BORGIA Alessandro Cronaca Fermana anni 1751 e 1752 traduzione di TASSI Emilio

ANNO 1751

1751.1    Fra’ Antonio vescovo di Lesha celebra il pontificale a Fermo nella festa dell’Epifania;  poi si avvia per raggiungere la sua chiesa in Albania con un mio aiuto offerto  per il viaggio.

Fra’ Antonio da Lesha in Albania (Epiro), neo vescovo nella sua patria, di cui ho parlato nel precedente anno in questa cronaca, nel mese di dicembre, era venuto da me. L’ho ospitato nell’episcopio fino al 18 gennaio. Nella festività dell’Epifania, su mio invito e con la mia assistenza, ha celebrato il pontificale nella chiesa metropolitana. E’ partito per Ancona, passando poi a Venezia, per raggiungere la diocesi a lui affidata; io gli ho offerto un aiuto per il viaggio e piccoli doni. Abbiamo a lungo parlato e ci siamo scambiati molte considerazioni sul modo di governare quelle regioni che erano sottomesse al dominio dei Turchi, e specialmente sulla necessità di formare i chierici presso il vescovo, come era in uso in antico presso i nostri Padri, dato che in quelle zone, per la conformità con le  norme del Concilio Tridentino, non si riusciva ad istituire i seminari.

1751.2    Mio fratello Cesare Borgia dà la caccia ad una trireme dei Turchi.

Alla fine di febbraio, fui molto felice di sapere che mio fratello Cesare, cavaliere gerosolimitano, che comandava una nave da ispezione nelle coste romane, si era imbattuto con una piccola trireme turca; la costrinse ad accostarsi vicino alla costa di Grosseto,  in Toscana. I Turchi cercarono di salvarsi raggiungendo a nuoto la spiaggia per poi, per via di terra, cercare di raggiungere, sempre per via terrestre, le coste dell’Illiria. La vicenda doveva essere condotta più con la furbizia che con la forza, per non dare l’impressione di ledere i diritti della Toscana, con la quale i Turchi erano in buoni rapporti.

1751.3    Benedetto XIV estende il giubileo a tutto l’orbe cristiano a determinate condizioni.

Terminate le celebrazioni giubilari a Roma, Benedetto XIV estese il giubileo a tutto l’orbe cattolico con pari remissione dei peccati e con la concessione dell’indulgenza plenaria a quei fedeli cristiani però che avrebbero visitato la chiesa cattedrale della propria diocesi e altre tre chiese, varie volte, secondo quanto indicato da ogni vescovo, che avrebbe stabilito le condizioni da rispettare per ottenere i benefici del giubileo. Alcuni hanno interpretato che il giubileo si potesse ottenere in ogni paese della diocesi. L’intenzione del papa era però che le pie pratiche si potessero svolgere soltanto nella città sede del vescovo. Io, seguendo questa seconda interpretazione, ho stabilito le quattro chiese di Fermo che da visitare, cioè la chiesa metropolitana, la chiesa di san Francesco dei Minori conventuali, la chiesa di sant’Agostino degli Eremitani agostiniani: queste due all’interno della città; la quarta infine era la chiesa suburbana della beata Vergine Annunziata dei frati Minori dell’Osservanza, che in antico era detta di san Martino in Varano.

Fu stabilito da Benedetto XIV il tempo di sei mesi dalla pubblicazione della sua lettera apostolica. Decisi di differire la data fino all’inizio della quaresima, affinché ci fosse abbastanza tempo per istruire i fedeli sulle pratiche di penitenza e di pietà da compiere. Ho voluto premettere l’invio di una lettera pastorale indirizzata a tutta la diocesi. Ai predicatori, che si presentavano a me all’inizio della sessagesima, per ricevere la benedizione, prima di iniziare la predicazione quaresimale, feci una pressante esortazione che durante le loro prediche esortassero i fedeli della diocesi a non lasciare passare invano il tempo opportuno, per purificare le proprie coscienze.

1751.4    Scelta  dei luoghi per l’ospitalità dei pellegrini durante il giubileo.

Tuttavia le principali difficoltà erano quelle relative all’approntamenti dei luoghi destinati all’ospitalità dei fedeli diocesani che sarebbero venuti a Fermo. Chi li avrebbe dovuto accogliere? Dove alloggerebbero? Dove preparare il cibo per loro?

Venivano sollecitate le confraternite della città, e altre associazione ad accogliere i confratelli dello stesso sodalizio, che dopo giunti sarebbero stati accompagnati alle chiese designate ad essere visitate dai fedeli; ma tutti dichiaravano di non essere in grado di poter offrire ospitalità, né fornire il cibo. Pertanto diedi ordine di preparare l’accoglienza negli ospedali: per gli uomini nell’ospedale di Santa Maria dell’Umiltà, per le donne in quello di San Giovanni, per la gente promiscua in quello di Sant’Antonio Abate. Soprattutto però mi preoccupai di mettere in uso nell’episcopio diversi locali dove poter stendere dei letti per gli uomini e nelle case sotto il palazzo altri letti per le donne. Per coloro ai quali mancava il cibo, promisi che questo sarebbe stato fornito gratuitamente dalla mia mensa.

1751.5    L’indizione del giubileo a Fermo – Direttorio per lucrare l’indulgenza del giubileo.

Sistemata ogni cosa, dopo i primi vespri della prima domenica di quaresima, mentre era esposto il SS. Sacramento dell’Eucaristia nella cattedrale e dopo aver letto la lettera apostolica di Benedetto XIV, al suono delle campane e al fragore delle bombarde (in luogo delle trombe dei sacerdoti con le quali veniva annunciato l’anno del giubileo in Israele), ho dato inizio al tempo giubilare. Subito io, con il capitolo, con i sacerdoti della metropolitana, e con il magistrato della città abbiamo compiuto la visita prescritta alle quattro chiese indicate. Tutta la gente della città, il clero sia diocesano che regolare, le confraternite, tutte le parrocchie, seguendo il nostro esempio, compirono la visita alle chiese. Molti manifestavano i segni visibili della contrizione del cuore ed entravano nelle chiese vestiti con il saio, con il capo coperto, trascinando pesanti catene oppure portando sulle spalle una pesante croce di legno e molti a piedi nudi.

Carlo Bartolucci, cerimoniere e prebendato della metropolitana, su mia indicazione, fece stampare un direttorio nel quale erano spiegati l’itinerario che si sarebbe dovuto seguire a Fermo, le chiese da visitare e tutte le altre cose da compiere per acquistare l’indulgenza plenaria del giubileo ed inoltre quali preghiere praticare. Tale manuale fu diffuso anche nelle diocesi limitrofe.

1751.6    Precauzioni per la custodia della Santa Eucaristia.

Alla fine di febbraio, per volontà di Benedetto XIV, ho fatto diffondere l’editto sulla custodia delle chiavi dei tabernacoli nei quali veniva conservata la SS. Eucaristia. I furti dei vasi sacri specifici erano avvenuti in molte parti dello Stato pontificio, a causa della trascuratezza nel custodire le chiavi dei tabernacoli, da qui l’emanazione dell’editto. Le pene inflitte contro i negligenti, sia del clero secolare che del clero regolare (religiosi), erano le stesse di quelle comminate da Innocenzo III sulla custodia dell’Eucaristia.

1751.7     Esposizione dell’Eucaristia nella domenica di sessagesima nella chiesa di san Rocco.

In quest’anno, è stato stabilita e posta in esecuzione per la prima volta l’iniziativa che la confraternita del SS: Sacramento, nella domenica di sessagesima e nei due giorni seguenti, nella propria chiesa di san Rocco, era tenuta ad organizzare l’adorazione del Santissimo. Lo stesso avevano deciso di fare i sacerdoti della congregazione dell’Oratorio, nella domenica di settuagesima, nella loro chiesa, così pure facevano, nella loro chiesa, i sacerdoti della Compagnia di Gesù nella domenica di quinquagesima, secondo l’antica tradizione. La confraternita del SS. Sacramento era solita fare l’esposizione nelle festività del Natale; mi sembrò però opportuno di trasferirla nel periodo di preparazione alla Pasqua, per favorire la devozione del popolo, in un periodo di eccessi frivoli.

1751.8     Esecuzione capitale eseguita a Fermo.

Per decreto della congregazione per il governo di Fermo, il 18 marzo, fu impiccato nella piazza maggiore di Fermo, un certo Cesare Bruni di Marano (= Cupramarittima). Egli, nel tentativo di evadere dal carcere della giurisdizione laicale, dove era detenuto per aver commesso alcuni crimini, aveva ucciso una guardia carceraria. Morì piamente. Venne così dato un utile esempio alla gente onde astenersi dalla violenza e dall’uso delle armi.

1751.9    Fra’ Agostino Antonio Marioni predica a Fermo.

Nella chiesa metropolitana ha predicato la quaresima Fra’ Agostino Antonio Marioni dei Minori Conventuali di san Francesco, ma non fu molto apprezzato dagli uditori, anche se aveva parlato in modo dotto, mancava però qualcosa all’eleganza del dire. E’ stato tuttavia preciso quanto alla sostanza e al contenuto.

1751.10     Le confraternite e il popolo della diocesi vengono a Fermo a motivo del giubileo

                     – A chi spetta il merito.

Il giorno primo di aprile, vennero a Fermo, per il giubileo, tutte le confraternite di Monte Urano con il clero e il popolo, in tutto circa cinquecento persone, disposte in modo ben ordinato tra uomini e donne. Essi meritano uno speciale plauso perché furono i primi a venire, tra tutti gli altri paesi della diocesi, anche come si addiceva, perché erano piuttosto vicini alla città. Furono accolti presso la porta di San Marco, dalle confraternite della città che portano lo stesso titolo e sono state accompagnate nella metropolitana; vennero in episcopio per ricevere la mia paterna benedizione, a cui feci precedere brevi parole di esortazione. Si recarono poi a visitare le altre chiese stazionali. Vennero digiuni, ma avevano depositato le cibarie presso il convento della Misericordia dei frati Eremitani scalzi di sant’Agostino, nei pressi della città; e dopo aver consumato qui il pranzo, ripartirono. A tutti i pellegrini concessi l’indulgenza tripla di quella che ero solito concedere. Alle confraternite che li accompagnarono concessi l’indulgenza doppia. Ho elargito tale indulgenza dopo altre, con molta larghezza, nel tempo estivo. In seguito vennero le confraternite, il clero e il popolo di Grottazzolina, ancor più numerosi, con canti più appropriati e ben ordinati. Essi non avevano con sé le cibarie e io le offrii loro.

I pellegrini venivano accolti negli ospizi fissati e, affinché i giovani della città non causassero alcunché di offensivo contro di loro, il 18 aprile pubblicai un editto sull’atteggiamento dignitoso da tenere dai cittadini di Fermo. In esso ammonivo i genitori e i maestri artigiani che tenessero a bada i propri figli e apprendisti, comminando pene opportune contro i loro sottoposti se avessero commesso qualcosa di offensivo e di inverecondo contro gli ospiti. Nei mesi seguenti poi, vennero a Fermo, per lo stesso motivo, altre confraternite e altra gente dai diversi paesi. Per i nostri dipendenti di Monteverde ho fatto qualcosa in più: li accolsi tutti nell’episcopio, feci apprestare per loro ogni servizio e fu loro offerto il cibo.

