BELMONTE PICENO
DALLA PREISTORIA
Belmonte Piceno è costruito sul versante est di una collina di 310 m. di altitudine, nel percorso mediano tra gli Appennini ed il mare Adriatico, in territorio Fermano. Il toponimo indica una caratteristica ambientale apprezzata, la bellezza del luogo ed è diffuso in altri cinque comuni italiani.
La preistoria e la protostoria hanno lasciato qui molte testimonianze, dal IX secolo avanti Cristo. Sono state identificate trecento tombe dei Piceni, con straordinaria quantità e qualità di reperti che hanno dato avvio e riempito intere sale del Museo Archeologico Nazionale delle Marche in Ancona.
Molti reperti sono di importazione e di stile orientale, simili a quelli degli Illiri, dei Greci dell’Attica e del Peloponneso, degli Etruschi, dei Veneti, dei Sanniti, degli Apuli, dei Sabini. Segno questo di un museo culturale plurietnico. Si è indicata una via dell’ambra che dall’Italia sale al cuore germanico dell’Europa.
Il professor Silvestro Baglioni (Belmonte 1876 – Roma 1957) docente di fisiologia a Gottingen nel 1903 illustrò prima i reperti acquistati dal Museo Pigorini di Roma. Poi pubblicò, in lingua tedesca, nel 1905 nello “Zeitschrift fur Etnologie” l’illustrazione storico-culturale di molti reperti che esprimono le abitudini quotidiane dei Piceni. Il Brizio fece conoscere la stele monumentale con lunga epigrafe (alta m.2,10) e altri reperti da lui acquistati per il Museo Comunale di Bologna.
Questi popoli praticavano facilmente la caccia con armi distintamente decorate. Le donne indossavano abiti decorati con abbondanza di monili variegati. Le sculture mitologiche in bronzo ed il vasellame di tipo orientale in bucchero con figurazioni elleniche, gli oggetti di uso quotidiano nello stile liburnico ed in quello sabellico fanno pensare ad un centro demico importante. Sul Colle furono sepolti i Capi- principi con le loro bighe e con i segni del loro ruolo politico e sociale. In alcune tombe femminili, la presenza di armi ha fatto pensare alle abitudini delle Amazzoni, a meno che non fossero omaggio dei mariti. Le persone protostoriche del Colle belmontese, sagaci ed operosi, erano anche letterati che evolvevano l’alfabeto fenicio nelle epigrafi dello loro steli. I monili ritrovati nelle tombe e portati al museo archeologico di Ancona dal soprintendente Innocenzo Dall’Osso fanno onore alla tradizione belmontese nella maestria delle arti.
Il Colle dei Piceni (m. 328) si trova qui nel cuore di quel vasto territorio dal fiume Foglia al fiume Pescara e dai monti Sibillini al litorale adriatico, che è ricco di testimonianze picene, al crocevia dei traffici con un apprezzabile livello di prosperità dal secolo IX al III secolo avanti Cristo. Sull’altura sono stati notati alcuni resti di case parallele.
ROMANITA’
Nel 268 giunse il dominio dei conquistatori Romani. Avvenne un’integrazione facilitata, in seguito, quando furono date alcune terre ai soldati veterani di Cesare e Pompeo al tempo dell’imperatore Augusto, tra la fine del primo secolo avanti Cristo ed gli inizi del primo secolo dopo Cristo. Il municipio stava a Falerio Piceno (Piane di Falerone). I reperti romani sono significativi a cominciare dalle mura dei monumenti sepolcrali fatti a nicchie e dalle lapidi con epigrafi, edite dal Mommsen.
La ripartizione romana dei terreni, misurati ad opera dei tecnici gromatici ha lasciato permanenze nei percorsi stradali e nella ripartizione dei fondi abitativi, con tracce di confini a scacchiera. Le culture agricole diverse, oggi trimillenarie, hanno lasciato la tradizione di essere autonomi per mezzo delle iniziative individuali e solidali nello interscambio d’opera.
