ANNO 1744
1744.1 <Introduzione al volume secondo delle cronache>
Nel primo volume delle cronache della Chiesa Fermana, ho trattato degli eventi dei primi diciannove anni del mio episcopato fermano. Ora continuo la mia opera affinché nulla resti nascosto ai miei successori di ciò che è successo durante il periodo nel quale io Alessandro Borgia ho governato la Chiesa Fermana.
Le modalità e la straordinarietà degli eventi di questo anno, descritto in questo secondo volume, mi renderebbero più rapido e breve nella narrazione, se i tanti eventi disastrosi capitati nello Stato della Chiesa, nei quali è stato coinvolto anche il nostro Piceno, non mi spaventassero al solo narrarli. Nel raccontare, non mi soffermerò ad esporre i singoli fatti, né mi soffermerò ad analizzare le cause e l’origine delle calamità, tuttavia da quanto ho già accennato degli avvenimenti dei precedenti anni, il lettore può benissimo intendere i germi che procurarono i mali accaduti. Nell’esposizione dei fatti di seguito, mi dilungherò più di quanto ho fatto nel precedente volume. Purtroppo se ci fu per me un anno carico di impegni e pieno di fastidi, questo fu appunto proprio quest’anno (1744).
1744.2 Inizio della causa di canonizzazione di Angela Caterina Borgia – Comando navale affidato a Cesare Borgia mio nipote.
All’inizio di quest’anno era iniziata la causa di canonizzazione di Angela Caterina Borgia, mia sorella, di cui ho dato notizia nel precedente anno 1743. Era stata presentata dinanzi a Ludovico Antonio Cremona Valdina vescovo di Ermopoli a ciò deputato con autorità ordinaria dal cardinale vicario di Roma.
Mio fratello Cesare Borgia, cavaliere gerosolimitano, raggiunse Centocelle per assumere il comando della nave da combattimento contro i pirati; opportunamente, infatti, Benedetto XIV aveva disposto la sorveglianza della costa romana contro i barbari (=aggressori) che insidiavano il litorale nel periodo invernale, allorché le triremi della flotta pontificia stazionavano nel porto. E’ stata questa la prima volta di un incarico di comando affidato a Cesare Borgia, mio nipote, sulla nave da ispezione.
1744.3 Avvistamento di una cometa.
Durante il mese di febbraio, spesso, fu vista nella parte orientale del cielo una cometa, con il suo strascico luminoso, e ciò accadeva poco prima del sorgere del sole. Essa sorgeva dal mare e destava una certa impressione per il colore rossiccio della coda che si protendeva verso il settentrione, simile al colore del sangue. Agli occhi della gente comune, essa era foriera di minacce e di disgrazie, sia per gli Stati con i loro governanti, sia per le singole persone. Se ci mettessimo a considerare gli avvenimenti disgraziati successi in seguito, si avrebbe la tentazione di dire che questa opinione del volgo era vera.
1744.4 Marco Antonio Massucci finora vicario generale a Fermo viene nominato vicario apostolico di Acquapendente.
Nello stesso mese di febbraio, Marco Antonio Massucci, decano del capitolo della cattedrale di Recanati, e per otto anni mio vicario nell’episcopato Fermano, lasciò Fermo. Benedetto XIV infatti lo aveva nominato vicario Apostolico della diocesi di Acquapendente, rimasta priva del vescovo, per la rinuncia presentata da mons. Simone Gritti. Marco Antonio Massucci era un uomo integerrimo, prudente ed esperto del governo; purtroppo a causa della sua infermità, dato che spesso soffriva di podagra e di chiragra, e per gli impegni e le preoccupazioni che gli erano causate dal grande patrimonio di famiglia, a cui egli era costretto a dedicarsi, e che lo distraevano dall’ufficio, si allontanava spesso ed era frequentemente assente dalla sua sede, anche a motivo del fatto che il luogo di residenza della sua famiglia era abbastanza vicino. Per questa ragione, mi ero convinto che non era opportuno nominare vicario qualcuno la cui famiglia abitasse vicino alla città della sede che era chiamato a reggere.
