BORGIA Alessandro Cronaca Fermana anni 1747 e 1748 traduzione di TASSI Emilio

ANNO 1747

1747.1    Il cardinale Angelo Maria Quirini richiede all’arcivescovo informazioni sul suo indulto   per la riduzione delle feste – L’arcivescovo difende l’indulto.

La pubblicazione, nell’anno precedente, dell’indulto delle feste era giunto in mano a moltissimi, sia a Roma che in Italia. L’abate Gaspare Ruggia, che era il mio procuratore a Roma e curava i miei interessi, così come era procuratore e gestiva gli interessi del cardinale Angelo Maria Quirini, bibliotecario di santa Romana Chiesa e vescovo di Brescia, ricevette da me alcune copie dell’indulto e ne dette una al cardinale Quirini, che forse allora si trovava a Roma. Il Ruggia glielo fece avere per la ragione che sapeva che il cardinale mi era amico e legato a me da familiarità al punto da essere stato, altra volta, mio ospite a Nocera e a Velletri. Quirini tuttavia aveva già formulato dentro di sé un giudizio negativo sulla questione della diminuzione delle feste dei santi, senza lavori, allorché Benedetto XIV gli aveva chiesto il suo parere.

Egli si riteneva offeso perché il sommo pontefice non gli aveva concesso la diocesi di Padova e perché, con una sua nuova costituzione Apostolica, aveva tolto le distribuzioni del sacro collegio, tratte dalla spartizione dei proventi ricavati dall’attività della sacra Rota, negandole ai cardinali vescovi che risiedevano nelle loro sedi episcopali, anche se si recavano a Roma due volte all’anno e per breve tempo, come succedeva al Quirini.

In un suo viaggio di ritorno da Roma a Brescia, egli aveva letto e riflettuto sul testo del mio indulto e si era convinto che esso era gravemente sbagliato. Mi inviò allora una lettera scritta, di sua mano, con le sue osservazioni e con espressioni cortesi. In seguito rivolse a me un testo pubblicato a stampa nel quale criticava severamente il testo del mio indulto. Li ricevetti entrambi il 4 gennaio, ma non ero stato in grado di fargli pervenire la mia risposta con il successivo corriere perché impedito dalla festa dell’Epifania e anche perché la complessità e la serietà della materia mi richiedeva un’adeguata riflessione per decidere. Gli risposi però il 13 di gennaio con una lunga lettera scritta di mio pugno. In essa, prima di tutto, lo ringraziavo dei saluti e degli ossequi che mi aveva espressi , poi aggiungevo molte altre mie considerazioni sulle osservazioni critiche da lui formulate e scrittemi a mano, contro l’indulto da me promulgato, infine lo pregavo di non stamparla. Se lo avesse fatto, avrebbe costretto anche me a usare la stampa, affinché gli studiosi e specialmente i miei vescovi comprovinciali non fossero indotti in errore a causa della sua autorevolezza di cardinale e delle sue dichiarazioni. Quirini, però, adducendo come pretesto il mio ritardo nel rispondere, prima ancora di ricevere la mia risposta, mi inviò un’altra sua lettera, data direttamente alle stampe, nella quale attaccava ancora più violentemente il mio indulto. Egli inoltre andava diffondendo sia in Italia che fuori, ogni cosa scritta che rivolgeva a me.

Ero convinto di non poter fare a meno di rispondere con un mio testo dato alle stampe. Prima ho voluto rivolgermi al cardinale Valenti, il primo e più importante collaboratore del sommo pontefice, ma egli tardava a rispondermi. Finalmente mi inviò la sua risposta, consigliandomi che era opportuno che mi rivolgessi direttamente al papa. Nel contempo, il cardinale Quirini, mediante il secondo intervento dato alle stampe, mi chiedeva insistentemente una risposta. A questo punto l’ampia seconda risposta, che gli avevo mandata manoscritta, l’ho pubblicata a stampa.

Nel suo scritto il cardinale elencava e sviluppava ben nove argomentazioni critiche contro il mio indulto. Innanzitutto egli premetteva che, prima di proporre qualsiasi innovazione in merito alla questione della diminuzione delle feste dei santi, era necessario far precedere una lunga riflessione. Risposi alle singole sue osservazioni critiche e sinceramente non ho dovuto lavorare molto per rintuzzare ogni sua osservazione contraria al mio indulto. Tutto questo testo fu redatto in lingua italiana e in modo amichevole. Egli invece subito dopo aveva fatto stampare a Vienna il testo in latino, contenente le sue osservazioni critiche, con l’evidente scopo di diffondere in varie nazioni la questione agitata per mettere in guardia gli altri vescovi e ammonirli di non procedere a decidere qualcosa di simile a ciò che avevo fatto io. Pertanto ho sentito il bisogno e il dovere di tradurre in latino anche le mie considerazioni, in difesa dell’indulto, in risposta ai suoi scritti, e li feci dare alle stampe a Lucerna in Svizzera.

La mia proposta sulla riduzione delle feste fu accettata e approvata dalla maggior parte dei vescovi fuori d’Italia. In Italia alcuni la approvavano, ma la maggior parte la criticavano. Benedetto XIV, da parte sua, accettava, pubblicamente, la mia tesi; sapeva, infatti, che dietro il mio nome si nascondeva il problema della salvaguardia della sua autorità, proprio perché il mio indulto era nato, si era diffuso ed era stato accettato grazie a lui. Molti famosi studiosi comunque erano a favore del mio parere, tra tutti gli altri, in particolare, il celebre Ludovico Antonio Muratori. Egli approvava e lodava la mia tesi in un libretto intitolato “Sulla retta devozione dei cristiani”. Anche molti cardinali e vescovi si dichiaravano d’accordo con me, in particolare Ottavio Ringhieri, vescovo di Assisi, che in una pubblicazione difendeva la necessità della dispensa da certi lavori nei giorni delle feste dei santi e chiedeva nel contempo al papa di concedergli la facoltà di emanare un indulto identico al mio per la sua diocesi.

Comunque coloro che non si dichiaravano contrari, riconoscevano che il cardinale Quirini aveva usato un metodo  aspro e maniere audaci, mentre di me affermavano che la mia difesa era moderata e che gli argomenti da me addotti erano seri.

1747.2    Il cardinale Nereo Corsini esprime il suo parere dicendo che dalla riduzione                  bisognerebbe escludere le feste di san Giovanni Battista e di san Giovanni apostolo;            dopo ascoltata la risposta dell’arcivescovo si convince.

Il cardinale Nereo Corsini non approvava che nelle feste della natività di san Giovanni, precursore del Signore, e dell’altro san Giovanni, apostolo ed evangelista, e nei tre giorni che seguono il Natale, fosse stato soppresso l’obbligo di astenersi dai lavori occupazionali. Diceva a proposito del precursore che lo stesso Vangelo affermava che non era mai nato un uomo più grande di lui, inoltre dell’apostolo san Giovanni raccontava che egli aveva posato il capo sul petto di Gesù e che era il prediletto tra gli altri discepoli, pertanto per questi santi si doveva fare una festa piena. Parimenti, come i tre giorni che seguono la festa di Pasqua, anche quelli che seguono il Natale, dovevano essere considerati festivi con l’obbligo di astenersi dai lavori occupazionali. Egli non me lo scrisse privatamente, ma si espresse per dovere impostogli dal suo ufficio, in quanto era arciprete della basilica di San Giovanni in Laterano, che porta il titolo dei due santi che hanno il nome di Giovanni, uno precursore, l’altro apostolo.

Io gli rispondevo che volutamente avevo affermato che bisognava separare bene le festività in cui si celebrano i misteri degli eventi della nostra religione, considerandole diverse dalle feste dei santi. I criteri facevano distinzione anche tra le feste dei diversi santi. Era prevista, infatti, l’eccezione per l’Assunzione della beata Vergine Maria perché è lei l’unica creatura a cui si deve il culto di iperdulia ed è la titolare della nostra chiesa metropolitana. Si era inoltre fatta eccezione per il giorno della venuta della santa Casa <di Nazareth> nella nostra provincia Picena perché rappresentava per noi un singolare dono; avevamo anche fatto eccezione per la festa dei santi apostoli Pietro e Paolo perché per loro merito era giunta a noi la luce del Vangelo e infine per la festa di Tutti i Santi perché avessimo la possibilità di esprimere il culto a tutti loro insieme, con l’astensione dai lavori occupazionali.

Nel caso della festa della natività di Gesù, era necessario celebrare la festività in un solo giorno dell’anno da parte della Chiesa, cioè nel giorno in cui è accaduto il fatto della sua nascita. Per quanto invece riguardava la Pasqua e la Pentecoste si sapeva bene che in esse sono ricordati eventi e misteri, che sono vari, tra loro diversi, come giustamente osserva Agostino nella lettera 119 indirizzata a Gennaro. Per questo a Pasqua e a Pentecoste il significato e la ricchezza delle solennità richiedevano di continuare le celebrazioni ecclesiali in diversi giorni. Ciò non avveniva invece nel Natale del Signore; per questo se solennizzavamo la festa nei giorni che seguono il 25 dicembre, ciò non lo facevamo per ricordare la nascita di Gesù, ma per celebrare la festa di santo Stefano protomartire, poi di san Giovanni evangelista e anche quella dei Santi Innocenti.

Il cardinale Corsini, quindi, convinto da queste mie considerazioni e da altri argomenti del mio indulto, facilmente, si acquietò. Egli, infatti, era intervenuto e mi aveva interpellato, non spinto da un pregiudizio intellettuale, ma dal desiderio di ricercare la verità e dalla preoccupazione di salvaguardare il culto dei due santi Giovanni nella sua basilica. Egli quindi in una nuova lettera inviatami, volle darmi la testimonianza di stima, aggiungendo il ringraziamento per avergli fornito spiegazioni ampie e convincenti che lo avevano pienamente soddisfatto.

1747.3   Conferma delle indulgenze concesse per la preghiera mentale e per la meditazione  – L’arcivescovo scrive un’istruzione sul metodo per la preghiera mentale e per  la meditazione.

Marzo era stato un mese pieno di neve. Ne avevo approfittato per scrivere un’istruzione sulla utilità della pratica della preghiera mentale, avevo invitato ad utilizzare le moltissime indulgenze anche a modo di suffragio per i defunti, e la divulgai in tutte le località della diocesi, inviandola ai parroci e ai rettori di chiese.  L’occasione mi era stata offerta dal fatto che Benedetto XIV aveva concesso numerose indulgenze, applicabili anche ai defunti, a tutti coloro che insegnavano, che apprendevano e che praticavano l’utilissimo e prezioso metodo di preghiera mentale e di meditazione che anch’io volevo che fosse diffuso.  Questa istruzione, inviata a tutte le parrocchie della diocesi, tendeva a stimolare i parroci e i rettori delle chiese affinché curassero non solo di istruire i fedeli, ma di esortarli a praticarla utilmente, sia insieme nelle chiese, sia nelle abitazioni private con la propria famiglia.

Anche nel passato ho cercato di raccomandare questo tipo di preghiera e questa meditazione tramite i predicatori; inoltre proprio nel mio indulto sulle feste era contenuta una particolare raccomandazione ai parroci e ai sacerdoti perché insistessero con il popolo nei giorni festivi su questi momenti della meditazione e della preghiera e spingessero a praticarle. E questi miei opportuni moniti per lucrare le indulgenze erano stati confermati da quanto il papa aveva concesso.

1747.4    Francesco Terissi ispettore delle frodi nel commercio del tabacco – Suoi abusi commessi a Civitanova – Nicola Antonio Porfiri canonico di Morrovalle viene ucciso dai sicari   con un sacrilego e orribile agguato – La preoccupazione della riscossione delle tasse

                  non si deve anteporre al rispetto della sacra immunità – L’immunità degli ospedali.