L’insediamento romano fu caratterizzato dalle abitazioni in campagna, dette ‘ville’ di preferenza in luogo pianeggiante vicino ad una sorgente o flusso d’acqua, e nei ripiani collinari, confortevoli. Possiamo identificare dalle permanenze delle chiesine sul luogo delle edicole, alcune ville romane:
1.villa tra il colle Torrecella (ci fu un tempo una chiesetta turrita) e le scuole elementari;
2. villa a Piane di Casale ov’era la chiesa di san Cataldo;
3. villa presso la chiesa di San Simone che, nove secoli appresso, fu data ai monaci farfensi chiamata Santa Maria in Muris;
4. villa ad est delle Morrecini (muri romani), in direzione Grottazzolina;
5. villa a nord delle Morrecini dove fu l’azienda Morroni, verso il Tenna;
6 villa presso la chiesa di sant’Anna;
7. villa presso l’antica chiesa di san Prospero.
Ogni villa aveva un’edicola in luogo appartato, per riporre le ceneri dei defunti e le piccole rimasero come spazi sacri, riutilizzati come chiesine.
La decadenza dell’impero romano, dal V secolo, comportò un evidente mutamento, arrecato dall’arrivo delle popolazioni immigrate, tra cui i Goti di Alarico, quelli di Ataulfo, e quelli di Totila che furono in guerra contro l’esercito dell’imperatore d’Oriente Giustiniano. E Unni di Attila, e Vandali di Genserico. Dalla fine del VI secolo arrivarono e si stabilirono in Italia i Longobardi di Alboino che diedero nome alla Lombardia.
Crebbero allora le zone boschive, di cui a Belmonte permangono tracce significative a nord. Il cristianesimo creò la conciliazione e la solidarietà. San Benedetto, patrono d’Europa insegnò ai monaci a pregare e lavorare. Ci fu una sede vescovile a Falerone dal IV secolo al VI, poi aggregata alla diocesi Fermana. Furono costruiti nuovi luoghi di culto e di formazione culturale, quando i Longobardi cedettero il dominio ai Franchi, che crearono il Sacro Romano impero, con Carlo Magno, e dal secolo VIII la Marca Fermana entrò a far parte del territorio Romano Pontificio.
MEDIOEVO
Vennero i monaci dal monastero dei benedettini di Farfa, in provincia di Rieti, a motivo della loro fuga dai ripetuti saccheggi e sequestri di persone inferti dagli Agareni (Saraceni) per cui l’abate abbandonò la Sabina e venne nelle terre picene donategli dai duchi longobardi e dai conti Franchi. Fu un’emigrazione di molti coloni venuti con le loro famiglie, tra l’altro da Monteleone Sabino e da Belmonte Sabino. Qui si stabilirono ed hanno lasciato quelle famiglie che hanno costruito il castello che da loro ebbe il nome di Belmonte. Caso analogo per Monteleone.
Una proprietà donata ai Farfensi in questo territorio è stata la chiesa di Santa Maria ‘in Muris’, cioè ricostruita su mura romane, di cui si danno notizie nel seguito. Fu molto importante non solo per il culto, anche per l’istruzione nella scuola, per l’infermeria nell’abitazione del monaco rettore della chiesetta, per l’amministrazione autonoma affidata ad un sindaco, per l’agricoltura e per l’artigianato vario, per l’utilità degli abitanti.
La nobile Albagia, moglie del conte Pandolfo e madre di Silvestro, che fu detta ‘abbadessa’ in una sentenza emanata a Monterone di Monteprandone, per ottenere indulgenze spirituali, aveva donato la chiesetta che aveva fatto costruire sui resti romani (con lapide) in puro stile longobardo con la torre in mezzo alla facciata, e con un singolare criptoportico sotto l’arco dell’ingresso, sotto la metà torre. Questo piccolo portico all’ingresso è un fatto del tutto originale che non trova confronto in nessuna altra costruzione superstite. Anche questa chiesolina subì rifacimenti nel secolo XI per ampliarla, ma conserva l’antico stile protoromanico, evidente negli archi a tutto sesto nelle finestre. L’abate rifugiatosi sul colle Matenano, fece trasportare lasciò l’amministrazione delle chiesette picene e dei loro beni, al priore dei monaci di Santa Vittoria. Vi tornava talvolta in visita, accompagnato dagli amministratori.
