BORGIA Alessandro Cronaca Fermana anni 1756 1757 1758 Traduzione di TASSI Emilio

ANNO 1756

1756.1     Morte del pievano di <Monte> San Giusto – Suo elogio – Nomina di parroci in due  parrocchie ad Altidona.

Alla fine del 1755 era morto Marino Fedeli, pievano di <Monte> San Giusto, il quale con intenzione leggera ottenne dalla dataria Apostolica il nome di prioria per quella parrocchia, come se chiamarsi priore fosse più importante che essere detto pievano. Tuttavia aveva seguito la parrocchia in modo devoto e diligente, preoccupato del bene delle anime. Donò ai padri della Compagnia di Gesù del collegio di Fermo la somma di cento scudi con l’impegno che istruissero il popolo, predicando lì, ogni tre anni, dalla festa dei Santi Innocenti fino all’Epifania, e preparò, per il loro alloggio, due locali presso la chiesa priorale. Costituì anche un fondo dotale perché ogni anno, il giovedì prima del mercoledì delle Ceneri, si celebrasse nella sua chiesa di San Giusto la Comunione eucaristica generale. Tuttavia poca cura dimostrò nella riparazione degli altri edifici sacri. Così mi dispiacque moltissimo che egli avesse trascurato completamente la chiesa rurale di San Tossano, vicina al paese, fino al punto che essa andò totalmente in rovina. In  essa, nel giorno delle rogazioni, si celebrava la solenne supplica del clero e del popolo per la benedizione dei campi. A succedergli ho nominato Pio Prosperi da Magliano <?Mogliano> di età di 30 anni che si era dedicato seriamente agli studi della teologia morale nella università degli studi di Fermo e aveva partecipato spesso ai concorsi per le chiese vacanti della diocesi, per cui avevo la speranza che riuscisse bene.

La dataria Apostolica affidò la prepositura di Altidona a Nicola Eusebi di Loro. Tuttavia quella parrocchia era molto gravata da una pensione annua di novanta scudi. Sempre in Altidona affidai la cura delle anime dell’altra parrocchia vacante a Michele de Rossi, nostro vicario foraneo; questa parrocchia era gravata invece da pensioni molto lievi.

1756.2     Opzione del cardinale Raniero D’Elci per la diocesi di Ostia e Velletri.

La Chiesa di Ostia e di Velletri era rimasta vacante per la morte del cardinale Carafa. Il 21 gennaio, secondo l’uso antico della curia Romana, il cardinale Raniero D’Elci, senese, già vescovo di Porto e Santa Rufina, esercitò l’opzione su di essa, in concistoro. Benché avesse 86 anni, destò ammirazione il fatto che subito facesse la visita pastorale all’intera diocesi di Velletri con molta diligenza, recandosi anche nei luoghi più scomodi di montagna in sella ad un cavallo, felicemente. Nulla tralasciò di quello che un vescovo deve fare in tali circostanze, attentissimo al rispetto delle norme del culto divino, dimostrando amore e interesse per il proprio gregge. Questa cosa sinceramente lo fece apparire come avesse una età di molto inferiore.

1756.3     Il terremoto ad Ancona e a Rimini – Le missioni al popolo dei padri “Imperiali” a  Sant’Elpidio a Mare.

I terremoti non solo a Ulyssipone, ma anche in altre parti del mondo cristiano, distoglievano i cuori mortali degli uomini dall’amore alle cose futili. Anche nelle regioni vicine alle nostre zone, la terra tremò il 5 gennaio ad Ancona e il giorno 8 a Rimini, tuttavia da noi ancora si tenevano feste mondane carnevalesche, in disprezzo di questi segni minacciosi del cielo e della terra, nei nostri paesi. Nel frattempo il marchese Francesco Maria Imperiali proseguiva la predicazione delle sacre missioni a Sant’Elpidio a Mare, ma il nemico dell’uomo, con le sue diaboliche insidie, sopra il seme del buon grano, seminò la zizzania. I frati Minori detti dell’Osservanza avanzavano accuse contro questi missionari itineranti assidui e zelanti, dicendo che essi, in contrasto con le regole fissate dalla Sede Apostolica, nelle confessioni richiedevano ai penitenti il nome del complice. Dicevano pure che i missionari permettevano alle donne di frequentare la chiesa prima dell’alba. Alcuni non ebbero timore di definirli semipelagiani. La situazione quindi si andava rendendo turbata, ancor più per il fatto che i più saggi del popolo, infastiditi per il superficiale modo di agire e di parlare di alcuni frati dell’Osservanza, chiedevano che, in quel convento, si stabilisse un ritiro dei frati più ferventi dello stesso ordine e che per questo era chiamato dalla gente “convento di ritiro”.

Questa decisione era consigliata e promossa dal marchese Imperiali. Il fatto gli procurò l’avversione grave dei frati Minori in quanto egli sarebbe stato promotore di ostili atteggiamenti. Cercai di intervenire presso i superiori dell’ordine, ma invano dal momento che avevano già deciso che nella provincia picena dell’Osservanza dovessero esserci due conventi già destinati per il suddetto ritiro: uno ad Osimo e l’altro a Ripatransone. Sapendo che non era possibile andare a caccia quando i cani non lo volessero, ho proposto di trasferire da quel convento tre dei frati più discussi e, visto poi che si trascurava di farlo, intervenne il mio vicario generale a togliere a quei tre frati la facoltà di confessare. Il marchese Imperiali, dopo un lungo soggiorno a Sant’Elpidio, per rimettersi in salute, poiché si era molto indebolito, si trasferì a Civitanova dove continuò nella predicazione delle missioni al popolo, senza trovare alcuna opposizione. Darò altre notizie di queste vicende in seguito.

1756.4     Istituzione di un ospedale a Monte Giberto – Padre Filippo Giglia predica la quaresima   in cattedrale.

Rosa Capobianchi, madre di p. Eusebio da Monte Santo dell’ordine dei Cappuccini, aveva istituito un ospedale per malati a Monte Giberto. Alla sua morte, avvenuta il 15 ottobre dello scorso anno, lo lasciò erede delle limitate sostanze che aveva.

Padre Filippo Giglia da Civitanova, ministro provinciale dei Cappuccini ha predicato la quaresima nella metropolitana. Era celebre tra i predicatori perché parlava in modo ampio e atto a convincere. Io stesso avevo sostenuto la sua vocazione religiosa, per la sobrietà della sua vita, nonostante che fosse l’unico figlio maschio nella sua famiglia che era tra le più onorate nel paese.

1756.5     Grave furto ai danni dell’arcivescovo – Istituzione del Monte di Pietà ad Altidona.

Subii un gravissimo furto all’ora ottava della notte del 13 marzo,  prima del sabato in cui si tengono le ordinazioni. Sono stati sottratti tutti i soldi che erano nel tavolino dello studio del palazzo e altri oggetti preziosi, dopo infranti i contenitori. Non disposi un’attenta inchiesta sugli autori specialmente perché la maggior parte delle cose mi furono riconsegnate da un sacerdote confessore. Però a cancellare ogni sospetto, che toccava anche Riccardo mio nipote in quanto forse era a conoscenza del furto, lo allontanai da me mandandolo a stare nel seminario di Ascoli, dove sarebbe stato sotto la sorveglianza del vescovo, suo cugino. Il 7 aprile egli vi andò.

Nel mese di marzo ho istituito ad Altidona un Monte di pietà pecuniario per disposizione del sacerdote Giovanni Antonio Lamponi; l’istituzione fu detta Monte Lamponi dal nome del fondatore. La dote costituita era di 225 scudi di argento oltre ad altri 50 scudi spesi per preparare la struttura di conservazione. L’amministrazione era affidata al comune del paese.

1756.6     Concessa l’iscrizione alla nobiltà Romana a mio fratello Camillo e a tutta la famiglia.

Venne decretata, il 18 marzo, la concessione del privilegio della nobiltà Romana a mio fratello Camillo, ai suoi figli e a tutti i suoi posteri. La nostra famiglia usufruiva di simile onore in forza di altri precedenti privilegi, ma da questi era possibile che insorgesse qualche problema a causa della costituzione edita da Benedetto XIV nel 1745. Si è risolto infatti facendo una replica della cooptazione nella nobiltà Romana a norma della forma stabilita nella stessa costituzione emanata da Benedetto.

1756.7     Continuazione della causa intentata per difendere le esenzioni della Chiesa Fermana  contro i tesorieri della Provincia.

La vertenza sulle esenzioni da alcune tasse per la nostra Chiesa, da me intentata contro i tesorieri della provincia, è stata introdotta il 5 aprile presso la riunione plenaria della camera Apostolica. Degli undici giudici votanti, quattro, cioè Bianchi, De Vecchi, Bonaccorsi e Piccolomini espressero la loro opinione a nostro favore, dicendo “constava che dovesse essere deliberata la restituzione in “integro”. Invece altri sei giudici si pronunciarono contro di noi, dicendo che “il giudizio emesso era da considerarsi definitivo”. L’ultimo giudice, cioè Panfili, disse che sarebbe stato necessario distinguere sul tipo delle singole gabelle. Ci fu concessa, per la gentilezza della parte avversa, la possibilità di proporre di nuovo la controversia alla commissione plenaria della Camera Apostolica e con voto unanime questo ricorso ci fu consentito. Di conseguenza, attualmente, stiamo lavorando moltissimo per documentare più abbondantemente i diritti della Chiesa Fermana con ulteriori vaste argomentazioni prodotte e, con l’aiuto di Dio, abbiamo la speranza che la vicenda venga chiarita e finalmente l’immunità della nostra Chiesa  Fermana risolta a nostro favore e mantenuta in modo sicuro.

1756.8     Disposizioni sulla separazione nella chiesa metropolitana tra i posti assegnati alle  donne e quelli riservati agli uomini – Disposizioni relative al canto liturgico.

Stimolato dall’esempio di Benedetto XIV il quale aveva ordinato di eliminare dalle chiese di Roma la disordinata mescolanza tra gli uomini e le donne, anch’io il 9 aprile ho emanato un decreto su questo e su altri abusi da tener lontani dalle chiese, aggiungendo la concessione di un’indulgenza per le donne che venissero in chiesa con il capo coperto e la faccia velata. Anche per la musica ho ammonito i maestri ed i cantori a tenere distinto il canto liturgico che è diverso dal canto profano che non valorizza le parole; mentre nella liturgia le parole inculcano fortemente i sentimenti e il primo deve dare forza e sottolineare la Parola (di Dio) in modo che penetri nel cuore dei fedeli allorché cantano. Invece l’altro canto è teso semplicemente alla ricerca del diletto.

1756.9     Morte del cardinale Enrico Enriquez napoletano e vicende della sua vita.

Enrico Enriquez, napoletano, mentre era nunzio in Spagna, alla fine dell’anno 1753, da Benedetto XIV fu creato cardinale e fu subito inviato a reggere la legazione dell’Emilia. Domenica 25 aprile, all’età di 55 anni, morì a Ravenna. Di lui si sono dette giustamente molte cose lodevoli: era molto colto nella letteratura, diligente nel trattare i problemi, pieno di umanità e chiaro negli impegni del suo ufficio. Il nostro Piceno lo apprezzava dal momento che era stato esperto governatore della provincia di Macerata. Dopo il suo ritorno egli fu memore e riconoscente al patrizio Filippo Mornati, canonico penitenziere di Macerata, famoso per la sua probità tanto da fargli ottenere il vescovato di Sutri e Nepi, grazie alle sue raccomandazioni. Quando lasciò Macerata per la nunziatura, portò con sé, come suo uditore, il figlio del conte Pallotta. Sopportò con pazienza le mutevoli sorti della famiglia, fino all’ultima sua disgrazia, e nel suo testamento lasciò parte dei suoi beni alle opere pie e anche ai familiari e ai dipendenti della sua famiglia, come prova della sua gratitudine. Tuttavia i cardinali e coloro che praticavano la curia Romana non potevano dimenticare tutto quello che era stato compiuto da lui in qualità di nunzio a Madrid in accordo con il re di Spagna, contro gli interessi della Sede Apostolica specialmente in materia di conferimento dei benefici ecclesiastici. Egli aveva tentato di scusarsi, per il fatto che ciò che era successo, era avvenuto senza che egli ne fosse informato, ma nessuna persona prudente poteva accogliere una tale scusa, anzi erano convinti che era stato mandato nunzio in Spagna con una inconsueta carriera, mentre era governatore di questa provincia, perché il cardinale Enriquez era originario della Spagna, e perché la sua famiglia stava nel regno di Napoli, dove possedeva dei feudi sotto il dominio dei Borboni, per cui le sue intenzioni e i suoi interessi erano stati sempre molto vicini a quelli della Spagna. Si sospettava infatti che gli Spagnoli lo scelsero per quella nunziatura per avere una persona sempre disponibile alla realizzazione dei loro progetti e adatta ai successivi trattati riguardanti i benefici ecclesiastici.

1756.10      Prosecuzione della visita pastorale – Morte di Ignazio Stelluti vescovo di Macerata.

Il 4 maggio mi sono recato a Santa Vittoria per continuare la visita, accompagnato dal primicerio Leli; da Fabrizio Marcianesi, sacerdote della congregazione della Missione e da mio nipote Stefano Borgia, come con-visitatori. Lì mi incontrai con l’altro mio nipote, il vescovo di Ascoli, il quale da Offida, che era il principale paese della sua diocesi, dove si trovava in visita pastorale, era salito a Santa Vittoria per parlare e chiarire con me alcune difficoltà che incontrava nel governare alcune monache della città di Ascoli. Appresi con molto dispiacere in tale circostanza che il 5 maggio era morto, improvvisamente mons. Ignazio Stelluti, vescovo di Macerata e Tolentino, mentre si stava preparando a ritornare a Fabriano, sua patria, per curarsi. Aveva retto quella diocesi per più di venti anni, suscitando ammirazione, manifestando un animo mite e rispettoso nei miei confronti. Il vescovo di Ascoli ritornò subito ad Offida, mentre io da Santa Vittoria mi sono recato a Servigliano, per continuare la visita. Presi troppa aria durante il viaggio per cui fui colpito da una irritazione agli occhi che mi provocava fastidio durante lo svolgimento di quelle funzioni che vengono praticate dal vescovo, durante la visita. Non tralasciai però nulla, né a Servigliano né a Grottazzolina. Da qui mi sono recato nella mia residenza di campagna di San Martino presso Fermo, ma vi sono rimasto per pochi giorni, poiché per il giorno di Pentecoste sono dovuto tornare in città, dove ho amministrato la Cresima ad alcune centinaia di fanciulli e fanciulle. Ho celebrato poi le sacre ordinazioni e ho guidato la processione del Corpus Domini, benché fossi ancora sofferente per la lacrimazione degli occhi. Fortunatamente la fatica e la forte essudazione che sopportai, durante la processione, mi fece scomparire il fastidio che avevo. Gli occhi si guarirono. Dal che si dimostra che un vescovo non dovrebbe aver paura dei fastidi provocati dalla malattia, né facilmente tralasciare, per questa, gli impegni del suo ministero, non appena comparissero i primi leggeri sintomi del male. Compiuti tutti questi impegni, sono tornato in campagna a San Martino e vi sono rimasto fino alla vigilia della festa dei santi apostoli Pietro e Paolo. Tenni allora l’omelia sull’argomento della colpa del rinnegamento di san Pietro.