Finora ho trattato di temi religiosi e civili, ora però è necessario ed è tempo di affrontare argomenti luttuosi e tristi che riguardano le guerre e l’uso delle armi.
1744.5 Gli Spagnoli si ritirano da Pesaro e, attraversando la costa Fermana, si dirigono verso il regno di Napoli.
Il 7 marzo il duca di Modena, comandante supremo delle truppe degli Spagnoli e Gages, il primo dopo di lui, con tutto l’esercito e le armi, non fidandosi delle fortificazioni di Pesaro, di nascosto cominciarono ad allontanarsi da lì.
Giorgio Cristiano Lobkowitz, principe dell’Impero, governatore e maresciallo supremo comandante degli Austriaci, che era succeduto al generale Thaun, occupò le fortificazioni pesaresi e si mise all’inseguimento degli Spagnoli. Avanti a sé mandò tremila uomini affinché li tallonassero più da vicino. Nei pressi di Loreto ci fu una breve battaglia e gli Spagnoli si allontanarono con l’intenzione di giungere al Porto di Fermo, dove fin dall’11 marzo avevano inviato un’avanguardia. I bagagli e i feriti, che erano soliti inviare prima di tutti, giunsero il giorno successivo il 12, a Fermo. I malati furono alloggiati nel convento di sant’Agostino, gli invalidi e i convalescenti furono sistemati a Santa Caterina.
Giunsero anche i commissari dell’esercito, i quali cominciarono a lamentarsi e a protestare contro il governatore di Fermo e contro le autorità cittadine, perché nel Porto di Fermo mancavano molte delle cose necessarie ai soldati. In effetti, a causa del poco tempo avuto e delle poche cose disponibili, non erano stati fatti tutti i preparativi. Per terrorizzare la città, si riversò in essa un reparto di cavalleria che riempì la piazza alle ore 20 del giorno 13 marzo. I soldati minacciavano il governatore e la sua famiglia, invadendo il ripostiglio della paglie; sequestrarono le autorità della città e minacciarono di distruggere le case. Il governatore, che soffriva di reumatismi, mi chiedeva di accorrere in suo aiuto. Subito mi recai da lui, passando in mezzo alla cavalleria a cui rivolsi il mio saluto; ho cercato di rassicurare e tranquillizzare le autorità, il governatore e i cittadini.
Gli ufficiali, ricevuta la promessa e l’impegno di consegnare tutto quanto da loro richiesto, dopo essere stati rifocillati, se ne andarono; restò però un certo numero di soldati, giunti in un secondo tempo. Si faticò intensamente per tutta la giornata, per predisporre ogni cosa. La cosa più difficile era quella di approntare tanto pane da sfamare l’esercito, per tre giorni, circa 13.000 soldati ai quali si dovevano aggiungere altre 2000 persone tra donne e servi. Essi anzi pretendevano che tutta la quantità del pane fosse preparata in anticipo per il giorno dopo. Ho allertato tutti i religiosi e tutte le monache che mettessero a disposizione tutta la farina che potevano racimolare e alle suore ho chiesto anche che confezionassero il pane. Il governatore non si sentiva sicuro di restare ad abitare nel suo palazzo; per questo l’ho accolto nella mia residenza per quella notte. Di fatto egli restò da me per altri due mesi.
Il giorno 14, il pane era pronto e a disposizione, e furono preparate anche le altre cose che erano state richieste: furono infatti messi a disposizione più di cento paia di buoi per il trasporto dei malati e dei bagagli che quel giorno si mossero verso Grottammare. Finalmente se ne andarono anche i soldati e gli altri. Nello stesso giorno, verso mezzogiorno, giunsero al Porto di Fermo il duca di Modena, e Gages con l’intero esercito. I rappresentanti della città si recarono a salutare il duca e Gages; l’intero esercito pernottò, non all’aperto, ma nelle case, con non lieve incomodo degli abitanti. In conclusione la città di Fermo dovette subire tristi conseguenze da parte degli Spagnoli in fuga. Non minori danni la città dovette subire per colpa degli Austriaci che li inseguivano.