1751.11    Visita alla santa Casa di Loreto – Morte di Eliseo de Angelis – Alessandro Foschi  amministratore dell’arcivescovo – Bartolomeo Macioni caudatario.

Sono stato invitato dal governatore di Loreto, Giovanni Battista Stella, a recarmi là, insieme con altri vescovi, per la ricognizione della santa Casa. Vi sono andato prontamente. Erano venuti anche i vescovi Giovanni Antonio Bachettoni di Recanati e di  Loreto; Antonio Fonseca di Iesi, e Paolo Marani di Ascoli. Fu riscontrata ogni cosa secondo le antiche tradizioni e ciò che mi fece più piacere fu il fatto di vedere, nelle pareti della santa Casa, i resti delle figure, anche se sbiadite, che ritraevano Luigi IX (Ludovico) santo re di Francia e i suoi compagni di prigionia, presso i barbari, in gesto di offrire doni alla Vergine. Subito dopo sono partito da Loreto, insieme con il vescovo Ascolano, che, fermatosi qualche giorno presso di me, tornò poi ad Ascoli.

Per completare la visita pastorale nella diocesi, scelsi come con-visitatori Vincenzo Montani, canonico della metropolitana e Giovanni Andrea Grossi, sacerdote della congregazione della Missione. Il 4 maggio mi sono recato in visita prima a Petritoli, poi a Guardia (Carassai), Massignano, Montefiore e Pedaso e il 24 maggio, tornai a Fermo.

Qui ho appreso, con dolore, che era morto Eliseo De Angelis, sacerdote di Monte San Pietrangeli. Egli era stato con me per 24 anni, prima come caudatario e lettore durante la mensa per alcuni anni, poi lungamente come economo o, come si dice, come maestro di palazzo. Era uomo fornito di onestà di costumi, esperto nell’amministrazione in cui si era a lungo esercitato, fedele nelle spese, caritatevole nell’aiutare i poveri. Morì nella sua patria, a causa dell’idropisia a cinquant’anni. Ho affidato le sue mansioni al chierico Alessandro Fusco di Velletri che fungeva fin dal 1748 da caudatario e da lettore di mensa e era esperto di amministrazione perché in questo era stato formato dal predetto Eliseo, che sostituiva, quando era assente o malato. Il chierico Bartolomeo Maciotti di Velletri che, qualche anno fa, venne nel mio seminario per seguire gli studi di lettere a mie spese, ha assunto l’ufficio che prima era di Fusco.

1751.12     E’ negata la libertà di aprire un macello al clero di Fermo   – Regole per celebrare la festa del Corpus Domini.

Mentre svolgevo la visita pastorale, il clero fermano, sia diocesano che religioso, era irritato per l’arroganza del pubblico macellaio e aveva deciso di istituire un proprio macello e, come stabiliscono i diritti della sacra Immunità, lo aveva aperto, a proprio uso. Nonostante che il clero difendesse il proprio giusto diritto, mandando a Roma il ricorso tramite Marino Minnucci, parroco di San Martino, e nonostante che anche io mandassi una lettera per difendere la libertà del clero, tuttavia la causa in favore del clero non si poté ancora introdurre, dal momento che la libertà ecclesiastica, nelle terre della Chiesa, in questi tempi, non era sufficientemente tutelata, anzi veniva calpestata a Roma.

Nel terzo giorno dopo la Pentecoste, il primo giugno, ho amministrato la Cresima nella metropolitana a un gran numero di ragazzi. Ho pubblicato anche un editto sul retto modo di celebrare la festa del Corpus Domini, affinché scomparissero alcuni abusi. Guidai la solenne processione per le vie della città, senza che si ripetessero i soliti abusi.

1751.13     Mio fratello Cesare Borgia viene costituito castellano del Porto di Anzio                     – Porzia Antonelli viene a Fermo insieme con altri – Antonio Ripanti successore                   di Rasponi nel governo di Fermo.

Nello stesso mese, Benedetto XIV ha nominato capo del Porto di Anzio, sulla costa laziale romana, mio fratello Cesare Borgia, cavaliere gerosolimitano. La località era distante da Velletri appena 18 miglia. Questo ufficio, che chiamano Castellania, era stato lasciato da Aiati nobile pisano, cavaliere di Santo Stefano, che per molto tempo era stato a capo dei cameriere cubiculari del cardinale Nereo Corsini, nipote di Clemente XII da cui egli aveva ottenuto la Castellania. Uomo di bell’aspetto e di grande gentilezza, era però irritabile perché troppo solitario. Lo apprezzavo per i modi distinti. Volle tornare a Roma, dove, alla fine dell’anno 1752, venni a sapere con dolore che, ancora giovane, era morto. Poiché mio fratello, a causa della salinità dell’aria marina, soffriva durante la navigazione, sono stato felice che fosse dispensato dai frequenti imbarchi.

Era giunta da me, a Fermo, e trattenne quasi per un mese nel palazzo vescovile, Porzia Antonelli, vedova di Stefano Gagliardi e nonna dei miei nipoti, insieme con il conte Antonio de Paolis, con sua moglie Flavia Gregni dei nobili di Velletri. Si trattennero per un mese, abitando nell’episcopio, meravigliati della gentilezza dei Fermani.

Nello stesso periodo Ippolito Rasponi,  che per molti anni era stato governatore di Fermo, era stato trasferito ad Ancona. Era uomo di vita specchiata e di integri costumi, degno di ogni lode, ma non sempre costante. Come successore, è venuto a Fermo Antonio Ripanti di Iesi, trasferito da Orvieto dove, però, ritornò quasi subito.

1751.14     L’arcivescovo spiega ampiamente il suo parere sul numero degli eletti                     – Il numero degli eletti tra i cristiani che hanno la retta fede è grandissimo.

Intanto erano andate crescendo le critiche alle mie omelie pubblicate nel 1749, in particolare in riferimento alle omelie XXII e XXVI.[1] Mi si osservava che, allorché nella festa di Tutti i Santi spiegavo il brano del capitolo 7 dell’Apocalisse in cui era detto Vidi una grande folla che nessuno poteva contare, davo l’impressione come se proponessi una spiegazione contraria alla comune interpretazione proposta dai santi Padri, in quanto io avrei proposto un numero eccessivamente ampio dei salvati, eletti alla salvezza eterna. In realtà nelle due omelie avevo affermato che il numero dei reprobi era molto maggiore, se si prende in considerazione l’intera umanità. Naturalmente, infatti, rispetto alla intera umanità il numero dei cristiani, cioè dei battezzati, rappresenta soltanto la quinta parte. Se invece si considera il numero dei battezzati, escludendo gli infedeli, gli eretici, gli apostati, gli scismatici e coloro che vivono praticando la fede, affermavo che gli altri hanno la volontà di salvarsi o quanto meno vivono la propria vita in buona fede, e il numero dei salvati deve essere considerato molto grande. A tutti costoro inoltre si debbono aggiungere i bambini morti subito dopo aver ricevuto il battesimo, coloro che sono usciti di mente o che peccano senza esserne consapevoli, della cui salvezza non si può dubitare. Il loro numero è pari a quello degli adulti. Se i Padri hanno affermato il contrario, è segno che essi intendevano riferirsi al numero dei salvati messi in relazione a tutta l’umanità oppure si potrebbe supporre che la loro affermazione potesse servire per indurre nei cristiani un salutare timore della pena eterna, considerata la grandissima corruzione degli uomini del loro tempo, come afferma san Giovanni Crisostomo nella sua opera De Civitate nostra in cui si riferiva a come la gente si comportava, nella situazione della sola città di Antiochia, considerando gli abusi che vi si commettevano e il disprezzo che gli abitanti nutrivano per le cose sacre. Ciò che egli in questo caso scriveva, non potrebbe essere attribuito alla situazione di  tutti i cristiani.

A causa delle critiche rivolte ai miei scritti, la suprema congregazione dell’Inquisizione  generale mi chiese di sottoporre la mia tesi al suo giudizio e di illustrare e spiegare la mia posizione più ampiamente. Lo feci inviando il testo della mia nuova omelia pronunciata nella metropolitana nella festa dei santi Apostoli Pietro e Paolo nella quale, dopo aver a lungo parlato dei molti e grandi gesti di pietà compiuti in tutto il periodo del giubileo, a Fermo, da tutto il popolo, citai il testo della seconda lettera di san Pietro in cui è scritto: In tal modo a voi sarà abbondantemente aperto l’ingresso nel regno eterno del Signore nostro e Salvatore Gesù Cristo. L’omelia fu grandemente apprezzata e lodata dalla congregazione dell’Inquisizione, anzi mi fu consigliato di pubblicarla, cosa che io feci nei mesi successivi.

1751.15     Documento ufficiale della transazione stipulata con il capitolo Lateranense                     rogato a Roma.

Per ratificare la concordia intervenuta tra me e il reverendo capitolo della basilica Lateranense riguardo alla chiesa, alla confraternita e all’ospedale di Santa Maria del Buon Gesù, nel castello di Montottone, mancava soltanto la redazione dell’istrumento ufficiale. Esso fu steso, a Roma, il giorno 8 luglio e registrato negli atti di Bernardino Monti, il primo dei notai del cardinale vicario di Roma. Nello stesso documento furono inserite altre convenzioni già fatte e il beneplacito Apostolico che io avevo ottenuto, l’anno precedente, quando mi trovavo a Roma. Il riassunto dell’accordo era il seguente. Spettava esclusivamente al capitolo Lateranense soltanto la visita materiale del luogo e la investitura del solo canonico, la cui nomina era riservata alla confraternita, se però essa avesse ceduto i propri beni per l’erezione del collegio dei canonici. Tutto il resto spettava all’arcivescovo di Fermo.

Lo stesso giorno, negli atti dello stesso notaio, fu registrata un’altra concordia. stipulata tra il capitolo Lateranense e la confraternita del SS. Sacramento del Porto di Fermo, riguardante la chiesa di San Giovanni, che si afferma essere “in suolo Lateranense” e che, a causa dell’umidità e per lo stato cadente dell’edificio, fu dichiarata ridotta ad uso profano, in forza del decreto arcivescovile, adottato durante la visita pastorale. Questa seconda transazione era nata dal fatto che la medesima confraternita intendeva costruire una nuova chiesa più ampia; pertanto in essa il primo altare, che si trovava nel “lato del vangelo”, doveva esser considerato di pertinenza Lateranense, con lo stesso titolo che aveva la vecchia chiesa di san Giovanni e con l’obbligo di pagare al capitolo Lateranense lo stesso annuo canone che essa pagava per l’altra chiesa che fu ridotta allo stato profano. La nuova chiesa, però, doveva essere considerata nel suolo e sotto la completa giurisdizione dell’arcivescovo.

1751.16     I danni arrecati dal terremoto – Le rovine del terremoto a Gualdo dell’Umbria                    – L’arcivescovo soccorre i cittadini di Gualdo e ripara i danni arrecati al monastero     a lui affidato in commenda perpetua.