1756.11     Riesumata la controversia con i frati di Macerata sulla proprietà della mensa nel   territorio di San Claudio.

I frati del convento di Santa Maria alla Fonte di Macerata, con altri loro soci, avevano, nel passato, mosso causa contro la mensa davanti a parecchi tribunali, e, alla fine, anche presso l’uditore della sacra Rota Romana, mentre avevano tentato di occupare degli appezzamenti dell’antica proprietà della mensa arcivescovile, in territorio di San Claudio. Dopo dieci anni, da quando fu emanata la sentenza che dava ragione a noi, credendo che ce ne fossimo dimenticati, ottennero dalla sacra Rota la reintegrazione di quanto essi richiedevano e, senza informarmi, con grande apparato, all’inizio del mese di luglio, avevano dato inizio alla esecuzione alla nuova decisione, e si appropriarono degli appezzamenti di terra che la sacra Rota non aveva assegnato a loro e che, per di più, dalla stessa mappa che essi stessi avevano esibita al tribunale, si riconosceva essere di nostra proprietà. Inviai la mia protesta contro questi tentativi, tuttavia, non sollecitavo la riapertura della causa, sperando che i frati cambiassero opinione e si ravvedessero. La vicenda certamente dovette suscitare grande stupore per il fatto che proprio i religiosi, per una piccola cosa, avevano mostrato tanta pervicacia, tanta agitazione di animo e che, in poco tempo, sperperarono una cosi ingente somma di denaro preso, fra l’altro, in prestito, trattandosi del caso di un pezzo di terra oltretutto sterile. Ad agire con artifici contro la nostra Chiesa Fermana erano questi religiosi.

1756.12     Sospensione del commercio del frumento per via marittima.

Durante il presente anno, ho sospeso l’esportazione del grano della mensa arcivescovile per via di mare, innanzitutto perché negli anni precedenti il Piceno non aveva raccolto una sufficiente quantità di grano, poi perché il prezzo del frumento all’interno della provincia era più alto, si vendeva infatti cinque o sei scudi di argento per ogni rubbio, da ultimo per non impegolarmi nelle difficoltà che si incontravano per ottenere da Roma le facoltà di vendere il frumento all’esterno del territorio. Anche se si fossero ottenute, poi, le debite licenze, non era certo che avrei potuto vendere il grano ad un prezzo superiore a quello che si poteva ricavare nella provincia, senza considerare inoltre le spese necessarie da fare per l’esportazione marittima.

1756.13     Causa di beatificazione del venerabile servo di Dio padre Antonio Grassi.

La causa canonica per la beatificazione del venerabile servo di Dio Antonio Grassi, anticamente rettore della congregazione Fermana di san Filippo Neri, già discussa a Roma nella riunione anti-preparatoria della congregazione dei Riti nell’anno 1748, con esito negativo, il 30 luglio dell’anno corrente era stata proposta di nuovo, come mi era stato richiesto da tutto il clero e dal popolo in occasione della celebrazione del terzo sinodo diocesano. Ne scrissi al sommo pontefice, dopo aver premesso e raccomandato speciali preghiere a Dio, sia nella metropolitana che in tutte le altre chiese della diocesi. La richiesta ebbe successo con la maggioranza dei voti dei consultori i quali deliberarono che constava che le virtù teologali e cardinali erano praticate da questo venerabile servo di Dio in grado eroico. Furono pochi voti contrari e alcuni dichiararono doversi sospendere la causa.

1756.14      Norme relative ai saluti da porgere alle autorità civili in occasione delle solenni     predicazioni.

Si andava diffondendo nella diocesi un’errata consuetudine da parte di molti predicatori che rivolgevano un pubblico saluto al magistrato, non soltanto prima di iniziare la predica vera e propria, ma anche dopo aver iniziato a predicare. La maggior parte di essi, che in genere venivano scelti e nominati delle pubbliche autorità, cadevano in questo errore perché pensavano spesso e volentieri di dover esprimere il proprio ringraziamento per la nomina che era stata loro concessa. Onde evitare questo errore, credetti opportuno di ammonire i sacerdoti della Compagnia di Gesù, alle cui prediche il magistrato di questa città spesso interveniva, affinché si astenessero dal rivolgere un secondo saluto dopo aver iniziato la predica, in modo che venissero rispettate doverosamente le disposizioni date da Clemente XII con la lettera del 25 marzo 1733, diretta al vescovo di Rieti, e riferita dal celebre canonista Giuseppe Catalani nel primo tomo dei suoi commentari al cerimoniale dei vescovi a pagina 311 sotto la postilla “a”.

Quei sacerdoti informarono della cosa il magistrato, il quale si lamentò con me che avevo dato loro l’ammonizione. Risposi che la vicenda non dipendeva da me, ma dalla volontà del sommo pontefice e che se fosse stato permesso, io lo avrei volentieri approvato affinché a tutti fosse nota più chiaramente la preminenza di questa magistratura sopra tutte le altre. Da parte sua il magistrato si diede molto da fare presso Roma per ottenere che fosse accolto il suo desiderio, ma tentarono inutilmente. Allora immediatamente per questa controversia, che riguardava esclusivamente i riti sacri, osarono imprudentemente rivolgersi all’uditore di Camera. Di ciò avvertii il papa Benedetto XIV. Egli avocò a sé la questione e mi inviò una lettera comunicandomi che concedeva l’indulto di poter dare un secondo saluto al magistrato durante la predica, però che ciò non doveva avvenire nella metropolitana, ma nelle altre chiese, inoltre, a condizione che in queste non fosse presente l’arcivescovo. Aggiunse anche altre indicazioni soprattutto al fine che le persone nell’ufficio di magistrato non fossero assenti nella celebrazioni pontificali, in modo che tale loro comportamento non contagiasse le altre autorità nella diocesi. Inoltre si rendesse noto che tale indulto era stato concesso col consenso dell’arcivescovo. Dopo tale lettera del papa, Ignazio Reali prefetto delle cerimonie pontificie pubblicò un editto, il 2 agosto di quest’anno, e me lo spedì immediatamente.

1756.15     A causa della grave siccità durante l’estate vengono rivolte speciali preghiere                      al protettore di Fermo san Savino.

Durante l’estate abbiamo molto sofferto per la grave siccità della stagione e per la mancanza dell’acqua, per cui le persone e gli animali soffrivano moltissimo. Pregavamo il cielo che mandasse la pioggia a noi ed alla terra riarsa, ma le nostre preghiere furono inefficaci fino al 6 luglio, quando, con l’intercessione del nostro celeste patrono san Savino, dopo aver esposto solennemente il suo sacro capo e dopo aver fatto la processione, con la reliquia, pregando lungo il Girfalco, benedicemmo la campagna e la città. La notte seguente cominciò a cadere la pioggia dal cielo, che continuò più abbondante anche nei giorni successivi, sia pur frammista alla grandine. A causa di quella mancanza d’acqua si ebbe una scarsa raccolta di frumento e delle altre messi. La vendemmia dell’uva fu ridotta e la quantità di tutte le olive fu scarsissima.

1756.16     Personaggi illustri alla fiera di Fermo – Presenza del francese Pollastron comandante     delle fregate Pontificie.

In occasione della festa della Madre di Dio Assunta in cielo, e della fiera di agosto ho ospitato i soliti prelati, ossia Stella, governatore di Loreto, insieme con suo nipote Cesare Castagna e Ferrera; ma, anzitutto, il cavaliere gerosolimitano De Pollastron, francese, che comandava la fregata del sommo pontefice e che, alla sua prima uscita contro i pirati turchi, nell’ottobre del precedente anno, aveva sconfitto una nave pirata, proveniente da Algeri, e aveva catturato 86 pirati e 24 li aveva uccisi. Questo fatto per noi inconsueto e non frequente, procurò a lui fama e gloria. Egli venne da noi per l’amicizia che lo legava a mio nipote Giovanni Paolo Borgia, anche lui cavaliere dello stesso ordine militare, che, a Malta, aveva curato la riparazione di una nave maggiore, di cui era luogotenente del comandante. Dopo ritornato da là, ora dimorava a Centocelle per preparare una nuova spedizione navale contro i pirati turchi. Lo stesso De Pollastron era esperto, non soltanto nell’arte militare, ma anche nelle discipline civili e specialmente nella dottrina cristiana. La sua breve permanenza presso di me suscitò, in tutta la città, una grande ammirazione. Gli consegnai i primi dieci volumi scritti da Salmon che descrivevano la presente situazione di tutta la terra e di tutti i popoli, affinché li consegnasse a mio nipote a Centocelle. La lettura dell’opera certamente gli sarebbe stata utile nelle sue escursioni marittime per conoscere la geografia dei mari e delle terre, le città, gli stati e i vari costumi degli uomini.

1756.17     Morte del cardinale Silvio Valenti, segretario di Stato del papa Benedetto XIV.

Il cardinale Silvio Valenti di Mantova morì a Viterbo il 28 agosto: era stato segretario di Stato del pontefice Benedetto XIV, per tutto il periodo. Aveva avuto il compito di dirigere la vita dello Stato della Chiesa ed era stato insignito del compito di camerlengo della Santa Chiesa di Roma. A motivo della salubrità del clima e per curarsi nelle acque termali, si era recato a Viterbo, per ricuperare la salute. Volle andarci, nonostante il parere contrario dei medici, perché nel passato vi aveva trovato un grande giovamento per i suoi mali. Nel periodo del suo governo, lo Stato Romano pontificio dovette subire parecchie traversie, specialmente a causa del frequente passaggio delle truppe straniere e delle pessime guerre che i principi cristiani combattevano tra loro nel nostro territorio. In molte di queste difficoltà, Silvio Valenti era il principale operatore come punto di riferimento e il più ascoltato consigliere, in quanto conoscitore delle parti belligeranti, e perché, mentre stavamo vivendo tempi calamitosi, era preoccupato più del bene comune e degli altri che non del nostro interesse. Fu il promotore e il maggiore sostenitore delle iniziative che si rivelarono utilissime alla sicurezza della Stato ecclesiastico. E fu molto vantaggiosa alla sicurezza dei commerci la sua introduzione di due fregate che, durante l’inverno, percorrendo le nostre coste, proteggevano le navi commerciali dagli attacchi dei pirati turchi. Nel passato, infatti, disponevamo soltanto di triremi leggere che potevano essere utilizzate solo durante l’estate. Volle che la propria morte avvenisse in un convento e dispose che le proprie spoglie fossero sepolte nella chiesa di san Bonaventura dai frati Minori Osservanti riformati, dove qualche anno prima, era morto ed era stato tumulato il celebre predicatore di missioni al popolo che fu fra’ Leonardo da Porto Maurizio, morto in fama di santità.

Dopo di lui, Benedetto XIV nominò, come segretario di Stato, Alberico Archinti di Milano che da poco aveva promosso cardinale di santa Romana Chiesa. Ben presto gli diede anche la nomina di vice camerlengo,  mentre la carica di camerlengo, dopo la morte di Silvio Valenti, l’aveva assegnata al cardinale Girolamo Colonna. Era antica la mia conoscenza dell’Archinti; infatti, mentre io ero internunzio apostolico a Colonia Agrippina, accolsi Girolamo Archinti che vi era stato mandato come nunzio, insieme con questo suo nipote Alberico e abitammo insieme per diversi mesi. Allorché egli ricevette la nuova alta carica, io gli scrissi, congratulandomi, egli mi rispose con grande gentilezza il giorno 11 settembre, aggiungendo alla fine delle lettere con la propria grafia queste parole: “La mia servitù è nota a Vostra Signoria Illustrissima da molti anni, i miei sentimenti non variano, ne deduca Ella la naturale conseguenza”.

1756.18     Ripresa a Sant’Elpidio la contrastata vicenda dei frati Minori Osservanti e                     dei missionari dell’Imperiali.

Frattanto gli abitanti di Sant’Elpidio a Mare richiedevano a Roma che il convento locale dei frati Minori fosse trasformato in “casa di ritiro” cosa che i superiori dell’ordine assolutamente non volevano. Il papa comandò soltanto che i frati che erano stati sospesi dall’ascoltare le confessioni fossero mandati via dal convento di Sant’Elpidio a Mare, sostituendoli con religiosi di migliori referenze. I missionari da parte loro, chiedevano giustizia e il mio vicario generale aveva ordinato di istruire un processo in cui venissero esaminate le loro prediche e le accuse mosse dai frati i Minori contro i missionari. Io, temendo che si indagasse sulla condotta dei frati, che sono esenti dalla mia giurisdizione, mi preoccupai che nessuno osasse interessarsi di ciò che non riguardava, strettamente, la vicenda della predicazione dei missionari. Ma tale fu l’animosità dei testimoni nel diffondere le colpe dei frati e tale fu la notorietà degli scandali, che nel processo entrarono molti altri aspetti, che non riguardavano la controversia sui sacerdoti che predicavano le missioni. Ciò mi dispiacque, ma mi preoccupai moltissimo allorché venni a sapere che era stata data ai missionari una copia del processo. A questo punto i frati Minori si rivolsero all’inquisitore di questa città, che era un frate domenicano, affinché aprissero una inchiesta contro i missionari sulle vicende che abbiamo riportato sopra. Da parte mia, nella certezza che simili inchieste e processi avrebbero provocato la perdita di stima e di fama dei frati Minori e che in tal modo decadevano e si annullavano i buoni frutti delle sacre missioni, pensai di pregare il sommo pontefice di interessarsi della vicenda e che imponesse il silenzio alle due parti. Il pontefice approvò la mia proposta e mi ordinò di imporre loro il silenzio, come io feci. Così non continuò la loro controversia:  fu sedata, ma non estinta.