Nel giorno 15, mentre di buon mattino gli Spagnoli, a marce forzate si allontanavano, gli Austriaci inseguitori con un esercito di 52.000 soldati, giunsero al Porto di Fermo. Già nella notte precedente, più di trecento soldati ungheresi a cavallo, detti Ussari, erano entrati nei confini del territorio governato da Fermo, all’inseguimento degli Spagnoli sbandati e si stanziarono in varie località e in particolare a Falerone, a Monte Vidon Corrado e a Grottazzolina e saccheggiarono alcune case di contadini. Di prima mattina, arrivarono dentro la città di Fermo e iniziarono a ispezionare le abitazioni, sempre alla ricerca degli Spagnoli dispersi, per arrestarli, farli prigionieri e spogliarli dei propri bagagli¸ e ne presero pochi. Occuparono l’infermeria approntata nel convento di sant’Agostino e sequestrarono tutte le armi ai pochi soldati che erano stati già ricoverati nell’ospedale della città. Inseguirono poi l’esercito Spagnolo che non si era radunato a Grottammare, luogo convenuto, ma i militari avanzarono verso il fiume Tronto per essere pronti ad attraversarlo. Però, non essendovi un ponte, nell’attesa che venisse costruito, ritornarono a Grottammare dove il giorno 16 marzo ebbero un piccolo scontro con alcuni soldati Austriaci. Questi si allontanarono fino al fiume Menocchia, mentre gli Spagnoli si dirigevano verso il regno di Napoli e mettevano a ferro e a fuoco il castello di Grottammare e di San Benedetto <del Tronto> affinché gli Austriaci non vi trovassero nulla.
Verso la sera dello stesso giorno intanto arrivarono al Porto di Fermo un centinaio di soldati di cavalleria Austriaci e pernottarono all’aperto, presso la chiesa di Santa Maria a Mare.
1744.6 Il popolo di Fermo organizza preghiere per ottenere la protezione di san Savino.
Nel bel mezzo di tutti questi sommovimenti, pensai fosse opportuno che il popolo, trepidante a causa dei pericoli imminenti, chiedesse soprattutto l’aiuto di Dio. Prima di tutto ordinai che, dopo la celebrazione della Messa, si cantassero le litanie lauretane con l’orazione prescritta nei casi di calamità. Disposi poi che, il giorno 14 marzo, si facesse, nella chiesa dei Cappuccini, la solenne esposizione dell’Eucaristia. Inoltre decisi che il giorno 15, in cui cadeva la quarta domenica di quaresima, fosse solennemente esposta la reliquia del capo di san Savino, vescovo e martire, sull’altare maggiore della chiesa cattedrale. San Savino era il patrono particolare della città di Fermo. La tradizione infatti, riferita da Paolo Diacono nella sua “Storia dei Longobardi” lib. 4 cap. 5 diceva che nel passato il suo aiuto era invocato specialmente nelle guerre e che egli aveva compiuto anche miracoli a beneficio della città ed era il pegno della sicurezza. Infine, come motivazione al sacro culto, chiesi che in diverse chiese, in ciascuno dei giorni successivi, si tenesse esposto il SS. Sacramento per l’adorazione eucaristica.
1744.7 Il generale Lobkowitz si insedia al Porto di Fermo – L’arcivescovo e il governatore hanno con lui un lungo colloquio.
La mattina del 17 marzo, arrivò al Porto di Fermo, Lobkowitz, comandante supremo dell’esercito austriaco, accompagnato da un gran numero di soldati di cavalleria e di fanteria. Nel frattempo da molti amministratori venivano presentate lamentele e proteste provenienti da diverse località della diocesi, per gli stupri commessi a danno delle donne, e in generale per i danni arrecati alla popolazione ad opera dei soldati.