Il 26 luglio, la terra fu scossa per due volte dal terremoto; una prima volta prima dell’aurora, la seconda appena spuntato il sole. Nella città di Fermo e in tutta la provincia  del Piceno però la scossa fu lieve e non vi furono danni e rovine, non così invece nell’Umbria. A Gualdo, paese della diocesi di Nocera, si verificarono molti danni: chiese, monasteri, torri, edifici pubblici e privati furono gravemente lesionati, squarciati o addirittura rasi al suolo, a partire dalla Piazza Maggiore fino alla Porta detta di San Benedetto. Le vittime furono soltanto tre o quattro, poiché Dio misericordioso diede il preavviso del sisma con un boato, permettendo a molti di fuggire dai luoghi dove c’erano le arcate.

La chiesa e l’antico monastero di San Benedetto, affidato a me in commenda vitalizia, anche se erano costruzioni solide, risentirono gravemente della violenta scossa. Crollò la parte superiore della facciata. La torre campanaria,  e le arcate all’interno dell’edificio furono squassate. Il tetto in parte crollò e in parte fu squassato, non però il tetto della cappella che custodisce devotamente l’urna con le sacre reliquie del beato Angelo, monaco di quel monastero. Le case del monastero che si trovavano presso la Porta maggiore e le altre pareti dello stabile subirono danni tanto gravi, che facevano temere crolli.  Le case dei contadini, specialmente quelle esistenti nel terreno detto Pomaiolo, che era la possessione più vasta di tutta l’abbazia e che si trova nei pressi dello stesso paese, erano in parte già crollate.

Gli artigiani forestieri con cui avevo fatto il contratto, nel mese di ottobre del 1750, stavano preparando i marmi necessari per il già programmato restauro della facciata della chiesa. Dopo il terremoto, abbandonarono i lavori, promettendo tuttavia che sarebbero ritornati, a terminare l’opera, non appena le scosse, che di fatto durarono fino alla fine di ottobre, fossero cessate.

Questi dolorosi avvenimenti fecero nascere in me la sollecitudine di garantire innanzitutto la prosecuzione delle attività di culto e dell’amministrazione dei sacramenti, soprattutto perché la maggior parte degli abitanti apparteneva alla parrocchia del monastero. Inoltre, altra seria preoccupazione era quella di portare soccorso alla popolazione, sia per il sostentamento, sia per  riparare i tetti degli loro edifici. Quindi, in concreto, c’era la necessità di sistemare le cose nella chiesa, negli altri edifici del monastero, del paese e delle campagne.

Si diede inizio ai lavori sul tetto della chiesa in modo che i sacerdoti e la gente vi si potessero riunire, in sicurezza, per celebrare le sacre funzioni e amministrare e ricevere i Sacramenti. A questo fine, indirizzai un’appassionata lettera ai cappellani della chiesa che non facessero mancare la loro attiva presenza, in un periodo così triste. Offrii 150 scudi di argento, da distribuirsi in comunità, tra i più poveri, e affidai la sorveglianza al vescovo di Nocera; altri soldi separatamente li distribuii ad alcune persone, per quanto mi fu possibile. Ai debitori dell’abbazia condonai diversi obblighi. Ordinai all’architetto Domenico Fontana, del quale io mi servivo a Fermo, di recarsi a Gualdo, affinché organizzasse e dirigesse la ricostruzione degli edifici dell’abbazia e di alcuni edifici, nei terreni dell’abbazia, in modo che i contadini non abbandonassero i campi. Tali costruzioni, di fatto, furono riparate prontamente, nel corso dell’anno. Gli edifici del monastero, nei punti in cui minacciavano rovina, vennero rinforzati con nuove sottofondazioni. I restanti lavori, in parte, vennero rimandati all’anno seguente.

1751.17     Indulto del giubileo da celebrarsi in ogni luogo della diocesi – Le finalità del giubileo.

Era imminente la scadenza dei sei mesi dell’indulto del giubileo, per ottenerne i doni spirituali. Quantunque la maggior parte della popolazione della diocesi fosse venuta a Fermo per questo impegno salvifico, tuttavia, non tutti dai paesi più importanti della diocesi, erano venuti; c’erano poi i malati di mente e di corpo e coloro che non erano in grado di sostenere le spese per le difficoltà famigliari. Spinto da tali considerazioni, ho deciso di chiedere a Benedetto XIV la facoltà di poter fare acquistare l’indulgenza del giubileo nei propri luoghi di residenza, con l’obbligo di visitare quattro chiese scelte dai vicari foranei locali e compiendo tutti gli atti di pietà richiesti per lucrare l’indulgenza plenaria. A questo scopo, all’inizio di agosto, scrissi una lettera pastorale. Nella giorno della prima domenica di settembre, secondo le disposizioni della Chiesa, fu concluso il tempo del giubileo.

Nella metropolitana si tenne la celebrazione di ringraziamento a Dio con una meravigliosa affluenza di popolo e con l’esposizione solenne della Santa Eucaristia. Dopo il solenne canto degli inni, diedi la benedizione al popolo, mentre tutti pregavano la divina clemenza, che i frutti del giubileo rimanessero per noi in eterno.

1751.18     A Fermo personaggi nobili vengono come ospiti – L’arcivescovo dà inizio ai lavori   di restauro delle mura cittadine iniziando dalla parte meridionale.

Nel mese di agosto, vennero da me, ospiti: mio fratello Fabrizio Borgia, vescovo di Ferentino, l’altro mio fratello Cesare Borgia, cavaliere gerosolimitano, Giovanni Battista Stella, governatore di Loreto e molte altre persone nobili. Vennero anche, ma non presso di me, Basilio Sciriman, veneto, governatore di Macerata, che era stato scelto, a questa carica, in quanto uno dei primi chierici della camera Apostolica. Uomo costante e fedele, veramente erudito e appassionato degli antichi poeti, come se fosse un giovane, ormai molto vecchio, aveva governato la Provincia senza suscitare lamentele di sorta; e si era sempre mostrato benevolo con me.

Gaetano Fantuzi, o meglio Elefantuzi, uditore della sacra Rota e uno dei presuli che facevano parte della congregazione per il Governo di Fermo, ispezionò attentamente i lavori di restauro delle mura cittadine, da me iniziata nei mesi passati, cominciando dal lato meridionale, dove si era lavorato molto, a cominciare dalla sacra edicola detta di Morgantini sul lato occidentale. Uomo serio, dotto e prudente, approvò tutto il lavoro che era stato compiuto, secondo l’ufficio datomi nell’anno precedente dalla congregazione Fermana.

Ritornò da Orvieto il nuovo governatore di Fermo, Antonio Ripanti, il quale, nel giorno della solennità dell’Assunta,  partecipò solennemente alla Cavalcata.

1751.19      Macerata fa tentativi contro l’immunità ecclesiastica  della mensa Fermana                     – Angelo Locatelli governatore di Macerata, promotore di questi tentativi                      in breve tempo cessa di vivere – Fine di un torbido governo.

Poco tempo prima, era stato fatto a Macerata un grave tentativo di negare l’immunità e la libertà della Chiesa Fermana da parte della tesoreria del Piceno, in relazione al commercio di esportazione dei grani. La questione era stata già trattata e definita dalla congregazione dell’Immunità ecclesiastica e dal tesoriere generale della camera Apostolica, sia prima di me che anche durante il mio episcopato, come ho già spiegato in questa cronaca. Era accaduto un sequestro, allorché molti cavalli che trainavano i carri di quei fornai di Foligno, che avevano acquistato il grano della mensa arcivescovile a San Claudio, stavano attraversando la località di Morro di Camerino. Angelo Locatelli Martorelli di Cesena, che era succeduto come governatore a Sciriman e che precedentemente era stato governatore a Fermo, con la complicità del tesoriere della provincia Eleonori, comandò di sequestrare i cavalli e i carri carichi di grano, anche se i conducenti erano in possesso delle patenti di esportazione, da me consegnate. Locatelli si era abituato ad estorcere denaro, con lo scopo di scoprire supposte frodi determinate da commerci fatti in tempi indebiti. Il tesoriere della provincia, Eleonori, da parte sua, diceva che non erano stati pagati i diritti dovuti per l’attività commerciale, che peraltro, non si pagavano più da tempo immemorabile.

Su tale questione aveva scritto e data alle stampe una celebre disputa il cardinale Giovanni De Luca che è riportata al numero 184 nel suo trattato “Le regalie”. D’altra parte Locatelli, recentemente venuto a Fermo, non poté essere persuaso della verità; perciò i fornai Folignati furono costretti a versare una ragguardevole somma a lui, per ottenere il dissequestro della loro merce e per la liberazione delle persone e dei cavalli.  Locatelli inoltre aveva introdotto molti ostacoli alla nostra provincia affinché i grani, che peraltro, erano sovrabbondanti, non fossero esportati, mentre l’Umbria soffriva per la carestia.

Da Roma però, da parte del cardinale camerlengo, giunse allo stesso Locatelli una lettera nella quale veniva disposto di concedere gratuitamente la licenza di vendere il grano, fuori dalla provincia, purché il frumento fosse superfluo per l’abbondanza, nei luoghi da cui veniva esportato. Il Locatelli, ricevuto l’ordine del camerlengo, fu colpito da un attacco di rabbia e il 10 di ottobre morì; ma la sua morte, peraltro, fu pia e cristiana. Finì un breve e torbido governo. Per il resto era stato un uomo religioso e ligio al dovere, ma amante del lusso, parolaio e facile all’ira.

1751.20     L’arcivescovo consacra la chiesa collegiata di Monterubbiano – Consacrazione della  chiesa di Lapedona – L’arcivescovo benedice e posa la prima pietra della costruenda   chiesa al Porto di Fermo – Conclusione della quarta visita pastorale della diocesi.

Naturalmente, mi stavo fortemente lamentando con Roma di questi gravi tentativi di limitare o negare l’immunità ecclesiastica della Chiesa Fermana, ma con scarso successo, perché l’uditore personale del cardinale camerlengo assecondava il consulente del tesoriere Eleonori, e ne guidava le cause.

Il 14 settembre, dopo aver scelto come convisitatori il canonico Marco Antonio Francolini e Giovanni Andrea Grassi, sacerdote della congregazione della Missione, mi sono recato a Monterubbiano, dove il 18 del mese, nel sabato delle “quattro tempora” ho celebrato un’ordinazione. Il 19 poi ho consacrato, in onore della Vergine Assunta in Cielo, la chiesa che, anni prima, anche per il mio intervento, era stata elevata a collegiata, da Benedetto XIII. Mi sono portato poi a Moresco e, in seguito, a Lapedona, e vi ho consacrato due altari, e anche la chiesa dove, per iniziativa dell’arcivescovo cardinale Giovanni Francesco Ginetti, era stato istituito un collegio di canonici in onore di san Lorenzo, al tempo di  Innocenzo XI. Sono passato poi ad Altidona e da lì al Porto di Fermo, dove ho benedetto, secondo i sacri riti, e posto la prima pietra della erigenda nuova chiesa del SS. Sacramento, non lontana dalla sponda del mare Adriatico. Completata così la quarta visita pastorale, il 6 ottobre, mi recai al solito luogo di riposo, a San Martino, nei pressi della città. Per pochi giorni però, perché dovetti, infatti, tornare a Fermo per l’arrivo del duca Sforza Cesarini, della sua consorte e della principessa Barbarina Colonna, sua suocera. Essi erano venuti da Civitanova per recarsi a Grottammare (Cupramarittima) a visitare i luoghi dove era nato Sisto V. La famiglia Cesarini ne era un’erede, in quanto imparentata con la famiglia Peretti. Tanto all’andata, quanto al ritorno, essi sono stati ospitati presso il mio episcopio.