Il marchese Imperiali, mentre i suoi compagni proseguivano la predicazione a Monte San Pietrangeli e a Francavilla, si recò a Roma dal papa e si lamentò dei frati, specialmente di quelli che erano a Sant’Elpidio e che erano anche in altre parti, come nel loro convento a Petritoli, dove in quei giorni era accaduto un altro grave fattaccio. Lo stesso papa Benedetto, preoccupato della situazione così turbata, il 29 ottobre mi scrisse una lettera, non approvando la nuova casa di ritiro nel convento di Sant’Elpidio e comandandomi, in modo perentorio, di reprimere tali cose e di far in modo che, a causa di queste liti e gare di emulazione, il culto divino e la salvezza delle anime non fossero compromessi e nel caso incontrassi difficoltà, per mancanza di giurisdizione, glielo notificassi. Risposi al pontefice spiegandogli diffusamente l’origine di tutti i mali.  Il papa consegnò la mia lettera al superiore dell’ordine dei frati, che allora si trovava a Roma, il quale mi fece sapere di essere pronto a curare i mali, non appena io li avessi notificati a lui. Dopo ciò Benedetto XIV cominciò a star male di salute.

Il marchese Imperiali, rassicurato dalle parole del papa, tornò da Roma a Fermo e si recò a Rapagnano per continuare il suo impegno di predicazione. Vi rimase fino all’inizio dell’anno successivo. Da lì andò a Montefano, paese appartenente alla diocesi di Osimo, per predicarvi, come aveva già promesso, le sacre missioni al popolo. La causa della loro partenza per andare lontano da noi fu probabilmente il fatto che, dopo essere stati insistentemente pregati dagli abitanti di Montolmo, questi mutarono parere e chiesero a me che inviassi a Montolmo i sacerdoti della congregazione della Missione. Ho pensato che non sarebbe stato il caso di assegnare loro dei missionari che essi non avrebbero graditi.

I sacerdoti della congregazione della Missione si erano eclissati già da qualche anno e recentemente si erano vergognati per essere stati superati dai nuovi predicatori delle missioni. Recentemente i sacerdoti che erano nella casa di Fermo si erano uniti con quelli che erano a Macerata e ripresero in pieno l’attività della predicazione delle missioni al popolo. Si recarono a Montolmo e in seguito anche in altri luoghi della nostra diocesi. Io, del resto, mi ero andato sempre di più convincendo che era più utile e fruttuoso avere predicatori appartenenti alla diocesi che chiamare quelli pellegrinanti che fossero venuti da fuori.

1756.19    Prosecuzione della visita pastorale.

Ora torniamo al nostro racconto. Ho ripreso la visita pastorale, il 6 settembre, dopo aver scelto i soliti con-visitatori. Mi sono recato a Sant’Angelo in Pontano, in seguito a Penna San Giovanni e ad Amandola dove, nella chiesa collegiata, tenni una sacra ordinazione. Proseguendo il percorso, mi sono recato, da settembre ai primi di ottobre, a Montefortino, a Monte San Martino e infine a Monteverde. Il 5 ottobre mi sono ritirato nella residenza di San Martino per riposare.

1756.20     Visita all’arcivescovo dei suoi due fratelli Pietro Antonio e Cesare.

Mentre mi trovavo a San Martino, vennero a Fermo e poi passarono da me i miei due fratelli Pietro Antonio, canonico coadiutore della basilica Lateranense, e Cesare, cavaliere gerosolimitano. In precedenza erano stati a visitare il <nostro> nipote, vescovo di Ascoli. Dopo l’arrivo a Fermo e a San Martino, il canonico Pietro Antonio si recò a Sant’Elpidio a Mare, dove doveva sistemare alcune faccende della sua basilica Lateranense, da cui dipendeva la locale confraternita chiamata di Santa Maria della Misericordia, sodalizio molto ricco. Nei confronti dell’amministrazione di questa confraternita infatti erano giunte a Roma parecchie lamentele. Mio fratello, però, tornò presto e, insieme con Cesare, il 16 di ottobre, partirono per Ancona, da dove ambedue si recarono a Velletri e, in seguito, Pietro Antonio tornò a Roma e Cesare al Porto di Anzio, dove era comandante.

1756.21     Costruzione della casa parrocchiale della pievania di S. Anatolia di Petritoli.

In questa mia cronaca dell’anno 1754 ho riferito quanto accadde nella pievania, presso il castello di Petritoli. Il papa Benedetto XIV mi concesse la facoltà, per un biennio e in seguito per un terzo anno, di differire la collazione della stessa pieve e così poter utilizzarne tutti i proventi, detratte le spese, per la costruzione della abitazione per il pievano presso quella chiesa. Come riferito, nell’anno passato, l’abitazione veniva costruita vicina alla parte anteriore della chiesa. Durante l’anno corrente la costruzione è stata completata ed è risultata adatta e decente. Costruita la casa, il 22 ottobre, ho conferito la pievania a Alessandro Olivieri, patrizio fermano.

Alla fine di questo mese morì Francesco Antonio Arditi, bravissimo sacerdote, vicario della nostra abbazia di San Claudio e vicario foraneo di Montolmo. Ha svolto la sua opera lungamente, in mio aiuto, con diligenza e fedeltà; era vecchio e quasi cieco. Ha lasciato i suoi beni per i suffragi della sua anima da celebrarsi dai frati Cappuccini. A succedergli chiamai il presbitero Ludovico Paoletti, nato da una delle più onorate famiglie del luogo.

1756.22     Nomina di Giuseppe Maria Jaffei a parroco di San Matteo di Fermo, e nomina del  nuovo rettore del Seminario nella persona di Giuseppe Mannocchi di Petritoli.

Sono tornato in città, il 30 ottobre, per celebrare la solennità di Tutti i Santi, nella quale pensai che fosse mio dovere parlare dell’inizio dello scenario di una nuova guerra suscitata dai Prussiani che avevano invaso la Sassonia. Implorai la divina clemenza affinché gli Stati cristiani potessero raggiungere la vera pace.

Intanto affidavo la parrocchia cittadina di San Matteo al ministero del sacerdote Giuseppe Maria Jaffei, che lungamente era stato rettore del seminario, dopo esserne stato docente benemerito. Nominai pertanto un nuovo rettore e docente, scegliendo Giuseppe Mannocchi di Petritoli, noto e apprezzato insegnante in molte località della nostra diocesi, di grande ingegno, diligenza e onestà. Prese possesso dell’incarico nel seminario il giorno primo novembre.

1756.23     Partenza da Fermo di Stefano Borgia, nipote dell’arcivescovo per fare esperienza nella prassi curiale a Roma.

Stefano Borgia, mio nipote, da parte di mio fratello, educato presso di me, per la durata di quindici anni e, divenuto ormai laureato in lettere e in molte altre discipline, era opportuno che fosse mandato a Roma per perfezionarsi nella prassi della curia e del palazzo. Nel periodo in cui fu a Fermo, dimostrò preclare doti e indefesso zelo, specialmente nella riorganizzazione dell’accademia degli Erranti, di cui era diventato segretario e dove, nell’ultima riunione, prima di partire per Roma, aveva tenuto un discorso sul profondo dispiacere che provava all’atto di assentarsi da Fermo e dalla stessa accademia. Partì da Fermo il giorno 8 novembre; si recò a Velletri, poi raggiunse Roma dove si iscrisse all’Accademia ecclesiastica, fondata al tempo di Clemente XI, per consiglio, soprattutto, del cardinale Giuseppe Renato Imperiali.

Nello stesso mese venne da me il principe Ruspoli e restò per pochi giorni in cui sperimentò la cortesia della nostra ospitalità e poi tornò a Roma.

1756.24     Restauro delle mura cittadine – Vari altri lavori compiuti a Fermo.

Fu ancora una volta rimandato il restauro delle mura cittadine per la mancanza di soldi e di acque; il lavoro è stato ripreso nel periodo autunnale, specialmente nella zona presso la Porta di San Marco detta della “Pesa” per il fatto che proprio lì veniva pesato il grano portato poi ai mulini. Grazie al restauro di quel tratto di mura, si pensava che la raccolta delle pubbliche entrate potesse crescere nel prossimo triennio per un valore superiore a 10.000 scudi di argento. Anche i ponti necessitavano di restauri, quantunque nella prima alluvione dell’autunno i danni erano stati minimi.

In città, nel collegio Marziale, vennero aggiunti nuovi locali; le monache di Santa Chiara completarono la sistemazione delle camerette del monastero; i frati Conventuali completarono nel loro convento l’ampliamento che era stato interrotto; i Minimi di san Francesco di Paola e i frati Eremitani scalzi di sant’Agostino costruirono le nuove sacrestie nelle rispettive chiese. Francesco Nannerini, uno dei più ricchi abitanti del nostro Porto, restaurò ed ampliò l’edificio della propria famiglia che egli aveva acquistato, a Fermo, dalla famiglia De Nobili; le monache di Petritoli costruirono le camerette nel loro monastero; i canonici della collegiata di San Bartolomeo, a Morrovalle, coprirono col tetto la parte dell’edificio della chiesa che avevano costruita.

1756.25     Costruzione di fornaci nelle proprietà della mensa arcivescovile.

Nelle proprietà terriere della nostra mensa, non esistevano le fornaci per cuocere i materiali  di laterizi e di terracotta. Fino ad allora ci eravamo serviti di fornaci, all’aperto, cioè prive di tetto e pertanto che non duravano a lungo. Mi era venuta pertanto l’idea di preparare le fornaci stabili, per l’uso nostro e dei nostri successori, per la cottura del materiale necessario alla costruzione e alla riparazione degli edifici, che nelle nostre proprietà sono molti e non sempre in buono stato. La prima fornace l’avevo fatta costruire già nei terreni di Santa Croce; con la volontà di costruirne altre per i poderi più estesi della mensa. In quest’anno, ci eravamo proposti di scavarne tre, tutte da munire di tetto: la prima nel territorio di San Claudio; la seconda a Monteverde, presso il fosso di Gera; la terza presso Francavilla. In esse ho fatto preparare il materiale laterizio per costruire o riparare gli edifici negli anni a venire. Quest’anno poco ho speso per le riparazioni necessarie. La maggior parte delle spese le ho fatte presso l’episcopio, nelle stanze che vengono usate dagli esecutori di giustizia o abitate da altri famigli.

Molto numerose invece quest’anno sono state le piantagioni in tutti i terreni o quasi. Ad esempio sono stati piantati trecento pioppi, aggiungendo ad essi le viti; comunque le viti facilmente si rovinavano a causa della siccità. Dalle esondazioni dei fiumi non abbiamo avuto molti danni, o perché sono state deboli le alluvioni, o perché, grazie ai nuovi ripari approntati, erano state contenute, particolarmente presso San Martino.

Durante l’avvento, nella metropolitana ha tenuto le prediche domenicali il maestro Carlo Agostino Ansaldi, di Piacenza, che ha predicato molto bene e ampiamente. Il giorno di Natale io ho tenuto l’omelia ed ho parlato dei vescovi di Fermo della fine del secolo X e dell’inizio del secolo XI.

ANNO 1757

1757.1     Omelia sulla vocazione cristiana.

Nella festa della circoncisione del Signore, durante l’omelia, ho trattato del modo giusto di vivere la vocazione alla quale Dio chiama ognuno. E’ molto importante che lo stato di vita venga scelto senza la pressione di alcuno: né per la volontà dei genitori, né per pressioni degli amici, né per le considerazioni fatte dagli altri, ma che esso sia scelto per ispirazione di Dio stesso. Prima però ciascuno deve calcolare i talenti personali, cioè le doti e le capacità che ciascuno possiede, per portare a compimento la scelta fatta. Solo a tale condizione possiamo affrontare il cammino della professione cristiana, in maniera che appaia chiaro e sicuro il metodo per il percorso.

1757.2     Morte di Clemente Paccaroni, sua personalità.

Il 4 gennaio, Clemente Paccaroni, in una vecchiaia ben portata e all’età di ottanta anni appena compiuti, morì nel palazzo vescovile, dove dimorava da molti anni, fruendo della mia mensa. Insofferente delle facezie, era erudito nella letteratura, dottore nell’una e nell’altra legge, si dilettava di poesia e aveva tradotto, non senza eleganza, Orazio in versi epici. Aveva contratto un matrimonio infelice e gli erano toccati parenti paterni e cognati, non adatti. Aveva a cuore la grande preoccupazione di preparare il suo sepolcro nella chiesa di San Francesco e se lo preparò soltanto per sé. Pregava molto, trascurava i sacramenti, e spesso cadeva nei difetti e vizi propri degli uomini. Lasciò un figlio invalido e malato di epilessia da cui però poi sono nati dei figli sani e fiorenti.

Il 25 gennaio poi morì Marco Vagnini, della diocesi di Pesaro, che io avevo voluto trattenere presso di me come decano dei famigli della servitù, dopo che mi aveva prestato per più di 33 anni un fedele servizio.

1757.3     Ripresa della controversia con i tesorieri del Piceno.

La nostra causa contro i tesorieri del Piceno sulle esenzioni della Chiesa Fermana <da alcune tasse> fu inoltrata davanti alla riunione plenaria della Camera Apostolica il 24 gennaio. Purtroppo l’esito fu negativo poiché degli undici chierici votanti, quei quattro che nel passato avevano votato per la nostra esenzione, anche in questa occasione si pronunciarono a favore dell’esenzione, gli altri, la maggioranza, ad eccezione di mons. Acquaviva che era assente, si dichiararono contro la nostra richiesta. In realtà però il 28 febbraio ci fu concessa una nuova udienza presso la Camera Apostolica e di nuovo la causa veniva proposta.

1757.4     Morte del cardinale Landi e di mia sorella Porzia Borgia.

Nel medesimo mese di febbraio, abbiamo dovuto registrare la perdita di due care persone. La prima fu il cardinale Francesco Landi di Piacenza, con il quale avevo un antico legame di amicizia, nata nel periodo in cui insieme frequentavamo l’accademia di studi teologici presso il cardinale Renato Imperiali. Il cardinale, dopo aveva lasciato l’arcivescovato di Benevento, era andato ad abitare a Roma, dove morì.

L’altra persona era mia sorella Porzia Borgia, andata sposa a Ludovico Leonardi, nobile di Amelia, da cui ebbe due maschi e tre femmine, tutte e tre entrate nel monastero di Amelia. Il primo dei maschi, chiamato Pietro Paolo, dopo essere stato a lungo mio vicario generale, ottenne l’episcopato di Ascoli. Questa mia sorella, il 16 febbraio, morì di apoplessia, in poche ore, all’età di 70 anni. Fu donna lodevole nella pietà e nelle grandi virtù per tutto il periodo della sua vita.

