ANNO 1749
1749.1 A quali luoghi e benefici deve essere limitata la giurisdizione Lateranense.
Nel mese di gennaio, sono arrivate dalla congregazione dei cardinali interpreti del Concilio Tridentino, le risposte alle richieste che avevo avanzate nella relazione da me consegnata nel mese di dicembre 1747, sulla situazione della Chiesa Fermana. Le risposte però erano elusive rispetto alle richieste e niente affatto soddisfacevano i miei desideri. Tra le altre richieste c’era anche che si chiarisse l’estensione della giurisdizione Lateranense. Avevo esposto tutto quello che mi era accaduto per tale questione. Facevo presente che, come Benedetto XIV aveva avuto il merito di definire la questione della giurisdizione di Farfa, riguardo alle chiese esistenti nel territorio di diocesi diverse, ci si aspettava che la congregazione facesse la stessa cosa relativamente alla giurisdizione Lateranense. Mi venne risposto che su tale questione io stesso mi rivolgessi al papa. Perciò scrissi a Benedetto XIV esponendogli ciò che mi sembrava dovesse esser fatto, specialmente per ciò che riguarda i privilegi di esenzione delle chiese e degli ospedali, che risultavano essere stati fondati “sul suolo Lateranense”, e se tali esenzioni si dovessero estendere a quei luoghi che, erano stati dati in lascito alla basilica Lateranense, da parte di laici privati. Invece a mio parere quei luoghi dovevano essere considerati Lateranensi per una finzione giuridica; infatti nulla poteva essere sottratto alla giurisdizione dei vescovi in forza di pattuizioni private. Benedetto mi rispose subito, dicendosi d’accordo con la mia opinione e mi assicurò che, quando gli si fosse offerta l’occasione, avrebbe scritto in proposito una apposita costituzione apostolica.
1749.2 Gli indulti delle feste dei santi si diffondono nel regno delle due Sicilie e nella Toscana.
Alla fine di gennaio, l’indulto sulle feste, su sollecitazione del re Carlo, fu concesso dal papa anche ai vescovi che li chiedevano. L’indulto pertanto venne pubblicato nel regno delle due Sicilie. Esso era simile al nostro, con la differenza che esso includeva, tra le festività con obbligo di astenersi dai lavori servili, anche le solennità della Concezione e quella della Natività della Beata Vergine Maria; il nostro indulto invece includeva le feste della santa Croce e della Traslazione della santa Casa a Loreto. Pochi mesi dopo questo indulto veniva diffuso anche nella Toscana. In questo caso però non mi piacque il fatto che fosse stato coinvolto il potere civile, cosa che non succedeva da noi, dove ciascuno era libero di usufruire dell’indulto oppure no; in Toscana invece tutti erano obbligati ad uniformarsi, tanto era vero che, in quelle feste <dei santi> le botteghe e gli opifici rimanevano aperti.
1749.33 Benedetto XIV con una solenne costituzione apostolica liberalizza il commercio dei grani in tutto il territorio dello Stato pontificio – Franco Leonori tesoriere del Piceno si oppone alla esportazione dei grani della mensa – L’uditore del papa rimette la causa della esportazione del frumento della mensa arcivescovile di Fermo al tesoriere generale – L’arcivescovo si accorda con il tesoriere della provincia sulla quantità di grano da esportare annualmente; l’accordo resta valido per tutta la durata dell’incarico del tesoriere.
Nel giugno dello scorso anno 1748 Benedetto XIV aveva emanato una saggia e attesa costituzione con la quale legalizzava il libero commercio del frumento tra le province, le città e tutte le altre località del suo Stato, dal mese di settembre fino alla fine del mese di maggio, e disponeva che esso fosse scambievole e fosse tolta ogni difficoltà che veniva imposta dai legati e dai presidi delle province. Era infatti riprovevole che essi governassero le province, non come funzionari di uno stesso comune sovrano, ma come persone che si credevano quasi principi e per giunta agivano sulla base delle loro antipatie e invidie, cosicché uno negava all’altro di nascosto il commercio dei grani, anche quando si presentava una reale necessità e urgenza; oppure il frumento veniva sequestrato con la prepotenza, piuttosto che essere venduto liberamente tra l’una e l’altra legazione o provincia. Talvolta addirittura la licenza di vendere era concessa dai legati e dai presidi, soltanto dopo aver pagato una tangente in denaro, provocando danni a molti e procurando guadagni a pochi.
Benedetto XIV, che era stato vescovo di Ancona e in seguito arcivescovo a Bologna, sua patria, conosceva benissimo questi comportamenti. Per questo aveva emanato la saggia costituzione nella quale affermava la completa libertà, per cui a ciascuno era consentito, nei tempi fissati e all’interno dello Stato Romano e nelle regioni che confinano con il mare Adriatico, di trasportare e vendere il grano o altre merci, senza chieder permesso e senza subire alcun divieto se la merce veniva trasportata via terra. Se invece il trasporto avveniva per via di mare o comunque con le barche su via d’acqua, si chiedeva la licenza che non poteva essere negata a nessuno e doveva essere concessa senza alcun pagamento, doveva però essere depositata dai richiedenti una cauzione con la quale si rendeva noto che i frumenti sarebbero stati trasportati nel giro di un mese nei luoghi all’interno dello Stato della Chiesa Romana sotto pena del doppio della cauzione. Tuttavia, sia a me che agli altri, raramente, fu concessa la licenza di esportare dallo stesso Stato Romano e, soltanto a me, in particolare, fino ad un massimo di settecento rubbi, quando invece era uso di concederne fino a mille.
A me poi accadde che, quando, nell’anno precedente, dopo la mietitura, nel mese di settembre, preparavo il trasporto in nave di duecento rubbi di grano a Ferrara, Francesco Leonori, tesoriere della provincia Picena, si oppose, sostenendo che dovevo essere contento di avere il permesso di esportare fuori dello Stato Romano settecento rubbi, quantunque tale quantità per noi sarebbe stata inferiore rispetto al frumento raccolto.
Chiesi allora l’intervento della sacra congregazione dell’Immunità ecclesiastica, presso la quale fu trattata questa controversia negli anni 1733 e 1734, come ho scritto in questa cronaca nell’anno 1733, n. 9. La congregazione di nuovo mi venne incontro. Il tesoriere della provincia però, onde evitare il giudizio della stessa congregazione che temeva potesse non essere favorevole a lui, chiese che la questione fosse traferita all’uditore del Romano pontefice, il quale a sua volta trasferì la causa dalla congregazione dell’Immunità, alla curia del tesoriere generale della Camera Apostolica. In tal modo l’uditore del tesoriere, che presumeva eccessivamente delle sue capacità intellettuali, in breve tempo capovolse e sovvertì la causa, che era stata impostata dopo lunghe discussioni e con grande dispendio di denaro e di fatica, con meraviglia di tutti i componenti della curia che erano presenti. In effetti la cosa appariva strabiliante, inconsueta e contraria ad ogni norma giuridica, tanto più, in quanto la stessa causa era stata in precedenza trattata nella curia del tesoriere generale e, nell’anno 1727, era stata risolta in senso favorevole alla nostra esenzione in sede di giudizio possessorio e in seguito fu immediatamente confermata nel 1729 in sede di giudizio petitorio, come ho scritto in questa cronaca all’anno 1736, n. 4. Noi invece eravamo contrari al fatto di essere stati costretti dai tesorieri generali alla convocazione presso quella curia, per il fatto che tale causa a lui sembrava essere collegata a quella che l’arcivescovo Giannotto Gualtieri aveva trattato nella congregazione dell’Immunità ecclesiastica nell’anno 1674.
L’uditore di Clemente XII, su richiesta dei tesorieri della provincia, costrinse ad adire presso la stessa sacra congregazione. Chi dunque non si meraviglierebbe ora che io venivo costretto da un altro uditore del romano pontefice a presentarmi di nuovo presso la curia dello stesso tesoriere generale, dopo aver vinto la controversia sia presso il tesoriere generale sia presso la sacra congregazione dell’Immunità ecclesiastica? Da tutto ciò, conoscendo bene quanto poco ci si potesse fidare della giustizia, in questo periodo in cui veniva contestata la sacra immunità ecclesiastica, giudicai bene di accordarmi direttamente con Francesco Leonori per il tempo in cui egli avrebbe esercitato l’incarico di tesoriere nella nostra provincia.
Pertanto nel mese di marzo di questo anno, mediante l’azione prudente e solerte di Pietro Antonio Massucci, già mio vicario generale ed ora uditore nella Rota di Macerata, veniva stipulato un accordo privato con cui si stabiliva che ogni anno avrei potuto trasportare per nave e vendere senza ulteriore pagamento, sia dentro i confini dello Stato Romano, sia fuori di questo, fino a mille rubbi di grano e anche il granturco, quest’ultimo calcolato nella misura di due rubbi per ogni rubbio di grano. Ho deciso di stipulare l’accordo solo perché sarebbe stato troppo lungo aspettare una soluzione giuridica definitiva. Ho rimandato però, con l’aiuto di Dio, la giusta soluzione della restituzione a tempi migliori.[1]
1749.4 Ludovico Gualtieri restituisce i documenti scritti al tempo degli arcivescovi di Fermo provenienti dalla sua famiglia, Carlo e Giannotto – Bonfiglio Morroni viene nominato canonico coadiutore dello zio – Celestino Petracchi monaco Olivetano predica a Fermo – Restauro dell’abside della metropolitana.
In quello stesso periodo, mi sono stati restituiti non pochi documenti manoscritti, riguardanti la nostra curia, alcuni dei quali erano relativi alla mensa arcivescovile, risalenti al periodo nel quale il cardinale Carlo Gualtieri e il fratello mons. Giannotto avevano governato la Chiesa Fermana. I documenti erano nascosti e conservati in modo confuso ad Orvieto nell’archivio di famiglia. Furono restituiti per volontà di Ludovico Gualtieri, arcivescovo di Mira e nunzio postolico presso il re delle due Sicilie. Li aveva selezionati il dottore Francesco Maria Camilli, dell’ordine dei Servi di Maria, che aveva riordinato le carte di quell’archivio. Io feci mettere nell’archivio della nostra curia tutto quel materiale, disponendolo con ordine.
A Gregorio Morroni canonico della metropolitana, settantenne, assegnai come coadiutore Bonfiglio Morroni, suo nipote per parte del fratello. Egli fu scelto, nonostante fosse ancora giovane, perché superava per modestia e per onestà di costumi tutti quelli della sua famiglia ed era già stato ordinato sacerdote.
Durante la quaresima Celestino Petracchi, monaco Olivetano, predicò con abbondante eloquenza nella chiesa metropolitana su argomenti tratti dalle sacre scritture. Nella stessa cattedrale è stata restaurata, a mie spese, la parte superiore dell’abside. La stessa cosa feci realizzare nell’altare di san Giuseppe, a cura e con i soldi della confraternita che porta il nome del santo.
1749.5 Esce il volume a stampa delle mie Omelie e viene distribuito.
Nel mese di aprile, uscì l’edizione della tipografia di Pietro Vincenzo Monti, del secondo volume delle mie Omelie, che raccoglie quelle tenute a Fermo dal 1738 a tutto il 1744, con aggiunta la lettera dedicatoria al papa Benedetto XIV. Ad opera di mio fratello Pietro Antonio Borgia, che Benedetto XIV l’anno precedente aveva nominato canonico coadiutore della basilica Lateranense, nel mese di giugno, feci consegnare questo piccolo dono al papa a Castel Gandolfo, dove egli si trovava a villeggiare, dedicandosi a molti problemi e a opere letterarie. Il dono gli riuscì gradito e accetto. Molte copie del libro furono offerte alle personalità del Palazzo ed anche a cardinali, a presuli, a vescovi e a parecchi altri di diversi luoghi e a quelli che me lo richiesero. L’ho offerto, cosa che mi stava molto a cuore, a molte persone a Fermo e della diocesi, affinché gli esempi delle virtù cristiane, della pietà domestica, e della rettitudine ecclesiale che erano contenuti nelle varie omelie, pervadessero gli animi dei miei diocesani. In particolare, lo feci avere in regalo alle dignità, ai canonici, ai prebendati della chiesa metropolitana, anche ai parroci della città, agli impiegati, ai famigliari e a molti altri. Lo ebbero inoltre i singoli vicari foranei della diocesi che, il 29 aprile, erano presenti alla riunione generale, presso di me, affinché nelle zone affidate a ciascuno di loro non solo lo leggessero, ma anche lo facessero leggere.
