L’ALIMENTAZIONE DEGLI ANTICHI (Baglioni Silvestro)
Le fonti che possediamo per conoscere i generi di alimentazione dei nostri antenati sono, per i popoli greco-latini i classici libri rimastici di CATONE, VARRONE, PLINIO, COLUMELLA, CELIO APICIO, IPPOCRATE, GALENO, CELSO, PAOLO DI EGINA oltre gli accenni dei diversi poeti (specialmente di VIRGILIO nelle Georgiche). Notizie non meno importanti derivano dai monumenti e dalle tradizioni.
COLUMELLA, nella sua opera De re rustica, trattando dei diversi precetti pratici per l’agricoltura, ha occasione nel libro II di parlare dei diversi generi di frumento e cereali, nei successivi libri dei diversi animali al servizio dell’agricoltura e del pollaio, ma più specialmente nel libro XII indica diversi mezzi pratici per conservare gli alimenti, per produrre diversi generi di vino, ecc.
CELIO APICIO, nel suo breve trattato De arte coquinaria ( opsioniis et condimentis), reca numerose ricette per la confezione di vivande squisite, che evidentemente dovevano servire per i cuochi di ricchi signori. Tuttavia si possono anche in queste ricette trarre notizie importanti per l’alimentazione ordinaria, soprattutto per i diversi modi di conservazione della frutta e di altri generi alimentari.
È importante notare come gli antichi già conoscessero e praticassero i diversi metodi ancora oggi in uso, per la conservazione delle carni, delle frutta e di gli erbaggi, tanto crudi che cotti, servendosi, sia della salamoia (muria, donde proviene il nome di acido muriatico), che confezionavano dissolvendo il sale di cucina in acqua sino a farne soluzione satura, sia immergendo gli alimenti in sciroppi più o meno densi, fatti di miele e acqua (mulsum), sia in soluzioni di aceto, sia in soluzioni di sapa o mosto cotto, in cui veniva a trovarsi in concentrazione molto forte zucchero d’uva; indicavano col nome di sapa il concentrato di mosto, ottenuto mediante ebollizione, sino a un terzo, indicavano col nome di defrutum il concentrato del mosto mediante ebollizione sino a metà. Conoscevano anche la necessità di lavare e bollire diversi alimenti prima di immergerli nel liquido di conservazione. Conoscevano pure l’azione conservatrice antiputrida delle diverse droghe, come la senape, ecc.
Delle varie vivande ottenute con le diverse specie di carne o con le diverse specie di ortaggi che oggi conosciamo anche nelle cucine più svariate, nessuna si può dire era ignota alle mense degli antichi. Conoscevano le carni fatte allesso e in brodi relativi (elixa), le carni fatte in umido (assata), le carni arrostite (assaturae), le polpette, le diverse carni infarcite, le salsicce (lucanica, poiché la loro origine era dalla Lucania), le bragiuole (ofellae), un numero straordinario di salse, di cui la più comune (liquamen) era costituita da una specie di salsa di pesce, le diverse specie di fritti, vivande dolce ottenute con il latte, con le uova, con la miscela di diverse specie di frutta, tra cui specialmente in uso erano i fichi secchi, e come sostanza dolcificante usavano il miele di diverse specie, o la sapa, o anche i diversi infusi di frutta conservate. Non era ignoto neanche l’uso dello zucchero di canna (saccharum).
Ma forse la cosa più importante è il fatto che tutte le preparazioni ottenute con i cereali e con le loro farine, a cominciare dal pane alle diverse farinate, schiacciate semplici e composte, persino alla pasta fatta in casa e usata come tagliatelle e lasagne (laganum), origine delle varie forme di maccheroni, erano largamente note e in uso presso i nostri più antichi progenitori.
Dei vari derivati artificiali dei generi alimentari agli antichi era noto l’amido (amylum, così detto perché era farina ottenuta senza mola a mole, ossia senza macina), che, come concordemente si rileva dagli antichi scrittori, ottenevano pressappoco con un procedimento uguale all’odierno; ossia maceravano con acqua gli acini del frumento, spremevano, colavano e disseccavano ottenendo una bianca polvere di amido, con qualità diverse secondo la farina di origine.