Subito dopo ritornai a San Martino dove ho riassunto, in una breve dissertazione, la vicenda  di Benedetto X di Velletri, che deve essere incluso nell’elenco ufficiale dei romani pontefici. Dopo averla scritta, inviai la dissertazione a Giovanni Marangoni[2] che era stato preposto a compilare la serie dei pontefici romani, che doveva essere dipinta nella basilica di San Paolo sulla via Ostiense. Cercherò di trascrivere il testo di tale dissertazione non appena terminato questo anno nella cronaca <vedi appendice>.

1751.21    Prosecuzione dell’opera dello Chacon iniziata dall’arcivescovo, interrotta da Contucci     ed edita da Guarnacci.

Nel corso di quest’anno, ebbe ad uscire la continuazione dell’opera di Alfonso Chacon sulle biografie e opere dei romani pontefici e dei cardinali di santa Romana Chiesa da Clemente X a Clemente XII incluso.[3] La pubblicazione, era stata intrapresa da Mario Guarnacci di Volterra, presule della curia Romana. Sullo stesso argomento io avevo iniziato un’altra opera. Infatti, su consiglio di Prospero Lambertini, non ancora cardinale, nel 1724 avendo egli letto la mia storia della Chiesa e della città di Velletri, e stimandomi capace di portare avanti il lavoro, mi incoraggiò a continuare l’opera del Chacon, io, per mezzo di mio fratello Pietro Antonio Borgia, riuscii a consultare a Roma i necessari documenti, tratti dagli atti concistoriali. Molti altri li avevo poi raccolti altrove. Avevo anche terminato di scrivere la vita di Clemente X e dei cardinali Giovanni Francesco Ginetti e Baldassarre Cenci, arcivescovi miei predecessori in questa diocesi. Così pure avevo terminato la vita di Benedetto XIII e di alcuni illustri personaggi e di altri avevo cominciato a scrivere.

Fui informato che Gesuiti, ad opera di padre Contucci, professore di retorica nel Collegio Romano, avevano non solo iniziato, ma avevano portato molto avanti gran parte del lavoro sullo stesso argomento. Essi pertanto mi pregarono caldamente di dare a loro tutto quanto avevo raccolto e ciò che avevo già scritto. Fidandomi di loro e, considerando che non avrei potuto facilmente portare a termine il lavoro perché lontano da Roma, e immerso tra i molteplici impegni e le controversie derivanti dal governo della diocesi, consegnai ai Gesuiti, non soltanto ciò che già avevo scritto su Clemente X e sui cardinali Ginetti e Cenci, ma anche la copia dei documenti che avevo già raccolto e promisi di mandare tutto quello che avrei potuto terminare di scrivere, nel frattempo. Contucci da parte sua mi promise con giuramento che tutti i miei scritti sarebbero stati pubblicati con il mio nome.

Più volte scrissi al Contucci per sollecitargli l’opera; egli però, fece presenti vari motivi per cui aveva rimandato l’opera: a volte per scarsità di notizie, dato che il materiale documentario raramente gli veniva fornito dagli eredi; a volte alcuni episodi di grande spessore gli consigliavano la cautela, in modo da riuscire a realizzare un’opera dello stesso valore e serietà dei volumi pubblicati dal Chacon. A un certo momento, allora, dopo la pubblicazione del mio volume sulla vita di Benedetto XIII, il papa Benedetto XIV, non credendo più alla possibilità della pubblicazione dell’opera da parte del Cntucci che stava scrivendo, diede al Guarnacci l’incarico della pubblicazione. Egli allora, non si fermò al solo Benedetto XIII, come era mia intenzione, ma proseguì fino a Clemente XII. Avendo poi incontrato a Roma il libraio Venanzio Monaldini che era disponibile a finanziare a sue spese l’edizione dell’opera, arricchita da molti importanti ornamenti tipografici e con le raffigurazioni dei pontefici e dei cardinali e con altri numerosi fregi, diede alle stampe un’opera in due splendidi volumi. Nella maggior parte riuscì abbastanza esatto, ma a causa dei molti impegni dell’autore, impreciso in qualche caso, e risultò non scevro da errori. Questo stesso autore aveva pubblicato la vita del cardinale Cenci da me scritta, e compilò un interessante sunto di essa, facendo, non di rado, riferimento a me.

1751.22    Eccessivo il  numero dei locali degli edifici posseduti dai religiosi.

I sacerdoti Gesuiti si affrettarono a fare un edificio, iniziato dalle fondamenta presso la loro chiesa, dove una volta era il tempio del priorato del SS. Salvatore; e acquistarono le abitazioni antiche e magnifiche, considerata l’epoca della loro costruzione, edifici molto ampi e costruiti secondo lo stile del loro tempo, anticamente appartenuti ad Euffreduccio, potentissimo cittadino di Fermo e quasi tiranno di questa città. Lo stabile era stato ceduto ad uso del loro Collegio, ma per questo uso doveva essere adattato opportunamente. Il fine era certamente utile e lodevole, a me però dispiaceva il fatto che l’antica forma originaria degli edifici storici doveva essere distrutta e, quindi, si sarebbero perdute le vestigia dell’antichità.

Nello stesso periodo i sacerdoti della congregazione di san Filippo Neri stavano ampliando la loro casa con costruzioni nuove e solidissime. Ambedue ne avevano bisogno: i gesuiti perché necessitavano di altri di locali più ampi e adatti e maggiormente ordinati, ad uso di aule scolastiche, per il Ginnasio; i padri oratoriani avevano la necessità di disporre di locali più comodi per uso di abitazione. Non si imposero alcun limite e intrapresero la costruzione di edifici, secondo l’uso suntuoso del nostro secolo, con tanta abbondanza che non si sarebbe usata neanche per costruire un palazzo vescovile. Di fatto i moderni criteri di costruire da parte dei religiosi erano talmente modificati che non seguivano i modelli dei conventi nella professione della povertà.

1751.23    L’arcivescovo restaura l’edicola  memoriale di sant’Alessandro vescovo di Fermo e  martire, ai  piedi del monte Vissiano.

Da molti anni andai pensando di restaurare ed abbellire l’edicola posta ai piedi del monte Vissiano e, finalmente, era riuscito a far iniziare i lavori. Tale sacro edificio custodiva nel suo interno una statua lignea del Salvatore a cui era riferito il titolo. La tradizione tramandava che proprio in quel luogo, Alessandro, primo vescovo di Fermo e martire, fosse stato decapitato, subendo il martirio. Il cardinale arcivescovo Ginetti, mio concittadino e predecessore, l’aveva sommariamente restaurata. Io vi aveva fatto aggiungere un frontone di marmo sostenuto da colonne e chiuso da un cancello di ferro anziché di legno. All’interno poi ho fatto restaurare le pitture sbiadite che raffiguravano il martirio di sant’Alessandro. Dio misericordioso vi aveva operato molti miracoli e li andava allora operando. Venivano sanati particolarmente coloro che soffrivano di febbre. Spesso i devoti si portavano via un po’ di terra, e lasciarono un segno della grazia di guarigione ottenuta. A volte inoltre venne recata una targa d’argento; e molte di esse sono state appese al muro. Caro lettore riferisco qui le vecchie iscrizioni che attestavano l’antica devozione che si praticava in quel luogo, aggiungendo quelle che avevo fatto eseguire.

.-. Sul frontone di marmo: In questo luogo dove sant’ Alessandro vescovo Fermano  \  subì il martirio  \  un altro Alessandro suo successore, implorando l’aiuto di Dio,  \  fece costruire questa memoria  \  nell’anno del Signore  \  1751

.-. All’ingresso a destra e a sinistra: Alle pendici del monte Vissiano

.-. Sopra l’immagine del Salvatore: Al Salvatore pastore ottimo che fa da guida come Giuseppe  al gregge

.-. A destra dell’immagine: Il cardinale Giovanni Francesco Ginetti arcivescovo di Fermo  \

raccomanda se stesso e il proprio gregge

.-. A sinistra dell’immagine: Alessandro Borgia di Velletri concittadino di Ginetti suo successore dopo Cenci e Mattei  nell’arcivescovato fermano restaurò il monumento votivo

.-. Sulla base dell’immagine del Salvatore:  Adora, tu cittadino fermano, oppure tu pellegrino di passaggio il nostro Salvatore splendente in questo luogo  \  a motivo di molti miracoli

.-. Sulla parete laterale a destra dell’immagine del Salvatore: Sant’Alessandro vescovo di Fermo da questo luogo  \  viene rapito per il combattimento

.-. Sulla parete a sinistra dell’immagine del Salvatore: Sant’Alessandro vescovo di Fermo in questo luogo  \  è fermato per la corona di gloria

1751.24           L’arcivescovo fa eseguire lavori di restauro e nuove costruzioni.

Nella chiesa dell’antico nostro monastero di Santa Croce tra i fiumi Ete e Chienti ho curato non pochi restauri; altri li ho eseguiti a Santo Stefano in Montefiore. Nei nuovi edifici, acquistati nel passato presso il castello di Francavilla, ho fatto completare i lavori e ho provveduto al restauro di alcune case coloniche. Nel nostro castello Monteverde, ho sistemato la cantina e il forno e infine ho fatto costruire la stalla per le pecore, nella più ampia possessione. Nel terreno più vasto di Grottazzolina ho fatto riparare il magazzeno e il portico.

1751.25      Piantagioni di alberi.

Mi sono costantemente preoccupato di curare, quasi dovunque, di piantarumare alberi fluviali che vengono posti, secondo l’uso, nei campi adiacenti al corso dei fiumi; altrove ho curato la piantagione dei gelsi. Negli orti di Francavilla ho fatto collocare anche gli ulivi. A San Claudio ho fatto costruire nuove palizzate per contrastare le inondazioni del fiume e quelle poste l’anno precedente le ho fatte rinforzare. A Santa Croce ne ho fatte aggiungere di nuove, contro l’inondazione dell’Ete.

1751.26     Carestia del frumento a Bologna a cui si cerca di sovvenire intervenendo dal Piceno   – Giovanni Carlo Molinari inviato nel Piceno per trattare della vicenda del frumento   – E’ istituito il Monte frumentario nel Porto di Fermo.

A causa di un’eccessiva siccità che ha provocato una scarsa raccolta di grano, si era verificata una seria carestia nell’annona, specialmente in Lombardia; ma anche a Bologna si stava molto soffrendo, a causa della mancanza di grano.

Nella nostra provincia era giunto Giovanni Carlo Molinari, abate commendatario dell’insigne e ricco monastero di Chiaravalle di Milano, che da tempo egli ha ottenuto, in commenda, per la rinuncia del cardinale Pietro Ottoboni, con il peso di una forte pensione. Egli era stato mandato per provvedere specialmente alle necessità di Bologna e anche di altre province dello Stato della Chiesa, vista la disponibilità di frumento che esisteva nel Piceno.

Questa evenienza aveva fornito l’occasione di vendere una certa quantità di grano della mensa arcivescovile a Francesco Trionfi anconetano, agente per conto dei Bolognesi, dopo aver messo sempre da parte la quantità di frumento necessario ai bisogni dei poveri, specialmente degli abitanti nel Porto di Fermo.