1749.6 Riunione generale dei vicari foranei nella quale si programmano le iniziative per il prossimo giubileo – Visita pastorale delle zone montane della diocesi e indizione delle sante missioni.
Ho convocato la riunione di tutti i vicari foranei, non solo perché essa doveva essere la consueta assemblea annuale, anche perché vi era una particolare circostanza. Nel mese di febbraio, infatti, il papa Benedetto aveva scritto a tutti i vescovi del suo Stato, una lettera enciclica sul tema delle iniziative da assumere, in ogni diocesi, nell’imminenza del giubileo, al fine di evitare che nei territori della Chiesa si verificasse qualche fatto o situazione che potesse offendere la sensibilità dei pellegrini. L’insieme delle cose da curare era la pulizia e la dignità nelle chiese, la maniera esatta di recitare la salmodia e il modo di cantare in musica, affinché i sacri testi non venissero soffocati o malridotti con una musica che poteva richiamare le rappresentazioni teatrali o che impediva di capire le parole con il suono delle trombe, dei flauti o di altri strumenti. Perciò proibivo l’uso di simili strumenti musicali nei canti religiosi. Pertanto ho consegnato a tutti i vicari la lettera enciclica affinché si impegnassero a far eseguire, nell’intera diocesi, tutte le disposizioni che Benedetto XIV aveva prescritto.
Riflettevo anche sull’obbligo che avevo di curare di persona l’esecuzione delle norme disposte; per questo, il 6 maggio, iniziai la visita pastorale in quelle zone della diocesi collocate lungo la catena dei monti Sibillini e che quindi risultavano più scomode perché di montagna. Scelsi come con-visitatori Marco Antonio Francolini, canonico della metropolitana, e Giovanni Andrea Grossi, sacerdote della congregazione della Missione. Ho iniziato a Falerone, poi mi sono recato a Sant’Angelo in Pontano, a Penna San Giovanni e a Gualdo dove ho dovuto sostituire il mio con-visitatore padre Grossi, costretto a tornare a casa per una grave indisposizione, inviandovi Isidoro Balducci, priore di Falerone. Subito dopo mi sono recato a Montefortino e nella sesta zona dei villaggi del territorio Ascolano. Qui nelle visite pastorali, venivano raggiunte dodici parrocchie appartenenti alla nostra diocesi. Nella seconda e nella terza visita pastorale, queste furono ispezionate per mio conto dal pievano di Montefortino. In occasione di questa quarta visita, per desiderio di quelle popolazioni che richiedevano la presenza dell’arcivescovo in persona, mi sono recato in tutti i villaggi e vi ho eseguito con cura la visita.
Contemporaneamente mi informavo e seguivo quelle località nelle quali si stava svolgendo la particolare predicazione, chiamata delle sacre missioni, dirette da p. Felice, sacerdote silvestrino, originario di Petriolo, insieme con altri sacerdoti del clero diocesano. Certamente, essendo quei villaggi siti ai confini della diocesi, non riuscivano ad avere, né durante l’avvento, né in quaresima, un predicatore. In tale zona non potevano tenersi neppure le riunioni di clero. Quindi ogni speranza di provvedere alla salvezza di quelle anime si fondava sulla fede, sulla diligenza e sullo zelo dei parroci del luogo. Laddove questi svolgevano il loro ruolo, durante la visita ho potuto verificare che le loro parrocchie erano ben ordinate. Dove invece i sacerdoti che esercitavano la cura delle anime non incontravano i parrocchiani, la situazione appariva veramente miserevole. Ciò accadeva perché quelle parrocchie non erano in grado di mantenere altri sacerdoti, se non i parroci, per la sterilità della terra e per la povertà degli abitanti di campagna. I parroci stessi per lo più disponevano di scarse entrate, tanto che a fatica potevano condurre una vita decente, mentre grandi erano le difficoltà. La maggior parte delle famiglie agricole non avevano sedi e strutture vicine, ma vivevano sparse e divise, come comportavano le proprietà paterne, il bosco o il suolo. Spesso ai parroci per svolgere il loro compito incombeva la necessità di fare percorsi difficili e a piedi per un tragitto di tre o quattro mila passi e di attraversare zone montuose e percorrere strade molto scomode. Per questo i sacerdoti forniti di buone qualità e di istruzione, a meno che non fossero oriundi di quei luoghi, raramente chiedevano simili parrocchie. Proprio per questo a tali parrocchie più che alle altre, la vigilanza e l’attenzione dell’arcivescovo dovevano garantire lo svolgimento delle sacre missioni e altri aiuti spirituali. Le sacre missioni dopo predicate nella Ville d’Ascoli, vennero svolte a Montefortino.
1749.7 Restauro e ampliamento degli edifici di Francavilla di proprietà della mensa.
Da quei villaggi, mi sono portato ad Amandola, dove, nel sabato delle quattro tempora, dopo Pentecoste, ho tenuto una sacra ordinazione e dove ho celebrato anche la festa del Corpus Domini. Visitai poi il paese di Monte San Martino dove si concluse il mio impegno della visita pastorale. Scesi a Monteverde. Raggiunsi poi Francavilla, dove c’erano gli edifici che attendevano urgenti interventi. Erano state riparate alcune piccole case all’interno del castello, fu ripulita la chiesa di santa Giuliana, gli edifici rurali dei coloni furono restaurati ed ampliati. Infine la casa già acquistata da me, presso il castello, venne ampliata con locali nuovi. Alla fine vi feci apporre una lapide in cui erano incise queste parole: ALESSANDRO BORGIA \ ARCIVESCOVO E PRINCIPE DI FERMO \ COMPRO’ ALCUNE CASE DISSESTATE \ NELL’ANNO DEL SIGNORE 1743 \ POI LE FECE RESTAURARE \ E VI AGGIUNSE GLI ORTI.
1749.8 Il cardinale Luigi Pietro Carafa viene a Fermo insieme con il fratello dell’arcivescovo.
Ritornando verso Fermo, il 14 giugno, con grande dolore, ho notato che una parte del territorio fermano, due giorni prima, era stato flagellato da una dannosissima grandinata che si era riversata anche altrove e aveva danneggiato i nostri campi suburbani. Mi recai alla villa di San Martino, ma vi potei restare per pochi giorni, poiché il 23 giugno sono stato costretto a rientrare a Fermo per l’arrivo del cardinale Luigi Pietro Carafa, il quale giungeva a Fermo, il 24 giugno, insieme con mio fratello Pietro Antonio Borgia. Quel principe, dotato di una grande benignità di spirito, quando mi ero recato ad incontrarlo fuori le mura della città, mi presentò mio fratello (col quale era venuto al Porto di Fermo l’anno precedente) dicendo in modo scherzoso che mi presentava ora il canonico Lateranense, non però quello appartenente all’ordine regolare (religioso). La nostra famiglia doveva molta riconoscenza a questo cardinale perché, essendo egli datario del papa Benedetto, aveva fortemente sostenuto la nomina di mio fratello a canonico coadiutore nella basilica di san Giovanni in Laterano. Il cardinale rimase presso di me fino alla vigilia dei santi Pietro e Paolo, usando una così grande familiarità da accettare il mio parere di inserire nei registri ufficiali superiori quei privilegi che erano stati riconosciuti con semplice editto indirizzato alla mensa arcivescovile. Lasciò Fermo, diretto verso Loreto insieme con mio fratello, per celebrare la festa degli apostoli Pietro e Paolo nella santa Casa.
1749.9 L’anno del giubileo viene proclamato a Roma nella festa dell’Ascensione; a Fermo viene annunciato nella festa dei santi apostoli Pietro e Paolo; l’annuncio è stato ufficialmente dato nell’omelia dall’arcivescovo.
Benedetto XIV, nella festa dell’Ascensione, aveva indetto solennemente a Roma l’imminente grande giubileo del 1750. Egli faceva convergere le cure e l’operosità affinché la celebrazione giubilare fosse pia e splendida. Di ciò egli parlò nel solenne concistoro con i cardinali e rese pubblica la lettera enciclica che indirizzò ai vescovi del suo Stato, come abbiamo accennato sopra, ma non solo questo, aveva elaborato anche una lettera per tutti gli altri vescovi, in forma ampia, con la massima diligenza, nel mese di luglio a Castel Gandolfo.
Il papa era proteso ad assicurare il decoro delle chiese, ad abbellire Roma e specialmente a riformare il comportamento del popolo, cercando di realizzare l’opera formativa fino alla fine dell’anno, mediante la celebrazione delle sante missioni. In tutto questo lavorio, Benedetto era guidato, con chiarezza di intento, dal mirabile impegno affinché tutto potesse servire alla santificazione del tempo e alla solennità delle funzioni. Aveva esplicitamente dichiarato, infatti, che egli era disposto a sopportare con animo paziente non soltanto tutte le fatiche e i malanni che finora aveva subito, ma anche ad affrontare e accettare tutti gli eventuali altri disagi che, in seguito, si fossero riversati nel suo pontificato, purché, durante questo anno giubilare, si fossero moltiplicate le opere di pietà e di religione.
Pertanto anche a me sembrò opportuno ripetere l’indizione del grande giubileo, nella festività dei santi apostoli Pietro e Paolo, approfittando di tale occasione per pronunciare una solenne omelia nella quale, ricordando gli ammonimenti di Benedetto XIV e poi tutte le altre istruzioni ricevute, in modo che potessi istruire il popolo sulle modalità e sui criteri per una fruttuosa celebrazione dell’anno del giubileo, indicando quali pratiche i fedeli erano chiamati a compiere. Subito l’omelia fu data alle stampe con l’aggiunta di una mia lettera da far diffondere a tutta la diocesi; tramite i sacerdoti e i parroci in cura d’anime, che l’avrebbero dovuta portare a conoscenza di tutti i fedeli e spiegarla.
1749.10 I decreti dell’uditore della Camera Apostolica sembrano favorire il sovvertimento della pubblica moralità – Viene nominato come giudice competente in materia di giudizi criminali il canonico Lucio Guerrieri pro- vicario generale.
Invero quanto più il papa, per mezzo di tutto ciò che abbiamo detto sopra, realizzava un rinnovamento nel migliorare i comportamenti, altrettanto (se non di più) l’uditore della Camera Apostolica sembrava favorire i comportamenti sovversivi, con indulti a tutti coloro che si rivolgevano a lui per ottenere cose che andavano contro le disposizioni ordinate dai vescovi, i quali erano preoccupati di correggere le cattive abitudini, invalse nella disciplina ecclesiastica. Non c’era quasi alcun sacerdote, sospettato o denunciato o condannato a causa di una vita non confacente, che non ottenesse facilmente in quella curia Romana l’assoluzione da qualsiasi richiamo e pena, inflitti dal proprio vescovo. Non esistevano più censure come medicina delle anime, o nessuna punizione per la contumacia dei rei, nessun provvedimento teso ad impedire la concessione illegale di un beneficio, nessun ordine per reprimere gli scandali. Quasi nessuna decisione vescovile era confermata dall’uditore di Camera. Ciò accadeva forse perché nel 1742 Benedetto XIV aveva emanato una costituzione con la quale aveva molto ristretto l’autorità dell’uditore di Camera in materia di accettazione dei ricorsi, con effetto sospensivo nelle cause per le quali l’appello non era consentito dai sacri canoni. Forse per questo qualche curiale si arrogava un potere talmente ampio ed inusuale da concedere agli appellanti di poter ottenere nel giudizio in devolutivo sentenze assolutorie che, invece, non era consentito loro di concedere con un giudizio in sospensivo. Oppure più semplicemente l’uditore di Camera, al fine di rendere più celeri le procedure giudiziarie, stimava opportuno procedere con sentenza definitiva, consentendo di fatto una maggiore larghezza o indulgenza con i rei. Tale strana prassi ebbe come effetto quello di dare ai rei maggior sicumera nel condurre una vita sfrenata, nonostante ogni comando, ogni richiamo o censura dati dal proprio vescovo, provocando gravi dispiaceri ai vescovi e scandalo a tutti gli altri che erano intenti a usare zelo per la disciplina cristiana e canonica.