Delle diverse specie e varietà di cereali gli antichi agricoltori conoscevano, secondo le descrizioni lasciateci dei vari scrittori, possiamo dire quasi tutte le specie e varietà oggi note. PLINIO, COLUMELLA, DIOSCORIDE e VARRONE (che fu il primo a lasciarci notizie in proposito), come tutti gli autori Greci, sono concordi nell’affermare che i cereali più largamente coltivati erano l’orzo, preferito dai Greci e dai popoli orientali, come è oggi ancora il caso, e di cui IPPOCRATE e GALENO, CELSO e PAOLO DI EGINA esaltavano le sue azioni terapeutiche, come vivanda degli infermi, nella ptisana (una specie di farinata ottenuta con la farina più o meno grossolanamente ottenuta dall’orzo bollita con acqua, con aggiunta di svariati ingredienti, di droghe, e data in forma di brodo colato o anche non colato, e che perciò corrisponde molto da vicino ai cosiddetti brodi vegetali, recentemente riconosciuti come ottimi generi di alimentazione, specialmente per gli infanti; il farro, nome usato sia per indicare un genere comune di sfarinatura (la radice etimologica far è la stessa di farina), sia il frumento (che ha per radice quella del verbo fruere, godere o usare) donde si estraeva la farina stessa, e che molto probabilmente secondo le ricerche di SAVERIO MANETTI (1765), corrisponde alla nostra spelta. Di questo farro, secondo PLINIO, si servirono, cuocendolo con acqua in forma di farinata, come ancor oggi è uso presso molti agricoltori, i popoli del Lazio per trecento anni, prima che fosse trovata l’arte del pane. Erano noti i tre generi principali del frumento, vero e proprio, indicato da latini col nome di Triticum (a triturando, per causa, come dice il MANETTI, del bisogno che ha di essere battuto, sull’aia, e di essere triturato sotto la macchina prima di essere usato per cibo dagli uomini); ossia la specie indicata in Toscana col nome di grano gentilrosso sia quello colla resta (aristato), sia quello senza resta (mutico), il grano duro, il gentilrosso bianco, e il marzuolo.
Una di queste specie era indicato col nome di robus, da COLUMELLA, che egli dice essere la migliore per colore e per peso; un’altra è indicata col nome di siligine, la cui farina serviva per il pane chiamato siligineo, che era il pane sopra tutte le specie il più bianco; finalmente, secondo COLUMELLA, la terza specie di grano marzuolo o trimestre (perché cresce e matura nello spazio di tre mesi dalla semina), era molto apprezzata dai contadini per la stessa ragione, per la quale oggi è anche favorito, ossia perché quando per l’inclemenza della stagione o per altra causa locale di terreno non si poté seminare quello invernale, si ricorre a questo. Tutte le altre specie di frumento, aggiunge COLUMELLA, sono superflue “se forse non si diletta alcuno vanamente della varietà de’ frutti“ (Traduz. Di PIETRO LAURO, Venezia, Bevilacqua 1564, pag. 26 b.).
Gli antichi conoscevano parimenti le diverse varietà di farro, di cui COLUMELLA descrive quattro diverse generazioni.
Come comunemente oggi si usa per antonomasia la parola grano per indicare generalmente il frumento, così gli antichi usavano parimenti la parola corrispondente semen.
Non erano ignoti agli antichi le diverse specie di pane che si possono ottenere usando le diverse specie di farina di grano e, della stessa farina, i diversi gradi di molitura e di stacciatura o resa, secondo il setaccio o buratto, noto già per le diverse forme di grandezze di maglie. Molti nomi da essi usati per queste diverse specie di farina sono ancora in uso; il fior della farina (flos) era la farina sottratta di ogni particella di crusca e di farina più grossa; era anche chiamata siligo, perché si otteneva da quella varietà di grano più bianco indicato siligine. Per simila, similago e farina secondaria intendevano la farina media, estratto il fiore e tolta la crusca; indicando pollen (CELSO) o farina crassior quella cui era stato tolto il fiore, ma non la crusca.
Della crusca erano pure distinte tre specie, secondo lo staccio usato per liberarla dalla farina, il cruscone, la furfur, caniga, apluda, oggi detta semola, il tritello o cruschello, semolella (cretura).
Delle diverse specie di pane, il pane finissimo (siligineo, primario o candido) era quello ottenuto col fiore della farina; confusaneo (in greco syncomiston, gregario, ater, colifio) era indicato il pane che oggi diremmo integrale, ottenuto con tutta la sostanza della farina senza separazione né di fiore né di crusca, e che era riconosciuto come il pane più adatto per irrobustire e fortificare le membra (ne facevano uso gli atleti); conoscevano il pane di tritello o di crusca (furfuratus, sordidus, cacabaceus, ater, canicatus), che come indicano i diversi attributi era pane da cani, o da gente bassa, che produceva una grande quantità fecce.