1757.5     Morte di alcuni zelanti sacerdoti diocesani.

Nel mese di marzo, morirono alcuni nostri sacerdoti irreprensibili: il 6 del mese venne a mancare per primo Vito Scorolli, pievano di Monte Vidon Corrado. Alcuni che toccarono la mano di questo sacerdote defunto, videro scomparire le macchie dai propri occhi. Riguardo a lui vennero riferiti anche altri fenomeni straordinari. Il giorno 8, dello stesso mese, morì Enea Puccetti sacerdote di Monte Urano che prima era stato cappellano confessore delle nostre monache e poi entrò nella congregazione dell’oratorio di San Filippo Neri in questa città e vi terminò i suoi giorni. Uomo stimato, virtuoso nei consigli, e di grande candore nelle opere. Sul letto di morte a chi gli diceva che ormai era morente rispose: Sono pronto e non sono turbato. Infine il 20 marzo morì Nicola Maria Lercari, genovese, di 82 anni; egli prima fu prefetto di camera di Benedetto XIII e in seguito fu segretario del governo di tutto lo Stato. Preferì il sacerdozio al matrimonio, anche se era figlio unico. Onorava l’Orsini, che gli chiedeva di accompagnarlo quando veniva a Velletri a stare come ospite di mio fratello Camillo. Visse piamente, soffriva di podagra, fu generoso verso i poveri. Beneficò le opere pie e dopo la morte dei parenti paterni, lasciò erede dei suoi beni la congregazione di Propaganda Fide.

1757.6     Morte di Francesco Morroni arciprete della metropolitana.

Francesco Maria Morroni, arciprete della metropolitana, insieme con suo fratello, restò per più di dodici anni a Roma, per trattare la causa di beatificazione del venerabile padre Antonio Grassi di Fermo e preposito dell’Oratorio a Fermo. Finalmente dopo che la congregazione preparatoria si concluse positivamente, tornò a Fermo, insieme con il fratello, alquanto gravato dai debiti; morì il 26 marzo <15 giorni prima di Pasqua> nel giorno del sabato in Sitientes. Aveva seguito accuratamente e assiduamente la causa di beatificazione per conto della diocesi e della città. Per la prebenda dell’arcipretura della metropolitana fu indetto un importante concorso, dato che in quel momento la collazione di tale dignità non apparteneva alla curia Romana. Ottenne questa prebenda arcipretale Orazio Brancadoro, che per molti anni era stato a Roma, come nobile della corte del cardinale Lercari, fino a quando questi visse, e nello stesso tempo seguiva gli interessi e le faccende della città di Fermo. Poiché godeva della speciale benevolenza del cardinale pro-datario, con uno speciale indulto, ottenne che il beneficio che ottenne fosse gravato da una minima pensione, che addirittura non superava i venti scudi di moneta romana.

1757.7     Morte di Alessandro Fabrizi di Rapagnano – Elogio della sua vita – Predicazione della  quaresima – Visita alla Sede Apostolica.

Il 27 marzo, in buona vecchiaia e dopo breve malattia, all’età di 93 anni, e quindi decano di tutto il clero della diocesi, è morto Alessandro Fabrizi, sacerdote nato a Rapagnano. Era prebendato della metropolitana, diligente nel compimento dei suoi doveri ecclesiastici e sempre presente al coro, anche dopo aver avuto il coadiutore. Sempre lucido, fino all’ultimo momento della sua vita, allorché io gli impartivo l’ultima benedizione mi disse: Una cosa sola chiedo al Signore: gli chiederò ancora di abitare nella sua casa tutti i giorni della mia vita.

Vissuto nella sobrietà e nella parsimonia, aveva messo da parte molto denaro. Destinò una cospicua somma per finanziare due beneficiati nella metropolitana che dovevano curare la musica ecclesiale e il canto liturgico. Altro denaro lasciò per aumentare il numero degli orfani da accogliere nel conservatorio fermano degli esposti, uno per ogni parrocchia; una somma di dieci scudi da spendersi a cura delle dame della Carità di San Vincenzo de Paoli (che ebbero inizio nella città nel 1742) a favore dei poveri malati della parrocchia di San Gregorio, nel cui territorio egli abitava. Invero i suoi parenti impugnarono il testamento, poiché non sarebbe stato l’ultimo, ma ce ne sarebbe stato un altro successivo; per questo ne fu sospesa l’esecuzione delle pie disposizioni.

Il maestro in teologia Giuseppe Maria Torri, dei frati predicatori svolse l’incarico di predicare la quaresima nella metropolitana, e si dimostrò molto esperto nella dottrina e nell’eloquenza ed è stato ricordato per la simpatia che suscitò negli ascoltatori.

1757.8     Passaggio per San Claudio per la festa dell’Ascensione.

Avevo il proposito di recarmi a Roma per compiere la visita alla Sede Apostolica. Avevo fatto tutto affinché, durante la mia assenza, non rimanesse indietro qualcosa di importante da fare. Il 2 maggio, da Fermo, mi recai a San Claudio con i cavalli a galoppo. Era mia intenzione di assistere al discorso che mio nipote Stefano Borgia avrebbe pronunciato nella festa dell’Ascensione di Gesù nella cappella del pontefice. Però la pioggia e l’impraticabilità delle strade furono di ostacolo a poterci riuscire. Giunsi a Roma la notte dell’Ascensione. Lessi il discorso che aveva tenuto e aveva stampato. Andai con lui, quando lo offrì al pontefice Benedetto XIV.

1757.9     Visita a Velletri.

Mi ero accordato con l’altro mio nipote Giovanni Paolo Borgia, cavaliere gerosolimitano, che in quel periodo era tornato a Centocelle dalla missione marittima contro i pirati, di incontrarci insieme a Roma. Entrambi, da qui, partimmo quindi per recarci al porto di Anzio, per far visita a mio fratello che era prefetto in quel litorale. Vi celebrammo la festa della Pentecoste e due giorni dopo passammo per la città di Lavinio, non era infatti possibile passare per la via solita, essendo essa interrotta, o malamente percorribile, e giungemmo a Velletri. Qui incontrammo Raniero D’Elci, vescovo di Ostia e di Velletri, che era impegnato nell’adempiere ogni dovere del suo ministero con lodevole zelo, specialmente nell’aiutare i poveri.

1757.10     Controversia con l’abate commendatario di Farfa per la nomina del nuovo priore di    Santa Vittoria.

Nel mese di maggio, morì Francesco Discreti, priore del collegio dei canonici di Santa Vittoria. Secondo la consuetudine, volli indire il concorso a Fermo per la successione nell’incarico; molti furono i concorrenti che furono dichiarati idonei. Inviai i nomi al cardinale Marcello Lanti, che era l’abate commendatario dell’abbazia di Farfa. Egli per prima cosa protestò contro di me per il fatto che avessi fatto il concorso, senza chiedere il suo parere. Inoltre mi fece avere il parere dell’avvocato Giuseppe Bompiani da cui si affermava che, nel caso specifico, non trattandosi della nomina di un soggetto per la cura delle anime, ma dell’investitura alla prima dignità del capitolo dei canonici della chiesa, la celebrazione del concorso era nulla. A me non sembrava che tale parere potesse essere accolto, poiché il legale non teneva conto dei diritti della Chiesa Fermana. Pertanto affidai la faccenda e il compito de elaborare un diverso parere ad un altro celebre avvocato della curia cioè a Carlo Alessio da Pisa, e l’eseguì in maniera ampia e intelligente. Infatti, sulla base della costituzione XXXII, contenuta nel tomo 2 del bollario di Benedetto XIV, egli dimostrò che la giurisdizione ordinaria del monastero di Farfa, nei luoghi all’interno del territorio della diocesi di Fermo, era stata trasferita all’arcivescovo. Citò inoltre un’altra costituzione di Benedetto XIV, che corrisponde alla LXVIII del 1° tomo del bollario, in base alla quale dimostrò che, anche nel caso delle nomine alle dignità capitolari resesi vacanti e alle quali è annessa la cura delle anime, il concorso deve essere indetto dall’arcivescovo, senza che possa essere ammessa alcuna eccezione, e senza chiedere alcun permesso. Tutto ciò del resto appariva chiaramente dalla lettera a noi mandata dalla Sede Apostolica. Contro questo parere il cardinale Lanti volle ricorrere alla sacra congregazione dei cardinali interpreti dei decreti del Concilio di Trento, e nell’anno successivo ci fu la relazione, come diremo nella cronaca dell’anno prossimo.

1757.11     Morte del canonico Marco Antonio Francolini – Morte del padre Giacomo Tonelli  gesuita.

Il 5 giugno, con grande mio dispiacere, morì Marco Antonio Francolini, canonico della metropolitana, non ancora vecchio, ma di salute instabile. L’ho impegnato spesso come con-visitatore nella diocesi e come amministratore dei Luoghi pii. Aveva ottenuto, come suo coadiutore nel canonicato, Ludovico Graziani con la speranza della futura successione, il quale, seppur ancora giovane, era raccomandato per l’onestà del vivere, per le conoscenze letterarie e per la fama e le benemerenze del suo zio paterno Ippolito Graziani. Fissai peraltro una riserva di cinquanta scudi annui a favore di Fabrizio Francolini, ancora ragazzo, nipote per parte paterna del canonico, a titolo di coadiutoria e di pensione. In tale maniera evitai i molti e gravi fastidi che diversamente sarebbero venuti dai desideri dei numerosi concorrenti.

La morte colse anche il padre Giacomo Tonelli della Compagnia di Gesù, il quale per molti anni si era dedicato alla predicazione in  molte città d’Italia ed aveva esercitato nel Collegio universitario Fermano l’insegnamento della sacra Scrittura. La sua morte fu compianta degli studenti. Sulla cattedra gli fu successore padre Antonio Braccini di Firenze.

1757.12     Causa per la difesa dell’esenzione della Chiesa Fermana contro i tesorieri del Piceno.

Nel frattempo, mentre dimoravo per pochi giorni a Velletri, sono stato invitato da una lettera della curia Romana a recarmi a Roma per essere presente e adoperarmi per la causa a difesa della esenzione della mia Chiesa contro il tesoriere del Piceno. Per la verità l’atmosfera a Roma non era affatto propizia, tuttavia, per non mancare ad un mio preciso dovere, abbandonate tutte le faccende della mia famiglia, il 14 giugno partii da Velletri per recarmi a Roma. Tuttavia, nonostante che l’avvocato Carlo Maria Francucci e il procuratore della causa Lorenzo Origlia avessero scritto ampiamente a difesa della giustissima nostra posizione e che fossero stati fatti diversi interventi, il 21 giugno di quest’anno, la causa nella riunione plenaria della Camera Apostolica produsse un rescritto contrario alla nostra Chiesa, il disposto affermava: “si conferma la precedente decisione”. Tutto ciò mi meravigliò grandemente poiché il cardinale, nostro vescovo di Velletri, era anche prefetto della sacra congregazione dell’Immunità ed io ero intervenuto presso di lui affinché suo nipote, che era chierico votante della Camera Apostolica, si impegnasse perché venisse deciso, a conferma dei vecchi indulti, più volte emessi, nel passato, in nostro favore dalla congregazione dell’Immunità. Purtroppo non ottenni nulla e al presente i sacri diritti dell’immunità ecclesiastica, presso il tribunale della Camera Apostolica sono totalmente dimenticati! Il 4 luglio, per la causa nuovamente riproposta da noi si ebbe, il rescritto contrario “è confermata la precedente decisione” perciò dovemmo prendere atto che i giudici erano chiaramente fissi nel loro pensiero, in avversione alla nostra Chiesa. Non si poteva fare altro durante l’anno corrente. Per questo scopo era necessario agire all’inizio l’anno successivo.

1757.13     Ritorno a Fermo.

Appena partito da Velletri, senza peraltro aver sistemato le cose famigliari, fu necessario tornare a Roma. Tuttavia occorreva che mi dedicassi di indorare la nostra cappella gentilizia, che era situata nella chiesa cattedrale di Velletri. Consegnai le foglie d’oro nella quantità necessaria per realizzare il lavoro di indoratura a Clemente, mio nipote (da parte di mio fratello) affinché portasse a realizzazione l’opera, poi mi sono recato a Roma insieme con due altri miei nipoti Giovanni Paolo cavaliere gerosolimitano, e Filippo. Già antecedentemente avevo compiuto la rituale visita alla  Sede Apostolica e avevo presentato a Benedetto XIV la relazione sullo situazione della mia diocesi, che egli mi aveva restituito, perché la consegnassi al presule Furietti, segretario della congregazione del Concilio. Nella relazione mi lamentavo sentitamente per le violazioni dei diritti e delle esenzioni ecclesiastiche della Chiesa Fermana, ma non ricevetti alcuna risposta al riguardo. Ottenuta da Benedetto (la cui salute andava migliorando) la licenza di ripartire da Roma, il 23 di luglio con cavalli veloci, mi sono messo in viaggio per tornare a Fermo, passando per Monteluco, da mio fratello Antonio Celio, priore di quel celebre monastero. Il 26 dello stesso mese giunsi a San Claudio e lì il giorno seguente, su una nuova e più nobile carrozza, acquistata a Roma, sono stato raggiunto dagli altri miei famigliari e il 29 luglio giunsi a Fermo. Mi vennero incontro, secondo l’antica tradizione, i rappresentanti del capitolo metropolitano e i deputati maggiorenti della città; erano con me anche due nipoti (da parte di mio fratello) Giovanni Paolo, che sarebbe restato soltanto qualche giorno, e Filippo che, invece, si sarebbe trattenuto alcuni anni per seguire gli studi. Inoltre mio fratello Cesare Borgia, che, per la sua salute, si era recato a Nocera per fare la cura delle acque, venne a Fermo all’inizio del mese di agosto e vi rimase fino al termine della fiera d’agosto. Allora, alla fine del mese, insieme con il comune nipote Giovanni Paolo, ritornò a Nocera per continuare ancora la cura delle acque, al fine di rafforzare la sua salute.

1757.14     Conferimento del priorato di San Pietro a Montefiore – Promozione di alcuni prelati  all’episcopato.

Tornato a Fermo, la mia prima preoccupazione fu quella di affidare il priorato di San Pietro, nel paese di Montefiore, restato vacante per la morte di Domenico Antonio Marosi, dandolo a Carlo Luzi. Volli confermare, sulla base dell’impegno preso con il cardinale Domenico Orsini, la riserva di una pensione di dieci ducati d’oro all’anno, a favore di Angelo Sabbioni Ursini, abile a quel beneficio.