Tutti conoscevamo le lamentele contro l’uso troppo facile dell’appellarsi. Tali critiche erano molto antiche, espresse già, al tempo di San Bernardo, al papa Eugenio III. Invero la questione mai era stata affrontata come oggi, a tempo dell’uditore di Camera Flavio Chigi. Ciò era reso più agevole grazie alla figura del promotore di giustizia sapientemente istituito a Roma, da Benedetto XIII per tutte le curie ecclesiastiche, ufficio istituito, con stipendio congruo, per difendere, contro gli appelli, le ordinanze dei vescovi. Di fatto però, forse, il desiderio di risparmiare sulle spese aveva provocato la drastica diminuzione o scomparsa dei procuratori di giustizia.
Pertanto, siccome nella nostra diocesi, per questo modo di agire nei facili appelli a Roma, si erano verificati diversi scandali, ho preso la determinazione di assumere come promotore di giustizia Leopoldo Metastasio, assegnandogli l’annuo compenso onorario di sessanta scudi di argento affinché difendesse a Roma i giudizi in materia criminale emessi della nostra curia. Al fine poi di affrontare tali situazioni con maggiore efficacia e diligenza, ho sostituito Nicola Calvucci primicerio della chiesa metropolitana, provicario e uditore arcivescovile, da tempo sofferente per attacchi di epilessia, con il canonico Lucio Guerrieri, affidandogli l’incarico di interessarsi soprattutto dei processi criminali e degli eventuali ricorsi.
Al riguardo, bisogna riconoscere quello che, in occasione di una mia permanenza a Roma, l’illustre cardinale Giacomo Lanfredini, che era stato già chiamato al governo episcopale ed ebbe a rinunciarvi, mi confidò, dicendo, saggiamente, che nessuno che non avesse fatto anche l’esperienza di vescovo, poteva in modo sicuro e con prudenza pronunciare una qualche sentenza sui giudizi e sulle cause trattate dai vescovi nella loro diocesi.[2]
1749.11 Giovanni Antonio Pacini viene nominato canonico coadiutore nella prebenda teologale – Il pievano di Grottazzolina viene gravato da una annua pensione a favore della Schola cantorum.
Nel frattempo Curzio Pacini, canonico teologo della chiesa metropolitana, quantunque fornito di intelligenza e di dottrina, troppo raramente prestava il suo servizio di spiegare le sacre Scritture secondo il calendario fissato, poiché non accettava serenamente le norme fissate dal nostro Concilio provinciale e specialmente perché diventava ormai sempre più anziano. Per questo ero convinto che la Sede Apostolica avrebbe potuto dare la prebenda teologale a Giuseppe, suo nipote, per parte del fratello, insieme alla speranza di futura successione. Nel mese di maggio, di fatto, prese possesso di questa prebenda. Era un giovane sacerdote buon conoscitore delle letterature, sacre e profane, e capace di svolgere l’ufficio di teologo che di fatto cominciò ad esercitare con diligenza e in modo erudito.
Un’altra cosa sono riuscito ad ottenere dalla Sede Apostolica che fu di grande utilità per la nostra Chiesa: era morto Tommaso Adami e quindi la pieve di san Giovanni in Grottazzolina, era rimasta vacante e la sua collazione spettava al capitolo della chiesa metropolitana. I proventi del beneficio erano stimati fino a trecento scudi. Questa pievania fu assegnata a Nicola Catalini, sacerdote nativo del luogo, di buoni costumi e di discreta cultura. Gli fu posta però la riserva di un’annua pensione di scudi cinquanta, per la durata di 23 anni, riservata alla Fabbrica della cattedrale a favore della Schola cantorum, nella misura di 17 scudi annui, per le necessità del servizio musicale nella metropolitana.[3]
1749.12 L’arcivescovo decide di restaurare la chiesa di Santa Croce tra l’Ete e il Chienti.
Ho celebrato, nel mese di agosto, la rituale festa dell’Assunta. La chiesa di santa Croce sita tra i fiumi Ete e Chienti, anticamente fondata dal vescovo di Fermo Teodosio, e, nell’anno 887, consacrata alla presenza dell’imperatore Carlo il Grosso che la arricchì con una dote regia e con amplissimi privilegi, ormai rovinata per l’antichità, venne restaurata e abbellita, a mie spese, con l’aggiunta di altri fabbricati.[4] Dopo che fu vinta la causa contro gli Elpidiensi e dopo che fu riconosciuta l’esenzione fiscale nel territorio circostante, insieme ai molti privilegi, come abbiamo riferito nei precedenti anni, il nostro desiderio era di rendere quel luogo accogliente, togliendo ogni bruttura. Alla fine di agosto mi recai là per sollecitare il completamento dei lavori. A memoria dell’opera compiuta ho fatto preparare un lapide marmorea nella quale è scritto: ALESSANDRO BORGIA \ ARCIVESCOVO E PRINCIPE DI FERMO \ RESTAURO’ \ NELL’ANNO 1749 QUESTA BASILICA \ ROVINATA PER L’INGIURIA DEL TEMPO \ DEDICATA AL NOSTRO SALVATORE \ E ALLA SUA SALVIFICA CROCE \ COSTRUITA \ DAL VESCOVO FERMANO TEODOSIO \ MENTRE CARLO IL GROSSO IMPERATORE \ LE DONAVA UNA DOTE REGIA \ IL 14 SETTEMBRE DELL’ANNO 887 \ DEDICATA SOLENNEMENTE.
1749.13 Concordia con i canonici della basilica di san Giovanni in Laterano per la chiesa e la confraternita di Montottone.
Abbiamo già riferito, nell’anno 1747, la causa da noi vinta nel giudizio possessorio nella curia dell’uditore di Camera davanti al luogotenente Francesco Amadei, contro il capitolo della sacra basilica Lateranense, riguardo alla nostra giurisdizione ordinaria sulla chiesa, sulla confraternita e sull’ospedale di Santa Maria del Buon Gesù di Montottone. Il capitolo lateranense non aveva accettato questa sentenza, per cui si era appellato all’uditore della sacra Rota. Mentre ero già preparato per difendere il nostro diritto su ciò, intervennero i buoni uffici di mio fratello Pietro Borgia, canonico coadiutore della stessa basilica, e la controversia fu conclusa con un accordo bilaterale, in base al quale veniva stabilito quel che spettava al capitolo Lateranense spettava, cioè: il diritto di ricevere il tradizionale annuo canone; la rinnovazione dell’aggregazione al capitolo, il diritto di compiere la mera visita economica alla chiesa e all’ospedale. All’arcivescovo spettava la piena giurisdizione ecclesiastica e il diritto di giudicare ogni controversia che insorgeva tra i confratelli e, specialmente nei momenti in cui si trattava dell’elezione degli officiali (infatti tutta la vicenda era insorta su tale aspetto) o di qualsiasi altra vicenda, il capitolo Lateranense non si poteva immischiare in alcuna controversia di tal genere. La transazione non fu stipulata in forma ufficiale e solenne, il 4 settembre, ma soltanto con un documento, sottoscritto dai canonici lateranensi. Mi sembrò equo il concedere qualcosa al capitolo, purché la giurisdizione vescovile non fosse diminuita sotto nessun aspetto, piuttosto recuperasse quel poco che aveva perduto nelle secolari vicende e ci fosse un solo giudice per le controversie in questo luogo.
1749.14 Consacrazione della chiesa di San Nicolò a Monte Giberto.
Il 9 settembre ho ripreso la visita in un’altra zona della diocesi. Ho scelto come con-visitatori il canonico Marco Antonio Francolini e Giovanni Andrea Grossi, sacerdote della congregazione della Casa della Missione. Mi recai prima a Monte Giberto, dove la domenica 14 settembre, ho consacrato la chiesa di San Nicola che era la chiesa prioritaria. Essa, negli anni precedenti, fu ricostruita dalle fondamenta e ampliata con maggior eleganza dal pievano Pietro Antonio Ursini (Orsini). Da lì mi sono portato a Sant’Elpidio Morico, poi a Montottone, dove il sabato delle quattro tempora, tenni una sacra ordinazione, poi mi sono recato ad Ortezzano e nei vicini castelli, cioè Ponzano, Torchiaro, Moregnano, Monte Vidon Combatte e Collina. Furono ispezionati dai miei convisitatori i tre “monti”, paesi chiamati Monterinaldo, Monsampietro Morico e Monteleone. La visita pastorale mi ha impegnato fino al 26 di settembre, quando mi ritirai nella villa suburbana di San Martino vicina a Fermo.
1749.15 Vendita di una casa a Grottammare – Riscatto di una lavanderia e di una piccola casa a Grottammare.
Una vecchia casa, sita dentro il castello di Grottammare, nella via che conduce alla chiesa di Santa Lucia, era di proprietà della mensa arcivescovile, ma era angusta e già dal tempo in cui fui trasferito all’arcidiocesi di Fermo era in parte crollata, in parte fatiscente. In breve tempo l’ho fatta restaurare. Quest’anno però il tetto del mulino dell’olio, di proprietà di Filippo Scoccia, era caduto, quindi anche la casa sottostante, per le acque, era soggetta all’umidità. Per questo pensai che fosse meglio venderla, piuttosto che ripararla di nuovo. Ottenuta dunque la licenza per alienarla dalla Sede Apostolica, l’ho venduta, nel mese di luglio, a Antonio Guerrieri, la cui abitazione era attigua, ricevendo la somma di 230 scudi d’argento che ho depositato nella cassa del monastero di santa Marta di Fermo. Nel mese di ottobre, per investire ad utilità della mensa episcopale tale somma, comprai dagli eredi di Filippo Natali una piccola casa e un laboratorio di lavanderia, che lo stesso un tempo aveva fatti costruire, con una convenzione stipulata con l’arcivescovo cardinale Cenci, nel fondo di proprietà della mensa, presso il mulino di grano, vicino alla chiesa di San Martino, nella campagna di Grottammare. Per riscattare i predetti edifici pagai 170 scudi di argento e settanta assi; il contratto di riscatto è stato rogato da Elpidio Maiorana, notaio della nostra curia, nei giorni 9 e 14 di ottobre. In tal modo non solo veniva ceduto a noi l’integro guadagno del laboratorio di lavanderia, che prima si divideva a metà tra gli eredi di Filippo e la mensa, ma si metteva a disposizione dei nostri contadini e degli agenti anche la piccola casa, utile nelle occasioni in cui essi si recavano colà e vi alloggiavano per sorvegliare o per raccogliere i frutti.
1749.16 Il cardinale Prospero Colonna in visita a Civitanova.
Mentre mi trovavo nella villa di campagna di San Martino ed ero con l’animo preso dal pensiero di ciò che avrei proposto al clero e al popolo nella festa di Tutti i Santi, venni a sapere all’improvviso che il cardinale Prospero Colonna era giunto a Civitanova insieme con suo nipote, il neo- duca Sforza Cesarini. Mi sembrò quindi dignitoso interrompere la villeggiatura e recarmi colà per un solo giorno a salutarlo, e anche per visitare le nuove costruzioni che erano state iniziate nel monastero delle monache. Il giorno seguente andai a Santa Croce per sollecitare i lavori programmati per i restauri. Tornato a Fermo ero quindi in attesa di questi prìncipi che mi avevano promesso di venire, ma a causa delle condizioni del tempo e della pioggia mutarono decisione.