Gli antichi conoscevano essenzialmente tutte le manipolazioni necessarie per una perfetta fabbricazione di pane fermentato e cotto. I fornai detti pistores, dal mestiere usato primitivamente di pestare i grani per separarli dalle glume o per sfarinarli, poiché solo più tardi si conobbe l’uso delle macine (molae), a mano dapprima, poi a trazione animale e quindi a trazione idraulica, costituirono una categoria di cittadini sorta in un periodo molto tardi della civiltà romana, quando le donne cessarono di cuocere il pane in casa, come segno della aumentata ricchezza della capitale e di decadenza delle virtù domestiche. Conosciamo monumenti sepolcrali eretti a memoria di fornai divenuti per il loro mestiere ricchissimi. Il monumento sepolcrale ad EURISACE fuori di Porta Maggiore, nei suoi bassorilievi, rappresenta i diversi momenti della macinazione del grano, della preparazione, della cottura e della vendita del pane; un istruttivo completamento delle notizie tramandateci degli scrittori antichi (ved. Tavola annessa di fronte a pag.16). Né meno utili documenti sono quelli che gli scavi di Pompei, di Ostia, ci hanno rivelati, mostrandoci le diverse specie di botteghe e di retrobotteghe di fornai, di fabbricatori di paste, di bar ecc. conservandoci persino i pani da essi preparati, sotto le ceneri vesuviane. Le forme di questi pani variano pressappoco come al giorno d’oggi: la forma più comune era quella circolare un po’ schiacciata e recante sulla superficie dei solchi a settori, evidentemente per facilitarne la suddivisione.
Oltre alle diverse specie di pane fermentato, gli antichi conoscevano tutte le altre forme di allestimento alimentare ottenuto con le diverse farine dei cereali; sia le diverse forme di farinate, di polente, (puls, polenta, pulmentum ecc.) più o meno spesse, e preparate con isvariati ingredienti e droghe, non esclusa una forma di pasta (laganum), simile a quella usata per le odierne tagliatelle, lasagne o maccheroni, dei quali però sembra che non fosse diffuso l’uso della fabbricazione mercenaria; le diverse forme di schiacciate o focacce (offa, libum, ecc.) semplici, ossia ottenute con la pasta fermentata o non fermentata (azima) di farina dei vari cereali, e cotte sotto la cenere, al fuoco diretto, entro pentole al forno, o composte, ossia con la miscela di un numero più o meno ricco di altre sostanze alimentari come grassi, olio (frittelle), noci, avellane ecc. droghe o altri ingredienti vegetali o anche animali (latte, formaggio, ecc.) così come ancora oggi si usa nelle diverse regioni e stagioni dell’anno.
Non ignoravano la possibilità di utilizzare il succo delle cariossidi immature di cereali (ricche di zucchero) per farne, previa torrefazione, delle bevande gradite e sostanziose, mescendole a miele, o al latte, o alla sapa. Di questa specie doveva essere l’alica (chondros dei Greci) che secondo quanto ci ha lasciato scritto PALLADIO RUTILIO TAURO si otteneva dall’orzo semimaturo (cui aliquid superest de virore) raccolto nel mese di giugno.
Possiamo concludere che tutte queste diverse forme eduli ottenute dalla farina di cereali presso gli antichi, descritti dagli autori, si sono d’altra parte conservate senza modificazioni essenziali attraverso l’uso e la tradizione, specialmente presso le popolazioni agricole e dei villaggi delle diverse regioni d’Italia, delle quali non sono penetrati gli usi delle raffinate cucine pasticcerie mercenarie e internazionali.
Lo stesso si potrebbe ripetere confrontando l’uso delle manipolazioni alimentari fatte con le altre specie di vegetali (cavoli, olera, rape, radicchi, insalate, legumi, ecc.) e di frutta, di semi, di spezie, di droghe, delle diverse specie di vini, che trovarono l’esaltazione poetica dei grandi letterati classici greci e latini. Da uno studio sommario di confronto tra gli usi alimentari dei nostri più antichi progenitori e gli odierni, si può trarre la convinzione che questi usi si sono mantenuti con una costanza e uniformità e può trovare riscontro soltanto nei caratteri etnici e antropologici più che in quelli (tipo sono molto evidenti) del linguaggio, da costituire una continuità ininterrotta che caratterizza la nostra unità nazionale attraverso diversi secoli e le diverse generazioni.
Non è facile stabilire l’epoca in cui nell’uso nazionale si diffuse così largamente la più apprezzata e caratteristica vivanda degli italiani, ossia la diverse forme dei maccheroni; ma come abbiamo ragione per credere che fosse già usata all’epoca degli antichi popoli italiani, ossia abbiamo testimonianza che nel cinquecento fossero note tutte le diverse specie che ancora oggi si conoscono. Il GARZONI nella sua Piazza universale di tutte le professioni (Venezia 1585), originale e copiosa fonte di notizie interessanti, parlando dei cuochi et altri ministri simili, fa l’elenco minuzioso di tutte le più svariate vivande e tra queste ricordando i cicli di pasta, li elenca come “polente, gnocchi, maccheroni, lasagne, tagliatelle, vermicelli, sfogliate di più sorta, mantecate, tortelli, tortelletti, ritortelli, truffoli, ravioli senza sfoglia e con la sfoglia, caseose, casatelle, morselli, pasta tedesca, stelle, stellette, offelle, fiadoni, fiadoncelli, rosoni, guanti, torte, reticelle, pasta finta ecc. (pag.700).