Mentre accadevano queste cose, passava il mese e, il 2 aprile, si era celebrata la Pasqua. Ecco allora arrivato da Roma nella nostra provincia, Francesco Terissi ispettore, che chiamano commissario per le frodi fiscali nel commercio del tabacco. Egli con i suoi metodi, infastidì non poco la nostra diocesi. Senza inviare alcun avviso e senza esibire alcun documento attestante il suo incarico, come era necessario che facesse qualsiasi commissario, improvvisamente aveva inviato le sue guardie a Civitanova, poiché nella costa di tale località c’era la pessima fama che si commettessero reati fiscali. Allora fece arrestare alcune persone ecclesiastiche e fece sequestrare gli incaricati delle case della chiesa collegiata, al mattino della domenica in Albis, per cui avvenne che la principale chiesa del paese non poté essere aperta alla gente per molta parte di quel giorno, e non fu possibile celebrarvi i divini uffici, non senza incomodo, con molte lamentele degli abitanti che, in quel giorno, si recarono numerosi per ricevere i sacramenti pasquali.

Mi accingevo a punire simile abuso, con la pena della scomunica, però, lo stesso giorno, mi giunse la lettera del cardinale primo ministro del papa. In questa lettera egli raccomandava a me quel commissario affinché potesse svolgere il suo compito nella mia diocesi, anche nei confronti dei sacri ministri. Decisi quindi di soprassedere e di riferire il tutto al cardinale. Chiesi però al commissario di non prendere ulteriormente alcuna iniziativa del genere, e di rimettere in libertà gli arrestati, cosa che egli fece. Dopo poco però, giunse una lettera da Roma con la quale si permetteva a lui di proseguire nel proprio mandato e a me si rivolgeva la raccomandazione di non ostacolarlo. A causa di tale lettera si diffuse nella diocesi una grande paura, specialmente perché il commissario, che aveva fissato a Civitanova la sua residenza, disponeva di una numerosa squadra di guardie che potevano irrompere in qualunque casa, anche in ore inconsuete, col pretesto di scovare eventuali frodi fiscali, e non era consigliabile opporsi a loro.

Accadde poi che il commissario aveva esonerato alcuni dei suoi ispettori che nei loro comportamenti, avevano usato insolenze e modi eccessivamente violenti. Costoro subito si coalizzarono e decisero di depredare, di propria iniziativa, tutte le case private che potevano. Difatti entrarono insieme di notte, a Morrovalle, nella casa della nobile famiglia Porfiri, nella quale allora si trovava presente soltanto Nicola Antonio Porfiri, sacerdote e canonico della collegiata del luogo, debole di salute, ma stimato, di onesta condotta e assiduo nel ministero del confessionale per i peccatori. A lui dissero che venivano per incarico speciale della curia Romana per controllare che non vi fossero frodi per tabacco. Per prima cosa sequestrarono i domestici, li legarono, misero sossopra la casa e infine per sommo crimine, ferirono il canonico che non opponeva alcuna resistenza e lo uccisero. Poi, sentito rumore, dopo aver preso poche cose, le prime che erano capitate sotto le mani, erano fuggiti dal paese. Se ciò fosse accaduto nel silenzio non ci sarebbe alcun dubbio che essi, senza aver trovato alcuna prova di quel che pensavano, sarebbero andati anche in altre abitazioni. L’intera provincia inorridì, allorché venne a conoscenza di tale fatto. Pirro Alberici, il governatore, fece inseguire dalle guardie della sua curia quei criminali sacrileghi. Alcuni furono catturati nel territorio di Perugia mentre tentavano di espatriare fuori dai domini della Chiesa Romana, verso la Toscana. Io cercai di fare quello che era in mio potere e quanto mi imponeva il mio ufficio: ho lanciato la scomunica contro i colpevoli e contro tutti i loro complici, ho dichiarato che a nessuno era consentito di concedere  loro il diritto di asilo nelle chiese e in altri luoghi sacri. Tutte le altre pene dovevano essere comminate dalla curia laicale di Macerata. Qui erano detenuti in carcere due dei criminali; degli altri due uno era già morto nel carcere di Perugia, mentre l’altro era riuscito a fuggire.

Se riflettessimo seriamente sulla causa di un così grande male, si scoprirebbe subito che ciò derivava dalla violazione dei sacri diritti. Non era lecito permettere che le persone sacre soggette al diritto di detenzione da parte del loro vescovo, fossero soggette al dominio delle persone laiche. Qualora il caso richiedesse che gli ecclesiastici debbono essere inquisiti o puniti, ogni procedura deve essere gestita soltanto dall’autorità del vescovo e non da estranei commissari, finanche fossero essi incaricati della riscossione dei tributi. Cosa c‘era, infatti, di più disonesto, di più pericoloso che preporre alla immunità delle persone e dei luoghi sacri la funzione e i compiti svolti da pessime persone laiche sotto il pretesto di scoprire le frodi nel commercio? Questo modo di fare non poteva essere scusato col pretesto delle autorizzazioni date a simili commissari, anche nel caso in cui la facoltà era concessa da un vescovo o dal papa. La questione, infatti, non è quella di sapere se in caso di vera e pubblica necessità, il romano pontefice possa dare simili facoltà, ma di chiedersi se ciò sia opportuno e conveniente che avvenga per disposizione della curia Romana. Dopo il verificarsi di simili fatti scandalosi e incresciosi, era proprio il caso di chiedersi se fosse opportuno che, per tutelarsi da frodi fiscali messe in atto da privati cittadini, si potesse porre a rischio la vita dei sudditi, i loro beni, la tranquillità e la quiete della gente e, cosa ancora più grave, se fosse conveniente sottoporre ai commissari laici ogni cosa sacra e persino esporre le persone sacre alle violenze dei soldati, uomini per lo più facinorosi e malfattori.

Nei mesi seguenti spesso nell’intera provincia si verificarono furti e rapine da parte di uomini provenienti da fuori o vagabondi i quali poi cercavano di sfuggire alle condanne e alle pene rifugiandosi negli ospedali ai quali chiedevano la tutela dell’immunità. Per questo, su mia richiesta, Benedetto XIV mi concesse l’autorità di tirare fuori dai luoghi immuni quella genìa di rifugiati e di condannarli all’esilio da ogni località di tutto il territorio di dominio pontificio, facendoli accompagnare fino ai confini dello Stato Romano.

1747.5    L’abate di Farfa cerca di difendere la sua giurisdizione nella realizzazione della       separazione delle chiese farfensi site nei territorio delle diocesi – L’arcivescovo dichiara  tutto ciò che veramente spetta all’abate nella diocesi di Fermo – Terremoto e  danni    provocati specialmente a Gualdo Tadino.

Nel frattempo, a Roma si stava lavorando al progetto importante e ormai indilazionabile della separazione delle chiese, delle parrocchie e dei benefici che erano posti all’interno de territori delle diocesi e che fino a quel momento erano state di pertinenza dell’abbazia farfense. Non poche erano però le difficoltà per realizzare tale progetto. L’abate di Farfa circa il modo di realizzare la separazione e di fissare il pagamento dell’annuo censo da parte dell’arcivescovo di Fermo, sosteneva che tali chiese che erano site nel nostro territorio erano già state separate precedentemente, in forza del documento emanato da Gregorio XIII e in base alle decisione adottate in precedenza dall’uditore della Rota Romana e ancora dalla sacra congregazione dei cardinali interpreti del Concilio di Trento, tutti documenti che erano stati esaminati nella lunga e difficile controversia avvenuta tra l’abate farfense cardinale Barberini e l’arcivescovo di Fermo cardinale Cenci, lite che richiese un notevole dispendio di denaro per entrambe le parti.

Invece io sostenevo che il problema non era quello di separare quelle chiese che già erano state separate e stralciate precedentemente, ma di quelle chiese sopra le quali l’abate farfense rivendicava ancora qualche diritto e segnalavo che esse erano ben poche e site in pratica nel paese di Santa Vittoria e segnatamente ivi la chiesa collegiata e il collegio dei canonici sotto il titolo di Santa Vittoria; il monastero delle monache di santa Caterina dell’ordine di san Benedetto, sempre a Santa Vittoria e due edicole di santa Croce e della SS. Trinità e, a Fermo, la chiesa parrocchiale di san Pietro in Penna. Di tutto ciò fu discusso mediante un ampio scritto contenzioso e si giunse così alla verità e all’accordo. Sul problema delle fondazioni e delle nomine delle collazioni dei benefici si fecero dei passi avanti. All’inizio però l’abate farfense riteneva che avrebbe tenuto per l’abbazia le nomine per le collazioni nelle chiese che dovevano essere separate e stralciate. Tale ipotesi era naturalmente per me inaccettabile e dannosa per i miei diocesani. La pretesa dell’abate era di trattenere per sé le realtà e le situazioni più comode e facili e assegnare a me i casi più difficili e intricati. Chiaramente il governo pastorale doveva accettare e abbracciare sia le realtà più difficili sia quelle più comode. Per i diocesani poi c’era la scomodità evidente nel fatto che i fedeli dovevano prendere contatti diretti con l’abate per i benefici sia quelli di giuspatronato che quelli di libera collazione.

Ma la sapienza e l’equilibrio di Benedetto XIV, coadiuvato dall’intelligente richiesta del datario Giovanni Giacomo Millo, mi fu di grande aiuto. Stabilì, infatti, il modo di accontentare le due parti in causa. Si teneva presente che il problema dello scorporo delle chiese interessava diversi vescovi oltre a quello di Fermo, in particolare il vescovo di Montalto. Fu deciso che nel caso di un beneficio di libera collazione l’abate avrebbe presentato, ai vescovi interessati, i soggetti da nominare e se si trattava di chiese parrocchiali doveva presentare uno dei soggetti approvati nel concorso svolto davanti al vescovo, secondo le norme stabilite nel Concilio di Trento. Se si trattava invece di un beneficio di giuspatronato, i patroni, senza neppure sentire l’abate, avrebbero presentato i soggetti prescelti direttamente al vescovo per la nomina. Sulla faccenda della tassa dell’annuo canone non ci furono difficoltà di sorta. Il vescovo doveva consegnare trenta libbre di cera bianca ogni anno. Raggiunto così l’accordo, il 13 marzo di quest’anno, finalmente fu redatta la lettera apostolica di Benedetto XIV intitolata: Risoluzione sulla definizione della giurisdizione dell’abbazia di Farfa e di San Salvatore Maggiore riguardo ai luoghi e alle chiese esistenti nel territorio di altre diocesi. Il documento fu pubblicato a Roma il giorno 11 aprile <1747> e pervenne nelle mie mani il 16 dello stesso mese. Cadeva in quel giorno la seconda domenica dopo la Pasqua; le due letture della Messa del giorno (l’epistola e il vangelo) erano adatte benissimo alla circostanza: nell’epistola infatti si parla delle pecore sbandate che tornano al pastore e al vescovo delle loro anime; nel Vangelo (Gv. 10, 7) poi si parla del dovere di guida del pastore e del suo dovere di portare all’ovile altre pecore che ascoltino la sua voce, in modo da realizzare un solo ovile e un solo pastore.

In quell’occasione si è raccolto il frutto di molte fatiche iniziate da me sotto il pontificato di Clemente XII nel 1738, come ho scritto nella cronaca di quell’anno (n. 6); questo infatti era stato sempre il mio desiderio, come lo era stato anche dei miei predecessori; tuttavia l’imperscrutabile disegno della divina provvidenza riservò a Benedetto XIV il merito e la gloria della soluzione del problema, nei presenti giorni del mio servizio sacerdotale. Ringraziai pubblicamente Dio nella chiesa metropolitana con un solenne pontificale e ringraziai il papa con una lettera.

Si svolgeva intanto nel mio palazzo la riunione dei vicari foranei, due giorni dopo aver ricevuto, il giorno 18, la lettera apostolica e facilmente la notizia si sparse nella diocesi. Fu accolta da tutti con grande sincera gioia e le persone più illustri del clero e le autorità civili facevano a gara per congratularsi con me.