Molinari si era recato prima a Macerata, poi, nel mese di novembre, era venuto da me. Per quanto mi era stato possibile, lo consigliai e proposi che, al fine di affrontare efficacemente il problema, era necessario istituire al Porto di Fermo un Monte frumentario, cosa alla quale egli immediatamente provvide, erigendolo felicemente. Con queste ed altre decisioni, e soprattutto grazie al diniego del permesso di esportare il frumento nelle province estere, si era provveduto al rifornimento del frumento nelle varie zone dei domini della Chiesa Romana.

All’inizio dell’anno seguente 1752 Molinari venne richiamato a Roma e annoverato tra i chierici presidenti della camera Apostolica, come riconoscimento per l’azione svolta in tale occasione.

1751,27 e seguenti      Breve dissertazione di Benedetto X.

                      < La breve dissertazione sul papa Benedetto X è stata qui riassunta in Appendice>.

ANNO 1752

1752.1      Gli abitanti di Gualdo Tadino vengono soccorsi con i contributi generali camerali  e con le offerte provenienti dalla diocesi di Fermo.

Benedetto XIV per provvedere alle necessità degli abitanti di Gualdo dell’Umbria, gravemente danneggiati dal terremoto, oltre agli aiuti provenienti dal suo erario, che egli stesso fece consegnare a loro, ordinò che si facesse una colletta generale a Roma e in tutti i suoi domìni, così come avveniva nei primordi della storia della Chiesa, quando i fedeli cristiani erano oppressi da necessità di cui si parla negli Atti degli Apostoli (2,45) e nelle Lettere di san Paolo ai Corinzi (1 Cor 16 – 2 Cor 8 e 9).

Dopo aver ricevuto la lettera del cardinale Silvio Valenti, ho assecondato il desiderio di Benedetto XIV e ho subito scritto una lettera circolare a tutta la diocesi, dando l’indicazione che i singoli vicari foranei scegliessero per ogni comunità due questuanti, uno del clero e uno del laicato, con l’incarico di raccogliere offerte in denaro, in aiuto ai terremotati. Ho raccomandato soprattutto che i pubblici luoghi pii, istituiti per la pietà, per quanto le loro risorse avessero consentito, dessero il loro esempio per precedere le persone private.

A Fermo ho nominato molti questuanti e il giorno primo di gennaio, mentre celebravo il solenne pontificale, ho rivolto particolari esortazioni sulle collette da raccogliere. Sono state raccolti in città e in tutta la diocesi 360 scudi di argento che ho subito fatto pervenire al vescovo di Nocera, perché li utilizzasse nelle riparazioni necessarie nel castello di Gualdo.

Il 15 gennaio si verificarono alcune scosse di terremoto nel Piceno e in Umbria, e durante l’anno non mancarono  altre scosse, specialmente il 14 novembre, senza peraltro causare nuovi danni. Ciò mi suggerì l’iniziativa di indire la recita delle litanie dei santi, dopo la celebrazione delle Messe conventuali per ottenere la protezione di tutti i santi e inoltre di recitare il salmo 45 “Dio è nostro rifugio e nostra forza…” e il salmo 90 “ Tu che abiti al riparo dell’Altissimo ”.

1752.2     Morte di Giovanni Battista Scaramelli notissimo predicatore di Missioni                    e scrittore di varie opere.

Nel mese di gennaio, morì Giovanni Battista Scaramelli, romano e sacerdote gesuita. La sua morte è avvenuta nel collegio dei Gesuiti di Macerata. Egli fin dall’inizio del mio episcopato Fermano, ha predicato le sacre missioni per tutta la diocesi con grande frutto spirituale per il  popolo. Operò nel settore delle sacre missioni per circa trent’anni, sia nel Piceno sia altrove, e sempre con grande successo per la sua santità di vita e per la dottrina. Egli scrisse molto, e alcune cose le ha anche pubblicate. Aveva preparato un direttorio ascetico che mi aveva dedicato e che doveva essere stampato, ma improvvisamente egli era venuto a mancare. Aveva scritto un altro “direttorio mistico“, opera utilissima, con grande accuratezza e fatica, e ricco di idee e di esperienza. Purtroppo questo lavoro non fu approvato, né dai suoi confratelli, né dalla Sede Apostolica, in primo luogo perché scritto in italiano, ma poi, perché riprendeva alcune idee che sembravano richiamare le opinioni condannate di recenti autori. Nell’anno precedente alla sua morte, mi chiese che rivedessi la sua opera. Trovai poche cose da eliminare; molti punti mi parevano che dovessero essere riassunti, dato che lo stile era molto prolisso; ma la maggior parte era da approvare e da lodare. Consegnò il manoscritto ai suoi confratelli perché traducessero il testo in latino, con la speranza che potesse essere approvato e finalmente pubblicato.

1752.3    Istituzione di un legato di 1.000 scudi da parte del sacerdote Giuseppe Campanella   parroco di Rapagnano per il mantenimento di due chierici nel seminario arcivescovile – Il Capitolo Metropolitano accende una lite con l’arcivescovo in materia di  conferimento di benefici ecclesiastici sulla controversia dovrà decidere il tribunale              della Segnatura Romana.

Morì Giuseppe Campanella, parroco della parrocchia dei santi Giovanni Battista e Paolo in Rapagnano. Grazie alla sua parsimonia, era riuscito a racimolare un cospicuo patrimonio. Già abbiamo visto che nell’anno 1747 aveva finanziato la costruzione del ponte di legno sul fiume Ete nei pressi della chiesa di Santa Maria a Mare, come abbiamo ricordato nella cronaca. Dopo la sua morte lasciò al seminario arcivescovile mille scudi di argento per il mantenimento perpetuo di due giovani chierici suoi parenti o almeno conterranei.

Assegnai quella parrocchia al sacerdote Pietro Antonio De Angelis, fratello del mio economo Eliseo, defunto. Prendendo lo spunto da tale nomina, il capitolo metropolitano riaccese un’antica controversia contro gli arcivescovi di Fermo per i diritti su alcuni benefici appartenuti all’abbazia di san Savino, al priorato di San Pietro Vecchio e al priorato di Santa Maria a Mare, enti ecclesiastici anticamente autonomi, ma poi uniti al capitolo metropolitano e riservati alla giurisdizione capitolare per il conferimento e la nomina dei rettori delle chiese. Nel caso specifico si riferivano al conferimento di quella parrocchia di Rapagnano che risultava essere sotto la giurisdizione capitolare per quel che concerneva la nomina del parroco. I canonici dicevano che la trattazione della controversia spettava all’uditore della sacra Rota. Senonché l’uditore di Segnatura l’aveva rimessa a me, così come un’altra controversia riguardante il beneficio dei santi Giuseppe e Giacomo nella parrocchia dei santi Cosma e Damiano di questa città, benefici che sono di giuspatronato della famiglia dei conti Gigliucci. Sulla questione del resto il capitolo non stimò opportuno ricorrere ancora presso l’uditore di Rota, ad eccezione del caso in cui l’arcivescovo ritardasse di fare il conferimento e la nomina dei rispettivi rettori.

1752.4    Pietro Ferri canonico religioso predica a Fermo – Indizione del terzo sinodo generale  della diocesi e pubblicazione del regolamento – L’arcivescovo dona alla sua chiesa due candelieri di argento.

Durante la quaresima ha predicato Pietro Ferri, canonico regolare (religioso), maestro di teologia nel convento del SS. Salvatore di Bologna, ha parlato con grande fervore ed in modo lodevole.

Poiché nel giorno dell’Epifania del Signore era stato indetto il terzo sinodo diocesano, durante la quaresima abbiamo iniziato le riunioni preparatorie. Sono stati deputati a ciò dal capitolo due canonici: Marco Antonio Francolini e Alessandro Raccamadoro; e segretario fu nominato il canonico Luigi Paccaroni. Piacque adottare il metodo che Benedetto XIII aveva adottato per riaffermare e chiarire le questioni attinenti la disciplina ecclesiastica, e che io avevo pubblicato con gli editti e con le lettere pastorali. Questo metodo venne pubblicato di nuovo e adottato tra le decisioni per i canoni del sinodo in modo che potessero essere conosciuti da tutti e da tutti osservati ancora. Intanto mi sono preoccupato di far eseguire a Roma con 22 libbre di argento due candelieri come dono da porre sull’altare maggiore della metropolitana con l’iscrizione a ricordo del terzo sinodo diocesano.

1752.5    Motivo della dilazione del sinodo – Crollo del ponte di legno costruito sul fiume Ete presso la chiesa di Santa Maria a Mare – Gli atti sinodali – Liti insorte durante            il sinodo.

Il sinodo era stato convocato per la seconda domenica dopo la Pasqua che cadeva il giorno 16 aprile; ma nei giorni 14 e 15, dello stesso mese, cadde tanta di quella pioggia, che i fiumi debordarono. Addirittura il ponte di legno sull’Ete, nei pressi di Santa Maria a Mare, costruito nel 1748 con i soldi di Campanella, aveva subito gravi danni e in breve crollò, poco tempo dopo la morte del suo finanziatore. Le assi e le tavole di legno sono state trascinate fino al mare e sono state successivamente recuperate. In conseguenza di ciò sono stato costretto a differire l’apertura del sinodo, rinviandola alla terza domenica dopo la Pasqua, cioè al giorno 23 aprile. L’assemblea sinodale continuò il 24 e il 25 e fu conclusa con tre sessioni. Alla fine del sinodo, venne avanzata la richiesta di raccomandare al papa la canonizzazione del servo di Dio padre Antonio Grassi di Fermo; tale richiesta fu affidata da me e da tutta l’assemblea sinodale a Benedetto XIV. Alla chiusura del sinodo sono emerse due controversie. La prima fu suscitata dai canonici della collegiata di san Michele Arcangelo. Essi, con una solenne richiesta, desideravano avere un posto più ragguardevole subito dopo i canonici della metropolitana, infatti, nelle sfilate tra questi e i canonici sfilavano gli alunni del seminario. Così era accaduto nei precedenti sinodi diocesani, a differenza del concilio provinciale e da qui la lite. Però pensai di non prendere alcuna decisione. La seconda era stata suscitata dai canonici di Monterubbiano; essi avevano ottenuto da Benedetto l’indulto di indossare il cosiddetto “rocchetto” e la “mozzetta” violacea per le dignità; ma di colore nero per i semplici canonici. Pertanto chiedevano di avere una posizione superiore nelle processioni e nelle sedute rispetto a quella che era stato loro assegnata nel sinodo precedente, per cui si rifiutarono di sfilare nella processione e sedettero al di fuori del posto loro assegnato. La vertenza fu introdotta presso la sacra congregazione dei Riti. Il collegio dei canonici di Santa Vittoria, intervenne al sinodo, per la prima volta, da quando era stata decisa da Benedetto XIV la separazione di quella collegiata dalla giurisdizione farfense, e proprio durante il sinodo la costituzione apostolica di questo papa fu divulgata. Quei canonici ebbero un congruo posto che fu loro assegnato e lo accettarono senza lamentele.