1749.17 Confessione dei peccati di tutta la vita passata.
Nella festa di Tutti i Santi, ho tenuto un’omelia sull’utilità di premettere la confessione generale di tutti i peccati commessi, nella vita trascorsa, per ricevere il frutto dell’indulgenza dell’imminente anno del giubileo. Questa era una tra le esortazioni che il papa Benedetto aveva rivolto e che io avevo preannunciato nella omelia, tenuta nella festa dei santi Pietro e Paolo, però in quella occasione non feci questa raccomandazione. A novembre, perciò, ne abbiamo ampiamente parlato affinché a tutti i fedeli, di tutta la diocesi, fossero noti i sentimenti del mio animo paterno e aggiunsi, in breve tempo, l’edizione di questa omelia che ho diffusa a stampa nella mia diocesi.
1749.18 Frumento comprato per l’annona di Roma.
In quest’anno la raccolta del grano fu scarsa in ogni luogo, ma neanche quella degli altri prodotti fu grande. La vendemmia pure fu scarsa e la raccolta dell’olio fu disastrosa. In molti posti e, specialmente nei terreni della nostra mensa, molte piantagioni di oliva da me fatte o erano andate perdute a causa delle intemperie del clima degli anni passati o erano state danneggiate in quest’anno. Benedetto XIV aveva molto a cuore il dovere di curare l’annona di Roma per l’affluenza di molti pellegrini che sarebbero venuti nella città, nell’imminente giubileo, e comandò di acquistare una gran quantità di frumento nel Piceno e di farlo trasportare con le navi a Roma. Ciò fu realizzato ad opera di Sforza Antonio Costa, patrizio di Macerata, con tanta diligenza e a così poco prezzo, che fu pagato poco più di cinque scudi d’argento per ogni rubbio, portato ai porti del litorale Adriatico. L’operazione era stata facilitata non solo dal fatto che Benedetto aveva proibito l’esportazione per mare del grano, ma anche perché aveva ristretto la libertà di commercio entro il territorio dello Stato in modo che gli abitanti del territorio del Piceno non potevssero commerciare e portare il grano nelle province della vicina legazione, ma le loro vendite si dovevano limitare all’Umbria e a Roma.
1749.19 Basilio Sciriman successore di Alberici come governatore di Macerata – Morte di Pietro Bonaventura Savini già vescovo di Montalto e al presente arcivescovo titolare di Sebaste. – La sua vita e l’elogio della sua persona.
Nel mese di dicembre Pirro Alberici (Albrici), governatore di Macerata, ritornò a Roma perché aggregato tra i chierici della camera Apostolica. Lo sostituì Basilio Sciriman, veneto, ma di origine persiana.
Con sommo dolore ricevetti la notizia che mons. Pietro Bonaventura Savini, arcivescovo di Sebaste (del quale ho parlato l’anno scorso) il 18 dicembre era morto, a Camerino, nella casa paterna. Da diversi anni era affetto da una malattia che prima gli impedì di camminare e in seguito gli tolse anche l’uso della parola. Aveva appena 57 anni e per più di sette anni era stato mio vicario generale e per altri 13 anni era stato vescovo di Montalto nella provincia di Fermo. Uomo esimio, esperto conoscitore della letteratura e soprattutto molto versato nella sacra teologia. Di intelligenza chiara e vivace, retto ed integro nell’esprimere giudizi, affabile nel colloquiare, scherzoso ed erudito, espertissimo nell’arte della musica, anche se, dopo che venne presso di noi, a causa dei gravi impegni, si era astenuto dal praticarla. Coltivò santamente le amicizie e verso di me si mostrò sempre memore e grato. L’ho sempre amato per la sua onestà e fedeltà e avevo pensato di designarlo mio esecutore testamentario dal momento che aveva ben dieci anni meno di me e dimostrava in quei giorni una costituzione fisica sana, agile e robusta, ma fu colpito improvvisamente da una certa pesantezza del corpo e da confusione di mente in tutto. Raramente usciva di casa, non arrivava mai per primo a tavola; nell’andare a letto e in qualsiasi altra attività era sempre ultimo. Questa cosa destava non poca meraviglia, già fin quando era con suo zio Prospero marchese Sparapani, uomo attivo e solerte e veniva da lui educato: era spesso rimproverato per essere troppo lento ed anche io spesso lo avevo avvertito, tuttavia ancora non aveva potuto superare questa sua triste abitudine. Venendogli a mancare la pratica del movimento e anzi l’uso di stare all’aria aperta, si pensava che potesse aver contratto prima l’epilessia e in seguito l’apoplessia.
Egli subì anche il fastidio che Cecconi, suo successore a Montalto, subito cominciò a lamentarsi della pensione eccessiva che gli doveva versare e anzi cominciò a negargliela e a non consegnargliela. Per questo più volte raccomandavo a Cecconi di non infastidire, con il mancato pagamento della pensione, questo suo predecessore che aveva ben meritato dalla diocesi di Montalto e che era afflitto da una grave malattia. Ma fu necessario, a norma di diritto, costringere Cecconi a versargli la pensione dovuta. Tuttavia in breve tempo egli non fu tanto costretto dalla legge, ma fu vinto da un effetto della natura perché morì della stessa malattia di mons. Savini.
1749.20 Si discute a Roma la faccenda dell’eredità di Marefoschi – Le manovre dei Compagnoni per avere l’eredità Marefoschi.
Alla fine del 1746 ho parlato della controversia riguardante l’esecuzione delle disposizioni testamentarie di Pietro Antonio Marefoschi che i sacerdoti della Compagnia di Gesù avevano abbandonato e che fu invece rivendicata da alcuni cittadini di Monte Santo a nome di tutta la comunità, come abbiamo riferito. In quest’anno, mi è sembrato che Dio misericordioso abbia voluto assecondare i loro giusti e pii tentativi. Infatti la causa fu affidata ad un gruppo di cinque insigni presuli della curia romana, il primo dei quali era Elefantucci, uditore della sacra Rota. Essi dovevano decidere, emettendo due sentenze conformi, escluso ogni diritto di appello. Si discusse acremente tra le due parti se l’immissione nei beni dell’eredità dovesse essere concessa alla comunità di Monte Santo in maniera generica, mentre i Compagnoni l’avevano già presa per sé. Il 20 febbraio fu pronunciata la prima sentenza che fu affermativa, cioè che la comunità doveva essere immessa in modo generico e il 29 di agosto tale sentenza fu confermata. I Compagnoni naturalmente si accorsero che la via giudiziale sarebbe stata a loro sfavorevole. Tentarono quindi di ottenere ciò che volevano mediante vari artifici. Per prima cosa proponevano una composizione con l’amministrazione della Fabbrica di San Pietro e ipotizzarono che l’intero asse ereditario non superasse i 40.000 scudi e che questi non sarebbero pertanto bastati per realizzare la duplice erezione, una del seminario e l’altra del monastero delle monache, come chiedeva il testamento. Cercarono di ottenere di ascrivere a sé l’eredità, cedendo alla Fabbrica di San Pietro la terza parte dell’intero asse ereditario.
In seconda battuta tentarono di solleticare gli animi dei cittadini di Monte Santo e nel mese di ottobre, tramite un loro internunzio, proponevano un trattato di concordia, tenendo però sospesi i cittadini nella speranza (una volta aggirata l’intenzione del testatore) di proporre ad essi la consegna di beni per 15.000 scudi per istituire a Monte Santo un collegio di canonici. Io, che fin dall’inizio ero stato interessato alla vicenda, affinché in nessuna maniera venisse tradita l’intenzione del testatore, mi ero attirato il sospetto presso il popolo, come se avessi il progetto di utilizzare quei soldi a beneficio del seminario di Fermo. Tutti questi artificiosi tentativi, facilmente scoperti, non approdarono a nulla, anche se i Compagnoni ottennero un rescritto della congregazione del Buon Governo, il quale disponeva che di tale vicenda doveva interessarsi il consiglio generale dei cittadini, come effettivamente avvenne all’inizio del seguente anno. Il parere unanime di questo consiglio fu quello di respingere ogni accordo sospeso e di sollecitare la causa a Roma per poter ottenere l’immissione nei beni ereditari, non in maniera generale, in maniera specifica.
1749.21 L’arcivescovo abbellisce l’abside della metropolitana con pitture di figure di santi, e con fregi dipinti in oro.
In questo anno, a mie spese, si erano conclusi i lavori di ornamento con dipinti nell’abside della metropolitana. All’inizio, la parte superiore fu ricoperta da uno strato dorato. Poi si è molto lavorato nelle pareti inferiori che furono incrostate con uno strato di intonaco, affinché sopra si potessero dipingere delle figure in maniera che non si rovinassero. Poiché il primo tentativo non era riuscito bene, ne fu fatto, con ogni attenzione, un secondo. Successivamente Natale Ricci e suo figlio Filippo, pittori fermani e inoltre Ciferri Giuseppe, si adoperarono a realizzare le pitture. I primi raffigurarono l’Assunzione in cielo della Madre di Dio e le figure di molti santi che contemplavano la Vergine, cioè san Savino vescovo e martire protettore della città di Fermo, nella cui cattedrale si venerava, con grande devozione civica, il suo sacro capo, che, per disposizione di san Gregorio Magno, era stato trasferito a Fermo; inoltre san Claudio martire e comprotettore di Fermo, santa Caterina vergine e martire e protettrice Fermana; i santi Alessandro e Filippo vescovi di Fermo; san Ciriaco anche lui vescovo di Fermo; sant’Adamo, abate e cittadino di Fermo; le sante Vissia e Sofia, vergini e martiri fermane; san Marone sacerdote martire, primo predicatore del Vangelo cristiano nella diocesi; san Nicola, confessore, originario da Sant’Angelo in Pontano in diocesi nostra, nonostante che sia detto da Tolentino; santa Vittoria, vergine e martire, le cui reliquie si conservano in un paese della diocesi che porta lo stesso suo nome; san Serafino da Montegranaro, paese della nostra diocesi, e infine san Luca evangelista, nella sua qualità di protettore dei pittori.
Ciferri invece dipinse con eleganza i simboli della beata Vergine Maria intorno all’abside; nella sommità della volta rappresentò tre simboli del cielo: il sole, l’aurora e la luna con la relativa espressione “Come aurora che sorge, bella come la luna, eletta come il sole”. Nelle due pareti vennero dipinti altri simboli significativi tratti dalla natura: il cedro del Libano, il cipresso del monte di Sion, la palma di Cades, la rosa di Gerico, il bell’olivo dei campi, il platano cresciuto vicino alle acque, il cinnamomo e il balsamo odoroso, la mirra selezionata. Ciascuno dei simboli aveva le opportune espressioni scritte. L’onorario dei pittori era stato di 250 scudi di argento, poi aumentato fino a trecento scudi; la altre spese ammontarono a poco di meno.
Nell’antivigilia di Natale, prima del canto dei vespri, l’immagine della Vergine e le figure dei santi furono benedette con rito solenne e con i salmi. Con questa dedicazione abbiamo celebrato anche l’inizio del nuovo anno santo giubilare, auspicando da Dio di viverlo con ogni grazia, pietà e felicità.
1750 ANNO DEL GIUBILEO
1750.1 L’indulgenza del giubileo non impedisce di acquistare le indulgenze concesse dai vescovi.
Benedetto XIV era totalmente proteso a insegnare ai cristiani quali beni spirituali essi potevano ricevere dall’indulgenza del giubileo. Nel frattempo, erano sospese, come era solito avvenire, tutte le altre indulgenze, eccettuate alcune, specialmente quelle che i vescovi erano soliti concedere dopo le solenni celebrazioni pontificali. Tuttavia, affinché i cristiani non cadessero nell’indifferenza verso il compimento delle opere pie, il papa Benedetto XIV dichiarò che le indulgenze che non venivano fruite, perché sospese, a vantaggio di coloro che ancora erano vivi in terra, potessero essere fruite applicandole con valore di suffragio per i defunti. Egli tenne anche presenti tutte le difficoltà che potevano ostacolare la possibilità di compiere le opere per lucrare l’indulgenza, come l’età avanzata, la clausura e altre situazioni che impedivano di compiere il pellegrinaggio a Roma, concedendo ai vescovi il potere di commutare il pellegrinaggio alle basiliche romane, per coloro che non potevano affrontare il viaggio a Roma, con il compimento di qualche altra pia opera. Su tutto ciò mi dedicai ad istruire il clero e il popolo, scrivendo, il 6 di gennaio, un’apposita lettera pastorale.