Questa bella notizia fu turbata dalle scosse di terremoto che da noi fu lieve e senza danni e non causò panico. Diversamente fu in Umbria e specialmente a Nocera e a Gualdo Tadino, per cui mi addolorai molto per la sorte di quelle località e per i danni provocati, cosa che mi diede vivo dispiacere. A Gualdo, poi, io dovetti lamentare gravi danni nel mio monastero di san Benedetto, nel quale feci iniziare subito i lavori di restauro e donai alla chiesa del mio monastero un ostensorio d’argento per esporre con più frequenza il santissimo sacramento dell’Eucaristia.

1747.6    Solenne visita pastorale a Santa Vittoria – Acquisto di un piccolo campo a Monteverde   – Per la scuola delle fanciulle povere viene aumentata la dote – Il cardinale Francesco  Landi.

Preparavo intanto la sacra visita pastorale al paese di Santa Vittoria, che una volta era il centro più importante dei Farfensi, in cui mi recai all’inizio di maggio. Entrai nel paese con un solenne rituale che, antecedentemente, non avevo mai usato per non provocare controversie tra i Fermani e i Farfensi. Venne prestato il giuramento di fedeltà da parte dal priore e del capitolo dei canonici della collegiata e dalla superiora del monastero delle monache di santa Caterina. Non erano infatti ancora sopite le voci di divisione, come, a suo tempo, l’apostolo lamentava nella comunità di Corinto, allorché alcuni dicevano “Io sono di Paolo, io sono di Apollo e io invece di Cefa”, rifiutando di aderire ad uno stesso pastore e di appartenere ad un unico ovile, mentre ormai facevano parte della stessa diocesi e accettavano le stesse regole. Tuttavia, sia nel collegio dei canonici, sia all’interno del monastero delle monache restavano da appianare molte cose. Infatti gli abati Farfensi erano per lo più assenti e non eseguivano mai la visita pastorale di persona; di fatto essi erano trattenuti a Roma da gravi affari e impegni. Quando compivano la visita ciò avveniva tramite un’altra persona, nella qualità di visitatore. Pertanto si sentiva la mancanza della presenza e della guida del pastore. Io, pieno di paterno amore, mi dedicai a fare, per quanto mi era possibile, tutto il necessario per provvedere ai bisogni di ciascuno.

Dopo espletata questa visita, scesi a Servigliano, dove ho trascorso la festa della Pentecoste e ho affidato l’incarico di eseguire la visita a Montefalcone, a Smerillo ed a  Belmonte, ai canonici della chiesa metropolitana, Marco Antonio Francolini e Lucio Guerrieri, miei con-visitatori. Dopo fatta la visita a Servigliano, mi sono recato a Monteverde, dove poco prima avevo comperato, a mio nome, un piccolo campo dai figli di Nicola Antonio Calisti, al prezzo di duecento scudi d’argento, sito al confine delle terre della mensa episcopale, presso il fiume Tenna, con la rendita di trecento scudi a mio favore e di cento come aumento della dote della scuola pia delle fanciulle povere, da me istituita a Fermo.

Finalmente, il 27 maggio, rientrai in città, dove, il sabato delle quattro tempora, tenni le sacre ordinazioni dei chierici e il primo di giugno celebrai la solennità del Corpo e Sangue di Cristo. Subito dopo mi recai al Porto di Fermo per ricevere il cardinale Francesco Landi il quale, dalla sua sede vescovile di Benevento, era diretto a Piacenza, sua patria. Lo accolsi e lo feci alloggiare nello splendido palazzo della famiglia Maggiori. Il cardinale era a me unito da vecchia amicizia e lo avevo ospitato allorché ero vescovo a Nocera Umbra.

1747.7    Dissacrazione della festa di Pentecoste a Monterubbiano.

Appena libero dagli impegni, mi ritirai nella villa di San Martino e in questo riposo scrissi al papa Benedetto XIV denunciando la dissacrazione della festa della Pentecoste avvenuta per opera degli abitanti di Monterubbiano, che non avevano rispettato il mio decreto di indulto. I paesani, infatti, avevano organizzato pubblici balli promiscui tra maschi e femmine e nell’inseguire a cavallo il pollame avevano provocato schiamazzi, disturbando gravemente i divini uffici, nonostante che simili giochi avevano deciso che dovessero essere eseguiti nei giorni delle feste, nei quali si svolge la fiera, e specialmente il mercoledì che segue la Pentecoste. Volendo ammonirli, avevo esibito il monitorio dell’uditore di camera, pubblicato negli anni precedenti proprio per evitare il ripetersi di tale abuso. Nel frattempo Benedetto XIV era andato a Castel Gandolfo; da lì egli si degnò di scrivermi, dando l’incarico al suo uditore che facesse sapere all’uditore di camera di ripetere il decreto di divieto <per Monterubbiano>, ma poiché tardava, comandò ai paesani di obbedire ai miei comandi sotto le pene contro coloro che commettessero tali scandali, condonabili.

1747.8    Il cardinale Angelo Maria Quirini approva il parere del vescovo di Anagni riguardante l’indulto della cessazione dell’obbligo di astenersi dai lavori servili nelle feste dei santi  – L’arcivescovo confuta tutto ciò che ha scritto il vescovo di Anagni sull’obbligo   di osservare le feste dei santi riguardo alla cessazione dell’obbligo dei lavori servili             – Quando e come le festività dei santi sono soggette al precetto (indulto) della cessazione   dei lavori servili.

Durante la mia permanenza nella villa di San Martino, per riposarmi, ho preparato l’omelia che avrei tenuto nella chiesa cattedrale, durante la celebrazione della Messa, nel giorno della festa degli apostoli Pietro e Paolo. In essa comunicavo al clero e al popolo quelle disposizioni che erano state recentemente sancite da Benedetto XIV nella salutare costituzione apostolica sull’uso di concedere la benedizione apostolica, la remissione dei peccati e l’indulgenza plenaria ai fedeli cristiani che erano in punto di morte. Io ho fissato anche le modalità che i sacerdoti dovevano rispettare al riguardo, in tutto il territorio della diocesi.

Giovanni Antonio Bachettoni, vescovo di Anagni, aveva scritto una lettera pastorale al suo clero e al suo capitolo nella quale, col pretesto di esortarli ad educare il popolo al culto dei santi, contestava il mio indulto e tutte le dispense che erano state date dal sommo pontefice. Il cardinale Quirini aveva divulgato una lettera all’abate del monastero Desertinense, in Svizzera, nella quale si lodava ed approvava a meraviglia tutto ciò che aveva scritto il vescovo di Anagni. Per questo mi è sembrato necessario aggiungere qualche osservazione alla precedente omelia per respingere gli errori di cui era piena quella lettera del Bachettoni e soprattutto per evitare che i miei condiocesani venissero ingannati.

Tre cose quel vescovo voleva fortemente precisare: che nel Vecchio Testamento presso gli Ebrei si trovavano molte più feste che presso di noi, inoltre che le singole nostre feste erano antichissime e per lo più coeve all’origine della Chiesa, infine che, anche se qualche festa era più recente, come quella della Immacolata Concezione della Madre di Dio, essa doveva essere considerata più importante ad esempio dell’Annunciazione e della Purificazione.

Senonché tutta l’argomentazione veniva meno; infatti dimostravo che nel libro del Levitico e nel libro dei Numeri al di fuori dei giorni di sabato, c’erano soltanto sette giorni di festa in tutto il corso dell’anno, giorni nei quali gli ebrei erano soggetti al precetto di astenersi da ogni lavoro occupazionale, mentre in tutte le altre feste, l’obbligo riguardava soltanto le oblazioni, le offerte e i sacrifici. Nel mio indulto non avevo innovato nulla, anzi ne avevo mantenute molte di più, nelle quali esisteva l’obbligo di astenersi dai lavori servili. Inoltre sull’antichità delle feste non possiamo fidarci delle dimostrazioni dei documenti poiché alcuni di essi o sono apocrifi o altri sono corrotti. Altra cosa era il tener conto dell’origine di alcune feste che interessavano una chiesa particolare, altro è invece considerare quelle della Chiesa universale. Da sant’Agostino nella lettera 118 a Gennaro vengono considerate come festività proprie comuni dalla Chiesa universale soltanto la Passione, la Resurrezione , l’Ascensione al Cielo e la Venuta dello Spirito Santo. Giustiniano nel secolo VI nel pubblicare il codice delle costituzioni imperiali, dedicò un intero titolo alle festività, ma oltre alle domeniche e ai giorni della Pasqua aggiunse soltanto il Natale del Signore e l’Epifania. San Benedetto nella famosissima Regola monastica, al capitolo 48, comanda che tutti i monaci dovevano lavorare ogni giorno, eccetto tutte le domeniche. Dalla lettera di san Girolamo n. 22, inviata al monaco Eustochio, viene comandata la stessa cosa ai monaci egiziani. In un antichissimo canone nel decreto di Graziano, sulla stessa materia, nel libro XVI dist. 3 “sulla consacrazione” è scritto che nel giorno del Signore si fa riposo e non si facciano lavori. Non così in altre festività: canone “ Da enunciare” . Nello stesso citato sulla consacrazione, non dal concilio  generale, ma dal concilio provinciale di Lione, di epoca medioevale posteriore, del secolo IX oppure X; nelle decretali di Gregorio IX cap. “Richiesta per i giorni di riposo da avere …” si parla soltanto delle ferie da osservare in giudizio, ma nulla si dice circa l’osservanza dell’astensione dai lavori occupazionali. Nel VI libro delle decretali di Bonifacio VIII sotto il titolo riguardante “le reliquie e la venerazione dei santi” le feste deli apostoli, degli evangelisti e dei quattro dottori della Chiesa latina dovevano essere celebrate con rito doppio in tutti i luoghi della Chiesa cattolica, ma nulla veniva stabilito sulla astensione dai lavori servili che restò incerta e variava nelle feste dei santi presso tutti i popoli, fino alla costituzione di Urbano VIII.

Il mio indulto peraltro intendeva regolare soltanto le feste dei santi e in esse specialmente di non sopprimere l’ufficio e l’importanza della Chiesa (rimanendo fermo l’obbligo di partecipare alla Messa) ma di abolire l’obbligo di astenersi dai lavori occupazionali. Da ultimo le feste dell’Annunciazione e della Purificazione per essere strettamente collegate ai misteri della divina Incarnazione, pertanto giustamente da rispettare, diverse dalle altre, secondo me, ad eccezione per la festa dell’Immacolata Concezione della Madre di Dio, anche per altre ragioni, senza l’ottava.

Dunque nella festa dei santi apostoli Pietro e Paolo durante la celebrazione della Messa ho fatto l’omelia e l’ho fatta stampare subito, l’ho poi spedita poi a Benedetto XIV che si degnò di approvarla e di lodarla pubblicamente e benignamente volle significarmi, con una affettuosa lettera, il suo giudizio. Mandai la pubblicazione anche a molti vescovi e cardinali e allo stesso cardinale Quirini come risposta a quella che egli aveva dato alle stampe e che mi aveva inviato quasi per provocarmi e per farmi capire che dal giudizio espresso dal vescovo di Anagni e dal suo plauso era chiaramente dimostrata la sua vittoria nei miei confronti.

1747.9    Giacomo Costa, vescovo di Ripatransone viene trasferito a Belluno – Luca Recco nuovo   vescovo di Ripatransone rende la sua visita di omaggio all’arcivescovo.