Durante il mese di agosto celebrai le sacre cerimonie di tradizione. Dei presuli soliti a venire da me, venne soltanto Giovanni Battista Stella, governatore di Loreto insieme con suo nipote, il conte Cesare Cattaneo. A Stella era stato offerto il vescovato di Rimini; per questo era venuto da me per chiedere  il mio consiglio. Su tale questione mi dovetti impegnare al fine di rimuovere il timore che per l’improvvisa morte di Benedetto XIV egli perdesse il governatorato di Loreto e il vescovato di Rimini. Tale rischio però sembrava molto improbabile, soprattutto perché Stella era un presule patrizio, di origine bolognese, e, nel passato, aveva ben meritato presso la Santa Sede per i servizi resi. Mons. Stella ritornò a Loreto tranquillo e ben convinto di dover accettare il vescovato di Rimini.

Così pure venne da me a chiedermi consiglio Giuseppe Vignoli, della diocesi di Camerino che nel 1746 era stato fatto vescovo di Sanseverino nella nostra provincia. Egli si mostrava molto incerto, essendogli stato proposto il trasferimento da Camerino, alla Chiesa di Carpentras nel contado Venusino, perché temeva per la grande entità delle spese per le pensioni cui si sarebbe assoggettato. Quella diocesi infatti era molto ricca, ma si diceva che avesse il peso di gravi pensioni. Benedetto XIV aveva scelto di trasferire là il Vignoli, perché egli era stato già in Francia, uditore del cardinale Durini, allora nunzio apostolico e in seguito aveva svolto egregiamente l’ufficio di vescovo nel Piceno, per più di dieci anni.  ridusse sensibilmente tutte quelle pensioni fino al punto che non superavano di duemila scudi all’anno, somma che mons. Vignoli pensava di poter sostenere. Alla fine dell’anno, quindi, il trasferimento fu deciso e poté avvenire. A sua volta, la Chiesa di Sanseverino, che è nostra suffraganea, fu data a Francesco Maria Furlani, nato a Capranica, nella diocesi di Sutri, che era suffraganea della Chiesa di Sabina, con vescovo titolare di Dardano, nei territori degli ”infedeli”.

1757.15    Carlo Augusto Peruzzini di Fossombrone viene nominato vescovo di Macerata                     e Tolentino.

Dopo il mio ritorno in provincia, Benedetto XIV aveva concesso a Carlo Augusto Peruzzini di Fossombrone, che era il suo confessore, di raggiungere la propria diocesi; infatti il 20 settembre 1756 lo aveva nominato vescovo di Macerata e Tolentino. Egli apparteneva quindi alla provincia Fermana, essendo uno dei nostri suffraganei. Pensò di venire a visitarmi a Roma ed io pensavo di restituirgli la visita. Ma né lui trovò me , né io trovai lui. Dopo che venne in provincia, lui non venne a portarmi la consueta bolla di notifica della sua nomina che la Sede Apostolica era solita dare ad ogni suffraganeo, per il proprio metropolita, né mi rese alcun gesto di riverenza e di omaggio. Si era diffusa la notizia che egli avrebbe fatto costruire una nuova chiesa cattedrale e un nuovo palazzo vescovile con vari e consistenti sussidi concessi a lui da Benedetto XIV; ma cosa potrà nascere da tali aiuti, forse le generazioni future lo potranno dire. Tuttavia il nuovo vescovo si impegnò a riportare in auge la decaduta disciplina del clero e a migliorare le  abitudini del popolo.

1757.16     Pietro Antonio Borgia ottiene la successione nel canonicato della basilica Lateranense  per la morte di Antonio Rota.

Il giorno 11 settembre, morì, di podagra, il romano Antonio Rota, canonico della basilica Lateranense, che era segretario per gli affari riservati di Benedetto XIV e che, dopo la morte del cardinale Valenti, era reggente della segreteria di Stato. A lui era stato dato, come canonico coadiutore, mio fratello Pietro Antonio Borgia, da più di nove anni, con fiducia nella futura successione. In seguito alla morte del canonico effettivo, pertanto, fu dato corso alla successione di mio fratello. Il peso economico di tale coadiutoria era molto ingente, purtroppo, sia a causa del pagamento delle spese dovute per la spedizione delle lettere apostoliche, che ammontavano a circa 1300 scudi di moneta romana, sia per le solite altre spese previste, sia per mantenere un tenore di vita idoneo e per l’uso della carrozza, onde recarsi al servizio della basilica; e nessuno avrebbe potuto calcolare quale sarebbe stata la spesa residua occorrente. Nonostante che nella spedizione delle lettere apostoliche fosse previsto il peso dell’eventuale pensione di cento scudi di moneta romana e quantunque la regola del servizio quotidiano sembrava che dovesse essere abrogata oppure essere ridotta (questa era infatti l’intenzione del pro-datario), tuttavia una volta defunto il titolare del canonicato, immediatamente la pensione fu versata a Domenico Ciampiedi di Ancona, che era il bibliotecario privato di Benedetto XIV.

1757.17     Stampa del terzo volume della omelie dell’arcivescovo – Dedica del volume al                     cardinale Archinti.

Essendo ormai pronta, a Fermo, l’edizione a stampa, del terzo volume delle mie omelie, pensai che fosse mio dovere dedicarle al cardinale Alberico Archinti che sotto Benedetto era segretario di Stato e vice cancelliere della Santa Sede. La dedica era giustificata dal fatto di avere il dovere di dimostrare a lui la mia gratitudine e la memoria, per l’amicizia e la familiarità con cui eravamo nella legazione, nella città di Colonia, fin dal 1713. Lo stesso cardinale, per la sua gentilezza, non solo considerava preziosa questa antica amicizia, ma anche nei successi anni in cui la fortuna gli era propizia e in questi ultimi tempi, allorché mi recavo a Roma, egli era solito di dichiararla e di ricordarla a tutti. Gli scrissi la lettera dedicatoria il 23 settembre e, nel mese di novembre, feci consegnare il volume al papa, tramite mio fratello canonico, e, per mezzo di mio nipote Stefano, al cardinale Archinti. La feci distribuire anche ai cardinali ed ai prelati della curia e alle persone dotte e questi li ricevettero, con mano grata.

1757.18     Collazione del beneficio di Santa Maria Maddalena in Francavilla a Fabrizio                     Francolini di appena nove anni, nipote del defunto Marco Antonio Francolini.

Trovandomi a Roma, si discusse molto sulla collazione del beneficio semplice di Santa Maria Maddalena, esistente in località Bolegiano (o Bolegnano) di Francavilla, che, dal mese di giugno, si era reso vacante per la morte di Marco Antonio Francolini e che quindi era di mia collazione. Decisi di affidarlo a Fabrizio Francolini, nipote del defunto Antonio. Tuttavia, avendo egli appena nove anni ed essendo egli minorenne, non poteva esserne investito per difetto di età e il cardinale pro-datario era assolutamente contrario a concedere la dispensa “riguardo all’età”, nonostante che da me e dalla famiglia Francolini lo pregassimo con insistenza. Egli quindi mi consigliò di conferire piuttosto il titolo di quel beneficio a mio nipote Stefano e di stabilire, nel contempo, la riserva di una qualche pensione a favore del ragazzo Fabrizio. Così avvenne. La pensione annua fu stabilita a 20 scuti che gli erano pagati da Stefano,  mio nipote. All’inizio di ottobre, mi recai a Francavilla, per esaminare la questione di quel beneficio e per altre cose riguardanti la mensa arcivescovile e il territorio. Mi accorsi allora che non erano lievi le spese per la spedizione delle lettera apostolica della collazione del beneficio e della riserva della pensione, nonostante che la consistenza economica del beneficio e quella della pensione fossero esigue.

C’era poi il problema di costruire le stalle, la concimaia e provvedere il bestiame necessario per la lavorazione della terra, cose tutte che mancavano. Si aggiungevano inoltre le spese per le piantagioni da realizzare e per le casa da costruire per i coloni. Nel giro di quattro giorni considerai tutta la questione, dopo di che mi ritirai a San Martino e vi rimasi fino alla vigilia della festa di Tutti i Santi. Allora, dopo la vendemmia, nell’omelia, trattai del vizio del bere eccessivamente che è la radice dell’ubriachezza e della lussuria.

1757.19     Predicazione delle missioni al popolo affidata ai sacerdoti della casa della Missione di   Fermo – Delega per compiere la visita delle località delle Ville d’Ascoli data al   vescovo di Ascoli.

Per la nuova primavera, incaricai i sacerdoti della casa della Missione di svolgere la predicazione delle sacre missioni al popolo nei paesi che si trovavano in territorio ascolano, ma che appartenevano alla giurisdizione della nostra diocesi, in modo che la diocesi non apparisse trascurata. Affinché la consueta visita pastorale non venisse a mancare, a causa dei miei viaggi a Roma, ho delegato il vescovo di Ascoli, Pietro Paolo Leonardi, di compiere la visita pastorale in quelle località, nel contempo, e di amministrare la Cresima ai ragazzi di quei paesi, anche perché quelle località erano molto distanti da Fermo ed era difficile e scomodo esercitarvi il ministero pastorale. Tutto ciò venne regolarmente realizzato durante la mia residenza a Roma; cosicché la diocesi non si era accorta dell’assenza del suo arcivescovo.

Nel mese di novembre, i sacerdoti della congregazione della Missione predicarono prima a Santa Vittoria poi a Petritoli. A loro volta, i sacerdoti della Compagnia di Gesù si recarono a Sant’Elpidio a Mare, in forza dell’obbligo contratto con quella comunità, e vi svolsero le sacre missioni. Si recarono poi a <Monte> San Giusto e vi tennero gli esercizi spirituali per l’obbligo derivante dal lascito fatto dal priore Fedeli al Collegio gesuitico di Fermo, in base al quale essi vi dovevano tenere un corso di predicazione ogni quattro anni. Infine, di propria iniziativa, predicarono gli esercizi a Fermo nella chiesa del Gesù.

1757.20     Morte del cardinale Giovanni Giacomo Millo – Sua personalità e vicende biografiche.

La repentina morte di Giovanni Giacomo Millo, nativo di Casale Monferrato, avvenuta il 16 novembre, colpì l’animo di tutti. Aveva speso tutta la sua attività presso Prospero Lambertini come collaboratore dei suoi studi, come suo uditore, come vicario generale ad Ancona prima e poi a Bologna. Una volta che fu eletto papa, lo stesso Lambertini, prima lo nominò suo uditore, poi datario, fino a che, il 26 novembre del 1753, lo creò cardinale e lo confermò in tutti i suoi incarichi e specialmente gli affidò l’educazione dei suoi pronipoti figli di Egano, figlio di suo fratello. Grande quindi era la familiarità e l’influenza del cardinale Millo su Benedetto XIV, specialmente dopo che il papa cominciò a soffrire di qualche disturbo di salute. Sulla sua persona si accumularono molte dignità, molte rendite, accrescendo parecchie ricchezze per cui si diffuse la voce che il suo asse ereditario fosse superiore a 200.000 scudi di moneta romana. La fortuna lo assistette per tutto il periodo della sua vita, che peraltro non fu eccessivamente lunga, perché finì all’età di 63 anni non compiuti.

Svariati furono i giudizi che di lui si dettero dopo la sua morte. Molti lo accusavano di essere stato l’ispiratore dei concordati stipulati con la Spagna, dai quali sarebbero derivate  disgrazie per la curia Romana e altre cose. Da parte mia, in base all’esperienza dei problemi della mia diocesi, posso dire di aver sentito lamentele perché egli avrebbe aumentato le tasse e i balzelli imposti dalla dataria Apostolica nell’assegnazione dei benefici e nella concessione delle pensioni. Comunque, molti sono gli aspetti benemeriti per i quali il cardinale Millo ha meritato l’apprezzamento, specialmente per il fatto di aver impedito che, a causa dell’ambizione delle persone, si andasse contro il diritto e che i beni da lui acquisiti li lasciò entro i confini dello Stato ecclesiastico, non fuori di esso. Si impegnò a che tali beni venissero conservati ad Ancona, dove viveva la sua famiglia. Dimostrò costantemente una grande benevolenza e gratitudine verso di me e verso la mia famiglia e, quando mi recavo a Roma, spontaneamente, senza parlarne ad alcuno, mi offrì la possibilità che la mia abbazia che avevo in commenda perpetua a Gualdo, fosse rassegnata al mio nipote Stefano, come mio successore in breve tempo.

1757.21     Ricerca di come procurare la nomina di Stefano Borgia alla prelatura di referendario della Segnatura Apostolica.

In occasione di un viaggio a Roma, i miei fratelli studiarono il modo per far ottenere a Stefano, nostro nipote, la nomina a prelato referendario della Segnatura, nella curia Romana. Sembrava che alcuni cardinali fossero favorevoli, specialmente Orsini e Archinti; ma la cosa appariva ardita e irta di molte difficoltà. Nella nostra famiglia, infatti, esistevano già benefici prelatizi: era il mio caso e il caso di alcuni dei nostri parenti più anziani. Per quanto questi nostri benefici prelatizi fossero giudicati molto pingui, in realtà i beni di famiglia erano molto più ridotti di quello che si supponeva. Innanzitutto, infatti, essi erano ipotecati a motivo della costituzione delle doti per le nozze spirituali [monacazioni] o carnali (famigliari) delle figlie femmine, e, anzi, due di esse ancora dovevano essere sistemate. C’era inoltre la necessità di affrontare, in famiglia, alcune situazioni di emergenza, e, infine, alcuni benefici erano stati, ingiustamente, tolti ai nostri congiunti.

Nel mese di ottobre a Velletri si incontrarono anche gli altri fratelli. In tale occasione l’argomento riguardante la prelatura di Stefano fu ripreso e trattato in modo serio e tutti si trovarono d’accordo che la questione si dovesse affrontare e portare a compimento. Non appena la cosa mi fu riferita, subito mi trovai consenziente e lo considerai il primo prelato della famiglia e decisi di assegnare a nome mio a Stefano tutte le risorse provenienti dai luoghi del Monti e tutti gli altri proventi che erano da portare alla prelatura. Ma allorché la proposta venne prospettata a mio fratello Camillo, padre di Stefano, egli si oppose a ciò adducendo vari motivi remoti. Nel frattempo, il 18 novembre, avevo scritto al sommo pontefice. Avevo infatti saputo che Benedetto XIV aveva espresso a varie persone il parere che era difficile poter assegnare la prelatura a mio nipote.