1750.2 Morte di Ludovico Antonio Muratori.
Nello stesso periodo, ricevetti la dolorosa notizia della morte di Ludovico Antonio Muratori di Modena: aveva l’età di 78 anni, ma era ancora perfettamente lucido. La sua morte era sopravvenuta il 23 gennaio. Uomo mirabilmente esperto di molteplici discipline e ricco di una sconfinata erudizione, scrisse molte opere che riguardavano la storia dell’Italia e la pietà cristiana. Nell’ambiente letterario, raggiunse una così grande celebrità, da essere ritenuto il primo, tra tutti i letterati italiani. Era al servizio della corte dei duchi d’Este ed era prefetto della loro biblioteca, a Modena.
Nella controversia insorta tra Clemente XI e l’imperatore Giuseppe I, per l’occupazione di Comacchio da parte dei soldati imperiali, con i suoi scritti, aveva tentato di difendere le pretese dell’Impero e i diritti fiduciari della Casa Estense su Comacchio, mentre Giusto Fontanini respinse, con forza, tali asserzioni sostenendo i diritti incontestabili della Sede Apostolica. Questo fatto precluse al Muratori la possibilità di ottenere maggiori onori. Conseguì, peraltro, parecchi benefici ecclesiastici, di grado minore, dalla benevola generosità dei suoi prìncipi. A Modena era preposto della parrocchia di Pomposa, che restaurò e abbellì con molta cura.
Debbo a lui la mia gratitudine perché nei suoi scritti, dotti ed eruditi, pubblicati sotto lo pseudonimo di Lamino Pritano, difese, strenuamente e con convinzione, il mio indulto dell’abolizione dell’obbligo dai lavori occupazionali nelle minori feste dei santi contro le argomentazioni del cardinale Angelo Maria Quirini, come ho riferito in questa cronaca dell’anno 1748.
1750.3 Domenico Romani predicatore a Fermo – Viene rinvenuta e descritta una lapide scolpita in memoria di Giovanni da Rapugnano sommo pontefice.
Il sacerdote Domenico Romani della diocesi di Padova tenne la predicazione della parola di Dio, durante la quaresima, nella chiesa metropolitana; lo fece con calore e in modo egregio.
A Rapagnano, castello della nostra diocesi, don Francesco Antonio Grifoni, parroco della chiesa di santa Maria mi comunicò che era stata scoperta una lapide, scolpita con lettere antiche, nella quale era riportata la memoria di Giovanni figlio di Sicco e di Colomba, nato in quel paese e in seguito elevato al sommo pontificato nell’anno 1003.
Mandai subito sul posto mio nipote Stefano Borgia il quale si dedicava agli studi di filosofia ed era amante ed esperto di cose antiche. Egli mi ha consegnato l’immagine della lapide qui acclusa.
Riferisco la forma della lapide:
Joannes ex Siccon et Columb in A. Rapugnani prop Tinn ortum hab atq adol Rom duct et a Petron Cos Dom recept adeo lict incub ut toto Urb appl V idus iun a.D. MIII fuer Pont creat par tam rexit Eccles nam regnat in coel pr ka nov seq ob dorm in pace. <Giovanni ebbe nascita da Sicco e Colomba nell’a(gro) di Rapugnano presso il Tin(na) e condotto adolescente a Roma e ricevuto in casa dal console Petronio, si dedicò a studi letterari tanto che con unanime consenso dell’Urbe il 9 giugno 1003 fu creato pontefice ma in breve tempo, il 31 ottobre seguente si addormentò nella pace per regnare in cielo.>
Decisi di trasmettere la notizia a Benedetto XIV anche perché, proprio in quel periodo, egli stava facendo preparare, nella basilica di San Paolo, sulla via Ostiense, la serie antica delle immagini dei pontefici romani. Il mio dono fu molto gradito recando un po’ di luce nelle tenebre di quei lontani tempi, molto oscuri, del pontificato (romano).
Fu poi la volta di scoprire l’antichità della lapide, di individuarne l’autore, e di spiegare il fatto che ci fosse scolpito lo stemma di Enea Silvio Piccolomini, che amministrò l’episcopato fermano, dal 1456 fino all’anno 1458, e, in seguito, fu eletto papa col nome di Pio II.[5]
Suppongo che se Enea Silvio, uomo sommamente versato nella conoscenza della storia, fosse veramente stato l’autore dell’iscrizione, il valore storico della lapide sarebbe molto grande e dovrebbe far fede. Mio nipote, ancora poco esperto, perché molto giovane, diede alle stampe un suo scritto di commento.
1750.4 L’eremo di Monteluco.
L’occasione del giubileo mi imponeva di recarmi a Roma. Il martedì, dopo la domenica in Albis, il 7 aprile, mi misi in viaggio. Il 10 giunsi nel celebre e antico eremo di Monteluco, presso Spoleto, dove viveva, da tre anni, il nostro illustre cittadino Giovanni Antonio Celli, che aveva abbracciato quel genere di vita monastica, e mi ci sono fermato. La pioggia mi costrinse a rimanervi per tre giorni ed ebbi così l’occasione di conoscere il modo con cui vivevano quegli eremiti. Ciascuno di loro era libero e abitava una casa, separata dalle altre, nella quale viveva, a proprie spese, più o meno largamente, a proprio piacimento, oppure con un compagno, o da solo, oppure con un servo. La veste invece era uguale per tutti, di colore scuro e di lana. Tutti obbedivano al priore e tutti si recavano al mattino, prestissimo, alla chiesa chiamata di santa Maria delle Grazie per le preghiere comuni, per ascoltare la parola divina, e per praticare i sacramenti. All’infuori di questo momento di preghiera comune, per le restanti ore del giorno, erano liberi e senza altri impegni. Ciascuno si dedicava liberamente alle proprie attività preferite, secondo la personale inclinazione. Quando si ammalavano, usavano una casa che avevano in comune nella città, e, con le risorse comuni, ai malati era prestata l’assistenza e si provvedeva loro nell’ospedale. Il numero degli eremiti, più o meno, era di dieci o dodici, oltre ai servi.
1750.5 Pellegrinaggio romano dell’arcivescovo.
Lasciato l’eremo, giunsi a Roma il giorno 14 aprile. Durante tutto il viaggio, incontrai una grande folla di persone, che tornavano o che si recavano all’alma città di Roma, dopo le feste di Pasqua. A Roma andai ad abitare presso mio fratello Pietro Antonio Borgia, canonico coadiutore della basilica del Laterano. Fui benignamente ricevuto da Benedetto XIV e subito iniziai le prescritte visite alle basiliche romane, come necessario per lucrare l’indulgenza giubilare.
Era però opportuno passare a Velletri, per fare una visita alla mia patria, dove molte cose dovevano essere riportate in ordine. Chiesi al papa il permesso di lasciare Roma per recarmi nella mia patria, ed egli, benignamente, me lo concesse, avvertendomi, però, di essere presente alla solenne celebrazione del Corpus Domini e a quella dei santi apostoli Pietro e Paolo, a Roma, insieme con lui e con tutti gli altri vescovi. Desiderava, infatti, che il numero dei pellegrini, e specialmente dei vescovi, fosse cospicuo per sottolineare la maestà e la peculiarità delle sacre celebrazioni dell’anno del giubileo. Decisi allora di realizzare presto il mio viaggio a Velletri.
1750.6 Monumento di Fabrizio Borgia vescovo di Ferentino e iscrizione proposta.
Prima di partire, però, mi recai a vedere il monumento di marmo, ancora in fase di realizzazione, che mio fratello Fabrizio Borgia, vescovo di Ferentino, stava facendo preparare per sé, con grande spesa di denaro, e che doveva essere posto nella sua cattedrale. L’opera era ancora nelle mani degli artigiani. Mi accorsi che l’iscrizione, però, era poco adatta; allora gli proposi un altro testo che diceva così: “ Il vescovo di Ferentino Fabrizio Borgia, arrivato a 61 anni della propria vita e a 21 anni del suo episcopato, al clero e al popolo amatissimi, al fine di considerare continuamente la brevità del proprio tempo, che continuamente muore, per essere sempre alla ricerca del viatico, onde giungere alla eternità, e per implorare dai posteri le preghiere di suffragio, nell’anno giubilare 1750 pose per sé ”.
1750.7 Stato di emergenza dei Veliterni per i danni causati dalla guerra – Cappella della famiglia Borgia nella cattedrale di Velletri – Edicola in onore della SS. Trinità a Velletri.
Mi sono avviato verso Velletri il 27 di aprile e ho potuto notare che la patria stava risollevandosi alquanto dalle disgrazie sofferte durante la guerra passata. Molte case erano state restaurate, le vigne e i canneti o riparati o piantati di nuovo, nonostante che gli infelici cittadini e abitanti non fossero stati risarciti degli enormi danni e non avessero percepito nulla, come riparazione alle ruberie commesse dal libertinaggio dei militari; nessuno era stato pagato per quanto aveva dovuto dare, ad uso pubblico, per le imposizioni delle autorità, del sovrano, dei governanti e dei generali, per sopperire alle necessità dell’esercito.
Con gioia ho notato che nella cappella della Visitazione di Maria a santa Elisabetta, che la mia famiglia, da anni, possedeva nella cattedrale di Velletri, l’altare e le colonne con i loro ornamenti, di materiale plastico, con cui erano state costruite, mantenendo la forma originale, erano state rivestite con materiale marmoreo con una spesa sostenuta di 500 scudi di argento, da me presi in prestito l’anno precedente. L’altare fu poi consacrato da Giovanni Carlo Bandi, vescovo suffraganeo di Velletri. Di tale lavoro e del relativo privilegio, concesso da Benedetto XIV, ho voluto che rimanesse la memoria scolpita, in una lapide di marmo, posta all’ingresso della cappella, dal lato del vangelo, in cui era scritto: ALTARE PRIVILEGIATO PERPETUO \ CONCESSO CON BOLLA DI \ BENEDETTO XIV PONTEFICE MASSIMO \ IL PRIMO DICEMBRE 1747 \ PER CELEBRARVI LE MESSE FISSATE PER LEGATO \ O ALTRE IN SUFFRAGIO DEI DEFUNTI DELLA \ LA FAMIGLIA BORGIA \ ONDE AIUTARE GLI ANTENATI \ I CONSANGUINEI E I PARENTI \ E ANCHE PER TUTTI I DISCENDENTI \
Dalla parte dell’epistola: ALTARE MARMOREO \ FATTO ERIGERE \ CONSERVANDO L’ANTICA FORMA \ DA ALESSANDRO BORGIA \ ARCIVESCOVO E PRINCIPE DI FERMO \ FU CONSACRATO DA \ GIOVANNI CARLO BANDI \ VESCOVO SUFFRAGANEO DI VELLETRI \ 30 GENNAIO 1749
Feci anche restaurare la sacra edicola, posta nei pressi della nostra casa di abitazione, che il suo giuspatrono, conte Giovanni Battista Landi, cugino in secondo grado di mio padre, aveva trasferito come diritto alla mia famiglia. Io, ancor giovane, nel 1703 conseguii il titolo di abate di essa, e ancora lo conservo. Ad essa aggiunsi la costruzione di un locale che servisse da sacrestia e accanto ad essa, negli anni scorsi, acquistai altri locali. Per la verità, però, non potendo personalmente interessarmi dei lavori, a causa della brevità del tempo in cui allora rimanevo nella mia patria, ne affidai l’incarico al mio nipote Clemente Erminio, dopo avergli dato il denaro necessario.