Alla fine fu stabilito che nella nostra Curia le cause fossero trattate su ordine ricevuto presso la curia Romana dall’uditore di Camera. Gli atti di questo Sinodo sono stati stampati dalla tipografia di Giovanni Francesco Monti il 15 ottobre. Li ho promulgati, dichiarando che sarebbero entrati in vigore dal primo dicembre.

1752.6    Visita pastorale nelle chiese suburbane di Fermo e nel suo territorio – Morte di                   Giuseppe Maria Cardellini – Viaggio nell’Italia settentrionale di Fabrizio Borgia                 con il nipote.

Concluso il sinodo, decisi di compiere la visita alle chiese del suburbio di Fermo e del territorio della città, zone che mancavano per completare la quarta visita e che non erano state visitate neppure nella seconda e nella terza. Convisitatore era Marco Antonio Francolini.

Nel mese di maggio, morì nella casa della Missione, Giuseppe Maria Cardellini, fiorentino, che a lungo aveva diretto e potenziato questa Casa con somma prudenza e zelo. Si era sempre impegnato molto per il bene del nostro clero che egli, pio e dotto, aveva formato con somma diligenza nel periodo della permanenza nel convitto. Fu assiduo nella amministrazione del sacramento della penitenza anche ai moribondi, e lasciò in tutti un grande rimpianto.

In seguito mi ritirai a San Martino. Allora giunse da me Fabrizio Borgia, vescovo di Ferentino, mio fratello, accompagnato dal nipote Clemente Erminio, che era di ritorno da un viaggio attraverso l’Italia settentrionale; fatto, sia per ragione di salute, sia per far prendere esperienza al nipote, al quale avrebbe giovato la visita a diverse città, per rendersi conto dei diversi modi di vivere. C’era anche una ragione di devozione che era quella di far visita alle sacre reliquie di san Carlo Borromeo e di sant’Antonio di Padova.

Per il loro viaggio partirono dal Lazio, giunsero in Umbria e, per la via Flaminia, visitarono Modena, Parma, Milano, Padova, Venezia; poi tornando indietro, visitarono Ferrara e Ravenna e infine giunsero a Fermo. Ripartirono dopo pochi giorni e si recarono a Giano dell’Umbria, nel territorio di Spoleto, per fare la cura delle acque, da cui, nell’anno precedente, mio fratello Fabrizio aveva sperimentato un effetto salutare.

1752.7     Difesa dell’immunità ecclesiastica contro le pretese dell’ispettore delle frodi                  del contrabbando del tabacco – Attività di Paolo Balzarani a Fermo – Il generale                  Agricola Pellegrini – Lazzaro Opizio Pallavicini, governatore di Macerata viene                   a Fermo per indagare sul contrabbando del tabacco.

Improvvisamente Paolo Balzarani, con un nutrito gruppo di agenti, che erano stati prima nel Piceno, soprattutto a Civitanova, per indagare sul contrabbando del tabacco, non senza aver più volte infranto le regole dell’immunità ecclesiastica, tanto che si rese necessario che io usassi la scomunica contro qualcuno di essi, arrivò a Fermo con lo stesso incarico e non portò con sé solo i suoi agenti, ma aveva un distaccamento militare, ben armato per questo scopo, il cui comandante era Agricola Pellegrini di Bologna, uomo illustre ed esperto militare.

Balzarani offese gravemente Antonio Ripanti governatore di Fermo, perché le sue guardie non badavano molto alle disposizioni dello stesso commissario e, sospettando che fosse stata organizzata una sommossa contro di lui, partì poco dopo da Fermo e andò a Roma dove si lamentò presso il tesoriere generale nei confronti del governatore di Fermo, il quale chiese l’intervento del cardinale Giovanni Francesco Albani, ma dovette affaticarsi non poco per liberarsi dalle accuse. Da parte mia presentai una lettera convincente in favore del governatore Ripanti, sia al tesoriere generale, sia a Lazzaro Opizio Pallavicini, genovese di famiglia nobilissima, che era succeduto a Locatelli nel governo di Macerata. Sia Balzarani che Pallavicini erano soggetti al tesoriere generale. A Roma fu deciso che Pallavicini con Balzarani e Pellegrini tornassero a Fermo. Da parte mia, ottenni a malapena che la fiera di Fermo fosse esente da tasse, libera.

Nel mese di settembre arrivarono Pallavicini con Balzarani con pochi dei suoi agenti e giunse Pellegrini con una parte del suo distaccamento militare. Pallavicini fu ospitato presso il convento di san Francesco dei Minori Conventuali. La città accolse tutti con grandi manifestazioni di ossequio. Nonostante ciò, il commissario Balzarani, cominciò a trattare duramente la gente: arrestava per il sospetto anche di lievi frodi o per estorcere dai popolani testimonianze e delazioni di contrabbando. Venivano interrogati uomini e donne, detenuti come se avessero commesso crimini da pena capitale. Faceva interrogatori a mogli ed a parenti su cose di famiglia. Io sostenevo che questo non era consentito, a meno che non si trattasse di delitti di lesa maestà divina o umana. I poliziotti violenti osarono perfino alzare le mani contro alcuni frati Eremitani scalzi dell’ordine di sant’Agostino che erano sospettati di aver, nei mesi precedenti, dato asilo ai contrabbandieri di tabacco. Tuttavia si presentarono di fronte a me. Con la mia mediazione, il Balzarani e il priore del convento si accordarono precisando che, se qualcuno dei frati dovesse essere interrogato, il compito sarebbe stato affidato al priore stesso. In seguito sono stato costretto a lamentarmi con Pallavicini per il fatto che Balzarani non aveva rispettato gli accordi e anche per il fatto che lo stesso aveva usato un modo di procedere eccessivamente severo nei confronti di coloro che deteneva. Pallavicini, che era una persona d’indole mite e di animo giusto, deplorò questi fatti, ordinò che i religiosi fossero liberati e, nel resto, stabilì che si usassero dei modi rispettosi, secondo le mie richieste.

1752.8      Il comportamento tenuto a Fermo da Lazzaro Pallavicini.

Opizio Pallavicini professava nei miei confronti una grande benignità per il fatto che io in passato, quando, tempo prima, stavo ancora a Nocera, ero stato in amicizia con suo zio Lazzaro Pallavicini che, da inquisitore a Malta per conto della Santa Sede, per ragioni di salute, era venuto a curarsi alle acque di Nocera. Benedetto XIV aveva preconizzato cardinale tale uomo, fornito di eccelse doti di spirito, e con lui molto amico. Egli però rifiutò costantemente di accettare l’offerta di un simile onore. Questo fatto spinse Benedetto, dopo la morte dello zio, di inviare questo suo nipote, nel fiore della gioventù, come governatore del Piceno, per la prima volta, senza che avesse fatto alcuna esperienza di rettorato in altra città o provincia. Ben presto sarebbe stato promosso a maggiori cose. Il Pallavicini si mostrò equanime e liberale di fronte ai reati leggeri di contrabbando, comminando lievi multe. Per la verità, a Fermo, quasi nessuno fu condannato per gravi episodi di frode finanziaria, anche se Balzarani si affaticava molto.

Ben diverso fu il caso accaduto a Campofilone. Nell’abbazia fu trovata, presso i cappellani della chiesa, una grande quantità di tabacco. Immediatamente l’abate commendatario Saverio Giustiniani, sotto-datario del papa, rimosse i cappellani dall’incarico e furono inoltre gravemente multati dal Pallavicini con non lieve somma di denaro.

Alla fine di settembre, dopo aver dimesso Balzarani e Pellegrini,  Pallavicini lasciò la sua carica e partì. I soldati furono smobilitati, Pellegrini tornò nella sua patria e Balzarani a Roma, tutto ciò  perché a Roma si resero conto che era maggiore la spesa che non il profitto. Pertanto la situazione di contrasto che era stata all’origine di tante lamentele in tutta la Provincia, ebbe a placarsi.

1752.9      La chiesa di Santa Maria a Mare profanata, viene di nuovo benedetta.

Sempre nel mese di settembre, alcuni individui, provenienti dal confinante regno di Napoli, vennero alla ricerca di alcuni buoi che erano stati rubati nelle loro stalle. Inseguendo i ladri, arrivarono a Santa Maria a Mare. Trovati i buoi, non si limitarono a recuperarli, ma colpirono i ladri con bastoni, mentre essi si rifugiavano nella chiesa, per cui in essa vi fu versamento di sangue e quindi la chiesa, che anticamente era stata solennemente consacrata, fu subito dichiarata profanata. Era pertanto necessario procedere alla sua nuova benedizione, mediante i riti prescritti. La celebrazione avvenne il 26 settembre e il rito fu celebrato da me alla presenza di quasi tutto il capitolo metropolitano. Ho approfittato dell’occasione per parlare con i canonici della necessità di restaurare il ponte  sull’Ete, nei pressi della chiesa, distrutto nel precedente mese di aprile. Ma i canonici non hanno creduto opportuno di farvi restauri per il fatto che in poco tempo era crollato più volte.

1752.10     Violazione del privilegio dell’arcivescovo nell’acquisto del pesce – Compromesso  nella vertenza  per l’acquisto del pesce – Ai vescovi sono dovute le decime sul pescato.

Gli abitanti del Porto di Fermo erano tipi inquieti!  Nonostante nel corso dell’anno mi fossi prodigato ad aiutarli, con il mio grano, nel periodo della carestia del grano, nonostante che avessi promosso ivi l’istituzione del Monte Frumentario, e nonostante che avessero promesso al governatore di Fermo che nei giorni nei quali era obbligatorio di astenersi dal mangiare la carne, avrebbero fornito 24 libbre di pesce per la mensa dell’arcivescovo portandolo nell’episcopio al prezzo convenuto di due assi per libbra e, col patto che i famigliari del vescovo non si recassero in piazza, dove si vendeva il pesce, nonostante tutto ciò, raramente mantennero le loro promesse nella scorsa quaresima. E allorché il governatore tentò di costringerli per stare ai patti, riempirono di clamorose proteste la città di Roma, mettendosi contro di me e contro la città di Fermo e dichiarando di essere ingiustamente oppressi e affermando di non avere il tempo necessario per recarsi a Fermo, avendo la necessità di vendere il pesce in altri luoghi. Ottennero benevolo ascolto presso la Congregazione Fermana. Infatti il 13 luglio uscì un decreto nel quale, premessa la revoca della risoluzione presa il 26 giugno 1736 (nella quale si stabiliva che si consentiva di vendere all’arcivescovo soltanto sei libbre di pesce pregiato a minor prezzo), si decideva che sia l’arcivescovo, sia il governatore dovevano pagare il pesce al prezzo comune.

