovo di Fermo; il 19 dicembre il medesimo Capo di Gabinetto, scrivendo al Prefetto di Ascoli, esclude ogni possibilità di richiamare ufficialmente mons. Castelli, contestandogli gli addebiti formulati in precedenza contro di lui.
La vicenda rivela aspetti interessanti relativi anche alla situazione generale delle Istituzioni del Paese; non si può, ad esempio, non osservare come la Magistratura nei primi momenti del Regime non appare del tutto prona ai voleri delle Autorità politiche e quindi conserva ancora una sufficiente indipendenza e una certa dignità nei confronti della richieste avanzate dai fascisti. Ma appare anche dimostrato che il fascismo, quando si tratta di affrontare il dissenso di un’autorità religiosa del peso di un Vescovo, e per giunta della statura morale di mons. Castelli, deve prendere atto della propria impotenza. Ciò vuol dire che, se tutti i Vescovi e “le superiori autorità ecclesiastiche” avessero assunto un atteggiamento più fermo ed intransigente, in quel momento il Regime avrebbe dovuto affrontare difficoltà molto gravi.
Altro momento di frizione tra il fascismo e Castelli c’era stato in occasione delle celebrazioni del primo anniversario della Marcia su Roma. Il 30 ottobre 1923 a Fermo si erano svolte solenni manifestazioni per ricordare l’evento; esse avevano visto la partecipazione di un non meglio precisato Sottosegretario di Stato e di uno dei Vice-Presidenti del Parlamento.
L’arcivescovo si era volutamente assentato ed era rientrato a palazzo a tarda sera. Tuttavia due ecclesiastici fermani, mons. Giovanni Cicconi (7) e padre Alfonso Baldassarri erano intervenuti a titolo personale ed avevano pronunciato dai discorsi; “all’indomani della cerimonia – scrive il Prefetto Camossi in un suo rapporto al Ministero dell’Interno – l’arcivescovo, mal tollerando la condotta di detti sacerdoti, che avevano esaltato nei loro discorsi l’opera del Governo fascista e di S. Ecc. Mussolini, redasse adirato un’ordinanza con la quale vietava a tutti i sacerdoti della diocesi di tenere discorsi di carattere politico in occasione di cerimonie patriottiche”. L’ordinanza fu fatta pervenire alla redazione della Voce delle Marche perché la pubblicasse. Mons. Cicconi dissuase Castelli e così il testo non fu pubblicato sul giornale, ma venne reso noto a tutti i sacerdoti, tanto è vero che qualche giorno dopo il Presule proibì a padre Baldassarri di recarsi a Capodarco a tenere un analogo discorso in occasione delle stesse celebrazioni che si erano svolte a Fermo. Il Prefetto rileva anche, nel medesimo rapporto, che, nonostante il furore dei fascisti fermani per tali atteggiamenti ostili di mons. Castelli, non si è verificato alcun incidente, grazie alla sua opera di conciliazione, ma concludeva in maniera alquanto pessimistica: “è da prevedere che, continuando mons. Castelli nella sua irriducibile intransigenza e nel suo atteggiamento manifestamente antifascista, che del resto non può sorprendere ove si pensi che egli è stato sempre, fino all’ultimo, l’ispiratore più ardente e il sostenitore più valido dell’estremismo popolare sturziano e migliolino, non sarà possibile evitare per l’avvenire, nelle condizioni attuali dello spirito pubblico, manifestazioni di protesta, che potrebbero dar luogo a conseguenze veramente incresciose”.
Sulla base dei documenti prodotti, numerose potrebbero essere le analisi e le considerazioni da fare. Ne accenniamo alcune: si potrebbe studiare l’ambiente del fascismo fermano per cogliere il grado di fanatismo a cui giunsero alcuni fascisti di Fermo; si potrebbe esaminare la resistenza opposta al regime dal Clero e dal laicato cattolico all’inizio dell’esperienza fascista e nello stesso tempo ci si potrebbe rendere conto dello stato delle organizzazioni cattoliche, così fiorenti negli anni che precedettero l’avvento del Regime; si potrebbe illustrare l’atteggiamento delle Autorità fasciste locali, per vedere se in seno ad esse ci fossero diversificazioni e contrasti. Una simile analisi dovrebbe però necessariamente appoggiarsi ad altri documenti, specialmente per quanto riguarda le adunanze delle varie organizzazioni cattoliche, le adunanze del clero e la corrispondenza dei sacerdoti.
A conclusione del presente lavoro ci sentiamo di proporre una tesi che appare in tutta la sua evidenza: l’anima della resistenza fermana al fascismo da poco salito al potere, a livello politico e culturale e l’ispiratore della sempre più ridotta e coartata presenza dei cattolici nel momento in cui il Regime cominciava a mettere in atto la sua politica di soffocamento del pluralismo democratico, è stata a Fermo e nel Fermano l’energica figura dell’arcivescovo mons. Carlo Castelli, che 15 anni prima si era distinto nella repressione del movimento murriano, suscitando non poche perplessità per la severità usata in quella circostanza. Forse non tutti gli aspetti della personalità di questo Prelato sono stati adeguatamente studiati in modo particolare non sono stati tenuti in debito conto la sua avversione ne i suoi atteggiamenti nei confronti del fascismo. Da parte nostra siamo certi che gli elementi che abbiamo fornito e altri che potrebbero emergere da un più attento studio, siano estremamente utili ad evitare che la figura di mons. Castelli venga schiacciata e ridotta, specie a causa del caso di don Murri, a puro esecutore di ordini piovuti dall’alto.