Benedetto XIV aveva trasferito mons. Giacomo Costa, nato a Belluno nel Veneto, dalla Chiesa di Ripatransone che era mia suffraganea, proprio a quella di Belluno nel territorio del Veneto. Il papa mandò come successore a Ripatransone, Luca Nicola Recco (o Recchi), cittadino ripano, a lungo occupato nella curia Romana, presso il cardinale Renato Imperiali di cui era stato uditore, fino a quando era morto. Il neo-vescovo, nel mese di luglio, venne nella nostra provincia e il 24 dello stesso mese mi rese il dovere della sua visita solenne e ufficiale e mi presentò la bolla apostolica di nomina. Mi interessai immediatamente presso di lui per la pubblicazione nella diocesi di Ripatransone del mio indulto delle feste; infatti anche se il suo predecessore Costa aveva chiesto l’indulto insieme con me al papa Benedetto e lo aveva ottenuto, ma essendo timoroso dell’autorevolezza di cui godeva il cardinale Quirini patrizio veneziano, si era astenuto dalla esecuzione, lasciando la questione  nelle mani del suo successore, tanto che, tra i richiedenti, fu solo il vescovo di Montalto a dare subito esecuzione all’indulto, mentre anche il vescovo di Ascoli ritardava la sua pubblicazione. Il nuovo vescovo Recco invece mi disse che lo avrebbe subito pubblicato e fece l’editto il 12 dicembre di quest’anno.

1747.10   La rappresentazione di commedie nel teatro di Fermo – Nei mercati della carne di   Fermo è fatta salva l’immunità delle persone sacre – Gli studenti provenienti da fuori vengono favoriti dall’arcivescovo e facilitati nel frequentare lo Studio Fermano.

Intanto con il denaro dei privati cittadini si stava preparando un nuovo teatro nel palazzo pubblico dei priori, per fare le rappresentazioni di commedie e di altri simili spettacoli. Ciò però che maggiormente mi infastidiva era il fatto che i dipinti esistenti nelle pareti dell’aula, con la raffigurazione dei castelli e delle località appartenenti alla giurisdizione della città di Fermo (e che nel passato erano soggette al vescovo) erano destinati a scomparire. Quelle pitture venivano coperte per dar luogo a nuovi dipinti, e necessariamente si cancellarono i precedenti.

I costruttori intendevano di poter fare rappresentare le prime commedie nel nuovo teatro in occasione della fiera di agosto, ma ciò venne vietato da Roma. Era veramente grande l’aspettativa della gente. Le attenzioni dei cittadini erano completamente assorbite dalla preparazione del teatro. Il governo della città era molto preoccupato per il fatto che non c’era il denaro necessario per coprire le spese, pur usando i proventi camerali e quelli “comunitativi” (così chiamati). Non bastavano, tanto che la congregazione Fermana fu costretta ad ordinare che i macelli dovevano essere dati in affitto in regime di monopolio per vendere le carni ad un prezzo maggiorato. Con la maggiorazione del prezzo, da parte dei conduttori, vigeva la finalità di finanziare l’impegno della costruzione del teatro. Si dovette comunque tener conto dell’immunità di cui godevano gli ecclesiastici per i quali il prezzo delle carni veniva diminuito, affinché non acquistassero la carne nei negozi privati. Si pensava di estendere lo stesso provvedimento ai forni, ma la cosa era molto più difficoltosa, specialmente in relazione agli studenti poveri che venivano dai paesi vicini. Gli studenti venuti a Fermo, infatti, vivevano per lo più del pane e degli altri alimenti che ricevevano ogni settimana dai genitori.

Io sostenevo i privilegi di questi giovani affinché non fosse reso impossibile il loro soggiorno in città. La congregazione Fermana adottò la risoluzione che mi fossero consegnati trenta scudi di argento, tratti dall’affitto del forno e che io dovevo distribuire agli studenti poveri al fine di indennizzarli. La somma stanziata si rivelava però insufficiente e poiché si era diffuso un grande malumore, tanto che gli studenti minacciavano di trasferirsi altrove, ero stato costretto a pubblicare un avviso per invitarli a fidarsi di me e di essere certi che mi sarei preoccupato di loro. Ho rassicurato i giovani diocesani che se avessero seguito gli studi letterari nella nostra città a suo tempo li avrei ordinati chierici.

1747.11    L’arcivescovo ispeziona la volta rafforzata della chiesa principale de Sant’ Elpidio   a Mare – Congregazione dei frati Eremitani.

Il collegio dei canonici di Sant’Elpidio a Mare insisteva affinché mi recassi a vedere la volta della loro chiesa collegiata che sembrava stesse per cadere da un momento all’altro. La volta era stata costruita anticamente con materiale laterizio e ornata con pitture. Quantunque gli indizi di timore fossero di lieve entità, tuttavia i più ragguardevoli del popolo tanto fecero per influenzare l’opinione pubblica, parlando di un imminente crollo, che fu necessario di trasferire nella vicina chiesa di San Michele le funzioni e la predicazione che erano soliti svolgersi in quel periodo con grande concorso di gente. Quindi, terminate a Fermo le funzioni della festa dell’Assunta, e conclusa la conferenza generale dei frati agostiniani Eremitani presenti in tutta la diocesi, mi sono recato a Sant’Elpidio. Qui i cittadini non credevano di doversi coinvolgere nelle spese per realizzare i lavori, infatti sostenevano che ogni spesa fosse a carico del capitolo della collegiata. Inoltre mi chiedevano con insistenza la totale demolizione della volta. Pertanto consultai i periti esperti in materia e coloro che avevano ispezionato il tetto. Risultò poi che esso, nonostante fosse stato in antico costruito a regola d’arte, tuttavia nella parte finale, sopra la porta maggiore dell’ingresso, presentava irregolarità e difetti, perciò era possibile, o per una scossa di terremoto, o per qualche altro evento esteriore, che si potesse verificare un crollo. Perciò ho deciso le modalità da seguire per realizzare il restauro e le spese necessarie. Il capitolo della collegiata curò l’esecuzione dei lavori, affidati all’architetto Domenico Fontana.

1747.12    I Canonici regolari (religiosi) di Sant’Antonio cercano di ritardare la visita                   dell’arcivescovo, ma poi la accettano – Il cardinale Raniero Simonetti di Osimo.

Passata l’estate, l’11 di settembre, riprendevo un altro giro della visita pastorale; ero accompagnato dai due convisitatori, canonici della metropolitana, Filippo Spinucci e Alessandro Raccamadoro penitenziere. Mi sono recato prima a Monte Urano, dove la fabbrica della nuova chiesa parrocchiale realizzata dal preposto, era giunta ormai al tetto; subito dopo mi sono recato a Montegranaro, poi a <Monte> San Giusto dove mi sono interessato soprattutto per la ricostruzione dell’ospedale dei pellegrini. Sono giunto poi a Morrovalle, dove i canonici regolari di Sant’Antonio, residenti a Roma, avevano la rettoria della chiesa suburbana di Sant’Antonio, eretta fuori della porta del paese. Come in altre località della diocesi, simili chiese dipendevano dalla corona di Francia. Gli amministratori avevano proibito ai religiosi di ricevere la visita dell’arcivescovo. Ho solennemente dichiarato a quei frati di stare certi che il cristianissimo re di Francia, per il rispetto e la venerazione che aveva per la nostra religione, sarebbe stato lieto che i vescovi fossero fedeli ai loro doveri e in particolare nel far eseguire la visita pastorale. Sono riuscito a ridurre gli amministratori a più miti consigli e così ho potuto eseguire tranquillamente la visita. In quel paese ho dovuto affrontare molte discussioni con il collegio dei canonici a proposito dell’ampliamento della loro chiesa.

Sono poi andato a San Claudio, dopo aver dato ai miei con-visitatori l’incarico di terminare la visita a Morrovalle e di iniziare quella a Montolmo (= Corridonia). Mi sono inoltre recato alla santa Casa di Loreto e subito dopo ad Osimo a far visita al cardinale Raniero Simonetti. Egli è l’unico cardinale del Piceno cha fosse stato nominato da Benedetto XIV, per desiderio dei sovrani, nel recente concistoro svoltosi il 10 aprile, anzi egli fu l’unico creato cardinale in tutto lo Stato della Chiesa. Era legato a me da un’amicizia nata da una sua antica necessità. Fui contento dell’incontro con lui e della sua promozione nella sua vecchiaia ben portata. Subito dopo mi sono recato a Montolmo per concludere la visita e da lì a Francavilla dove avevo molti affari da sbrigare.

1747.13    Il beneficio dei santi Giuliana e Sisto di Francavilla viene assegnato in diritto       enfiteutico a favore della mensa arcivescovile – Riscattato Campolungo di Francavilla.

Dopo aver acquistato a Francavilla comodi fabbricati e orti, per uso mio e dei miei successori, il mio progetto era di acquistare anche altra superfice di terreno che fosse sufficiente per mettervi un contadino e poterci andare a dimorare quando se ne vedeva l’utilità. La misura dei terreni di nostra proprietà a Francavilla era di 36 salme. Ma la vecchia chiesa dei santi Giuliana e Sisto ne possedeva uno di oltre 24 salme e in più disponeva del diritto delle decime e tale chiesa era posseduta per diritto di semplice beneficio da Olimpio Miliani toscano. I beni di cui godeva erano confinanti con quelli della mensa. Presi allora la decisione di unire, a titolo di enfiteusi, questa possessione agli altri possedimenti della mensa arcivescovile. Riscattai quella proprietà, ottenendola in enfiteusi, col pagamento di un annuo canone. Ne avevo parlato con il Miliani, il quale era molto favorevole a cederla purché a lui non fossero diminuiti i consueti proventi, poiché egli lo aveva affittato per la somma di ottanta scudi di argento. Si cominciò allora ad agire a Roma per ottenere il beneplacito Apostolico, al fine stipulare il contratto di affitto perpetuo, il che non si poté ottenere se non con una lettera Apostolica che fu scritta in data 12 giugno di quest’anno, con piombo, dietro l’esborso di una ragguardevole somma di più di 150 scudi. Giunse infine il decreto esecutorio dall’arcidiacono e dal decano della metropolitana e ne fu redatto l’atto notarile il 12 luglio dal mio notaio Simone Battirelli, cancelliere generale.

Per mandare ai posteri la memoria della lettera Apostolica fu apposta una lapide incisa nella parte interiore della chiesa dei santi Giuliana e Sisto, sopra la porta principale, nella parte interna. Queste le parole incise: PER AUTORITA’ DI BENEDETTO XIV  \  ROMANO PONTEFICE  \  MENTRE NELLA CHIESA FERMANA SEDEVA  \  ALESSANDRO BORGIA  \  ARCIVESCOVO E PRINCIPE  \  QUESTA CHIESA DI S. GIULIANA CON TITOLO ANNESSO DI S. SISTO \  CON TUTTI I SUOI BENI E DECIME E’ STATA DATA  \  ALLA MENSA ARCIVESCOVILE DI FERMO  \  PER TITOLO DI PERPETUA ENFITEUSI  \  CON LA RISERVA A FAVORE DI OLIMPIO MILIANI RETTORE  \  E DEI SUOI SUCCESSORI  \  DI UN CANONE ANNUO DI 80 SCUDI  \  NEL MESE DI GIUGNO 1747

Sono state acquisite le mappe del campo descritto nel contratto, con le relative misure; ma le misure reali non erano corrispondenti agli antichi documenti, o perché i confinanti ne avevano sottratti dei pezzi, o perché i rettori della chiesa che abitavano lontano erano, pressoché sempre assenti, avevano trascurato di controllare. Io feci controllare i singoli pezzi di terra, ho fissato i metodi di amministrazione e ho cercato di recuperare gli iugeri usurpati dagli altri proprietari. Sono riuscito anche a riscattare alcune superfici, inserite nel terreno della mensa chiamato Campolungo, che alcuni coloni avevano permutato senza aver chiesto il permesso della sede Apostolica, anzi senza neppure aver fatto i documenti con l’arcivescovo.