1757.22    Testo della lettera scritta al papa dall’arcivescovo a favore di suo nipote Stefano  Borgia.

Beatissimo Padre,

Prostrato al bacio dei sacri piedi, con animo ossequiente, con la presente mia umile lettera vengo, beatissimo Padre, alla tua presenza. Essendomi accorto che Stefano Borgia, figlio di mio fratello, fin dalla sua puerizia, era fortemente portato verso gli studi letterari, affinché potessi diligentemente educare la sua mente e formare ai buoni costumi la sua anima, lo feci venire presso di me, a frequentare l’università delle Arti di Fermo, seguendo io per quindici anni la sua formazione, con quanta maggiore cura mi è stato possibile. Ho riversato su di lui tutto quanto io ho appreso dai miei studi e dalla mia lunga esperienza. Anche negli anni successivi, per quel che ho appreso secondo le mie capacità, mi sono servito di lui come collaboratore nei miei studi. Desidero pertanto presentare la mia testimonianza a suo favore. Negli studi, nel comportamento morale, nella diligenza mai si è verificato alcunché che non mi abbia completamente soddisfatto.

In tutto hanno corrisposto l’ingegno e la volontà sua. Anche in questa nostra città <di Fermo> egli ha dato chiare prove dei suoi progressi; nel promuovere gli studi teologici. Una volta ha rianimato l’antica accademia degli Erranti, ormai quasi del tutto decaduta, mediante la promozione di riunioni mensili, frequentate dalle persone, e vi si dibattono i problemi della cultura. L’inizio di tali importanti iniziative generalmente cominciavano con fortuna in altre città. Invece la prosecuzione e lo sviluppo di esse non si verifica in altro luogo se non nella nobile città di Roma; per questo ho deciso di inviarlo a Roma. Qui, egli avrebbe acquisito una perfetta formazione nella frequentazione dell’Accademia dei nobili ecclesiastici, vivendo nell’atmosfera dell’illustre urbe e nella fama della tua fama. Tutto ciò egli lo ha già raggiunto, ascoltando e discutendo spesso e volentieri con illustri presuli di cose ecclesiastiche e apprendendo i criteri della prassi della curia Romana. Tra l’altro l’hai potuto verificare nell’occasione offertagli del discorso, tenuto da lui nella tua cappella privata, sull’Ascensione al cielo del Signore nostro Gesù. In seguito, egli ha meritato il dottorato in ambe le leggi (canonica e civile) nell’archiginnasio Romano della Sapienza e ora si sta preparando a mettersi al tuo servizio nella curia. A tal fine i miei fratelli e io gli abbiamo fornito i mezzi necessari che possiamo dargli. Sappiamo tutti quanti che dobbiamo promuovere l’incerto futuro, in tutti i casi e in tutte le condizioni della vita umana, e lo sanno anche molti divenuti sacerdoti.

Pertanto, beatissimo Padre, sostieni con il tuo incoraggiamento benevolo questo giovane che ormai si avvia all’età di 27 anni, affinché egli possa dedicarsi alacremente a svolgere gliimpegni che tu vorrai affidargli. Egli è desideroso di dedicarvi tutte le sua capacità, di dimostrare la diligenza e offrire la sua operosità a vantaggio tuo e della Sede Apostolica.

Da parte di tutti noi, preghiamo la divina clemenza per la tua salute, per la quale tutti fanno voti che si verifichi il miglioramento, dato che più volte sono stati superati i pericoli dell’avanzata età e della malattia e voglia Dio per te che questi nostri desideri si compiano per lungo tempo e che i postumi della malattia scompaiano e  ogni rischio sia vinto. Intanto prostrato ancora al bacio dei sacri piedi, chiedo umilmente la benedizione tua, santissimo Padre, pegno sicuro per il compimento fedele del mio ufficio pastorale.

Fermo 18 novembre 1757.

1757.23 Risposta di Benedetto XIV alla precedente lettera dell’arcivescovo.

Non appena la mia lettera giunse nelle mani del papa, egli rispose senza interporre alcun ritardo e di sua parola dettò la seguente lettera:

“ Benedetto papa XIV, salute e apostolica benedizione, venerabile fratello. Accusiamo < di ricevere> la sua lettera del 18 del corrente mese ed avendo considerata l’istanza, che ella in essa ci propone, godiamo che il di Lei nipote voglia prendere la strada della prelatura. E’ però necessario che a Noi venga presentato il memoriale che non lasceremo di rimettere, secondo il solito, al cardinale prefetto della Segnatura di Giustizia, acciò si faccia il consueto processo sopra l’entrata annua stabilita dalla bolla Alessandrina. Il che è quanto possiamo dire in  risposta alla predetta Sua lettera; dando a Lei e al suo gregge alla sua cura commesso, l’apostolica benedizione. Da Roma presso Santa Maria Maggiore, 26 novembre 1757, anno del nostro pontificato decimo ottavo.”

1757.24 Espletamento delle pratiche preliminari necessarie affinché si potesse iniziare ad istruire il processo in favore di Stefano, mio nipote.

La risposta del papa mi fu trasmessa dal cardinale Archinti, segretario di Stato, accompagnata da una sua gentilissima lettera. Secondo la mente del papa, doveva essere preparato tutto a favore della prelatura del candidato e per far ciò occorreva la volontà dal padre di Stefano. Mi sembrava che mio fratello Camillo era incerto e cercava di temporeggiare. Mi venne il sospetto che questo nostro ritardare contrastava con la rapida grazia che aveva dimostrato il papa in relazione alla concessione della prelatura. Mi informai dell’intenzione del padre di Stefano e lo ammonii, insieme con gli altri miei fratelli, di togliere gli indugi e prendere una decisione in breve tempo. Finalmente per lettera fu ottenuto poi il benestare di Francesca Pighini, vedova del marchese Prospero Sparapani, nostra cugina, e Camillo si convinse che suo figlio Stefano potesse essere nominato alla prelatura. Ottenuto questo benestare, fu subito istruito il relativo processo secondo le norme stabilite dalla bolla di Alessandro VII sugli studi di diritto compiuti dal candidato, sulla conoscenza della prassi della curia Romana, e infine sull’ammontare dei redditi che dovevano giungere almeno a 1500 scudi di argento per garantire l’onesto sostentamento.

1757.25     Collazione del ricco beneficio semplice di san Giovanni Battista in Nemore a Nicola Bonafede con la riserva di una pensione annua a favore di mio nipote Stefano.

Nel mese di dicembre si verificò il favorevole caso che cessò di vivere Valerio Bonafede, che era il rettore, col titolo di abate, del ricco beneficio semplice di san Giovanni Battista in Nemore e di sant’Egidio nel piano dell’Ete. Di conseguenza, dato che la collazione del detto beneficio spettava a me, decisi di investire di esso il nipote del defunto, Nicola Bonafede con la riserva di una congrua pensione annua a favore di Stefano mio nipote (da parte di mio fratello) riservando una pensione a sussidio della nuova prelatura, per ottenerla. Mio nipote Stefano prima di iniziare questo suo ruolo, alla fine dell’anno, lasciò il collegio dell’Accademia degli ecclesiastici e andò ad abitare presso mio fratello, canonico della basilica Lateranense.

1757.26     A padre Giacomo di Monteciccardo è affidata la predicazione dell’avvento nella cattedrale.

Durante l’avvento, ha svolto la predicazione il padre Giacomo da Monteciccardo, dei frati Minori di san Francesco, che praticano l’Osservanza. L’ha fatto in maniera eccellente, tanto che ho consigliato il vescovo di Ascoli, mio nipote (da parte di mia sorella) di chiamarlo a predicare per il corso della quaresima nella sua nobile, bella cattedrale di Ascoli.

1757.27     Nuova rottura della campana chiamate La Viola.

La campana della torre della cattedrale chiamata la Viola, rifusa nel 1755, subì una nuova frattura. Da ciò nacque una forte controversia tra la città e gli operai del duomo da una parte e coloro che avevano eseguito la rifusione. Inoltre nella torre della cattedrale esisteva un orologio che indicava solo le ore; si decise di farne costruire uno nuovo, nel quale mediante due campane venissero suonati con una i tocchi per indicare le ore, con l’altra invece dovevano essere suonati i quarti delle ore. L’opera fu costruita a Roma con ingente spesa di denaro della città. Da parte mia molto mi diedi da fare e molte spese affrontai per collocare la statua di bronzo di santa Maria Assunta in cielo, sopra la porta centrale della cattedrale. Non sono riuscito a realizzare in poco tempo il mio proposito per cui è stato necessario rimandare il progetto all’anno successivo. Fui peraltro costretto a far restaurare l’icona e l’ornato di santa Maria di Reggio che era stata fatta collocare di fronte al convento dell’Annunziata dal cardinale arcivescovo Giovanni Francesco Ginetti, mio concittadino.

1757.28     Vari lavori ed opere realizzati nei beni della mensa.

Nella tenuta di Francavilla sono state realizzate tutte le riparazioni necessarie nelle case coloniche, site nei pressi  della chiesa dei santi Sisto e Giuliana, con la spesa di circa cento scudi. A San Claudio per la pigiatura delle uve e la cottura del loro mosto, ho fatto costruire un muro in laterizio e preparare un recipiente di rame (caldaia); inoltre ho aggiunto un altro locale all’edificio della casa del primo colono. Sono stati poi eseguite altre opere di minore entità. A Santa Croce e a San Martino e altrove sono stati piantati alberi fluviali. Lungo i corsi d’acqua a Grottazzolina, presso la Campana, e a San Claudio presso Opuleto altre piantagioni di gelsi e molti rampolli di mori.

1757.29     I vari lavori eseguiti nella città.

Neppure durante quest’anno, sono stati interrotti i lavori di restauri delle mura della città; presso la Porta di San Marco, dove restava da fare il necessario restauro dell’interno della torre. Quanto al ponte sul fiume Tenna, sembrava che si potesse arrivare a finirlo; ancora era necessario continuare l’opera con molti lavori, come si desiderava, e con grade spesa.

I frati Minori chiamati Cappuccini crearono nel loro convento una grande biblioteca, poiché quella che avevano era vecchia, troppo angusta per contenere i libri ed era fatiscente, in pericolo di  crollare. I frati Minori dell’Osservanza costruirono un’ampia e bella nuova sacristia accanto alla loro chiesa, poiché la vecchia meno elegante era diventata impraticabile per la fragilità statica.

Nel monastero di San Giuliano nuove costruzioni: un locale da usare come laboratorio delle suore e un dormitorio per le giovani, accolte nel convitto delle educande. I preti della congregazione dell’Oratorio stavano terminando i lavori per completare i locali interni del loro grande edificio. Venne continuata la costruzione di nuovi edifici per il collegio Marziale detto la Sapienza.

ANNO 1758

1758.1     Inizio del nuovo anno

Il giorno della festa della circoncisione del Signore, a causa del grande freddo, dovetti soffrire alquanto durante la cerimonia nella chiesa metropolitana, ma il disturbo fu solo temporaneo, e non mi impedì di tenere l’omelia, né di compiere con sicurezza tutti gli altri adempimenti necessari sia nella cattedrale, che a casa, come al solito. Ho procurato che tutto fosse preparato con dignità ed eleganza; infatti a pranzo furono presenti molti ospiti.

1758.2     Abrogazione del monopolio per la vendita del tabacco.

Benedetto XIV, da parecchio tempo, andava pensando di procedere all’abrogazione del monopolio nel commercio del tabacco, erba nicosiana. Ai molti mali provocati dal monopolio, nessun rimedio sembrava portare giovamento; come se, a questo fine, non si potesse trovare il modo di decidere e provvedere, quantunque ci fossero stati alcuni tentativi. Finalmente papa Benedetto, senza farsi condizionare dal danno che le casse pontificie avrebbero subìto, che ammontava a circa 100.000 scudi di argento, decretò l’abrogazione del monopolio e ne stabilì l’inizio al primo di gennaio del corrente anno. Fu questo un importante e insigne provvedimento che egli concesse a tutti i sudditi dello Stato pontificio, mentre stava vivendo l’estrema dura fase della sua vita.

1758.3     Assunzione da parte di mio nipote Stefano Borgia del grado di prelatura a lui assegnato.

Il 12 gennaio fu istruito il processo, davanti al tribunale della Segnatura Apostolica, secondo la prassi della curia Romana, per l’assegnazione della prelatura a Stefano Borgia, mio nipote; egli ottenne l’unanimità dei voti. Il 19 gennaio, Stefano era tenuto a prestare il giuramento di fedeltà, ricevere l’abito prelatizio ed andare ad essere ricevuto dal pontefice, al quale avrebbe dovuto presentare la mia lettera di ringraziamento. Tuttavia per la mancanza di cause da trattare in tale giorno, in Segnatura non ci fu udienza; la riunione fu rimandata al giovedì successivo, 23 gennaio. Con giuramento e vestizione, fu assegnata la detta prelatura a Stefano Borgia, mio nipote. Come nuovo prelato però non potette essere ricevuto, allora, dal papa a causa delle sue condizioni di salute, con rinvio al giorno 26 gennaio.

1758.4     Esecuzione capitale di una donna accusata di duplice omicidio: vittime due donne.

Rosalia Contratti subì la pena di morte per impiccagione nella piazza di Fermo per l’uccisione di una donna e per occultamento del cadavere nel Porto di Fermo. Se ne scusava. Dicevano che questo era il secondo omicidio da lei commesso. Morì piamente accettando la volontà di Dio e rassegnata. Fu aiutata con molte pie opere e preghiere di tutta la città, nella quale non si ricordava, da più di cento anni, che fosse avvenuta l’esecuzione capitale di una donna.

1758.5     Decisione negativa sull’obbligo di tenere il concorso previo per la nomina di priore   della collegiata di Santa Vittoria.

Alla sacra congregazione del Concilio venne proposta la questione se prima della nomina del priore della collegiata di Santa Vittoria dovesse essere superato il concorso canonico. Il 28 gennaio venne la risposta negativa, cioè che non si dovesse tenere, nonostante che il prefetto della congregazione e altri membri fossero d’accordo con me nel dover tenere questo concorso.

1758.6     Predicazione quaresimale svolta da Tommaso Dionisi anconetano, e di madre                  originaria da  Monte Urano nella nostra diocesi.