NOTE.
(1)- Si tratta di un’esigua parte del suddetto materiale documentario. I documenti utilizzati riguardano la situazione politica esistente nella Provincia di Ascoli Piceno e concernono specialmente i rapporti tra le autorità fasciste e il mondo cattolico (clero e laicato cattolico organizzato) nel breve periodo che va dal 1922 al 1923.
(2) – Ad Ascoli Piceno negli anni 1922- 1923 era vescovo mons. Apollonio Maggio, che ha governato la detta Diocesi dal 1910 al 1928. A Montalto il vescovo era mons. Luigi Ferri, originario di Fano, che resse la sola Diocesi di Montalto fino al 1924, assumendo poi, da quella data, anche la direzione della diocesi di Ripatransone, che proprio in quell’anno fu unita “ad personam” a quella di Montalto. Vescovo di Ripatransone nel 1922 era invece mons. Luigi Foschi, originario della Archidiocesi di Fermo.
(3) – Probabilmente si tratta del periodico “EJA!” che era l’organo settimanale della Federazione provinciale del Fascio.
(4) – La questione dell’educazione della gioventù e delle organizzazioni giovanili cattoliche fu più spinosa nei rapporti tra il regime fascista e la gerarchia ecclesiastica. Si ricordi, a questo proposito, che proprio questo problema provocò, nel 1931, la chiusura dei Circoli giovanili cattolici e fu sul punto di determinare, all’indomani del Concordato (1929), una crisi definitiva e irreparabile dei rapporti tra lo Stato fascista e la Chiesa. Cfr. TASSI, E., Azione Cattolica e Fascismo. “Quaderni dell’Archivio storico arcivescovile di Fermo” n. 42 a. 2006 pp. 5- 36 (per gli anni 1923- 1931); IDEM, Recensione .Azione Cattolica e Fascismo nel Piceno. “Quaderni” cit. n. 47 a. 2009 p. 125.
(5) – I due fratelli Cipriani sono figure di primo piano non solo nell’ambito del Clero fermano, ma nel più vasto scenario del Movimento cattolico marchigiano. Don Filippo Maria Cipriani è stato parroco di San Pietro in Fermo e contemporaneamente era assistente ecclesiastico di tutto il settore femminile dell’Azione Cattolica diocesana. È stato in seguito creato vescovo di Città di Castello, dove ha lasciato un profondo ricordo, specialmente per l’opera svolta, a favore della popolazione, durante la seconda guerra mondiale e nel triste periodo dell’occupazione tedesca.
Don Biagio Cipriani, affettuosamente detto a Fermo,’ don Biagino’ nato a San Pietro in Lamis (LE) nel 1884, è stato l’animatore delle organizzazioni giovanili di tutta la Diocesi; fu fondatore dello Scoutismo cattolico delle Marche, organizzatore del gruppo della FUCI a Fermo, fondatore del Ricreatorio maschile San Carlo, voluto da mons. Castelli e diretto da Don Biagio fino al 1929, quando, per volere delle Autorità fasciste locali, fu costretto ad abbandonare Fermo. L’arcivescovo Castelli dovette cedere alle pressioni che venivano da Roma e, a malincuore, consentire che lo zelante sacerdote andasse a lavorare a Roma presso la sacra congregazione Concistoriale. È morto a Roma nel 1944. TASSI, E. Mons. Biagio Cipriani animatore dell’Azione Cattolica Fermana. Carteggio inedito con mons. Castelli. “Quaderni dell’Archivio storico arcivescovile di Fermo “ n. 20 a. 1989 pp. 5-20. IDEM, Testimonianze di don Biagio Cipriani. “Quaderni cit” n. 46 a. 2008, pp. 97-104. IDEM, Cipriani Biagio; in “Dizionario storico del Movimento Cattolico in Italia” Casale Monferrato vol. III\1 le figure rappresentative: ad vocem
(6) – Mons. Augusto Curi (1870-1933) nativo di Servigliano, fu dagli ultimi anni del secolo scorso fino ai primi decenni del ‘900, Segretario del Comitato diocesano dell’Opera dei Congressi a Fermo. Divenne poi il Priore parroco della Collegiata di San Michele Arcangelo in città. Fu creato vescovo di Modigliana e, in seguito, fu promosso arcivescovo di Bari.
(7) – Mons. Giovanni Cicconi è nato a Loro Piceno (MC) il 19 febbraio 1864; figura di spicco del clero fermano, da giovane prete fu autorevole membro del Comitato diocesano dell’Opera dei Congressi e incaricato di organizzare, a livello diocesano i Circoli giovanili cattolici. Divenne arciprete del capitolo metropolitano e collaboratore ascoltato di tre arcivescovi: Castelli, Attuoni e Perini. Docente di Arte sacra nel seminario arcivescovile, si dedicò con particolare fervore agli studi di storia ecclesiastica Fermana, pubblicando numerosi e preziosi saggi in tale settore. Ha diretto per lungo tempo la ricca biblioteca comunale di Fermo. E’ morto il 23 febbraio 1949.
********* Digitazione di Albino Vesprini