1750.8 Solenne processione a Roma nella festa del Corpus Domini e disordini avvenuti.
Avvicinandosi la festa del Corpus Domini, il 26 maggio, ritornai a Roma, dove la festa fu celebrata dallo stesso Benedetto XIV, e, in Vaticano, fu recitata una solenne supplica, con grande maestà e splendore, alla presenza di numerosi vescovi e persone nobili, con una straordinaria partecipazione di popolo. Grandissima fu la pietà di tutti verso Dio, tanta la devozione dello spirito, manifestata da tutti quelli che seguivano il SS. Sacramento dell’Eucaristia come non mai, ai nostri giorni, se ne era vista a Roma. Pertanto io, mentre sfilavo, subito dopo i cardinali e, per primo, tra gli arcivescovi, provavo un’immensa meraviglia per come quella grande moltitudine di persone si comportava. Nessuna cosa appariva disordinata, nessuno strepito, vi regnava un grande silenzio. Si udivano soltanto canti e preghiere. Ringraziavo dentro di me il Signore che il desiderio di Benedetto XIV, nel dovere celebrare queste feste, era di grandissima edificazione per gli abitanti di Roma e per il progresso spirituale dei pellegrini.
Disgraziatamente nei giorni successivi, all’improvviso, scoppiò la protesta a causa del divieto di fare uso delle monete d’oro, dette zecchini, poiché c’erano in giro delle monete che non avevano il giusto peso e perché nel dare loro libero corso, non si era tenuto in conto il loro peso. In quel periodo, a Roma, di nessuna cosa si sentiva la mancanza se non che della veridicità del denaro liquido: difetto del quale non è qui il caso di discutere. In quel giorno, la novità introdotta da quel divieto parve a tutti assolutamente inopportuna, perché creava enormi difficoltà all’attività commerciale, e ciò era dannoso, non soltanto ai romani, ma anche e, soprattutto, agli stranieri, i quali erano venuti per il giubileo e abitavano a Roma. La ribellione da tutti malvista e fastidiosa, preoccupava le persone prudenti e quelle istruite e turbava tutti gli altri e tutto ciò faceva diminuire i sentimenti religiosi, tanto che la bocca delle persone che al mattino pregava cantando le lodi di Dio, si sfogava, a sera, criticando e scagliandosi contro quel sistema di governare. Si possono citare opportunamente le parole del salmo “Quante malvagità ha commesso il nemico nel santuario nel bel mezzo della tua solennità” (salmo 70, 3-4). Certamente nessun uomo prudente potrà negare che, per la libertà di commercio concessa a Roma, era stata messa in circolazione una grande quantità di moneta d’oro con un peso non giusto; ed, a causa della malizia degli uomini che toglievano il peso alle monete, questo tipo di monete fece aumentare, ogni giorno di più, le contestazioni, per cui era del tutto necessario trovare una soluzione; ma, in quel momento, sembrava che non si potesse trovare alcun rimedio. Anche io, dal denaro riscosso dai fornai di Foligno, che compravano il grano della nostra mensa nel Piceno e che io mettevo a disposizione, per aiutare l’erario romano, incappai nelle difficoltà, e, a stento, ne uscii, non senza qualche perdita.
1750.9 L’arcivescovo offre a Benedetto XIV un piccolo dono e saluta a Roma il cardinale Quirini.
Subito dopo la celebrazione della festa del Corpus Domini, Benedetto, come era solito fare in primavera, si ritirò a Castel Gandolfo per dedicarsi operosamente ai suoi studi letterari. Dopo il suo ritorno a Roma, per celebrare la festa degli apostoli Pietro e Paolo, gli offrii, in dono, una riproduzione di dipinti, in una piccola tela racchiusa in una preziosa cornice, nella quale erano raffigurate le immagini che avevo fatto dipingere nell’abside della metropolitana; egli accettò volentieri questo piccolo dono, con gratitudine.
In quegli stessi giorni, soggiornava a Roma il cardinale Angelo Maria Quirini, inviatovi dalla repubblica di Venezia, per trattare la controversia del patriarcato di Aquileia, da lungo tempo in corso tra la Repubblica e la Casa d’Austria. A tale controversia Benedetto XIV cercava di imporre una certa soluzione, cioè che i sudditi della Casa di Austria, ai quali veniva impedito di riconoscere come proprio vescovo il patriarca di Aquileia, eletto dal senato veneto e dimorante a Venezia, ottenessero, come pastore, un vicario apostolico, che reggesse la diocesi soltanto per le questioni spirituali.
Affinché non si sospettasse che tra me e il cardinale Quirini ci fosse ancora della ruggine, a causa della disputa, avuta tra noi per il modo di celebrare le feste dei santi, presi la decisione di fargli una visita di ossequio. Egli mi ricevette molto gentilmente e ci riconfermammo l’antica amicizia.
1750.10 L’arcivescovo compone tutte le controversie esistenti con il capitolo Lateranense – L’erigenda parrocchia nel territorio di Sant’Elpidio a Mare presso l’edicola di Santa Maria Maddalena – Al capitolo lateranense in cambio della chiesa sconsacrata di San Giovanni Battista viene offerto il primo altare dal lato del vangelo nella nuova chiesa da costruire.
Nel frattempo, a Roma, mi occupavo presso il capitolo Lateranense, per ottenere che l’accordo fatto a proposito della chiesa di Santa Maria del Buon Gesù di Montottone e dell’ospedale omonimo fosse confermato dalla Sede Apostolica, cosa che di fatto avvenne. Ho trattato, con gli stessi Lateranensi, dell’istituzione di una nuova parrocchia nel territorio di Sant’Elpidio a Mare con la dote fornita specialmente dalla confraternita detta di Santa Maria della Misericordia, ivi esistente e che si diceva soggetta al capitolo Lateranense; e ne ricevetti il consenso. Quantunque, infatti, io avessi provveduto alla cura delle anime di quella popolazione rurale, con l’istituzione della parrocchia di Santa Maria della Corva, in una zona del territorio, tuttavia in un’altra zona dello stesso territorio, nel villaggio chiamato di Santa Maria Maddalena, popoloso e molto distante dalla cittadina, vi era l’urgente necessità di creare una nuova parrocchia. La confraternita era ricca di proventi e non avrebbe potuto meglio impiegare i suoi beni che in questa pia e necessaria opera.
Ma il capitolo Lateranense aveva anche un’altra vicenda da definire, a proposito della chiesa di San Giovanni Battista nel Porto di Fermo, che si diceva sotto la sua giurisdizione. Questa chiesa, che soffriva per una grave e continua umidità, dopo il provvedimento della sospensione degli altari, era stata ridotta ad usi profani, non indecorosi. Il terreno e l’edificio della chiesa erano uniti alla confraternita del SS. Sacramento. C’era il progetto di venderla, affinché si potesse costruire una nuova chiesa, più ampia e sufficiente alla popolazione, per celebrarvi le sacre funzioni, con la somma ricavata, con i beni della confraternita e con le offerte dei fedeli. I Lateranensi non erano consenzienti su questo progetto, salvo che la configurazione giuridica della nuova chiesa rimanesse identica a quella che aveva avuto l’antica chiesa, per cui venisse considerata costruita in “suolo Lateranense”. Non potevo certo accettare tale proposta. Proposi allora ai Lateranensi che si accontentassero che nella nuova chiesa il primo altare, posto sul lato destro, mantenendo il titolo di San Giovanni Battista, fosse considerato come costruito in suolo lateranense, col pagamento dello stesso annuo canone, antecedentemente versato al capitolo, per la vecchia chiesa.
1750.11 Processo per la causa di canonizzazione di Angela Caterina Borgia.
Dopo concluse le controversie con i Lateranensi, avendo concordato il da fare; mi dedicai alla causa di canonizzazione della serva di Dio, Angela Caterina Borgia, mia sorella, i cui atti del processo, in un volume di mille e più pagine, erano stati trasferiti dalla curia del cardinale vicario, alla congregazione dei sacri Riti. Li lessi, attentamente e interamente, durante il caldo dell’estate, nell’Urbe. Mi sembrò opportuno di produrre altre testimonianze per proseguire la causa e per domandare alla commissione di celebrare il processo, con autorità Apostolica, sperando in un felice esito. Ho consultato gli esperti e poi ho dato l’impegno di seguire la cosa al mio fratello p. Felice di Santa Caterina, carmelitano scalzo, che risiedeva, nel convento di Santa Maria delle Scale, a Roma.
1750.12 Morte di Angelo Guerra pievano di Montolmo.
Angelo Guerra, pievano di San Donato di Montolmo <= Corrdonia>, si addormentò nel Signore, in una buona vecchiaia, se si eccettua l’ultimo anno di vita, durante il quale ha dovuto lottare con una grave malattia. Uomo esimio, è stato sempre assiduo nel compiere il proprio ufficio pastorale in mezzo al suo popolo. La pievania parrocchiale si rese vacante nel mese riservato alla Sede Apostolica ed io scelsi, per diritto di ordinario diocesano, il successore Felice Pasquali, sacerdote del Porto di Fermo. I funzionari della dataria Apostolica decisero immediatamente di imporre, sul beneficio, una pensione di quaranta scudi d’argento. Essendo io a Roma, chiesi una diminuzione della quota, ma non ottenni nulla. Avevo avanzato la richiesta, non perché quella parrocchia non ne potesse reggere il peso, dal momento che essa aveva un provento annuo di trecento scudi, ma affinché il sacerdote potesse continuare a fare ciò che il predecessore, costantemente, aveva compiuto fino alla fine, a favore della chiesa e dei poveri, con generosità.
1750.13 Fra’ Antonio da Lhesa viene designato a vescovo della sua patria.
In quel periodo, avvenne che Antonio da Lhesa, dell’ordine dei frati Minori dell’Osservanza, che era stato mio confessore, e che, poi, in seguito, era diventato, per mio interessamento, ministro provinciale del suo ordine, in Albania, sua patria, per partecipare al capitolo generale del suo ordine, era partito e arrivato a Roma. In tale occasione egli scrisse una relazione sulla condizione della cristianità, in Albania, sotto la dominazione dei Turchi e la presentò al vescovo Nicola Lercari, segretario della sacra congregazione di Propaganda Fide. Per la chiarezza e la precisione entrò nella stima di quel prelato. Nel frattempo morì il vescovo di Lhesa e immediatamente nella mente de mons. Lercari nacque l’idea di proporlo come vescovo della sua patria. La congregazione mi consultò per conoscere il mio parere. Naturalmente espressi il mio giudizio favorevole con ogni raccomandazione, perché era degno dell’amore dei cristiani e, in breve tempo, fu ratificata la scelta. Frattanto fra’ Antonio era già venuto a Fermo per farmi visita e io l’ho avvertito che tornasse subito a Roma, perché era stato creato vescovo di Lhesa. Mi piacque di esprimere, in quell’occasione, il compiacimento del mio animo all’ordine serafico di san Francesco, degno di tutta la considerazione e della gratitudine di tutti i cristiani. Espressi pubblicamente la mia gioia e la mia soddisfazione affinché qualcuno non pensasse che, a causa di qualche errore commesso da qualche frate dello stesso ordine, residente nel convento di Morrovalle, il mio animo fosse avverso nei confronti di tutto l’ordine. Sappiamo, infatti, che non esiste congregazione, per quanto ben istituita e quantunque stimata per l’onestà, che non conti qualche individuo poco onesto.
1750.14 Giuseppe Du Mesvil vescovo di Volterra e la sua infelice storia. Dai ministri dell’imperatore viene indecorosamente accusato e rinchiuso nella rocca di Firenze, viene poi richiesto da Benedetto XIV e rinchiuso nella rocca di Sant’Angelo – Zenobio Savelli duca di Palombaria, prefetto della Rocca di Sant’Angelo – Benedetto XIV invita l’arcivescovo Alessandro Borgia a recarsi a far visita al vescovo di Volterra per persuaderlo a rispettare le disposizioni prese dalla Chiesa nei suoi confronti.
Compiute tutte le prescritte visite giubilari alle basiliche romane, stavo preparando il mio ritorno alla mia città di Fermo, quando Benedetto XIV mi chiese di trattenermi a Roma. Era rinchiuso, in quel periodo, a Roma, nella Rocca di Sant’Angelo, Giuseppe de Mesvil, nobile della Lotaringia, ordinato vescovo di Volterra in Toscana. Veramente infelice era la sorte di questo presule!