A Belmonte, come a Farfa, la chiesa più grande resta dedicata al ss. Salvatore. Presso la chiesa le case del nuovo castello di Belmonte sorsero lungo la strada che passava sopra le colline, negli ultimi decenni del secolo XII, attorno al 1187. L’antica torre farfense di Santa Maria era un punto geodetico di misurazione e di orientamento, talora serviva a segnalare con fuochi le incursioni dei Saraceni, nel bacino del medio corso dei fiumi Ete e Tenna.
I monaci farfensi avevano avviato l’amministrazione comunale dei sindaci che avevano competenza per le provviste, per i molini, per i forni, per le fonti, per le strade, per le rivendite di carne e simili. Nel secolo XIV, nella chiesa di san Salvatore fu stabilita dal vescovo, la pievania per la cura spirituale delle anime con l’organizzazione religiosa che creava occasioni socializzanti per gli abitanti e per i visitatori. I sacerdoti officiavano le chiese di S. Maria, di s. Nicola da Bari e del ss. Salvatore.
Lo sviluppo economico era affidato alle famiglie locali che si andavano accrescendo di numero e di abitazioni, per cui gli insediamenti si espandevano. Il territorio circostante faceva parte del comitato Fermano per cui anche i proprietari belmontesi, dopo la morte dell’imperatore Federico II, in un periodo di guerre, nel 1263 preferirono entrare in un sistema più forte di difesa e di sicurezza politica e contrassero accordi scritti per acquisire la cittadinanza di Fermo.
Nel secolo XIV Belmonte rimase un centro dei mercati fermani con la mercatura dei prodotti locali di vario genere: caseari, lana, tessuti, manufatti, carne, olio, vino. La città principale, Fermo, per la sua floridezza faceva invidia ad altre città e si trovava in un contesto di fitte trame di alleanze, spesso mutevoli e ricomponibili con Ascoli, con Recanati e con Ancona.
Un fenomeno angustiante erano le pestilenze che a metà sec. XIV fecero diminuire di molto la popolazione. Alle calamità si aggiungevano i colpi di stato dei tiranni. Vari signorotti pretesero ottenere la signoria di Fermo e del suo contado: Mercenario da Monteverde dal 1331 al 1340; Gentile da Mogliano dal 1348 al 1355; Rinaldo da Monteverde dal 1376 al 1379. In frangenti simili il comune di Montegiorgio giungeva a pagare il legato pontificio Albornoz per acquistarsi una terza parte dei diritti sul castello belmontese, in modo da sminuire il dominio della città di Fermo.
Le guerre stavano diventando un grave problema perché ricorrenti ed estenuanti. Agli inizi del XV secolo, in tempi di scismi, il papa Innocenzo VII mandò suo nipote Ludovico Migliorati come Governatore della Marca, e signore di Fermo. Egli ebbe potere finché visse lo zio. Poi si trovò a lottare contro le truppe di ventura e nel 1410 fece trattative con i capitani da Varano e da Montone fino a perdere la signoria fermana nel 1414. Volle poi allearsi con i Malatesta da Rimini che lo riportavano al potere.
Nella situazione non pacifica, Eugenio IV mandò nel 1433 Francesco Sforza, suo vicario che si comportò poi da violento usurpatore con le guerre e le stragi nei castelli, finché non fu scacciato dall’esercito di Fermo e degli alleati, nel 1446.
L’amministrazione comunale belmontese, dotata di palazzo pubblico, e di mura esterne, gestiva la concessione del forno, del macello, delle fontane, delle strade, del molino. Belmonte era sede attività bancarie con i depositi della famiglia Angeli da Santa Vittoria in Matenano. Ad esempio, nel 1403, il belmontese Rainaldo Iacobi Brunforte riceveva da Marino di Nicola Angeli in deposito 250 ducati d’oro. Questi signori investivano il loro denaro negli acquisti immobiliari. Nel 1410, Cola Angeli, agente a Belmonte, acquistava la casa con orto di Vanne Mattei, in seguito anche i locali del forno e del frantoio (pistrino). Un altro belmontese, Tommaso Rubei era riscossore delle tasse e delle multe per conto del governo Fermano e nel 1417 incassò 130 ducati del castello. Le Cronache Fermane riferiscono anche che egli tenne il presidio della difesa militare di Montone presso Fermo, in occasione delle incursioni dei soldati di ventura.