1747.14    Difesa del campo di Santa Croce nei confronti degli Elpidiensi.

Il 10 ottobre mi sono ritirato nella villa di San Martino dove mi sono impegnato a interpretare la transazione stipulata nell’anno 1489 da Francesco Piccolomini, cardinale di Siena e amministratore apostolico della Chiesa Fermana. La comunità di Sant’Elpidio a Mare mi esibiva il documento al fine di rivendicare i suoi diritti e privilegi sul monastero di Santa Croce, sito tra i fiumi Ete e il Chienti, mentre invece apparteneva alla mensa arcivescovile. Quegli Elpidiensi non possedevano altra prova se non la transazione <del Piccolomini> e quindi con vari artifici e mediante successive occupazioni del territorio dello stesso monastero, avevano accresciuto la loro proprietà e per tacitare la loro coscienza, affermavano che il fatto del possesso risultava dal documento della transazione. Per la verità anticamente il territorio di Santa Croce si protendeva fino al mare; la transazione ridusse tale territorio fino a tremila passi dal mare. Però quei cittadini non erano abbastanza contenti di aver occupato tutto quel territorio. Per questo avevano tentato di rivolgersi alla congregazione del Buon Governo per rivendicare tutti i possedimenti del monastero di Santa Croce, i suoi coloni e tutti i suoi privilegi contro l’antica consuetudine e la legge stessa di fondazione del monastero, che è molto più antico dello stesso paese di Sant’Elpidio, e cercavano di dimostrare che la detta transazione sarebbe stata ingiustamente abrogata. Naturalmente tutto ciò che affermavano era assolutamente falso. Ma tentarono ancora di peggio: negavano ogni nostra giurisdizione, ogni nostro diritto di possesso su Santa Croce. La cosa era molto complicata e non era facile trovare delle argomentazioni certe. Da parte mia, cercai di illustrare e spiegare la vicenda e inviai una relazione a Lorenzo Origlia che era il diligentissimo difensore della nostra causa.

1747.15   I Canonici Lateranensi rivendicano la giurisdizione sulla chiesa di Santa Maria del  Buon  Gesù di Montottone – Il pievano di Monte Santo tenta di cambiare il titolo della   sua parrocchia in abbazia semplice – I cappellani del legato Laureati tentano di      impadronirsi della chiesa della pievania.

In quest’anno, ho dovuto affrontare diverse altre difficoltà e controversie. A Montottone, nella chiesa di Santa Maria del Buon Gesù, nella quale anticamente era stata istituita una confraternita, era insorta una controversia con i canonici di san Giovanni in Laterano in materia di giurisdizione. Per il giudizio possessorio, svoltosi davanti all’uditore della Camera, i Lateranensi avevano vinto con sentenza pronunciata il 3 di ottobre e pubblicata attraverso un atto rogato dal notaio Erasmi.

Gli abitanti di Sant’Elpidio, sempre i primi fra tutti nelle rivendicazioni, furbescamente avevano estorto dalla congregazione del Buon Governo, una dichiarazione nella quale si affermava che da allora in poi nessun compenso si doveva all’arcivescovo in occasione della visita pastorale, mentre per comune consuetudine il clero e la comunità civile dovevano contribuire, dividendosi le spese. Gli abitanti di Montegiorgio, seguendo l’esempio degli Elpidiensi, hanno tentato di ottenere la stessa cosa dalla stessa congregazione, chiedendo anche l’indulto a Benedetto XIV. La questione ancora non è stata decisa. Comunque, trattandosi di una questione definita da una antica consuetudine, in vigore già dal tempo di Lucio III, come scritto nel capitolo sui “sensi”, favorevole al nostro clero, non si prevedeva che potesse essere cancellata, tanto più che i cardinali, interpreti del Concilio Tridentino avevano confermato un’altra consuetudine, in base alla quale, tutte le spese che il vescovo sosteneva, per eseguire la visita pastorale, andavano addebitate ai laici. Tutto ciò mi lascerebbe sperare che tale consuetudine, che fra l’altro era molto più equa, potesse essere facilmente confermata in sede processuale.

Il pievano di Monte Santo si era mobilitato presso la dataria apostolica per trasformare la situazione giuridica di quella sua ricchissima pieve che aveva sotto di sé un grande numero di anime. Chiedeva che venisse trasformata in abbazia semplice, senza cura delle anime, cura che sarebbe dovuta essere affidata a due semplici vicari perpetui da compensare con un modico stipendio. La dataria però, prima di decidere, mi ha consultato e ha respinto la richiesta che chiaramente si rivelava dannosa per il bene spirituale della popolazione.

A Montecosaro i cappellani del legato Laureati che, come ho scritto in questa cronaca nell’anno 1728 n. 11, avevano trasferito la cappellania, annettendola alla chiesa matrice,  stavano tentando di sottrarre la chiesa al pievano (che ora aveva il titolo di priore), per elevarla al rango di collegiata, e per essere riconosciuti canonici, mentre la cura delle anime sarebbe stata affidata a un vicario. Non ho voluto accettare la loro proposta sia perché mi sembrava poco chiara, sia perché era nociva per la cura delle anime. La questione era pendente nelle mani della Dataria.[1]

1747.16   Condutture di piombo per la metropolitana – Viene ornata la facciata della chiesa di  san Francesco di Paola – Ponte di legno costruito sul fiume Ete presso la chiesa di   Santa Maria a Mare.

Nel corso del presente anno, ho provveduto alla soluzione di un problema nella chiesa metropolitana, dovuto al fatto che sul lato meridionale penetrava l’umidità; infatti feci aggiungere all’attuale conduttura in muratura per lo scarico dell’acqua, un’altra conduttura di piombo e parimenti ho fatto coprire l’abside del coro dei canonici, con lastre di piombo poiché anche da lì penetrava l’umidità. I frati Minimi di san Francesco di Paola hanno abbellito la facciata della loro chiesa con la costruzione di due torri. A Civitanova è stato ristrutturato l’ospedale degli uomini ed è stato dotato di nuove suppellettili per una migliore cura dei malati.

Ho autorizzato la costruzione del nuovo ponte di legno sul fiume Ete, presso la chiesa di Santa Maria a Mare. Era stato costruito con il denaro donato da Giuseppe Campanelli, parroco di Rapagnano, per la grande devozione che egli portava a quella chiesa, perché era nato nel luogo. Del vecchio ponte ho scritto in questa Cronaca dell’anno 1732 al n. 10. La costruzione era stata curata da Raffaele Fabretti, sotto Clemente XII, ma era crollato, nello stesso anno, per l’inondazione provocata dalla esondazione delle acque del fiume Ete. Ci conceda il Signore che questo nuovo ponte possa rimanere stabile a lungo. Da parte mia nulla ho tralasciato perché fosse costruito con tutte le garanzie. Per fortuna lo stesso Campanelli aveva lasciato una somme per eseguire eventuali necessari restauri conservativi.

1747.17    Censimento degli abitanti della diocesi.

L’anno passato è stato il cinquantatreesimo triennio dalla pubblicazione della costituzione Sistina.[2] nell’anno precedente io avevo compiuto la mia visita alla Sede Apostolica, e conseguentemente ho presentato la mia relazione, aggiungendo le risposte ai quesiti che vi erano formulati. Alla fine della relazione, ho aggiunto anche il censimento delle persone di tutta l’arcidiocesi ed ho comunicato che la popolazione risultava essere di 107.981 (centosettemila novecento ottanta uno) anime, superiore di più di cinquemila unità rispetto al censimento precedente.

1747.18    La Repubblica Federale del Belgio è affidata alla sovranità di Guglielmo Carlo di  Nassau col titolo di Statolder e col diritto di trasmetterlo per eredità: come e perché.

Durante quest’anno, i re e i principi cristiani erano ostinatamente occupati a continuare le loro guerre. Il re di Francia voleva occupare i castelli del Belgio. Gli Austriaci in parte irritati e in parte scoraggiati e vergognosi perché erano stati cacciati da Genova, attaccavano le coste della Liguria per assediare la città, ma ogni tentativo era andato fallito. La città, infatti, resisteva con ogni valore, sia perché era difesa da un forte presidio militare, sia perché era protetta dall’aiuto delle truppe francesi.

Non così accadde a Goma (?) nel Belgio Federato. Pur essendo una città molto ben difesa, i Francesi con l’astuzia e con la violenza erano riusciti a conquistarla; questo perché i soldati della guarnigione si fidavano troppo delle proprie forze e dall’esercito che la difendeva. Per tale situazione di aggressione, la Repubblica Federata del Belgio viveva una condizione di umiliante soggezione. Prima i nobili e poi tutto il popolo, per timore di poter cadere nelle mani del re di Francia, che era sul punto di raggiungere la vittoria e dato che gli abitanti non nutrivano fiducia nei propri governanti, elessero loro capo (col titolo di Statolder) Guglielmo Carlo di Nassau, attribuendogli anche il diritto ereditario da trasmettere o ai figli maschi in prima istanza o, in mancanza di essi, alle figlie femmine e ciò in perpetuo. Nel caso però che la successione toccasse a una donna, posero come condizione che essa dovesse sposare un principe di religione calvinista. Questo fatto  rappresentava però una grande danno e un’umiliazione per i cattolici. Di fatto, la paura poteva anche determinare la scelta di affidarsi ad un sovrano  o capo di governo. La storia insegna che nelle vicende umane e negli stati, anticamente, questi fatti erano accaduti. Una recente nuova testimonianza si era aggiunta come esempio molto chiaro per mostrare come, nella nostra epoca, le cose non siano andate diversamente.

Al presente, nel Belgio era accaduto qualcosa di simile: <per impegno dei nobili, con un’opinione pubblica tanto emozionata tra il popolo> la paura di finire sotto il potere dei Francesi ha spinto i Belgi alla scelta di Guglielmo al quale fu offerto un potere così grande di arbitrio, che non si è riscontrato nulla di simile in alcun altro Stato. Certamente con queste due guerre le due repubbliche furono profondamente umiliate: l’una, in Belgio, era scomparsa e l’altra, in Italia, a Genova era stata talmente indebolita, che era sul punto di scomparire.

< Dal manoscritto 285 della biblioteca comunale di Fermo, aggiunta: “In Belgio, il potere non deve finire con la vita di quell’uomo, ma deve trasmettersi in perpetuo ai suoi discendenti dell’uno e dell’altro sesso; su tale cosa resta stabilita la libertà del Belgio federato. In questo Stato una famiglia ha in sé i poteri supremi come se questi fossero una cosa loro privata.>

 

ANNO 1748

1748.1   Offerte da raccogliere per la costruzione del duomo di Berlino.

Il marchese del Brandeburgo, principe elettore del sacro romano impero, che era chiamato re di Prussia, per addolcire gli animi alquanto esasperati dei cattolici, a causa dello scorporo fatto del ducato della Slesia dall’eredità della casa d’Austria, diede il permesso ai cattolici di costruire una grande e splendida chiesa a Berlino, dove era la sede del principe, e che era stata scelta come capitale e vi aggiunse altri numerosi privilegi. Nella zona di Berlino del resto era aumentato moltissimo il numero dei cattolici. Questi cattolici prussiani quindi chiesero a tutti gli altri cattolici di raccogliere offerte in denaro per realizzare tale imponente opera. Pertanto Benedetto XIV stanziò una cifra tratta dal suo erario, ed ha esortato tutti i cardinali e tutti i vescovi a dare offerte. A questo scopo scrisse una lettera a tutti noi, all’inizio di gennaio. Ho organizzato la raccolta in tutta la diocesi e alla somma racimolata ho aggiunto anche la mia; abbiamo raccolto 200 scudi di moneta romana che, a maggio, ho mandato a Roma, per la costruzione della chiesa di Berlino.

1748.2    Abolizione degli abusi e delle licenziosità che si verificano nei baccanali.

Benedetto XIV, il primo di gennaio, ha scritto una lettera circolare a me e a tutti i vescovi dello Stato pontificio sulla proibizione delle feste baccanali in tutte le domeniche, nelle feste di precetto e in tutti i venerdì. La lettera ha precisato, inoltre, che si prendessero opportune precauzioni perché queste manifestazioni non si protraessero fin dopo la mezzanotte del giorno precedente il mercoledì delle Ceneri. Ho divulgato questa lettera e ho pubblicato un editto in cui ho aggiunto le indulgenze per coloro che partecipavano alla solenne esposizione del santissimo Sacramento dell’Eucaristia affinché la gente si astenesse dalle licenziosità insane.