Nel passato, cioè nel 1736, presso Clemente XII, mi lamentai della decisione presa  e con una sua lettera, il cardinale Firrao, segretario di tutto Stato, dichiarò che la disposizione emanata non riguardasse l’arcivescovo di Fermo. Parimenti, anche in questa circostanza mi rivolsi a Benedetto XIV affinché dichiarasse che io non fossi obbligato a rispettare il decreto della congregazione Fermana, in quanto quel decreto era stato emanato da un giudice che non era competente sull’arcivescovo e, per di più contrastava con l’antica consuetudine. Benedetto, considerato attentamente il problema, ben consapevole che tutti i vescovi del Piceno godevano di privilegi  nell’acquisto del pesce, in quanto anche lui ne aveva usufruito allorché era stato vescovo di Ancona, volle che si giungesse ad un amichevole accordo. Si giunse così il 21 di novembre ad una transazione nella riunione che si tenne presso Mario Guarnacci, segretario della congregazione Fermana con l’intervento di Gaspare Ruggia, mio procuratore. Si addivenne a questo accordo: per ogni singola salma di pesce portata a Fermo nei giorni nei quali è vietato l’uso della carne, ne siano riservate all’arcivescovo due libbre al costo del vecchio prezzo di due assi per ciascuna libbra. Tale prezzo però era applicabile fino a un massimo di dieci salme. Se si superava tale quantità (il che capita molto raramente) il prezzo da pagare non può essere più quello così concordato. Quindi il privilegio dell’arcivescovo veniva limitato solo fino alle venti libbre, cosa che sembrerebbe comunque tollerabile; ma di fatto non era tollerabile perché la furbizia delle persone avverse, faceva mancare il pesce a me e ai Fermani; mentre nelle località vicine il pescato era abbondante.

Del resto, le tracce di questi privilegi dei vescovi si potevano ritrovare nelle antiche decime previste dai sacri canoni, Decime, causa 10, quest. 1 quando trattano delle attività commerciali, dovute ai ministri della Chiesa e particolarmente dove si fa menzione dei pescatori. Il capitolo intitolato: “Non è in potere”, riguardante le attività soggette al versamento della decima: nel commercio, nella milizia, nella caccia, stabiliva che doveva essere pagata la decima su tutti i beni. Nel capitolo “Licet” con molta chiarezza si parlava delle alici pescate, di cui una porzione congrua doveva essere data al clero del circondario con la “glossa” che ciò riguardava in particolare quelle località nel cui territorio era stata praticata l’attività della pesca, perché considerate come decime prediali. Ciò era favorevole alla nostra diocesi, poiché si trattava di pesci pescati nella zona del mare Adriatico che era soggetta alla nostra giurisdizione spirituale, che si protendeva fino alla metà del mare  antistante la sponda Fermana.

1752.11    I coloni della mensa arcivescovile sono gravati da oneri contrari al diritto e alle  antiche consuetudini.

Il giorno 13 di luglio è uscito un altro decreto dalla congregazione Fermana riguardante i coloni della nostra mensa. Essi venivano obbligati al pagamento degli oneri camerali (non quelli di carattere “comunitativo”) qualora nella maggior parte dell’anno vivessero dei frutti dei nostri terreni. Era chiaro che ciò andava contro i privilegi della Chiesa Fermana e contro le antiche consuetudini. Tuttavia ciò stava accadendo, a causa della situazione particolare, in cui ci si trovava a vivere;[4] per questo non ho pensato fosse opportuno reclamare. Anche gli elpidiensi premevano sulla congregazione del Buon Governo affinché il pagamento dei contributi imposti per il transito e l’ospitalità delle truppe straniere, dalle quali nessuno era dispensato, fossero versate non a Roma, come avvenuto fino ad allora, ma a loro a favore, almeno per quello che interessava il territorio del monastero di Santa Croce. La cosa fu concessa ad essi come l’avevano richiesta. Inoltre i coloni dello stesso monastero furono costretti a far uso del mulino della comunità di Sant’Elpidio, senza considerare i diritti della Chiesa Fermana e nonostante esistesse un precedente accordo con gli elpidiensi ratificato pienamente da Roma.

1752.12     Tentativi messi in atto dalla congregazione camerale contro i privilegi della Chiesa  Fermana per cui l’arcivescovo si lamenta con Benedetto XIV.

Si verificavano cose disdicevoli ed inique. Anche la congregazione camerale, preposta dal Papa ad esaminare i casi di esenzione dagli oneri camerali, provocò un grave danno alla nostra Chiesa. In evidente disprezzo della esenzione di cui la nostra Chiesa usufruiva da tanti secoli, il cui inizio era immemorabile, in disprezzo anche delle sentenze passate in giudicato, pronunciate sia dalla sacra congregazione dell’Immunità ecclesiastica, che dallo stesso tesoriere generale riguardo al libero commercio di esportazione del grano, la detta congregazione camerale ha osato procedere in  modo difforme. Per questo sono stato costretto a presentare una lettera di protesta a Benedetto XIV e mi era sembrato che egli riconoscesse il torto fatto contro di noi, per cui il papa ha affidato al suo uditore il compito di sistemare la vicenda.

1752.13     Istituzione della confraternita del santo nome di Maria – L’arcivescovo riferisce   della vicenda dell’eredità Marefoschi ed esprime il suo parere.

Nella parrocchia dei santi Cosma e Damiano, ad opera del parroco Emidio Ciabattoni e di molti altri cittadini devoti, fu eretto il pio sodalizio del santissimo nome di Maria Consolatrice degli afflitti. Le regole da osservare furono approvate dal vicario generale ed è stata concessa l’aggregazione alla omonima arciconfraternita esistente a Roma. Mancava che i nuovi confratelli ricevessero l’abito e le insegne, il che avvenne il giorno 8 di settembre, quando si faceva memoria della nascita della beata Vergine Maria. La cerimonia si svolse nella cappella dell’arcivescovato e io stesso, dopo aver proceduto alla benedizione dell’immagine del Crocifisso processionale, dello stendardo e delle vesti, feci la vestizione dei soci, e si fecero le preghiere stabilite da recitarsi dai confratelli, che erano in numeri di 46.

Subito dopo sono andato in sollievo, per qualche tempo, nella villa di campagna a San Martino, dove ho ricevuto i deputati e i difensori degli interessi della città di Monte Santo per la causa della ricca eredità di Pietro Antonio Marefoschi per la quale la famiglia Compagnoni, erede di Guarnerio ultimo dei Marefoschi, si era rivolta al papa Benedetto chiedendogli che nell’imminente sentenza non fosse presa la decisione di istituire a Monte Santo un seminario e un monastero secondo le intenzioni espresse dal testatore, piuttosto facesse erigere nella cittadina un collegio di canonici. In realtà essi tentavano di mettere in atto un imbroglio, in quanto cercavano, di fatto, di trattenere per sé la più grande parte dell’eredità. Sono stato incaricato di presentare una mia relazione sulla faccenda e di esprimere il mio parere; ho eseguito l’incarico in modo ampio e per quanto possibile preciso, facendo in modo che non fosse disattesa la volontà del testatore il quale aveva richiesto proprio la fedeltà e l’autorità dell’arcivescovo di Fermo al fine di vigilare che fossero rispettate le sue ultime volontà.

1752.14     Morte del rettore del seminario Giovanni Battista Fortuna – Morte di Ippolito                      Graziani arcidiacono e suo elogio – Nomina di Giuseppe Jaffei a rettore                      del seminario.

Nel mese di ottobre morì il sacerdote fermano, ottuagenario, Giovanni Battista Fortuna, da più di venticinque anni rettore del seminario arcivescovile. Uomo di integra vita e di lodevole serietà, aveva amministrato il patrimonio del seminario in modo fedele.

L’ultimo giorno dello stesso mese morì Ippolito Graziani, fermano, terzo della sua famiglia patrizia, e arcidiacono della chiesa metropolitana, in buona vecchiaia a 74 anni; ma quasi cieco. Egli, per cinquantadue anni, fin da giovane, era stato coadiutore dello zio ed era poi succeduto, come arcidiacono effettivo, ed era stato assiduo nel compiere i suoi doveri. Per la vita specchiata, è stato di esempio a tutto il clero. Nella festa di Tutti i Santi, la sua bara era in chiesa e io, durante la celebrazione del pontificale, all’omelia, ne feci l’elogio. Suo successore come arcidiacono fu Marco Antonio Savini, patrizio fermano, che gli era stato dato come coadiutore.

Ho nominato rettore del seminario Giuseppe Jaffei, sacerdote di Servigliano, da molti anni maestro di lettere per gli alunni. A svolgere l’impegno dell’amministrazione del patrimonio dell’istituto ho nominato Serafino Sacripanti, sacerdote fermano.

1752.15     Franceschini cerca di scoprire la patria di Lattanzio Firmiano – Francesco Foggini  scrive un libro sul limitato numero dei salvati – Come si deve intendere il numero dei  salvati – L’opinione dell’arcivescovo sul numero dei salvati – Perché il Foggini è  caduto in errore – Breve spiegazione della questione del numero dei salvati.

Nel presente anno fra’ Odoardo di san Francesco Saverio, carmelitano scalzo, appartenente alla buona famiglia Franceschini, nato nel castello di Massa, della nostra diocesi, uomo assai erudito e lodato socio di diverse accademie romane, ha pubblicato a Roma un libro contenente alcune dissertazioni introduttive  all’opera di Lucio Celio Lattanzio Firmiano; in alcune di esse egli vuole dimostrare che questo antico scrittore non era africano, ma italiano e avanzava l’ipotesi che fosse Fermano. <In omnia L. Caelii Lactantiit Firmiani opera dissertationum decas prima fr. Eduardus a S. Xaverio Carm. Excal. Romae Rotili 1754>

Inoltre Pietro Francesco Foggini, uno dei beneficiati della basilica Lateranense, ha pubblicato a Roma il libro dal titolo “Patrum Ecclesiae de paucitate adultorum fidelium salvandorum si cum reprobandis fidelibus conferantur mira consensio adserta et demonstata”. Roma 1752 =  “Insegnamento consensuale asserito e dimostrato dei Padri della Chiesa sul piccolo numero dei fedeli adulti che si salvano se si confrontano col numero globale dei fedeli riprovati.”  In realtà le affermazioni dei Padri, se venissero interpretate rettamente, non intendevano affatto riferirsi alla generalità di tutti i fedeli adulti. Infatti le loro espressioni non si dovevano riferire alla universalità dei fedeli adulti che appartenessero a tutte le genti; esse riguardavano un qualche particolare popolo. Ad esempio nel caso di Giovanni Crisostomo allorché egli affermava che sono pochissimi gli Antiocheni che si dovevano salvare, questo lo scriveva dopo che era venuto a conoscenza dei pessimi vizi di quei cittadini antiocheni. Qualche volta quando i Padri, nelle loro prediche, parlavano del piccolo numero di fedeli che si salvano, lo hanno fatto esagerando per far in modo che gli ascoltatori fossero più cauti e prudenti nel loro comportamento. La maggior parte dei Padri non si riferiva infatti soltanto ai fedeli, ma all’intera umanità di cui gli adulti cristiani costituivano una parte minima a confronto di coloro che non avevano la fede. La professione cristiana infatti era la via stretta e difficile e per raggiungere la salvezza e pochi la trovavano, come affermava lo stesso Gesù nel Vangelo. Il Foggini citava alcuni detti dei Padri che contraddicevano le sue affermazioni, come a pagina 93 dove citava dalle opere di sant’Anselmo, le risposte che questo santo dava al discepolo che lo interrogava: Maestro che ne dici dei contadini? E citava la risposta del maestro:” Per la maggior parte si salvano perché vivono semplicemente e con il loro sudore danno nutrimento al popolo di Dio e, come è detto, sono beati quelli che mangiano con il lavoro delle loro mani.” Mi sembrava vero che questo criterio si potesse affermare degli artigiani che lavoravano senza frode onestamente. In ogni stato il numero di costoro costituiva la maggioranza nella società; gli agricoltori, soltanto in varie province e specialmente nel Piceno, costituivano la maggioranza rispetto agli altri. Comunque, pensasse pure l’autore quello che voleva A me era dispiaciuto che  nel Perego, alla fine del suo libro, egli aveva affermato che anch’io fossi del suo parere, come se aderissi alla sua “sentenza” (idea). Falsamente. Infatti egli diceva che, seppure nelle omelie XXII e XXVI stampate nel 1749, avevo espresso un parere diverso dal suo, in seguito nella omelia tenuta nella festa dei santi Pietro e Paolo dell’anno 1751 mi sarei ricreduto rinnegando e disapprovando quanto prima avevo sostenuto.