Lo stesso autore trattando dei fornai o panettieri ricorda i diversi modi usati nella sua epoca per manipolare il pane e le diverse altre vivande ottenute con la farina dei cereali, in tutto eguali sia quelli degli antichi, sia quelli ancora oggi in uso.
Dopo la scoperta dell’America si diffuse in Europa la coltivazione di diverse specie di solanacee, la patata e il pomodoro specialmente, e del granoturco (Zea mais), che accrebbero notevolmente le fonti di nutrizione popolare.
I classici della medicina antica (IPPOCRATE, GALENO, CELSO, PAOLO DI EGINA) attribuirono una grande importanza alla dieta considerandola sia come causa o condizione di mantenere la salute o di produrre varie malattie, sia come mezzo terapeutico o di cura. Attribuirono gli effetti benefici o malefici alle diverse qualità dei vari alimenti, che si potevano dedurre da una osservazione spesso superficiale, ma talora anche profonda degli individui sani o malati. Queste osservazioni sono però quasi sempre alterate dalla credenza di dover suddividere le diverse qualità secondo le quattro categorie aristoteliche di caldo, freddo, secco ed umido, dei quali diversi cibi parimenti sarebbero variamente dotati, provocando negli organismi effetti correlativi. Ad IPPOCRATE non sfuggì il fatto che dei diversi cibi e bevande è necessario conoscere la potenza tanto quella derivante dalla loro natura, quanto quella derivante dall’arte; come pure il fatto che gli alimenti o bevande che offrono sensazioni gustative simili, siano dotati delle stesse facoltà alimentari, non avendo la stessa potenza delle sostanze dolci né le amare, né altre dello stesso genere. Molte di questi fatti possono favorire ed arrestare l’evacuazione intestinale, disseccarla o umettarla, altri restringono e commuovono l’intestino, ed eccitano l’urina, altri riscaldano o raffreddano.
Gli effetti che gli antichi massimamente consideravano come prodotti dagli alimenti erano naturalmente limitati alle conseguenze più o meno dirette ed evidenti che osservavano nella digestione o nella defecazione o secrezione renale. Una grande importanza attribuivano anche alla capacità di produrre fiati o ventosità. IPPOCRATE esaltando i vantaggi della “ptisana” come alimento più adatto nelle malattie acute fra gli altri ammanniti coi prodotti del frumento, rileva queste qualità: la sua viscosità (consistenza) è lieve ed uniforme, gioconda e lubrica, moderatamente umida, dissetante, che si dissolve facilmente, se è necessario; non produce restringimento di corpo, né cattiva turbazione, né tumefà il ventre, poiché essa durante la cottura si rigonfiò al massimo.
Non sfuggì agli antichi il fatto che i diversi alimenti, specialmente le diverse specie di pane, fossero dotate di diversa capacità di nutrire e di procurare diverso vigore e forza muscolare; né sfuggì ad essi che i diversi alimenti potessero avere un’azione nutritiva diversa secondo che fossero in grado di produrre succhi di gestione e di assorbimento (chimi) di buona o cattiva qualità. CELSO distingue appunto secondo questa classificazione i diversi alimenti in cacochimi ed euchimi.
Dal punto di vista dell’azione curativa o terapeutica gli antichi riconobbero la necessità del digiuno o della moderazione dell’alimentazione in molte specie di malattie, specialmente acute; riconobbero come causa di malattie generali l’abuso o la smodata ghiottoneria e voracità; ma più che altro attribuirono alle diverse specie di alimenti animali e vegetali d’uso comune o straordinario, una copiosa e svariata azione curativa spesso specifica, delle diverse malattie, la maggior parte desunta da considerazioni speculative, e che costituisce il tessuto principale delle indicazioni terapeutiche delle vecchie materie mediche e farmacopee, trasmesse coi libri di DIOSCORIDE, dagli Arabi al Rinascimento e in parte anche all’epoca attuale. Il concetto fondamentale che guidava queste attribuzioni curative era che le qualità o virtù che si vedevano direttamente nei vari alimenti e droghe potessero trasmettersi direttamente nell’uomo che se ne cibava. Persino le qualità morali degli animali donde provenivano le carni, sarebbero passate nelle persone.
Roma, Università, Istituto di fisiologia umana. Silvestro Baglioni