La prima esposizione era stata organizzata nella chiesa di Santo Spirito, presso i sacerdoti dell’Oratorio di san Filippo Neri, nella domenica di settuagesima. Presso la chiesa dei padri Cappuccini l’esposizione del Santissimo dalla domenica di sessagesima era tenuta per tutta l’ottava in onore dei santi Fedele da Sigmaringen, martire, e Giuseppe da Leonessa, confessore, che il papa Benedetto aveva inserito nel canone dei santi nel precedente anno. Durante tutta la quaresima poi l’esposizione dell’Eucaristia si era svolta nella chiesa dei sacerdoti Gesuiti.

In questo periodo le rappresentazioni teatrali si tenevano nel nuovo teatro.

1748.3    Il grano per Roma viene acquistato nel Piceno.

L’inverno si presentava molto rigido e la neve era molto abbondante. Era nevicato dal 10 al 13 gennaio, in modo continuo, e in vario modo, spesso anche in seguito. Era rimasta poca quantità di grano dell’anno precedente qui da noi, e nell’agro romano. Questo fatto fece prendere a Benedetto XIV la decisione di acquistare nel Piceno le granaglie per rifornire l’annona della capitale.  L’incarico di gestire l’affare fu dato ad Antonio Cosimi da Mogliano, della mia diocesi. Egli era tra i nobili familiari del cardinale Valenti, segretario di Stato. Furono comprati oltre 20.000 rubbi di grano ad un prezzo medio tra i cinque e i sei scudi al rubbio, portato fino al porto. A me era stata inviata una speciale raccomandazione. Pertanto ho aderito prontamente all’invito e ho ceduto il frumento al prezzo di soli cinquantasei giuli per ogni rubbio.

Tuttavia era sembrato strano notare quante e quali difficoltà si fossero incontrate nelle varie località della nostra provincia, in parte per una falsa opinione della gente, in parte anche per il timore dei governatori, preoccupati che le annone locali restassero vuote e si potessero ripetere i fatti accaduti nel 1648. La penuria temuta però non si era verificata nella nostra provincia; infatti a seguito del il trasporto a Roma di 20.000 rubbi di grano, dopo la mietitura, era rimasto ancora abbastanza grano dell’anno precedente; inoltre si poté accertare che era rimasta ancora una grande parte del frumento detto “marzatello”.

1748.4    I religiosi Bossi gesuita, e Corsini domenicano predicatori a Fermo.

Durante la quaresima nella chiesa metropolitana ha predicato per la seconda volta il padre Giovanni Battista Bossi della Compagnia di Gesù. Nella chiesa di Santo Spirito, invece, il padre maestro Corsini da Modena dell’ordine dei Predicatori. Ambedue hanno svolto una ben riuscita predicazione, anche se con diverso stile: il primo usò un’esposizione calma e ampia, il secondo invece fu più breve, ma più ardente.

1748.5    Il giovane Clemente Erminio Borgia viene richiamato in casa a Viterbo da suo padre.

Mio fratello Camillo era ormai avanti negli anni e di conseguenza era caduto in una situazione di salute incerta, per cui la famiglia e la casa a Velletri avevano bisogno di un valido aiuto per essere opportunamente governate. Il padre allora fu costretto a richiamare in patria il primogenito dei suoi figli, Clemente Erminio Borgia di anni 19, il quale era vissuto presso di me fin dal 1739 per la sua educazione e per seguire gli studi. E’ partito da Fermo il 26 marzo avendo progredito negli studi quanto gli fu possibile rispetto all’età.

1748.6    Ludovico Antonio Muratori difende con i suoi scritti l’osservanza delle feste dei santi  contro l’opinione del cardinale Quirini – Il vescovo di Ascoli pubblica l’indulto sulle feste dei santi – Benedetto XIV impone il silenzio alla disputa sulle feste dei santi.

Nel frattempo, a Lucerna, in Svizzera, erano state pubblicate a stampa le mie risposte date in lingua latina ai nove punti del cardinale Quirini, sempre contrario all’indulto da me concesso su alcune feste dei santi da celebrarsi senza l’obbligo dell’astensione dai lavori servili. Egli, peraltro scriveva al cardinale Filippo Tommaso di Alsazia, arcivescovo di Malines (Mechelen), in lingua latina e criticava acremente Ludovico Antonio Muratori in ciò che egli aveva scritto sullo stesso argomento sotto lo pseudonimo di Lamindo Pritaneo, nel capitolo 21 nel libro pubblicato a stampa nell’anno precedente, intitolato: Sulla vera devozione dei cristiani.

Muratori in modo egregio ha difeso la sua opinione, nel suo volume, edito a Lucca, concordando con il mio indulto e con le mie argomentazioni che avevo addotte nel corso della discussione insorta tra me e Quirini. Anche il nuovo vescovo di Ripatransone ha pubblicato, nella sua diocesi, il mio indulto che invece non era stato accolto dal suo predecessore. La stessa cosa ha fatto il vescovo di Ascoli nel mese di maggio. Egli, nonostante che fosse stato tra i primi ad spingermi, insieme con i miei vescovi suffraganei, a richiedere a Benedetto XIV la concessione dell’indulto, in seguito ha tardato ad applicarlo. Tuttavia egli giustificò il suo ritardo con una lettera pastorale dotta e ampia.

Il cardinale Quirini, invece, si scagliò con veemenza e pubblicamente contro il Muratori e riuscì a conquistare anche l’opinione del vescovo di Ascoli. Verso di me si era rivolto con un atteggiamento più mite, lamentandosi solamente nei miei confronti, della mia decisione troppo precipitosa, come se non fosse stato sufficiente consultare il sommo pontefice. Pensava che era necessario consultare anche lui. Ma le sue considerazioni, intenzionate contro altri, toccavano perfino lo stesso pontefice, il quale, per porre fine alla discussione, nel mese di novembre di quest’anno, ha pubblicato un editto nel quale rendeva noto che egli all’inizio stesso del suo pontificato, sollecitato dalle richieste di molti, aveva richiesto il parere di quaranta illustri personalità tra cui cardinali e vescovi non solo dell’Italia, ma anche di altri paesi, inoltre quello di teologi e di esperti nella conoscenza dei sacri canoni. Ebbene, tra essi, eccettuati solo sette, gli altri trentatré erano del parere che fosse pienamente utile diminuire il numero dei giorni delle feste. Inoltre quindici di loro pensavano che fosse opportuno che ciò fosse deciso mediante una costituzione generale valida per la Chiesa universale, mentre altri diciotto consigliarono di ascoltare le richieste delle varie Chiese particolari e di tener conto delle loro necessità locali. Per questo egli aveva preferito agire piuttosto in base alle richieste che gli venivano fatte dai singoli vescovi, che non procedere di propria iniziativa. Erano stati concesso alcuni indulti richiesti da alcuni vescovi di santificare le feste minori soltanto con la partecipazione alla Messa e non con l’astenersi dai lavori occupazionali.  Le discussioni erano abortite e si dava colpa al papa che tollerava l’esasperarsi  della disputa. C’era ormai da temere che chi disputava o scriveva potesse eccedere ed avrebbe esasperato il discorso. Ciascun vescovo si poteva giovare di quanto sino ad allora era stato detto e scritto e avrebbe potuto formulare la sua decisione per indicare alla sua diocesi quello che era più opportuno, in base alla situazione particolare e per recare gloria a Dio. Il papa Benedetto fece divieto ad ognuno, di qualsiasi dignità e grado a che nessuno pubblicasse ancora altre cose riguardanti il dover mantenere o diminuire i giorni festivi stabiliti da Urbano VIII, e per le idee sinora pubblicate idee, non discuterne oltre. Comminò inoltre gravi censure e pene contro coloro che contravvenissero alle disposizioni papali. Ciò rappresentò la conclusione che la sapienza di Benedetto XIV escogitò per far finire l’accesa disputa.

1748.7    La causa dei beni di Santa Croce vinta dalla mensa vescovile nel giudizio possessorio.

Torniamo all’argomento delle nostre vicende. Nel mese di ottobre dell’anno precedente nel ritiro di San Martino, per quanto mi fu possibile, ho esaminato la transazione stipulata anticamente, nell’anno 1489, con gli elpidiensi sui diritti dei beni del monastero di Santa Croce. La causa con gli Elpidiensi veniva trattata con molta precisione a Roma davanti a Pietro Paolo Conti, segretario della congregazione del Buon Governo. Il giudice, il 3 di aprile, aveva deciso a nostro favore il possesso, con la giurisdizione e l’immunità che esonerava da tutti gli oneri pubblici il predetto monastero, e aggiunse la sentenza contro ogni opposizione degli elpidiensi. Questi, tuttavia, in maniera testarda si appellarono e decisero di proseguire la causa davanti al plenum della stessa congregazione, e la perdettero. La risoluzione uscì il 28 settembre ed era di questo tenore: La sentenza del signor segretario deve essere confermata e il decreto esecutivo deve essere osservato. Volesse il cielo che gli elpidiensi, abituati a sprecare il denaro pubblico per suscitare tali inutili controversie, imparassero finalmente a risparmiare il denaro e imparassero a restare calmi.

1748.8    La gran quantità di scritti di suor Domenica Adeodata del Divino Amore del monastero di  san Domenico a Loro – Cimitero a San Claudio.

Dopo aver trascorso, a Fermo, i giorni delle feste di Pasqua, sono stato costretto a recarmi a Civitanova, per comporre i dissidi insorti tra le monache del luogo e i frati dell’ordine di sant’Agostino. Costoro, restaurando il loro convento, avevano aperto nuove finestre dalle quali era aperta la veduta sul monastero delle monache stesse. Si era tentato di convincere i frati a desistere dal loro progetto innovativo, ma non si riusciva a trovare a breve un modo adatto per un accordo soddisfacente tra i due contendenti. Comunque in seguito tra le due parti si riuscì a fare l’accordo sulla base delle norme del diritto, dinanzi al mio vicario generale. Poco dopo, tornai a Fermo e il 2 maggio ho scelto, come convisitatori, i due canonici, Francolini e Raccamadoro per compiere la visita pastorale.

Mi sono recato prima a Mogliano poi a Loro. Nel monastero lorese di San Domenico ho trovato la monaca professa Maria Domenica Adeodata del Divino Amore, che aveva scritto numerosi volumi di tematiche divine e ascetiche, a lungo tenuti in grande considerazione da persone religiose esterne. In tali opere però sono stati poi trovati gravi errori e furono pertanto consegnate a me. Richiamai la suora a usare una maggiore prudenza e saggezza di mente. Tutti quei volumi manoscritti sono ora conservati nel nostro archivio.[3] In realtà, se si fa eccezione per gli errori, per la prolissità degli argomenti e per le ripetizioni, tali scritti presentano alcune cose utili, soprattutto per l’istruzione delle monache.

Subito dopo mi sono recato a Petriolo e a Monte San Pietrangeli, mentre a Rapagnano e a Torre San Patrizio, ho inviato il canonico Raccamadoro, come visitatore. Io invece da Monte San Pietrangeli, sono andato a Francavilla, per fare eseguire dei lavori di restauro nella chiesa di santa Giuliana, inoltre, nella casa che ho acquistato presso questo castello ed in altri edifici. I lavori in parte sono stati eseguiti, in parte sono predisposti ed ancora in corso. Successivamente sono giunto a San Claudio in cui non solo avevo programmato molte riparazioni nella chiesa e nell’abitazione, lavori che sono stati terminati nel corso di questo anno, ma avevo l’intenzione di sistemare nella chiesa il pavimento che andava in rovina. Per l’esigenza  delle sepolture dei cadaveri ho deciso di far approntare all’esterno della chiesa verso nord, un’area di cimitero, dove costruire le tombe per seppellire i morti, secondo il rito cristiano.