La chiesa pievanale del ss. Salvatore, all’inizio era stata una costruzione farfense, unita a quella di san Nicola. Fu poi ampliata e passò sotto il controllo del capitolo dei canonici della cattedrale di Fermo. I belmontesi facevano largizioni caritative. Vannarella Cole, per amore di Dio, fece un lascito testamentario a favore dei poveri e dai suoi beni si donava una razione di carne a ciascuno dei sessanta focolari. Esisteva il “Monte dei poveri” a cui il belmontese Roscitto diede per testamento dieci fiorini d’oro, utilizzati poi, a censo, per costruire a Fermo la chiesa di san Domenico.
All’inizio del secolo XVI la signoria di Fermo tenuta dal faleronese Oliverotto Euffreducci ebbe termine con la sua uccisione procurata da Cesare Borgia. Leandro Alberti ha scritto che Fermo era molto potente, finché i castelli erano compatti con la città. Si disse: “Quando Fermo vuol fermare, tutta la Marca fa tremare”. Questa unione era dovuta anche ad indignazione, oltre che a solidarietà. C’era una repulsa schiatta contro le ingiustizie, e contro le guerre.
Furono gravose guerre in occasione del passaggio delle truppe francesi mosse alla conquista del regno di Napoli nel 1528. La turbativa portò ad un cambiamento di Governo. Fermo e il suo contado furono dati a governare nel 1537 al principe Alessandro Farnese dallo zio papa Paolo III. Il nuovo capoluogo fu Montottone e ci furono incusioni di destabilizzazione, talora procurati ad arte per imporre multe gravose. Ne abbiamo notizia dalle Cronache scritte da Giovanni Marino figlio di Battista Lucidi, cancelliere comunale a Belmonte. I belmontesi si trovarono in contrasto con i montegiorgesi, a motivo delle coltivazioni nei terreni in contrada Bovara che ciascun comune pretendeva usare per i pascoli liberi del bestiame. Oggi la Bovara è parte del Comune di Fermo, a confine con Grottazzolina, Belmonte e Montegiorgio.
Marino Lucidi fu il segretario della confraternita del SS. Sacramento di Belmonte, che amministrava i beni della pievania del SS. Salvatore. Questa confraternita aprì in paese una scuola per alfabetizzare i bambini. Inoltre provvedeva al prestito del grano nel Monte Frumentario.
Dai Farfensi, Belmonte ereditò una reliquia della santa Croce ove morì il Cristo sul Calvario. La devozione era intensissima e si era costituita un’apposita confraternita per favorirne il culto e festeggiarne il rinvenimento, ogni anno, il 3 maggio. Una processione affollata accompagnava la benedizione delle campagne con questa reliquia incastonata in un reliquiario d’impianto trecentesco, con lamine d’argento dorato e contornato da campanelli.
Quando era vescovo di Fermo mons. Felice Peretti (poi Sisto V), nel 1573, venne a Belmonte il Visitatore apostolico, mons. Maremonti, vescovo di Utica e notando le spese fatte per abbondanti pranzi, fece un richiamo alla parsimonia rimproverando gli amministratori della confraternita, Redentore Stefani e Andreadoria di Giovanni Dominici. Sono nomi caratteristici, uno cristiano, altro principesco e latino.
Le guerre nello Stato Romano pontificio finirono con il papato di Sisto V (1585-1590), i castelli si amministravano autonomamente sotto il controllo della Congregazione Fermana. La guerra tornò a sentirsi dopo trecento anni, portata da Napoleone che nel 1798 fece deportare il papa Pio VI e stabilì una forma repubblicana che era di dominio della Francia. Lo Stato Romano pontificio fu, ristabilito con la sconfitta di Napoleone nel 1815, e sopravvisse fino al 1860 quando l’esercito del re di Savoia occupò ed unì i territori dell’Italia.
Belmonte registrò lungo il corso di molti secoli un’espansione urbana con l’aggiunta della via a sud (oggi Marino Lucidi) e si allargò anche in direzione del borgo. Si moltiplicarono le abitazioni in paese ed in campagna e crebbero le attività artigianali e commerciali. La popolazione ed numero delle famiglie, nel corso della storia moderna, grazie alla pace, hanno sempre registrato una costante crescita.
SECC. XVII-XVIII
Dal secolo XVII in poi si sviluppavano le piantate di viti ed ulivi, le coltivazioni del mais, dei pomodori e delle patate e gli allevamenti domestici.