Per tutto il mese di gennaio, si verificarono abbondanti nevicate che ritardavano l’afflusso delle persone che viaggiavano e dei predicatori della parola di Dio, infatti la maggior parte delle strade erano rese impraticabili dal freddo gelido e dal ghiaccio. Tommaso Dionisi di Ancona, ma di madre originaria di Monte Urano, nella nostra diocesi, che aveva predicato a Malta, a Torino, a Roma e a Venezia con grande successo, dopo aver superato a stento non poche difficoltà di viaggio, era giunto a Fermo il giorno prima delle ceneri. Ha predicato in modo vigoroso e con efficace eloquenza, confermando le aspettative del popolo nei suoi riguardi.

1758.7     Fusione della statua di bronzo della Vergine Maria da porre sopra la porta principale  della metropolitana.

Molte erano le proposte che venivano avanzate per la realizzazione della statua bronzea della Vergine Maria. Si decise alla fine di passare, con l’aiuto di Dio, alla sua fusione, cosicché il 27 del passato mese di giugno, con assidua opera, il manufatto era stato completato e perfezionato.

1758.8     Fase istruttoria del processo canonico per il riconoscimento di un miracolo avvenuto  per l’intercessione del beato Giuseppe da Copertino.

Dopo che avevo compiuti i riti delle feste di Pasqua, i frati Minori Conventuali, il 17 di aprile, di fronte a me incaricato, per autorità apostolica, hanno avanzato la richiesta alla sacra congregazione dei Riti di poter istruire il processo canonico, per il riconoscimento di una prodigiosa guarigione avvenuta a favore di Benedetta Pierangelini, abitante a Servigliano, nella diocesi di Fermo, guarita da un polipo per intercessione del beato Giuseppe da Copertino, da poco iscritto nell’elenco dei beati. Insieme con mons. Giovanni Antonio Bachettoni, vescovo di Recanati e Loreto e a mons. Giuseppe Vignoli, vescovo di Carpentras, mi sono recato a Falerone per compiere l’inchiesta per questa causa, presso il convento dei frati Conventuali di quel paese. Abbiamo ascoltato i testimoni e i periti medici, dalla fine di aprile al 5 di giugno. Nel frattempo, siccome il 20 di maggio dovevo compiere un’ordinazione sacra di chierici, ho deciso di tenerla nella chiesa delle monache del luogo. Nella medesima chiesa si svolse anche la processione nella solennità del Corpus Domini presieduta da mons. vescovo di Recanati e Loreto. Ho proseguito le preghiere  e il giorno primo di giugno è stata celebrata la festa di San Fortunato, patrono principale di Falerone e la nuova processione fu presieduta dal vescovo di Carpentras, per mia espressa volontà, e per rendere onore ai due vescovi venuti da fuori. Conclusa l’inchiesta sulla predetta prodigiosa guarigione, abbiamo spedito gli atti alla sacra congregazione dei Riti.

1758.9     Morte del papa Benedetto XIV – Considerazioni dell’arcivescovo.

Mentre si celebrava tutto ciò a Falerone, il 3 maggio, il papa Benedetto XIV, avanzato negli anni e fiaccato nella salute, provata da vari mali, morì. I novendiali furono celebrati secondo la tradizione della curia Romana. Subito dopo, mons. Giovanni Battista Bartoli, vescovo titolare di Nazianzio, tenne ai cardinali il discorso “Sul sommo pontefice che dovrà essere eletto” nel quale non fece un minimo accenno in lode del defunto papa, anzi molti ascoltatori credettero di trovarvi elementi di critica al suo operato.

Il funerale apparve organizzato con scarsa affezione e diligenza, soprattutto perché nessuno tentò di correggere alcuni giudizi. Ad esempio nessuno ha messo in rilievo il comportamento di Benedetto XIV verso i consanguinei,  dato che aveva sempre trascurato di favorire i suoi famigliari più stretti e non aveva fissato alcuna dote per i parenti più giovani.[1] Questo è un motivo per dargli lode e gloria. Magari egli avesse usato lo stesso rigore con i sovrani secolari e avesse mantenuti intatti e difeso i diritti degli ecclesiastici! Invece sotto il pontificato di Benedetto la situazione era giunta al punto che nella curia Romana erano tenute in poca considerazione le immunità, le esenzioni e le libertà delle Chiese, tanto che raramente erano restate salvaguardate come nel passato, ma peggiorarono le condizioni di queste, più che di altro. Quello che era stato pattuito nei vari concordati con i principi, a danno della dataria Apostolica e al governo dello Stato Pontificio, era tanto grave che le altre situazioni locali finivano con l’apparire tollerabili.[2]

Come scusante per il pontefice si poteva addurre il fatto che a volte era necessario che lo facesse spontaneamente, mentre egli veniva costretto ad agire in quel modo. Poco a poco, infatti, diminuendo il rispetto da parte dei prìncipi, nell’opinione pubblica si diffondeva l’idea che non fosse più obbligatorio quel dovere di rispettare la Sede Apostolica, come s’era usato nei tempi apostolici. Ciò però che provocava maggior dispiacere e impediva di essere al di là di qualsiasi comprensione scusante, era che tutto ciò avveniva dietro esborso di una modica cifra di denaro da parte del potere laico. Infatti, a compenso di un futuro danno che veniva causato alla dataria Apostolica e alla camera Apostolica, a causa della cancellazione di alcuni obblighi annuali, che sarebbe scomparsi successivamente,  il re di Spagna aveva versato 310.000 scudi di argento. Inoltre per ottenere l’abolizione delle pensioni, che pesavano sui benefici e le cosiddette cedole bancarie, in occasione della spedizioni delle bolle a sei anni, il re pagò 600.000 scudi di argento. Infine allo stesso re fu data la facoltà di nominare gli economi per i redditi dei benefici vacanti e per gli spogli del clero. Questi economi incassavano e usavano il denaro per gli usi dovuti. Il re sborsò 233.333 scudi di argento per questa concessione. Inoltre per i diritti, detti della crociata, concessi al re dalla Sede apostolica, il sovrano sborsava al nunzio apostolico di Madrid 5.000 scudi di argento, ogni anno, grazie ai quali il nunzio rinunciava al diritto di fare le nomine ai benefici ecclesiastici che non avessero una rendita annua superiore a 24 ducati d’oro.[3]

Tutti questi accordi furono fatti passare come riforme della disciplina ecclesiastica. Sembra appropriato il detto di Orazio  “ Ha cominciato a fare una bella anfora. Come mai, col girare la ruota, è venuto fuori un vasetto meschino?” Purtroppo, bisogna riconoscere che in materia di nomine ai benefici ecclesiastici furono introdotte molte norme assurde e dannose. Certamente i metodi in vigore richiedevano che fossero riformati, ma un metodo nuovo non doveva essere certamente quello adottato. Forse sarebbe stato più opportuno seguire le norme tradizionali, dettate dagli antichi sacri canoni in base ai quali non era consentito permettere alle autorità civili di intromettersi in materia di concessione dei  benefici ecclesiastici, ma che venisse riservato ai soli vescovi il diritto di nomina onde evitare che si verificassero gravi abusi. Sarebbe quindi necessario ripristinare gli antichi criteri. Qualcosa del genere accadde anche con Carlo re delle due Sicilie al quale pure fu concesso un concordato con la Santa Sede, senza aver nessun riguardo per le immunità e le libertà ecclesiastiche. Anzi Benedetto si congratulò con lo stesso re e gli permise o tollerò che usasse ed abusasse a suo piacimento dei luoghi appartenenti ai territori della Chiesa, causando chiaramente indicibili danni <agli abitanti>. Sarebbe doloroso elencare a lungo tutti questi danni![4]  Tutto questo, o lettore, è necessario dimenticarlo benevolmente, quando si volesse cogliere pienamente i meriti di Benedetto XIV. Molte sono state le cose lodevoli. Dobbiamo, infatti, mettere in rilievo innanzitutto che soltanto lui superò molte difficoltà che si presentarono nel governo dello Stato ecclesiastico. Egli stabilì norme opportune per rafforzare e facilitare la disciplina nella Chiesa e in tale impegno lavorò senza desistere, sino alla fine della sua vita, che fu longeva avendo raggiunto l’età di ottantatré anni, con il papato per diciotto anni.

Aveva grande versatilità nello scrivere e dava risposta a ciascuno, secondo le condizioni e il merito, subito, senza ritardo. Molti gli hanno attribuito il difetto di non sostituire subito i cardinali defunti, nominando al loro posto nuovi cardinali, nonostante che più volte fosse stato invitato a fare le nuove nomine. Egli in apparenza si mostrava d’accordo, tuttavia di fatto differiva gli atti conclusivi e non facilmente si fece smuovere dalla sua decisione. Il giorno primo aprile del corrente anno, pochi mesi prima di morire, per le pressioni del re di Portogallo e di Algorvia, nominò il cardinale diacono Francesco Saldanha, come visitatore e riformatore del clero religioso della Compagnia di Gesù in Portogallo, Algorvia e nelle Indie occidentali e orientali, che erano territori soggetti allo stesso re del Portogallo. Il Saldanha, in queste diverse regioni, rese note le intenzioni del pontefice e fu ammirevole come nei diversi luoghi cercò di smorzare, con ogni diligenza,  le calunnie contro la Compagnia di Gesù, causate da recenti odi, talora in parte appianate dal tempo. Egli cercò anche che le accuse non fossero rinfocolate o non ne sorgessero di nuove.[5]

1758.10     Magistero di Benedetto XIV anche in relazione della riduzioni delle feste – Favori   concessi dal papa alla famiglia dell’arcivescovo.

Importante fu il suo magistero grazie al quale con molti scritti e in molti modi Benedetto XIV istruì il popolo cristiano.  Con me e con la mia famiglia egli si mostrò sempre generoso e benevolo. Con me, in particolare, fu benevolo allorché difese il mio parere a proposito delle feste da rispettare, ma nelle quali cessava l’obbligo di astenersi dai lavori occupazionali, ad eccezione delle festività che ricordano direttamente i misteri della nostra redenzione. Egli mi ha sempre difeso dalle accuse formulate dal cardinale Angelo Maria Quirini. Nominò mio fratello Pietro Antonio Borgia, canonico coadiutore della basilica di San Giovanni in Laterano con fiducia per la successione. Altri miei fratelli, insigniti della Croce di Cavalieri Gerosolimitani furono da lui favoriti: uno, dopo aver militato in vari ruoli, è stato nominato prefetto al Porto di Anzio, al litorale e alle zone marittime; il secondo nipote è stato fatto luogotenente del comandante della prima nave ammiraglia. Un altro mio nipote, per parte di mia sorella, Pietro Paolo Leonardi, è stato creato vescovo della nobilissima Chiesa di Ascoli, diocesi confinante con quella di Fermo. Infine, poco tempo prima di morire, ha nominato prelato referendario di Segnatura Stefano, mio nipote (da parte di mio fratello). Tutto questo sta a dimostrare largamente la sua larga benevolenza verso di me e verso la mia famiglia.

1758.11     Collocazione della statua di bronzo della beata Vergine Maria nella nicchia sopra   la porta centrale della chiesa metropolitana.

Il 7 di giugno sono tornato a Fermo e il 27 dello stesso mese ho benedetto nella cattedrale, con i riti appropriati, la statua di bronzo in onore della beata Vergine Maria Assunta in cielo, e nel giorno successivo, nella vigilia della festa dei santi Pietro e Paolo, l’ho fatta collocare sopra le porta maggiore della metropolitana, nella nicchia che era rimasta vuota dal periodo in cui era stata ricostruita la cattedrale. La spesa è stata di 480 scudi d’argento. Sulla base della statua ho fatto incidere la seguente iscrizione:

ALLA SANTA MADRE DI DIO  \  ASSUNTA IN CIELO  \  IL SUDDITO DEVOTO  \  ALESSANDRO BORGIA  \  ARCIVESCOVO E PRINCIPE DI FERMO  \  DEDICO’  \  NELL’ANNO MDCCLVII

1758.12     Visita all’arcivescovo da parte di sua sorella e di due nipoti.

Tornato a Fermo da Falerone, erano giunti in città i miei parenti con le due nipoti Faustina e Cecilia. Dopo aver, il 6 luglio, visitato il santuario della santa Casa di Loreto, insieme con mio nipote Giovanni Paolo, cavaliere gerosolimitano, partirono per recarsi a San Claudio. Fecero questo viaggio in parte per motivi di devozione e in parte per desiderio di conoscere cose nuove. Ritornarono poi nella loro casa.

1758.13    Improvvisa elezione del nuovo pontefice, il cardinale Carlo Rezzonico veneto.

Frattanto, poiché i cardinali non si accordavano sulla elezione del nuovo pontefice, dato che alcuni non accettavano di aver riguardo dei cittadini bolognesi, improvvisamente, il 6 luglio, elessero sommo pontefice il cardinale Carlo Rezzonico, veneto, che era vescovo di Padova, e l’elezione avvenne, contro la costante consuetudine, nelle ore pomeridiane, anzi quando il giorno era ormai alla fine e quando ancora l’animo di molti cardinali era incerto e si pensavano diverse altre ipotesi. La prima cosa che fece il nuovo pontefice fu di rivolgersi alla repubblica di Venezia. Questa repubblica, il 7 di settembre del 1754, aveva emanato alcune disposizioni secondo le quali era proibito a ciascun veneziano di rivolgersi direttamente a Roma per cose religiose, o per questioni di giustizia, senza prima aver informato il governo della stessa repubblica. Ciò appariva chiaramente come un pernicioso e pericoloso esempio sia per i Veneti, sia per tutti gli altri popoli. La norma sembrava infatti coartare quella libera potestà che Cristo aveva donato alla sua Chiesa. Il nuovo papa, al fine di appianare ogni contrasto con questa repubblica, su questo problema, dichiarò che la potestà legislativa risiedeva completamente nella repubblica che la poteva liberamente esercitare e quindi essa poteva ritrattare l’ordinanza, senza danni per la faccenda contrastante contro il parere della curia Romana. Nonostante tutto, questa cosa fu messa in atto e fu raggiunta, nella condizione, una transazione.

1758.14     Ripresa dell’attività a Fermo; continuazione della quinta visita pastorale della diocesi  –   Morte di mons. Marco Antonio Massucci.

In occasione della fiera di agosto non c’erano i soliti ospiti accolti, ma è venuto mons. Francesco Ferrera, referendario della Segnatura Apostolica. Nella festa dell’Assunta parlai della statua bronzea della beata Vergine Maria e della recente elezione del nuovo pontefice.