1748.9   Gli abitanti di Macerata e quelli di Montolmo (= Corridonia) discutono sui confini  del territorio  di San Claudio e sulle imposte dovute per i beni a San Claudio.

Per primi, i Maceratesi si mossero perché fossero fissati i confini tra Macerata e la cittadina di Montolmo, intendevano infatti inserire nella revisione una parte del territorio di San Claudio. Volevano anche affrontare la questione delle tasse che Benedetto XIV aveva imposto anche alla mensa arcivescovile, cioè se dovevano essere versate all’una o all’altra città. La questione era stata dilazionata fino al mio arrivo a San Claudio.

Al mio arrivo giunsero alcuni di Macerata e altri da Montolmo e ispezionarono alla mia presenza i luoghi, ma non fu possibile che raggiungessero tra loro alcun accordo. Da parte mia ho dichiarato che, fatta salva la giurisdizione della chiesa Fermana nel territorio di San Claudio, le parti potevano accordarsi tra loro sui confini. Quanto alle tasse ho detto di averle pagate a Roma e non mi interessava affatto sapere se erano riservate per conto di Macerata o di Montolmo. Ne discutessero pure, escludendo me.

1748.10    Consacrazione di numerosi altari portatili.

Nell’imminenza delle festività della Pentecoste sono tornato a Fermo, ho amministrato la cresima nella chiesa metropolitana ad alcune centinaia di ragazzi e ragazze martedì 4 giugno.  Il giorno 8 di giugno, sabato delle quattro tempora, tenni le sacre ordinazioni. Il 9 giugno, nella festa della SS. Trinità, consacrai novantadue altari portatili, dei quali c’era carenza nella nostra diocesi.

1748.11    L’arcivescovo presiede il capitolo provinciale degli Agostiniani Scalzi.

Stavo continuando frattanto nel mio lavoro. Il 15 giugno ebbe inizio il capitolo provinciale degli Agostiniani Scalzi della provincia Ferrarese e Picena, essendivi stato designato da Benedetto XIV come presidente, affinché si componessero le discordie esistenti tra i frati e si restaurasse la disciplina religiosa. Arsenio da San Liborio da Ferrara, benché assente, fu eletto all’unanimità come priore provinciale. Si presero i provvedimenti per la disciplina religiosa e per la concordia tra i frati. La residenza del priore provinciale con il  suo definitorio, con alternanza triennale, doveva essere fissata a Ferrara e a Fermo. Fu deciso anche che dei quattro padri definitori due fossero scelti tra frati della provincia di Ferrara e gli altri due tra quelli di Fermo; si aggiunse che dei due componenti il “discretorio” per il capitolo generale, uno fosse Ferrarese e l’altro Fermano. Si formularono disposizioni per regolare gli studi letterari, dopo aver eletto il prefetto degli studi. Il tutto fu deciso in perfetta concordia, e in tal modo il capitolo si concluse il 23 giugno.

Frattanto giunse, al Porto di Fermo, il cardinale Pietro Luigi Carafa, accompagnato da mio fratello Pietro Antonio Borgia. Mi sono recato al Porto per salutarlo e, nonostante lo pregassi insistentemente a salire a Fermo, non volle venire perché impegnato da urgenti motivi del suo ufficio.

1748.12    Carlo Bartolucci succede nella prebenda di maestro delle cerimonie – Nicola     Alessandrini è nominato segretario dell’arcivescovo – Alessandro Foschi caudatario.

Era morto Filippo Sensini, prebendato e maestro delle cerimonie nella metropolitana, sacerdote onesto, dotto ed esperto nel suo ufficio, anche se ipovedente e malaticcio. Molti a Roma chiedevano questa prebenda; feci in modo che fosse data a Carlo Bartolucci, che era mio segretario, e del quale, spesso, mi sono servito per dirigere le sacre cerimonie. Inoltre ho nominato mio segretario Nicola Alessandrini da Servigliano che è stato a lungo mio caudatario e lettore, dandogli anche l’incarico di amanuense per le scritture in lingua latina.[4] Affidai poi l’incarico di caudatario ad Alessandro Foschi, chierico di Velletri, che negli anni precedenti avevo portato con me a Fermo affinché, a mie spese, potesse seguire gli studi letterari.

1748.13    L’epidemia dei buoi rende più frequentata la fiera di Fermo.

Alla fine di luglio, mio fratello Fabrizio, vescovo di Ferentino, venne a stare da me e si trattenne fino all’inizio di settembre. Celebrammo insieme la ricorrente festa dell’Assunta; seguì la fiera  frequentata più del solito. Le fiere altrove in quel periodo, per il sospetto di una epidemia dei buoi, che si era diffusa nella Legazione di Ferrara e altrove per tutta l’Italia, venivano proibite o soppresse. Vennero da me anche il governatore di Loreto Giovanni Battista Stella, e il Ferreri.

Dopo ciò, ripresi a pensare alla visita pastorale, ma erano insorte molte e gravi liti nella ricchissima famiglia Forti di Mogliano, che era tra le prime del luogo. Per tali controversie dovevano assolutamente fare la composizione. Sono stato per questo trattenuto a Fermo. Infatti alla mia presenza si erano presentati,  insieme con degli avvocati esterni e imparziali, per discutere in merito a tutte le loro controversie, in ogni loro aspetto. Infine la transazione fu conclusa in modo amichevole e ritornò la pace tra lo zio e i nipoti.

1748.14    Causa di beatificazione del Servo di Dio Antonio Grassi, sacerdote oratoriano.

Nel mese di settembre, a Roma, nella sacra congregazione dei Riti, doveva tenersi la riunione, detta anti-preparatoria, per la beatificazione del venerabile Servo di Dio Antonio Grassi, preposito della congregazione dell’oratorio di Fermo. Si discuteva sul fatto “se consti delle virtù teologali e cardinali in grado eroico” su cui io, nel 1741, per autorità apostolica, avevo concluso il processo informativo. La grande importanza della cosa richiedeva che volgessimo i nostri occhi a Dio con pubbliche preghiere, implorando la luce dal Padre dei lumi. Speciali preghiere furono fatte, con triduo, nella chiesa di Santo Spirito della congregazione dell’Oratorio, mentre era esposta la divina Eucaristia. Infine il 27 settembre, io stesso intervenni alla celebrazione e benedissi il popolo. Nello stesso giorno, a Roma, fu proposta la causa e fu molto discussa, ma furono presentate molte obiezioni che poi, con le osservazioni fatte dal promotore della fede, e pervenute al sommo pontefice, furono a noi comunicate. La motivazione era questa: dai processi istruiti non risultava sufficientemente accertata la pratica eroica delle virtù nella vita del venerabile servo di Dio. Le prove dovevano basarsi su testimonianze di cose viste, non semplicemente ascoltate da altri <testimoni indiretti>.

1748.15    Due condanne capitali per impiccagione a causa dell’omicidio di un sacerdote.

Il 28 dello stesso mese, a Macerata, fu impiccata una figlia parricida, originaria di Camerino, la quale aveva chiesto nella nostra diocesi l’asilo che, peraltro, per quell’orribile delitto, nella nostra curia non poteva essere concesso. Venne poi giustiziato, con lo stesso supplizio, un altro condannato. Il 30 di settembre poi fu la volta di due uomini che avevano ucciso un sacerdote, uno originario di Loreto, l’altro di Giulianova, paese del regno di Napoli. Nell’anno precedente (come noi abbiamo raccontato nella nostra cronaca) avevano ucciso il sacerdote Nicola Antonio Porfiri canonico a Morrovalle. Erano stati trattenuti a lungo nelle carceri del governatore e furono infine impiccati. Il cadavere del primo è stato dilacerato per rendere noto a tutti l’orrore di un così grave delitto.

1748.16    Pietro Bonaventura Savini rinuncia al vescovato di Montalto e gli viene assegnato il  titolo di arcivescovo di Sebaste – Leonardo Cecconi gli succede nella sede di Montalto.

Pietro Bonaventura Savini, da parecchio tempo era assente dalla sua Chiesa di Montalto, perché malato. Si era ritirato presso la sua casa paterna, a Camerino, ed era impedito dalla sua malattia tanto da non ritornare in sede, per cui aveva presentato la sua rinuncia alla diocesi. Ottenne di riservarsi una pensione di cinquecento scudi. Benedetto XIV gli concesse, a titolo di onore, la dignità di arcivescovo di Sebaste. Senza dubbio, era un uomo di distinta rettitudine, e nel corso del suo episcopato aveva compiuto molte cose buone. Fu sempre unito a me da grande amicizia. Suo successore è stato nominato Leonardo Cecconi, patrizio e canonico di Palestrina, quasi sessantenne. Nel mese di novembre, dopo essere entrato in possesso della sua Chiesa, venne da me a rendermi la consueta visita di omaggio.

1748.17    Vengono annesse al convento dei Cappuccini di Fermo due piccoli pezzi di terra per piantarvi una piccola selva –  Grande recipiente di bronzo messo in episcopio                  – Riscattate alcune vigne a Monteverde.

Ciò che da tempo andavo meditando, finalmente l’ho potuto realizzare; ho potuto annettere al convento dei Cappuccini due piccoli pezzi di terra, alle pendici del Girfalco, dalla parte meridionale, per ampliare la loro selva e venire incontro  alle necessità dei religiosi, ma anche per aumentare la stabilità della parte superiore della collina e delle mura della città che sono sottostanti a queste terre. Poiché infatti ogni anno queste venivano coltivate, il terriccio dal monte scivolava continuamente in basso, non senza rischio per le costruzioni che sono sopra la collina. Anche le mura cittadine del resto subivano danni da queste coltivazioni e non lievi. Un pezzo di terra lo acquistai da Orazio Brancadoro, rettore del beneficio di San Giacomo nella cattedrale; il secondo frustolo, lo presi in enfiteusi per un canone annuo di trentacinque giuli dal parroco di San Martino, a nome della pia opera dedita alla riparazione degli edifici dei frati Cappuccini, istituita da Filippo Morici sotto la sorveglianza dell’arcivescovo di Fermo. Ho fatto acquistare un grande recipiente di bronzo per la cottura del mosto (caldaia) e ho fatto preparare un locale apposito per collocarlo nell’episcopio. A Monteverde inoltre ho mandato nuovi coloni allo scopo di coltivare il terreno della mensa arcivescovile e, affinché a questi non mancasse il vino, ho riscattato un vigneto accanto al mio terreno, piantato da alcuni miei dipendenti. L’ho aggiunto come dote al terreno della mensa.

1748.18    Alcuni lavori di restauro fatti eseguire nella chiesa metropolitana.

Durante il presente anno sono stati eseguiti anche molti altri lavori di restauro: prima di Pasqua la copertura di marmo degli stipiti della porta meridionale, dopo si è passati al tetto. Quest’ultimo lavoro, nel passato, non era stato fatto bene dai nostri muratori, né la prima né la seconda volta. Furono imbiancate anche le pareti all’interno con opportuni colori intervallati. A mie spese era stato poi costruito l’arco vicino all’organo dalla parte orientale. Nell’abside venne scavata la scala a chiocciola con un lavoro complicato. La parte superiore dell’abside venne ripulita. Le colonne che reggono le statue di marmo dei santi apostoli Pietro e Paolo sono state nascoste e protette con assi di legno e molte pareti che erano di marmo, ma ricoperte di calce, sono state ripulite.

1748.19    L’arcivescovo dedica il terzo volume a stampa delle sue omelie a Benedetto XIV.

Ho trascorso l’intero mese di ottobre a San Martino, da dove ho indirizzato una lettera a papa Benedetto, con la quale ho chiesto il permesso di poter dedicare a lui le omelie da me tenute dal 1738, fino a tutto il 1744, la cui edizione a stampa, a Fermo, era ormai in fase avanzata. Questo era il terzo volume delle mie omelie. Il primo, infatti, contiene le omelie dette a Nocera Umbra, il secondo le omelie a Fermo che vanno fino a tutto l’anno 1737, già pubblicato a Camerino.[5]

Benedetto XIV benignamente mi rispose subito, approvando la mia decisione ed espresse tutta la sua gratitudine per la dedica a lui rivolta.