Dopo la vittoria dei cristiani contro i Turchi, a Lepanto, nel 1571, grazie alla mediazione della Madonna, nel borgo belmontese, la confraternita del s. Rosario, costruì una sua chiesa che è stata ampliata a metà sec. XVIII e conserva il titolo della Madonna del Rosario. Dal 1771 al 1777 fu ampliata e costruita nuova la chiesa della pievania del SS. Salvatore, in stile neoclassico, presso la casa canonica. Sulla cinta muraria meridionale, la famiglia del pievano d. Nicola Urbani costruì un’abitazione alta, a torre ancora distinguibile.
Nella seconda metà del secolo XVIII si ampliarono le strade, si accrebbero i depositi d’acqua per le fontane, si riorganizzavano i molini, il forno, il macello ed altri servizi, compreso quello postale. Nel 1768 fu abolita la porta meridionale e allungato lo stradone di accesso dal borgo alla via centrale. Anche la porta occidentale fu abolita con nuovi edifici nel ripiano più alto della piazza interna. Enorme l’afflusso annuale alla festa patronale del 3 maggio, con la fiera, e gli spettacoli che erano il riferimento primaverile della media vallata del Tenna.
Fu ampliato l’ospizio-ospedale di san Martino, a lato della canonica, si accrebbero i depositi dei due Monti di prestito frumentario, si facilitò l’istruzione completanta con quella universitaria a Fermo, ove era docente il belmontese Giuseppe Buratti. Il governo stabilito da Napoleone lasciò la suggestione dell’orologio ‘alla francese’. L’ultimo ampliamento delle mura urbane ha una lapide di ricostruzione con la data 1866.
Opere di architettura, di scultura, di pittura, di oreficeria, di ceramica hanno nobilitato il paese negli spazi pubblici e privati. La chiesa del SS. Salvatore fa apprezzare tre tele dipinte dal fermano Filippo Ricci negli anni 1776-1777. Presso l’altare maggiore è raffigurata la Gloria del Cristo e della sua madre Assunta in cielo, con i santi vescovi Nicolò e Donato in contemplazione. In mezzo a questi un angelo offre il modello del castello belmontese.
Sulla parete destra la Vergine Lauretana con il Figlio e la loro santa casa onorati dai santi Antonio abate, Francesco assisiate, Sebastiano e Rocco. Sulla parte sinistra la Pietà del Cristo deposto dalla Croce sulle braccia della Madre ed i santi Pietro apostolo, Caterina d’Alessandria, e Giovanni Battista.
Nel 1933 il pittore Giuseppe Toscani decorò le pareti e il volto dove sono dipinti nei tondi il Pellicano; i quattro Evangelisti, l’Agnello Pasquale e sono scritte le litanie del sacro Cuore. Dopo il terremoto del 1943 fu ridipinto il catino dell’abside con decorazioni di fiori e festoni del pittore Armando Moreschini. Qui è la splendida pittura del Cristo Eucaristia tra gli angeli.
Tra le sculture, ammirabile la Pietà del sec. XV; il Crocifisso del secolo XVI e la preziosa oreficeria elaborata per il reliquiario della santa Croce. Del secolo XVII sono i quattordici dipinti della Via Crucis.
Nella Chiesa suburabana del santo Rosario, un’altra tela dipinta da Filippo Ricci con la Madonna del Rosario ed i santi Domenico di Gusman e Caterina da Siena. A lato del presbiterio il pittore G. Nunzi, nel 1857, ha dipinto su tela San Pacifico, su commissione della famiglia Corsi. Sulla parete destra la tela dipinta nel 1756 dal belmontese Michelangelo Michelini raffigura l’Estasi di san Giuseppe da Copertino. Sulla parete sinistra i dipinti più antichi dello Spirito santo invocato dai santi Carlo Borromeo e Pietro martire da Verona.
Ad un chilometro lungo la strada verso ovest (verso Servigliano) la chiesa della Madonna della Grazie ha un grazioso dipinto murale del secolo XVI raffigurante La Vergine con il Figlio.
La chiesa detta di San Simone, sul percorso ad est (verso Grottazzolina) è l’antica Santa Maria in muris, ricchissima di storia.