In realtà il mio ragionamento si riferiva a tutt’altro argomento: cioè io intendevo parlare del grande numero dei salvati e mi riferivo esclusivamente ai fedeli cristiani, comprendendovi i bambini morti subito dopo essere stati battezzati e quelli morti prima di raggiungere la conoscenza del male, escludendo non soltanto gli eretici e gli scismatici, ma anche coloro che teoricamente professavano la fede, ma che non credevano col cuore o coloro che vivevano in modo così disordinato, che in pratica si potesse dire che non avevano la fede. Pertanto il mio parere riguardava coloro che rettamente credevano e che si sforzavano seriamente di raggiungere la vita eterna. Tale mia opinione esposta nelle suddette omelie XXII e XXVI l’avevo più ampiamente esposta e spiegata nell’omelia detta nella festa di Tutti i Santi. In quest’ultima omelia l’avevo confermato e niente affatto mi contraddicevo e neppure rinnegavo le precedenti idee, come appariva chiaramente a chi la leggesse queste omelie con attenzione. A mio parere il Foggini era caduto in errore per il fatto che egli si era riferito alle mie omelie, senza averle lette. Tramite mio fratello Pietro Antonio Borgia, canonico lateranense, feci avvertire il Foggini del suo errore, ma seguitavo a pregando il Signore, chiedendo il risultato del mio monito, e che mi giungesse una risposta .

Del resto il Foggini poneva la questione in termini diversi e non come la ponevo io, cioè se si intendesse parlare di tutti i fedeli adulti, era una questione “di fatto” e non di diritto. Si trattava di stabilire se in maggioranza i fedeli adulti vivevano rettamente, ed in questo modo si salvavano. Al contrario, se vivevano una vita indegna, allora si dannavano. In questo tutti i Padri erano d’accordo. Era una situazione contingente quella di vivere rettamente o malamente secondo i tempi o i luoghi. Per conto mio non intendevo confondere il modo di vivere della mia gente che tendeva alla virtù, con la condotta corrotta degli altri uomini o delle altre epoche di cui avevano nel passato parlato i Padri della Chiesa.

1752.16     I decreti del terzo sinodo sono offerti al Papa.

E’ uscito il testo dei decreti del terzo sinodo diocesano la cui entrata in vigore, con l’obbligo di eseguirli, è stata fissata dal giorno primo dicembre. Tramite mio fratello, canonico del Laterano, li ho offerti a Benedetto XIV.

1752.17     L’arcivescovo fa restaurare o ampliare parecchi edifici.

Nel corso di questo anno, sono stati eseguiti parecchi lavori di restauro. Nella metropolitana sono stati eseguiti lavori sul tetto, più volte già tentati inutilmente, ma ora realizzati con nuovi metodi. Nella campagna suburbana, in contrada San Salvatore, era stata aggiunta una stalla ad una piccola casa, e erano state poste le porte laddove mancavano e dei sostegni al portale principale dell’ingresso della azienda rurale, fatto erigere dal cardinale Ginetti, ma che minacciava di cedere. Il restauro venne fatto in maniera piuttosto elegante.

Ho fatto costruire, presso San Martino, una stalla estiva per i buoi. Nel terreno di Paduli, invece, ho fatto costruire una stalla invernale, dalle fondamenta, sopra la quale fu ampliato il magazzeno. Ho fatto costruire, nel fondo più grande a Grottazzolina, la stalla per i suini e ho curato la riparazione della fonte e degli altri edifici.

A Monteverde, nella casa dei contadini costruita in passato, presso il capo di Gera, sono state effettuate molte riparazioni. A Grottammare, per il canale che conduce le acque al mulino, demolito il vecchio pavimento, che si rovinava a causa dell’acqua, ho fatto costruire una volta. Nel complesso sono stati eseguiti vari lavori che sono costati circa 400 scudi di argento, ai quali bisognava aggiungerne più di altri cinquanta scudi per la costruzione del ponte, dal quale arrivava l’acqua al mulino Ciccarello, da me acquistato negli anni precedenti, sito nel territorio di Ripatransone.

1752.18     L’arcivescovo ripara con grandi spese il monastero di San Benedetto in Gualdo     Tadino e lo abbellisce – Nella chiesa della SS. Trinità a Velletri l’altare è stato ornato  con un frontone e  con la copertura in marmo delle colonne.

Tuttavia una spesa ancora maggiore mi sono costati i restauri e l’abbellimento del sacro edificio del monastero di san Benedetto, nel paese di Gualdo Tadino, dove per il restauro della facciata in pietra di marmo della chiesa, per rinforzare i muri interni e riparare il campanile, per ripulire e colorare il tetto, ho speso più di 700 scudi di argento. Le spese però non sono terminate, infatti ho deciso di porre mano a rifare il pavimento. Per dar memoria di tutti questi lavori di restauro, ho fatto apporre una lapide di marmo, al di sopra del battistero, in cui si legge: “ Questo tempio di San Benedetto  \   in parte squallido per vecchiezza  \  in parte abbattuto dal terremoto dell’anno 1751  \  Alessandro Borgia arcivescovo e principe di Fermo  \ abate commendatario  \  rafforzati  gli edifici dell’antico monastero  \  restaurò  \  nell’anno del Signore 1752 “

A Roma feci costruire un tabernacolo arricchito con colonne di marmo, per coprire ed ornare l’altare della SS. Trinità, nella chiesa di Velletri. Questo altare appartiene alla mia famiglia per diritto di patronato e del quale io, ancora giovane, ottenni il titolo di abate. A novembre, furono trasportati a Velletri i marmi necessari e il tutto fu sistemato dall’artista chiamato Zaccaria, al quale diedi duecento dieci scudi per l’opera realizzata sul posto. Infine fu approntato il timpano, fatto di legno di cipresso dorato, sul quale feci porre l’iscrizione:   “ Gloria  al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo

1752.19     Diversi lavori di riparazione dei danni provocati dalle inondazione dei fiumi e                      dei torrenti, realizzati nei terreni della mensa specialmente lungo il fiume Chienti.

Durante l’autunno, a causa delle grandi piogge, i fiumi e i torrenti erano esondati dagli alvei, era stata inondata tutta la regione e furono provocati non pochi danni alle terre vicine. Era quindi necessario costruire nuovi e più robusti ripari per trattenere il corso incanalato delle acque e ciò sia a San Martino, sia presso il predio di Paduli, ma soprattutto a San Claudio al Chienti, dove più volte, le palizzate furono travolte; ero stato costretto a farle sostituire con la spesa di 250 scudi d’argento, calcolando, oltre al lavoro,  anche i legnami occorrenti.

1752.20     Piantagioni di alberi.

Di regola, ogni anno, mi ero preoccupato di dover piantumare alberi nei vari terreni della mensa arcivescovile. In quest’anno, però, ho speso più del solito. Ho fatto realizzare piantagioni e non soltanto di alberi per il contenimento dei fiumi, ma anche di gelsi e, nelle zone suburbane, ne sono stati piantati più di 182 piccoli alberi per svilupparsi e crescere. Piante più grandi di gelsi sono state programmate e disposte in ordine nei terreni di Grottazzolina 46 alberi; a  Monteverde 33; nel fondo Moregnano e presso Cupramarittima [Grottammare] 62; infine a San Claudio 268.



[1] Si manifesta, in questo punto, l’atteggiamento di mons. Alessandro Borgia, in relazione al rigorismo giansenista. La sua formazione, e specialmente la sua esperienza, maturata durante la Legazione in Germania, in contrasto con il giansenista Pietro Codde, inoltre gli stretti rapporti che egli ebbe con i Gesuit,i sia in Germania che a Fermo, lo conducevano su una posizione chiaramente contraria al rigorismo. Nel 1738 ebbe un contrasto con il rigorista Daniele Concina all’interno della discussione sulla riduzione delle feste. Era nota anche la simpatia che A. Borgia manifestava per padre Scaramelli di cui apprezzò il volume Direttorio mistico fortemente avversato dai giansenisti (edito postumo a Venezia nel 1765). Sul piano teologico la posizione assunta sul problema del numero dei salvati gli procurò una denuncia al tribunale dell’Inquisizione da cui fu prosciolto; il che non impedì la pubblicazione di un velenoso scritto del teologo ed archeologo filo-giansenista Pier Francesco Foggini (Firenze 1713 – Roma 1783) intitolato Patrum Ecclesiae de paucitate adultorum fidelium salvandorum si cum reprobandis fidelibus conferantur mira consensio adserta et demonstrata, Roma 1752. Il Foggini è considerato, insieme al Bottari, il capo dei giansenisti romani. Era seguace fervente di mons. De Ricci, teologo del card. Andrea Corsini e in stretta relazione con il card. Passionei.

[2] Giovanni Marangoni era stato in contatto con il Borgia nell’occasione della ricognizione canonica delle reliquie del martire san Marone. Ed egli nel 1743 aveva pubblicato un suo lavoro intitolato Delle memorie sagre e civili dell’antica città di Novana, oggi Civitanova nella provincia del Piceno, Roma 1743 dedicando questo libro all’arcivescovo A. Borgia.

[3] Alfonso Chacon, (detto Giaconio, o Ciacconio) nacque in Spagna a Baeza nel 1540, morì a Roma nel 1599, era un frate dell’ordine dei Predicatori. Dopo aver insegnato nella sua patria, fu chiamato a Roma da Gregorio XIII che lo nominò penitenziere della basilica di Santa Maria Maggiore e lo preconizzò patriarca di Alessandria. Fu appassionato di archeologia sacra e fece realizzare accurati disegni delle catacombe allora riscoperte. La sua opera principale era intitolata: Vitae Summorum Pontificum Romanorum et S. R. E. Cardinalium, pubblicata postuma nel 1601. Si tratta di una storia dei papi e della Chiesa, fino al papa Clemente VIII. Servì a Michele Catalani per scrivere l’ampia biografia del cardinale Domenico Capranica ed era ben conosciuta da Alessandro Borgia. Attorno agli anni 1740 – 1750 dai gesuiti del Collegio Romano  era stata presa l’iniziativa di continuarne l’opera. I promotori dell’iniziativa invitarono il Borgia a collaborare dato che egli aveva scritto la biografia di Benedetto XIII, la vita di Clemente X e di alcuni cardinali suoi predecessori nella Sede episcopale fermana. Fu poi il Guarnacci a scrivere e pubblicare  la continuazione del Chacon.

[4] Con le lamentele contro i modi incoerenti degli uffici curiali Romani, l’arcivescovo lascia intendere che riscontrava presente e operante un atteggiamento persecutorio nei confronti dei privilegi della mensa arcivescovile Fermana.

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