Volendo poi completare la quinta visita pastorale della diocesi, iniziai il 9 settembre e inizialmente mi sono recato a Monte Giberto, a Petritoli, a Monterubbiano, a Moresco, a Lapedona, al Porto di Fermo e a Torre di Palme. Ho scelto come con- visitatori  il primicerio della metropolitana Giovanni Antonio Leli; Fabio Marcianesi prete della congregazione della Missione e padre Liberato da <Monte> S. Giusto, frate francescano dell’Osservanza. Per farmi aiutare, chiamai anche mons. Pietro Paolo Leonardi, vescovo di Ascoli, mio nipote (da parte di mia sorella) al quale affidai il compito di far la visita alla restante parte della diocesi al fine di concludere in breve tempo la visita di tutti i luoghi.

Ho tenuto il 23 settembre una sacra ordinazione di chierici al Porto di Fermo, nel periodo liturgico stabilito dalle norme giuridiche. Ottenne la prima tonsura anche Filippo Borgia, mio nipote (da parte fraterna) che dimorava presso di me. Nello stesso giorno, morì Marco Antonio Massucci canonico decano della cattedrale di Recanati che, nel passato, era stato mio vicario generale e in seguito vicario apostolico nella diocesi di Acquapendente e infine per molti anni uditore della Rota di Macerata. Uomo solerte e degno di ricevere la dignità episcopale, che io gli avevo prospettato, ma alla quale egli non ambiva, preferendo di dedicarsi ai suoi studi e al suo ufficio. Gli avevo anche offerto di poter ottenere proventi da alcuni benefici ecclesiastici, magari per poter aiutare i suoi nipoti, ma egli mi rispose che ciò non gli sembrava lecito e io lodai questa sua scelta. Egli aggiunse che i suoi nipoti erano già ben forniti di beni e non avevano la necessità di aumentare le loro ricchezze.

1758.15     Improvvisa morte del cardinale Alberico Archinti – Visita di omaggio al nuovo papa    Clemente XIII.

Sistemate le cose in diocesi, e conclusa la quinta visita pastorale, il 3 di ottobre mi misi in viaggio verso Roma. Appena giunto a San Claudio, mi giunse la triste notizia della morte del cardinale Alberico Archinti, vice cancelliere della Chiesa Romana e segretario di Stato del pontefice. Fu colpito da un grave male, e rapito da improvvisa morte, il 30 settembre. Avevo sperato molto di incontrarlo e di sapere se aveva ricevuto il quarto volume delle mie omelie fermane, ma questa non era la volontà di Dio.

Mi recai a Roma, soprattutto, per far la visita di omaggio al papa Clemente XIII e presentargli i miei sentimenti di ossequio e per offrirgli i miei scritti, di recente raccolti in dieci volumi, elegantemente rilegati, sulla attività pastorale da me svolta sia nella diocesi di Nocera che nell’arcivescovato di Fermo. Ai volumi aggiunsi anche la medaglia d’oro, coniata in occasione della consacrazione episcopale di mio nipote Pietro Paolo Leonardi, da me celebrata nella cattedrale Fermana, per concessione di Benedetto XIV. Vi erano convocati i vescovi e altri presuli e grande moltitudine di persone di ogni ceto delle diocesi di Fermo e di Ascoli. Il papa  accettò volentieri i volumi, miei umili doni, ma non voleva accettare la medaglia d’oro perché essa sarebbe dovuta essere data piuttosto a Benedetto XIV, che non a lui; tuttavia per le mie insistenze alla fine l’accettò.

1758.16     Istituzione della collegiata nella chiesa di San Pietro nel paese di Montottone.

Il 12 di ottobre partii da Roma per recarmi a Velletri, dove mi dovevo interessare delle cose di famiglia. Dopo averle considerate, il 30 dello stesso mese, sono tornato a Roma. Antecedentemente al mio viaggio di ritorno a Roma, il 28 settembre, Clemente XIII aveva rimosso ogni ostacolo che si opponeva alla istituzione della insigne collegiata nella chiesa di San Pietro apostolo, nel castello di Montottone, nella mia diocesi, richiesta avanzata da me e raccomandata con una mia lettera informativa nella quale era anche sottolineata l’importanza delle motivazioni di tale istituzione, con interposte concessioni in deroga e indirizzata direttamente al sommo pontefice.

1758.17 Clemente XIII prende possesso della basilica di San Giovanni in Laterano.

Il giorno 11 novembre, giorno anniversario del mio battesimo, ho consacrato un altare dedicato al nome ed in onore di santa Teresa di Gesù, carmelitana scalza, nell’oratorio di cui era rettore padre Felice da santa Caterina. Egli me l’aveva insistentemente richiesto.

Clemente XIII finora aveva rimandato l’atto di presa di possesso solenne della Basilica di San Giovanni in Laterano. Non tardò ulteriormente ed all’ora di pranzo dell’11 novembre, compì tale adempimento, salendo su un cavallo, seguito da un grandioso corteo di nobili, di presuli e  ha celebrato la cerimonia, secondo la tradizione romana, accompagnato da alcuni cardinali. Vi ho partecipato da un palco, riservato ai canonici della basilica Lateranense, recitando le invocazioni pubbliche fino a ritrovarmi poi insieme con gli altri.

1758.18 Morte di Giovanni Antonio Celli – Nomina di Stefano Borgia a governatore di          Benevento – Monacazione di Maria Faustina Borgia – Morte del cardinal Guadagni.

Il primo di dicembre, ho ricevuto la triste notizia della morte che aveva portato lontano da noi Giovanni Antonio Celli, nato da una nobile famiglia di Velletri. Era conoscitore esperto della letteratura, e si era sempre dedicato all’amministrazione della cosa pubblica, fino a quando, ispirato dalla divina grazia, scelse di ritirarsi nell’eremo di Monteluco presso Spoleto. Più volte fu eletto priore dell’eremo, sino al momento di essere rapito dalla morte. Era da tutti stimato per la sua grande integrità d’animo e per la fama della sua vita anacoretica, da tutti apprezzata.

Stefano Borgia, già referendario di Segnatura era già stato iscritto da Clemente XIII, tra i suoi prelati domestici, e il 19 dicembre fu nominato dallo stesso pontefice governatore della città di Benevento. Sopraggiunse per tutti noi <parenti > la preoccupazione di preparare tutto il necessario per il viaggio e di sistemare la sede della prefettura, secondo le esigenze della sua dignità. Venne calcolato il denaro occorrente per l’insediamento del nuovo governatore e si pensò che occorressero più di cento libbre d’argento. Si provvide a molti scaffali per raccogliere una grande quantità di volumi da lui scelti. Fu necessario preparare la casa con una quantità di suppellettili e fu necessario esporre molti teli.

Alla fine di dicembre, Maria Faustina Borgia, nipote per parte di mio fratello, chiamata da Dio tra le monache di santa Chiara nel monastero di San Silvestro in Capite, ricevette l’abito religioso, il 30 dicembre, dalle mani del cardinale Giovanni Antonio Guadagni, vicario di Roma. Era accompagnata da Faustina Mattei, mentre io e Stefano stavamo ad onorare la sacra cerimonia. Tutto avvenne in maniera appropriata. Poiché però, la giovane aveva un qualche difetto alle ginocchia, oltre alla dote di mille scudi che era stabilita per le nozze religiose, fu richiesto dalle monache un aumento di dote di altri 500 scudi di argento. Per il cardinal Guadagni che compì questa celebrazione, fu l’ultimo atto rituale. Poco tempo dopo, il 15 gennaio del successivo anno, egli fu colpito da una grave malattia, e all’età di 85 anni, dalla morte fu tolto lontano da noi. Era persona degna di stima specialmente per la generosità che dimostrava verso i poveri; a lui avevo dedicato il volume delle mie omelie Nocerine.

1758.19     L’arcivescovo visita il monumento sepolcrale del cardinale Giacomo Millo                     pro- datario di sua santità.

Trovandomi a Roma, mosso in parte da un motivo di devozione, e in parte anche dalla curiosità verso il defunto cardinale Giovanni Giacomo Millo, pro-datario del sommo pontefice e prefetto della congregazione degli interpreti del Concilio Tridentino, mi prese il desiderio di visitare il suo monumento sepolcrale che si trovava nella chiesa del suo titolo cardinalizio, presso i frati carmelitani della congregazione di Mantova. Notai, meravigliato, che la memoria di un così famoso personaggio era stata sfregiata nel mese di novembre, dell’anno precedente. Il sepolcro era stato violato anche perché era stato costruito con il gesso e nessuno si era dato cura di aggiustare tale scempio. Le rotture restavano trascurate: eppure il cardinale era stato baciato dalla fortuna e aveva raggranellato dal suo ufficio più di duecentomila scudi per il suo patrimonio privato.

1758.20     Predicatore dell’avvento nella metropolitana.

Nell’avvento di quest’anno, l’incarico di predicare nella cattedrale è stato svolto da Giovanni Combi veneto il quale, appartenuto per molti anni ai frati detti Cappuccini, uscì poi dall’ordine religioso, per passare tra i sacerdoti diocesani. Svolse il suo compito secondo le sue capacità e la propria attitudine.

1758.21     L’arcivescovo viene iscritto all’accademia dell’Arcadia di Roma.

Esisteva a Roma la famosa accademia dell’Arcadia; essa mi accolse con piacere, dandone notizia con una lettera inviata a Stefano Borgia mio nipote (di parte fraterna) assegnandomi il nome di Mistauro che avrei usato nelle sedute accademiche, secondo l’antica tradizione.

1758.22     Vari lavori di migliorìa eseguiti nei vari possedimenti della mensa arcivescovile.

Durante l’anno, essendosi deteriorata per l’umidità una pittura, nella parte rotonda (absidale) della chiesa metropolitana, fu necessario procedere al suo restauro. Nei mulini di Grottammare appartenenti alla mensa, fu necessario eseguire un nuovo lavoro; infatti Saverio Petrucci, nobile ascolano, aveva un suo appezzamento, che era confinante con la nostra chiesa di San Martino, e una grossa zolla di terra, di circa 280 piedi, era franata invadendo la nostra proprietà, nel luogo dove si trovava un antico corso di acqua. Fu necessario pertanto riadattarlo, con la costruzione di nuovi argini e circondarlo con un muro. Inoltre, affinché l’umidità non rovinasse di nuovo la chiesa, fu necessario deviare il fossato di almeno 140 piedi. Il lavoro richiese una spesa di 83 scudi.

A San Claudio, essendo andate in rovina le vecchie capanne, ne feci costruire delle nuove, capaci di contenere, nel periodo estivo, tredici paia di buoi. Il lavoro richiese una spesa di più di cento scudi di argento, poiché le nuove costruzioni non erano più di fango, come si usava fare prima in questa zona, ma vennero realizzate con la calce e i mattoni. Molti altri lavori per restauri furono inoltre compiuti nelle varie proprietà terriere della mensa arcivescovile.

1758.23     Lavori di piantagione nelle terre di proprietà della mensa arcivescovile.

Oltre ai lavori già detti, fu fatto molto nel settore delle piantagioni di alberi fluviali per contenere il corso dei fiumi, in ciascuno dei terreni della nostra mensa. A San Claudio, in una zona incolta, per uno spazio di circa 1310 piedi, sono stati piantati cinquecento arboscelli di pioppi nella speranza della loto crescita. Inoltre sono state costruite quattro palizzate per arginare le inondazioni del fiume Chienti, nella zona della fornace, vicino, sopra e sotto di essa, con non lieve spesa calcolata in ottantadue scudi di argento. Quasi altrettanto fu speso per i legnami degli argini apposti al fiume Chienti, inoltre furono poste le piante, quasi un  migliaio di salici e pioppi.

Nelle terre di nostra proprietà a San Martino, presso Fermo, dove ogni anno abbiamo preso riposo una o due volte all’anno, negli anni antecedenti erano state messe in opera palizzate per difendere le terre dalle inondazioni del fiume Ete. A protezione, furono inoltre piantati i pioppi e i salici. A Paduli feci segnare i nostri confini, piantando dei salici. A Grottazzolina ho fatto piantare 64 mori gelsi; a Francavilla presso le nuove case e vicino alla chiesa dei santi Sisto e Giuliana è stata aumentata la piantagione dei mori gelsi. Sono stati aumentati i pioppi e i mori a Monteverde. A Santa Croce, è stata ampliata la selva.



[1] Prima di tutto il Borgia evidenzia che nel discorso era freddo l’apprezzamento verso la persona del Pontefice, poi fa apprezzamenti di lode a questo papa per il costante e rigoroso atteggiamento avverso al nepotismo.

[2] Con  franchezza l’arcivescovo Borgia evidenzia come grave punto debole della politica di Benedetto XIV la tendenza a regolare i rapporti con i sovrani attraverso singoli accordi o concordati riguardanti i benefici ecclesiastici, in particolare con il regno di Spagna e con quello delle Due Sicilie. L’arcivescovo accusato il papa di debolezza sul piano della difesa dell’indipendenza della Chiesa, della difesa della intangibilità della giurisdizione dei vescovi sulle loro Chiese particolari e della difesa dei privilegi e delle esenzioni dei vescovi nei confronti dei poteri governativi laici. Il Borgia aveva vissuto questi problemi, a lungo, sulla sua pelle, costretto a spendere tanto del suo tempo e dei suoi soldi per portare avanti le numerose controversie. L’accusa di debolezza nasce dal fatto che questo piano di difese era essenziale per la mentalità del Borgia, mentre invece, forse, rivestiva una scarsa importanza nella mente di papa Benedetto XIV. Sotto questo aspetto, A. Borgia dimostra un rigore forse eccessivo sui temi della indipendenza, della tutela dei diritti e dei privilegi ecclesiastici e del rispetto della giurisdizione dei vescovi. Peraltro lo stesso arcivescovo fa apprezzare la sua moderata visione liberale su altri temi religiosi.

[3] A. Borgia propone una considerazione che rasenta l’accusa di una pratica simoniaca nei confronti degli atteggiamenti della curia Romana, con l’insinuazione  che i concordati stipulati e gli accordi sottoscritti con i sovrani di Spagna e delle Due Sicilie, oggettivamente, danneggiavano direttamente i vescovi locali e indirettamente la dataria e la camera Apostolica, perché erano stati privati di molti introiti, mentre i sovrani acquisirono i diritti di fare le nomine sui benefici ecclesiastici semplici.

[4] Si ha l’impressione che la responsabilità di quanto accaduto venga addossata ai responsabili della Camera Apostolica e della dataria Apostolica a cui facevano capo le nomine ai benefici. Viene inoltre chiamato in causa il Nunzio Apostolico presso la Corte spagnola.

[5] Benedetto XIV cercava di rallentare le pressioni dei governi europei che chiedevano al papa stesso di sopprimere la Compagnia di Gesù.

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