Dopo trascorsi gli anni degli studi a Parigi, Giovanni non solo conseguì il grado di dottore, ma fu cooptato come socio alla Sorbona. Venne in Toscana, poiché era stato scelto come canonico della chiesa di Firenze. In realtà egli venne a Firenze più che altro per vivere insieme con suo fratello il quale era stipendiato come uno dei generali dell’esercito dell’imperatore, il quale era anche granduca di Toscana. Concordemente il pontefice Romano e l’imperatore decisero di scegliere il Mesvil come vescovo di Volterra. A Firenze, scoppiò una grave lite tra il vescovo designato Mesvil e il conte di Richecourt, ministro dell’imperatore. Questi in modo indecoroso lo aveva pubblicamente e spesso ammonito di non ungersi troppo frequentemente le mani. Dopo tale lite, accadde che il vescovo eletto, entrato nel palazzo granducale, si lamentò del fatto che la religiosità e la gentilezza del casato del granduca- imperatore non trovavano riscontro né nelle parole, né nei comportamenti del suo ministro. Subito nei confronti del vescovo designato e diretto verso Roma, l’imperatore si dichiarò contrario a che fosse ordinato vescovo di Volterra, poiché gli si era manifestato come uomo dalla mente torbida. A Benedetto però non sembrava giusto di rifiutare l’ordinazione ad un prelato che era già stato pubblicamente preconizzato come vescovo, e anche per difendere la dignità e la libertà della Chiesa nei confronti di chi forse osava opporsi per invidia.
Pertanto Giovanni fu regolarmente ordinato vescovo. I rappresentanti dell’imperatore a Roma, immediatamente, dichiararono che non era consentito al neo vescovo di entrare a Volterra. Del resto il papa non consentiva che i vescovi lasciassero Roma, se prima non ne avessero ottenuto da lui il permesso. Questa era la norma giuridica valida per tutti i vescovi che si recavano a Roma nella curia. Per di più mons. Giuseppe De Mesvil, da parte sua, aveva rifiutato di scrivere una lettera, con espressioni gentili, e nemmeno volle scrivere per chiedere scusa al ministro offeso (come richiedeva l’imperatore), nonostante che papa Benedetto lo avesse consigliato di farlo. Ebbene egli, di propria iniziativa, improvvisamente, partì da Roma per recarsi a Volterra a prendere possesso del suo vescovato. Nella cattedrale tenne un discorso al popolo per raccontare sufficientemente ciò che era avvenuto. Pochi gli ascoltatori. Il discorso però non piacque affatto ai presenti, molti dei quali uscirono dalla chiesa anche perché il suo improvviso e imprevisto arrivo a Volterra destava qualche sospetto.
In seguito egli si recò a Firenze dove pensava, per dovere di urbanità, di comporre personalmente la controversia con il ministro dell’imperatore, senza usare alcun scritto. Mentre, alla porta della città gli esattori stavano riscuotendo le solite imposte, si accese un’aspra discussione. Il vescovo fu trattato troppo indegnamente, fu arrestato e condotto in prigione nella rocca della città. Benedetto XIV dovette impegnarsi non poco per strapparlo dalle mani del ministro imperiale. Peraltro l’enormità del fatto sembrava richiedere severi provvedimenti pubblici contro coloro che, con violenza, avevano messo le mani sul vescovo, portandolo nella rocca.
Il vescovo fu poi portato a Roma con dimostrazioni di onore, tanto che al confine della giurisdizione pontificia fu accolto dal governatore di Viterbo mons. Angelo Loccatelli che poi lo accompagnò fino alla Rocca di Sant’Angelo, a Roma. Gli furono offerte camere dignitose e gli fu data la facoltà di poter girare liberamente per tutta la Rocca di Sant’Angelo, senza potere però uscire dalle mura del castello. Il vescovo era rimasto colpito dagli avvenimenti accaduti a Firenze ed era molto turbato per il fatto che, mentre sembrava che gli fosse restituita la libertà, di fatto l’aveva ottenuta per riscatto.
Nei primi mesi, allettato dalla gentilezza e dai riguardi con cui Zenobio Savelli, duca di Palombara e prefetto della rocca, lo trattava, sopportò alquanto la situazione. Ben presto, però, per la lunghezza della detenzione, si era innervosito ed era anche infastidito dal fatto che si era accorto di essere accompagnato dal duca che riceveva maggiori onori di lui dal presbitero nella celebrazione della Messa. Per ciò, egli cadde in uno stato di profonda depressione di animo. Benedetto XIV allora gli assegnò un altro luogo adatto sia per la celebrazione della Messa sia per ascoltarla. Mesvil, come atto di protesta, si rifiutò di celebrare la Messa, neppure in occasione delle festività della Pasqua. Ciò addolorò moltissimo il papa Benedetto che gli mandò allora p. Leonardo da Porto Maurizio dell’ordine dei Minori di san Francesco, chiamati Riformati, fervente e celebre predicatore della parola di Dio che era stato dal papa chiamato a Roma per predicare le sante missioni. Gli mandò anche il p. Michele Angelo Franceschi da Reggio Emilia, cappuccino, predicatore Apostolico. Il primo ottenne ben poco, il secondo nulla. Egli in pratica rifiutò ambedue, pretendendo piuttosto che Benedetto gli mandasse un vescovo. Scrisse anche una lettera al pontefice con la quale diceva che era pronto ad obbedirgli, purché fosse stato liberato da quelle angustie, e chiedeva che gli fosse inviato qualcuno con il quale potesse trattare con fiducia.
A questo punto al papa venne l’idea di servirsi della mia opera. Benedetto XIV mi diede appuntamento per l’ora successiva al ritorno dalla sua passeggiata pomeridiana. Al momento stabilito, egli mi ricevette e mi ordinò di sedere su uno sgabello accanto a sé. Cominciò col raccontarmi con ordine le vicende del vescovo di Volterra alla maniera di come sapeva fare lui, con intelligenza, spirito e con eloquenza. All’inizio ascoltai in silenzio, pensando dove il suo discorso volesse arrivare. Poi mi presentò la lettera dello stesso vescovo e aggiunse di aver scelto non un qualsiasi vescovo, ma un arcivescovo e per di più quello di Fermo, affinché mi recassi da questo vescovo per assicurarlo della sua benevolenza e che il papa avrebbe cercato di rimuovere ogni ostacolo per garantirgli la piena libertà. Desiderava però che il vescovo rimuovesse lo scandalo che proveniva dal fatto di non aver rispettato il precetto pasquale e dal fatto di non partecipare alla Messa nei giorni festivi. Mi consegnò anche la lettera del vescovo per mezzo della quale Mesvil poteva essere sicuro che era proprio il papa a mandarmi da lui.
1750.15 Benedetto XIV ottiene dall’imperatore il consenso a che il vescovo di Volterra lasci la Rocca di S. Angelo – Il vescovo di Volterra si rifiuta però di accettare le disposizioni di papa Benedetto.
Dopo aver salutato il prefetto della Rocca, per l’addietro legato a me da amicizia, dal suo ufficiale sono stato accompagnato dal vescovo che ho trovato disteso sul letto. Gli parlai rivelandogli la benigna volontà del pontefice, gli diedi la speranza per la sua situazione e gli offrii il mio aiuto garantendogli la mia continua vicinanza e assicurandolo che la sua causa stava a cuore a me e a tutto l’ordine episcopale. Egli mi accolse con gentilezza e ascoltò quanto gli stavo dicendo, ma lui temeva che, una volta che io fossi ritornato nella mia diocesi, la situazione, a Roma, non avrebbe fatto alcun progresso. Cercai di togliergli questa preoccupazione, assicurandolo che non sarei partito da Roma prima che non avesse ottenuto la liberazione. Gli rivelai anche il desiderio del pontefice che egli adempisse i precetti della Chiesa. Poi, vedendo che si stava turbando e che voleva rinviare tutto a dopo riacquistato lo stato di libertà, io, per non correre il rischio di un insuccesso, smisi di insistere.
Riferii tutto a Benedetto che sembrava intenzionato a restituirgli la liberta, non però contro il parere dell’imperatore. Pertanto raccomandò molto e comunicò la sua intenzione al rappresentante imperiale a Roma, che allora era Cristoforo Migati uditore di Rota. Ne scrisse al nunzio apostolico residente in Austria, a Vienna, affinché ottenesse dall’imperatore che non si opponesse alla liberazione del vescovo. Quantunque, sia a Roma che a Vienna, dai funzionari fosse sollecitata la soluzione della vicenda, ciò nondimeno e per la distanza dei luoghi e per il vizio del rinviare che era praticato nella cancelleria imperiale, si stava verificando un grave ritardo. Intanto, mi recavo spesso a trovare il vescovo di Volterra, cercavo di farlo essere di buon animo e facevo in modo che non cadesse nel baratro della disperazione, come accadeva alcune volte. Le cose progredivano in modo positivo, tanto che il vescovo mi consegnò una lettera per il pontefice, piena di espressioni di gratitudine e di ossequio, alla quale Benedetto XIV rispose con grande benignità, assicurandolo che egli avrebbe fatto del tutto per rimuovere ogni ostacolo, allo scopo di poter esaudire tutti i suoi desideri.
Il prefetto della Rocca aveva messo davanti alla stanza, dove era il vescovo, alcuni soldati. Io avvertivo che tale fatto dispiaceva al vescovo, ottenni da Benedetto che fossero tolti. Spesso ricordavo al vescovo che i precetti della Chiesa dovevano essere adempiuti e mi offrivo di celebrare la Messa nella cappella della Rocca se egli aveva piacere di parteciparvi. Queste raccomandazioni non servivano a nulla; egli infatti era deciso di non fare nulla se non lo avessero fatto uscire dalla Rocca nella quale era rinchiuso, in disprezzo della dignità dell’ordine episcopale. L’imperatore, conosciuta la volontà del papa, rispose prontamente che avrebbe consentito a Benedetto XIV ciò che egli desiderava per il vescovo. Ne fui contentissimo e subito dissi al vescovo che si preparasse ad uscire dalla Rocca. Supponevo che ormai la vicenda del vescovo fosse conclusa. Seppi invece la soluzione del problema era ben più difficile a causa del grave turbamento della mente di mons. De Mesvil. Cominciò egli ad avanzare domande: a quali condizioni sarebbe uscito dalla Rocca, se come reo o come innocente; con quali rendite sicure veniva garantito il suo sostentamento; con quale compito egli sarebbe entrato nell’ambiente curiale romano. Ho pensato che tali attese gli fossero state suggerite da Loccatelli, quando lo aveva accompagnato. Da parte mia lo assicuravo che sarebbe uscito come innocente e che non gli sarebbero venuti a mancare i mezzi per vivere dignitosamente, per quanto poi riguardava il suo ruolo, una volta uscito dalla Rocca, questo lo avrebbe potuto trattare facilmente con il pontefice.
Il vescovo, però, su queste prospettive, era ancora turbato e preso da forti dubbi. Tuttavia non ne parlavo con Benedetto. Il papa, allorché una volta gli chiesi che al vescovo fosse messa a disposizione una carrozza, non prese a bene la mia richiesta. Convocò una riunione alla quale partecipammo il cardinale segretario di stato, il tesoriere, Caracciolo da Santobono commissario del mare, il soprintendente della Rocca, l’uditore del papa ed io. Fu presa la decisione di concedere al vescovo di andare fuori dalla Rocca per fare qualche uscita e addirittura di andare a risiedere in un qualche monastero di Roma. In proposito, si suggeriva il monastero dei frati Eremitani Scalzi di Sant’Agostino in via del Corso, dove una volta Mesvil era stato, nel tempo della sua ordinazione episcopale. Unica condizione era, però, che non potesse allontanarsi da Roma per più di cinque miglia, senza prima averne ottenuto il permesso del papa. L’impegno di comunicare questo precetto fu affidato a Mocci, luogotenente dell’uditore di Camera, in materia criminale. Ciò non mi piacque molto perché temevo che l’animo del vescovo ne sarebbe rimasto maggiormente turbato, anche se era stato dato incarico a me ed anche a Caracciolo, di essere presenti quando Mocci avesse mandato i suoi per fare l’esecuzione. Benedetto XIV aveva tutte le ragioni per assumere tale decisione, poiché il vescovo, nell’altra volta, era partito di nascosto da Roma, per recarsi a Volterra, e l’imperatore, da parte sua, aveva avvertito il pontefice che, se il vescovo fosse ritornato in Toscana, lo avrebbe fatto arrestare.