1748.20    Non si può prevedere la qualità dell’inverno, fondandosi sulle nevicate verificatesi   durante l’autunno.

Dagli inizi del mese di novembre, ci aspettavamo che sarebbe venuto un inverno molto rigido, con grande abbondanza di neve. Dal 23 novembre, per alcuni giorni, si verificarono abbondanti nevicate. Poi il tempo si rimise al bello e si mantenne tale per tutte le feste del Natale del Signore. Anche nell’anno seguente l’inverno fu mite; soltanto alla fine di marzo, la temperatura diminuiva perché ci furono alcuni giorni di neve.  Da ciò si deve concludere che non si può giudicare come sarebbe statos l’inverno, basandosi sulle nevicate che avvenissero durante autunno, nei giorni dei primi gravi freddi.

Nella festa di san Tommaso apostolo regalai all’altare maggiore della metropolitana un paliotto di seta rossa, intessuta d’oro.

1748.21    Pietro Antonio Borgia è nominato canonico coadiutore della basilica Lateranense.

Benedetto XIV, mentre mi trovavo a Roma, nel 1745, mi aveva promesso di nominare mio fratello Pietro Antonio canonico di qualcuna delle basiliche urbane. Il 7 dicembre, decise di crearlo canonico nella basilica Lateranense, coadiutore, con diritto di successione, del canonico Antonio Rota, addetto all’archivio segreto e che era consenziente. Ne ringraziai il sommo pontefice. Si dovette pagare l’ingente somma di denaro di 1267 scudi d’argento per la spedizione delle lettere apostoliche di nomina a questa coadiutoria. Mio fratello, il primo gennaio dell’anno successivo, ne prese il possesso.

1748.22   Vincenzo Paccaroni lascia il canonicato della metropolitana – Luigi Paccaroni     nominato canonico della metropolitana.

Vincenzo Paccaroni, che, quando era poco più che adolescente, era stato assunto dal cardinale Pompeo Aldrovandi, prefetto della dataria apostolica, nell’incarico di canonico coadiutore del canonico Valentino Paccaroni, uomo esimio ed espertissimo in materia di giurisprudenza nella metropolitana di Fermo, senza che io ne fossi avvertito, anzi contro il mio parere, era giunto ad essergli successore nella predetta carica; ma il giovane Vincenzo non manifestava alcuna propensione verso gli ordini sacri, anzi come primogenito di una famiglia nobile e ricca, pensava di sposarsi. Pensai bene di rimandare la sua nomina e nel frattempo fortunatamente egli decise di rinunciare spontaneamente alla nomina di coadiutore, a favore del fratello Luigi che si era dedicato agli studi di sacra Scrittura e aveva sostenuto un’interessante discussione di una tesi nello studio dei  Domenicani. D’altro canto, era evidente la propensione del giovane Luigi verso lo stato ecclesiastico ed erano note le sue qualità morali.[6]

1748.23    La pace stipulata ad Aquisgrana e le gravi condizioni per gli interessi della cattolicità–  Le imposte fissate alla cifra di 120.000.

Durante il presente anno, è stato realizzato per la pace qualcosa di serio. I Francesi, gli Inglesi, gli Olandesi ad Aquisgrana firmarono gli accordi preliminari della pace. Subito dopo gli Spagnoli, gli Austriaci, il re di Sardegna, i Genovesi e il duca di Modena si aggregarono. Però i patti non furono stipulati in modo solenne, soltanto con modalità ordinaria.

I Francesi hanno ceduto ciò che avevano conquistato, ricevendone dagli Inglesi l’isola che è in America, comunemente detta Capo Bretton, la cui perdita per loro era pesante. Gli Spagnoli ottenevano Parma, Piacenza e Guastalla per Filippo secondogenito dalle seconde nozze del defunto Filippo re di Spagna, col patto di restituirle ai loro antichi signori se egli, nel caso in cui il fratello Carlo divenuto successore sul trono di Spagna, avesse avuto il regno delle due Sicilie. Tutti gli altri ritornarono in possesso dei propri territori e anche il re di Sardegna riacquistò dagli Austriaci tutti i suoi territori ad eccezione di Piacenza.

Per la stipulazione di questa pace si erano verificate due situazioni dannose per la religione cattolica: prima di tutto nel regno di Gran Bretagna la legittima dinastia cattolica degli Stuart venne esclusa dalla successione e il regno venne assegnato, in perpetuo, a principi non cattolici; in secondo luogo la Slesia, che negli anni precedenti, nel pieno del conflitto, era stata separata dall’eredità della casa d’Austria, venne confermata ai Brandeburghesi  e governata da principi non cattolici. Ma anche altre decisioni che furono prese, andavano contro i diritti della Sede Apostolica. Ad esempio, per quanto concerneva Parma e Piacenza, fu deciso quanto detto sopra, senza tenere in conto del fatto che esse per più di due secoli erano appartenute alla santa Sede che poi essa stessa aveva concesso ai figli maschi della famiglia Farnese, ma a titolo di diritto beneficiario. Non furono tenuti poi in nessun conto i danni arrecati nelle province della Chiesa Romana  dalle truppe degli Spagnoli, dei Napoletani e degli Austriaci, a causa dei frequenti passaggi, delle lunghe permanenze, degli assedi e delle battaglie combattute nei nostri territori.

Pertanto mentre le altre nazioni, che erano state toccate dalla guerra, traevano un qualche beneficio dai patti scaturiti da questa pace di Aquisgrana, per la Sede Apostolica e per i suoi territori, che pur essendo estranei alle motivazioni del conflitto, ma erano  stati usati come teatro della guerra, la situazione risultò aggravata, visto che la nostra provincia Picena e le altre città e paesi dello Stato della Chiesa (ad eccezione di Roma e delle legazioni di Bologna e Ferrara) vennero costretti a pagare 120.000 scudi d’argento, da consegnare nello spazio di diciotto anni, per coprire le spese contratte per i transiti e gli stazionamenti delle truppe straniere. E a ciò tutti furono costretti, senza alcuna differenza tra i laici e il clero. E tutto questo non sarebbe stato sufficiente. Altri 100.000 scudi restavano in più da dividere nel pagamento.

Non erano stati computati in tutto ciò i danni che furono inflitti dai soldati stranieri allo Stato Romano ed ai privati nei luoghi dove erano avvenuti gli scontri. Se qualcuno avesse voluto calcolare i danni inferti gravemente a tutto il territorio dello Stato della Chiesa, lo avrebbe potuto fare solo con grandissima difficoltà. Giustamente, quindi, dopo aver conosciuto i patti della pace di Aquisgrana e il trattamento riservato, così dannosamente e disgraziatamente, alla religione cattolica, alla Sede Apostolica e a tutti noi,  non erano state rivolte azioni di grazie a Dio, ma volevamo indirizzare a Lui la preghiera di allontanare da noi simili calamità e pregare perché egli ci concedesse una pace più giusta.

Per questo nella omelia da me detta, il primo gennaio dell’anno successivo, consigliai il popolo, sull’esempio del papa Niccolò III, che al fine di impetrare da Dio la pace tra i cristiani, si cantasse il salmo 121 “Quale gioia quando mi dissero” durante le funzioni religiose. Io ho fatto la spiegazione del salmo 121, cantato nell’esposizione solenne dell’Eucaristia, durante tutto il mese di gennaio.[7]

1748.24    Ad un enfiteuta della mensa arcivescovile viene estorta una tassa sul vino.

Alla fine dell’anno, la sacra congregazione per il Governo della città e del contado di Fermo, che aveva assorbito, in questi territori, i compiti esercitati dalla congregazione del Buon Governo per tutto lo Stato del dominio papale, ci fu una scelta voluta dai sommi pontefici, per il pagamento della tassa sul vino, venduto al minuto. Il funzionario del governo centrale costrinse a pagare la tassa uno degli affittuari della nostra mensa a Grottammare, senza tener conto di quella distinzione che la congregazione del Buon Governo aveva stabilito il 6 luglio 1715, cioè che la tassa era esigibile solo se il vino non era quello prodotto dalla mensa arcivescovile. Ora l’affittuario non solo aveva pagato, senza avermi consultato, ma lo aveva fatto contro la mia volontà. Io, infatti, avevo proibito che nei beni della mensa si facesse ciò che poteva generare gli scandali che provengono dai simposi. Mi lamentai con Roma per l’abuso commesso, ma non ho insistito, aspettando i tempi più opportuni.



[1] I due casi riferiti stanno a denotare una tendenza del clero locale di voler elevare le proprie chiese matrici ad un rango superiore di dignità, creando in esse dei collegi di canonici (collegiate) in modo da creare prebende che assicurassero un sicuro sostentamento, senza però assumere l’onere della cura delle anime. Ciò provocava due gravi danni: si pregiudicava la cura delle anime con una scarsa efficienza e poca incisività ; inoltre si depauperavano le risorse delle confraternite e delle altre pie istituzioni dedite alla beneficenza e all’assistenza, dirottando le loro risorse al fine di assicurare le prebende dei canonici. Giustamente l’arcivescovo Borgia si opponeva tenacemente a tali iniziative che a volte trovavano benevola accoglienza nella curia Romana.

[2] La costituzione Apostolica di Sisto V del 1587 esigeva che ogni vescovo era tenuto a presentare periodicamente alla Santa Sede una relazione sullo stato della propria diocesi.

[3] I volumi manoscritti di Maria Domenica Aadeodata, a cui accenna il Borgia, ben rilegati, occupano l’intero primo palchetto del secondo scaffale nell’attuale sala Borgia, nell’archivio arcivescovile Fermano.

[4] Forse questo Alessandrini potrebbe essere considerato l’amanuense della copia della Cronaca fermana esistente nell’archivio diocesano. Tra i manoscritti della biblioteca comunale di Fermo si conserva uno (numero 220) dei due volumi delle lettere borgiane scritte dall’amanuense Alessandrini. Ci sono altri manoscritti pertinenti: il n. 1263 è  il decreto contro la bestemmia; n. 1259 la riduzione dei giorni festivi non lavorativi, in questione con il card. Quirini; il n. 1523 autografi dell’arciv. A. Borgia. Questa notizia è derivata dal repertorio dei manoscritti della stessa biblioteca fermana, opera del prof. Serafino Prete.

[5]  Tra le numerose omelie del Borgia, sinora, gli studiosi si sono limitati  a prendere in considerazione quelle dedicate alla trattazione delle origini cristiane di Fermo, dei suoi primi vescovi e dell’agiografia fermana. Il Prete afferma che questo arcivescovo è stato il primo che ha sistemato la (tardiva) tradizione riguardante le origini cristiane di Fermo. PRETE, S., Pagine di storia Fermana. Fermo 1984 p. 22. Sarebbe necessario svolgere un lavoro di approfondimento tematico per porre in risalto gli aspetti  teologici, morali, ecclesiologici e pastorali del pensiero dell’arcivescovo Borgia.

[6] L’episodio riferito mette a nudo il metodo, che rasentava lo scandalo, di considerare un beneficio o un ufficio in funzione di una persona e non al contrario di riferire la persona prescelta in relazione all’incarico da espletare. L’atteggiamento tenuto dal Borgia giustifica il giudizio che di lui ha espresso qualche studioso, definendolo “conservatore illuminato”.

[7] Le sintetiche considerazioni sulla pace di Aquisgrana proposte dal Borgia evidenziano naturalmente una logica politica tipica di una mentalità propria dell’antico regime che tiene conto degli interessi dei sovrani. Non sono assenti accenni ad una sensibilità per la sorte delle popolazioni.

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