Ciò che temevo si verificò. Il 2 settembre io e il Mocci entrammo nella sua camera; il vescovo, che in genere era disteso sul letto, appena ci vide, subito rimase turbato; respinse il precetto, si scagliò contro di me e si mise a gridare che egli non avrebbe mai accettato la disposizione del pontefice, se direttamente dal trono papale non gli fosse consegnata per mano di vescovi.
1750.16 Pentimento del vescovo – Di nuovo respinge il precetto e mostra chiari segni di pazzia.
In tal modo la cosa si interruppe; lì per lì. In un momento di lucidità, tuttavia, mi si avvicinò e piangendo si pentì di quello che era accaduto e mi chiese di andare dal pontefice, a suo nome, assicurandolo del suo pentimento e promettendo che avrebbe accettato il precetto. Lo esortai di mantenersi nella decisione presa e subito mi recai dal papa e, ottenuto il suo perdono, lo stesso giorno, insieme con Caracciolo e Mocci, mi recai da lui, ma tutto fu inutile. Lo trovammo steso sul letto, ad occhi chiusi e con la faccia rivolta dall’altra parte e benché io andassi cercando di richiamarlo all’accettazione della volontà del papa, non ne volle sapere e così non si poté procedere alla notificazione ufficiale della disposizione.
Da questo improvviso cambiamento si capì che le sue condizioni fisiche e mentali si erano aggravate e non si trattava di cosa leggera. Nei giorni seguenti il vescovo non dormiva e si rifiutava di mangiare e cominciò a manifestare chiari segni di pazzia. Perciò cominciai a chiedere che si mettessero in atto le necessarie cure e che si richiamasse da Firenze il fratello del vescovo affinché, col suo aiuto, si tentasse qualche rimedio più utile. Avevo infatti saputo dal familiare colloquio con il vescovo che dopo la venuta in Italia, egli aveva grandi dispiaceri per il fatto che il fratello carnale, gli era lontano.
1750.17 L’arcivescovo da Roma si avvia verso Nocera, poi raggiunge Gualdo dove si interessa del restauro della chiesa del monastero di san Benedetto a lui affidata in commenda e assegna a tal fine tutti i proventi del monastero.
Ottenuta da Benedetto XIV la licenza di tornare in diocesi, dopo avergli raccomandato la causa di beatificazione del venerabile Antonio Grassi, preposito della congregazione dell’Oratorio fermano di san Filippo Neri, il 22 settembre, sono partito da Roma e mi sono fermato a Nocera Umbra, ospite, presso il vescovo, mio successore, Giovanni Battista Chiappé. Per tre volte mi sono recato ai bagni, grato di poter rivedere l’antica mia sede ed i figli spirituali e gli amici, felice di notare che dopo 26 anni da quando ero partito, anche essi avevano un grande piacere di rivedermi. Oh vera degnazione e meravigliosa bontà di Dio verso di me! Ringraziavo anche il vescovo per essere stato essere ospitato da lui, piuttosto che da altri. Dopo qualche giorno, ho lasciato Nocera per giungere a Gualdo; lì volevo visitare il monastero a me affidato, in commenda a vita, intitolato a san Benedetto e vedere la sorgente di acqua salubre da poco scoperta, vicino al terreno del monastero che era chiamato Tadino, derivante dalla città di Tadino, distrutta dai Goti, che sorgeva nelle vicinanze. Chiesi notizie precise di quell’acqua e ne ho informato Benedetto XIV, come mi aveva chiesto.
Ordinai di restaurare prima la facciata in pietra del monastero, rovinata in parte dal tempo, e molto dal terremoto; decisi anche di far ripulire e abbellire l’interno della chiesa, utilizzando i proventi dell’abbazia, ai quali decisi di rinunciare e che dovevano essere usati per sistemare completamente tutto il fabbricato, come ringraziamento di tutto quanto concesso a me dalla bontà di Dio. Presi tale decisione molto volentieri perché, venuto a mancare il sacerdote Giuseppe Tordini, tra i cappellani dell’abbazia, ormai avanzato negli anni, che aveva amministrato a lungo fedelmente le rendite abbaziali, l’avevo sostituito con Stefano Coppari che, seppur laico, era un solerte giovane ed esperto in materia di amministrazione.
1750.18 Restauro di Santa Croce – Completamento della casa a Francavilla – L’arcivescovo si interessa della vicenda della piazza dei maiali e del restauro delle mura della città.
Sistemate le cose dell’abbazia, il 10 ottobre lasciai Gualdo e giunsi a Fabriano dove fui ospitato nel monastero della congregazione dei Silvestrini nella quale più volte avevo presieduto il capitolo generale dei monaci. Il 12 ottobre ero a San Claudio e subito mi sono recato a Santa Croce per verificare i lavori di restauro della chiesa e la situazione degli altri edifici costruiti durante la mia assenza. Notai che erano stati commessi molti errori. Mi recai poi a Francavilla, dove ho notato che la casa da me acquistata era ormai terminata; la spesa fatta per tali lavori era stata di 300 scudi di argento ed erano stati felicemente spesi.
Tornai a Fermo, dove, per incarico della Congregazione Fermana, ho cominciato ad interessarmi della Piazza dei maiali, che qui chiamano Monterone, sulla quale era nata una controversia tra il Comune e il conte Nicola Sabbioni, che lo rivendicava a sé e per la quale, peraltro, vi erano controversie anche con altri soggetti. Io però tendevo a che la vicenda si potesse risolvere con un concordato e in modo utile per la comunità, per questo ero del parere che, ciò che era necessario all’uso pubblico, non potesse essere ceduto ai privati. Era necessario temporeggiare. Dalla medesima Congregazione mi era stato assegnato anche l’incarico di provvedere alla riparazione delle mura cittadine. Ho cominciato a realizzare tale opera nell’anno successivo.
1750.19 Riccardo Borgia viene a Fermo per seguire gli studi.
Nel mese di dicembre, il neo-vescovo di Lhesa (di cui abbiamo detto sopra) venne a Fermo e condusse con sé Riccardo Borgia, mio nipote e figlio di mio fratello Camillo, che aveva quindici anni. Egli era stato per sei anni a Ferentino, da mio fratello vescovo, sempre per motivi di formazione e di studi. Ora, ricevuta la tonsura, era venuto presso di me per studiare le lettere nella nostra Università degli studi. Questo infatti era il compito ereditario del vescovo nei confronti dei propri nipoti: educarli nel timore del Signore, negli studi letterarie attraverso questi.
1750.20 Le sacre missioni nella diocesi.
Durante l’anno, la diocesi è stata nutrita <spiritualmente> con diverse sacre missioni: nelle zone di montagna dal monaco silvestrino Felice, insieme con altri sacerdoti diocesani; in altri luoghi dai sacerdoti della congregazione della Missione. Padre Gerardo di santa Maria, nativo di Velletri e mio concittadino, carmelitano scalzo, che in occasione di una predicazione quaresimale, dal suo convento di Perugia, era venuto nella diocesi fermana, condusse altre missioni. In questo stesso anno, il canonico Filippo Gaggi, dopo un decennale lodevole servizio, svolto nella chiesa metropolitana, ottenne che gli fosse dato un coadiutore nel canonicato di questa chiesa, con speranza di futura successione. Gli fu dato come coadiutore, con il mio consenso, il sacerdote Filippo Raccamadoro, prete e nobile fermano, che, per molti anni, era vissuto nella compagnia di Gesù.
Morì il sacerdote Saverio Morgantini, prebendato della metropolitana, non molto istruito, ma pio ed onesto che aveva fatto costruire e aveva assegnato la dote alla cappella di santa Maria e san Luigi Gonzaga che la gente chiamava la Madonnetta di Morgantini, lungo le mura della città sul lato meridionale. Legalmente, Filippo Petrarca ottenne la nomina, come suo successore in questa prebenda.
1750.21 Sistemazione di diversi edifici religiosi nella città di Fermo.
Era stato restaurato l’angolo deteriorato della torre della metropolitana nella parte boreale. I preti della congregazione di san Filippo Neri stavano proseguendo la costruzione del nuovo edificio della loro casa, con grande dispendio. I sacerdoti della compagnia di Gesù nel loro orto, dove anticamente sorgeva il priorato del SS. Salvatore, avevano iniziato la costruzione del nuovo collegio. Le monache di Santa Marta, abbattuti alcuni piccoli fabbricati, stavano allargando il loro orto. Le monache di santa Chiara stavano rinnovando il loro parlatorio.
1750.22 L’arcivescovo si astiene dalle risposte della visita ad limina.
Verso la fine dell’anno ho mandato la consueta relazione, non fatta prima, della visita alla Sede Apostolica, riguardo alla situazione della diocesi, ma senza fare quesiti. Ho constatato spesso che le cose che vengono domandate, più che essere chiarite, vengono eluse.
1750.23 L’eredità di Marefoschi viene assegnata al seminario e al monastero da costruire.
E’ stata ripresa la causa dell’eredità di Pietro Antonio Marefoschi di Monte Santo, di cui ho parlato specialmente alla fine della cronaca dell’anno 1749. Il 21 dicembre, nella consueta congregazione dei giudici, la questione “super immissione in specie” (cioè chi dovesse entrare nell’eredità), veniva decisa, a favore del seminario dei chierici e del monastero delle monache, che dovevano avere l’erezione del loro luogo.
[1] La complicata vicenda descritta dal Borgia fa conoscere la confusione e l’incertezza che regnava nell’assetto burocratico dello Stato della Chiesa particolarmente sul piano della gestione della potestà giurisdizionale in materia di giustizia amministrativa.
[2] L’Arcivescovo qui affronta alcune situazioni complicate e delicate. Una questione si presenta analoga a quella della concessione di benefici semplici, cioè senza cura delle anime, da parte della Dataria Apostolica, affrontata precedentemente dal Borgia. C’era anche la frequentissima prassi di proporre dei ricorsi contro le decisioni prese dal vescovo, specialmente in materia di moralità e di disciplina ecclesiastica con lo scopo di bloccare subito la decisione vescovile (ricorso in sospensivo). Tutto ciò era stato reso possibile, anzi facile, per il fenomeno di poter avere a Roma l’amico dell’amico che poteva determinare una sentenza di sospensione del provvedimento vescovile con la scusa che poi ci sarebbe stato (Dio sa quando) il processo sul merito della vicenda. L’arcivescovo A. Borgia, con un giudizio molto grave e severo, espresso chiaramente giudicava giusti, ma inefficaci i rimedi proposti dal papa con la costituzione del 1742. Secondo l’arcivescovo, era migliore la decisione presa da Benedetto XIII con la istituzione della figura del Promotore della Fede, che poi era stato lasciato improvvisamente cadere. Ma il Borgia lo rimette in auge nella diocesi di Fermo.
[3] La tradizione musicale nella Chiesa di Fermo è documentata dal sec. XI ed è rilevantissima; si pensi che un trentennio dopo il Borgia sarebbe stato presente a Fermo come organista e direttore della Schola cantorum della metropolitana il celebre compositore Giuseppe Giordani, detto il Giordaniello. Tra gli studi pubblicati , quelli dl prof. Ugo Gironacci. Cfr. UGO GIRONACCI, Il fondo musicale dell’Archivio Capitolare della Chiesa Metropolitana di Fermo, Fermo 1985, pp. 47-75, mentre egli prosegue l’edizione dei testi musicali del Giordaniello.
[4] Si viene a conoscere l’ampliamento borgiano degli edifici.
[5] Il Catalani nel suo libro De Ecclesia Firmana (ediz. 2012 p.283) non ammette questa notizia completamente falsa della presenza a Fermo di Enea Silvio Piccolomini, come amministratore Apostolico della diocesi dal 1456 al 1458. Si pensa allo stemma del cardinale Todeschini Piccolomini, che fu papa, arcivescovo di Siena che resse effettivamente come Amministratore la diocesi Fermana alla fine del secolo XV dal 1483 al 1503 (poi fu Pio III).