I magistrati di molte città mi pregarono di recarmi con i loro rappresentanti dal generale Lobkowitz per chiedergli di garantire la sicurezza e l’incolumità degli abitanti dei paesi e delle campagne. In particolare venivano prese di mira le località lungo la costa adriatica. Antecedentemente, qui erano passate le truppe Spagnole che ora stavano fuggendo e avevano commesso violenze e danni; ora di nuovo i soldati Austriaci che li inseguivano, facevano danni .
Insieme con il governatore, che era ancora convalescente a casa mia, e con i rappresentanti ufficiali della città, ci siamo recati da Lobkowitz, dal quale siamo stati ricevuti con somma cortesia ed onore. Mi è venuto infatti incontro e, dopo avermi stretta la mano, ci ha invitato a sedere. Gli ho illustrato le richieste che si riferivano alla quiete e alla sicurezza del territorio del Governo Fermano.
Particolarmente gli ho chiesto che i soldati Ungari, detti Ussari, a cavallo, che erano stati mandati a scorrazzare per il ogni luogo della provincia e provocarono gravi danni ai campi e agli agricoltori, fossero richiamati da lui prontamente negli accampamenti e che fossero costretti a rispettare le norme della disciplina militare. Gli facevo notare che la popolazione non aveva nulla contro i militari, nel caso che essi rispettassero le regole fissate dal comandante, e che, invece, la gente era molto sconcertata quando i soldati giravano sparpagliati, vagando per i paesi e le campagne. Il generale Lobkowitz ha risposto dandomi piena assicurazione che avrebbe provveduto a fare quanto necessario.
Si è poi parlato delle questioni logistiche, degli alimenti e del pascolo per i cavalli. A questo proposito, il governatore gli ha detto che gli Spagnoli avevano già esaurito tutte le scorte e specialmente mancava del tutto il fieno e la paglia e che anche l’orzo era scarso; era disponibile soltanto una certa quantità di grano siciliano, detto granturco. Io glielo offrivo avendone in abbondanza. Egli rispose che il granoturco nuoceva ai cavalli e che comunque egli avrebbe cercato il fieno laddove esso era reperibile. Per il resto dei problemi, egli non aveva bisogno di nulla, infatti ci siamo accorti che egli disponeva di una flotta austriaca con navi da carico a Rimini e a Senigallia abbondantemente fornita di ogni genere di alimenti necessari. Noi l’avremmo visitata, a meno che il vento e le condizioni del mare non avessero impedito l’attracco delle navi.
Queste parole hanno rassicurato e dato fiducia agli altri. Io, invece, consideravo bene le frequenti tempeste che si erano verificate durante l’anno, e conoscevo il difficile attracco che offriva la nostra costa, pertanto le parole del generale non hanno cancellato i miei dubbi e mi facevano prevedere gravi calamità.
Comunque l’incontro fu caratterizzato dalla gentilezza e dal tono amichevole. Lobkowitz chiamava gli Spagnoli, non nemici, ma, antecessori (passati prima) e diceva che tutto quello che noi avevamo dato agli antecessori lo dovevamo dare a lui.
1744.8 Gli Spagnoli si trasferiscono in Abruzzo.
Frattanto, costruito il ponte sul fiume Tronto, il 17 e il 18 marzo, gli Spagnoli penetrarono nel territorio del regno di Napoli. Le pesanti macchine da guerra erano però rimaste arenate nel fiume Tronto e non erano stati in grado di disincagliarle.
Dopo aver incendiato il ponte sul Tronto, gli Spagnoli si diressero verso Giulianova e raggiunsero Pescara dove esisteva un robusto fortilizio che i Napoletani si affrettarono a rinforzare. Poi si sistemarono nei paesi e castelli dell’Abruzzo, lungo il corso del fiume Pescara. I buoi, i cavalli e i carri che gli stessi Spagnoli avevano portato via dai territori pontifici e quelli che la gente aveva consegnato loro, od essi portarono con sé in Abruzzo, da qui lentamente, in buona parte, tornarono indietro di nascosto, la maggior parte ad opera di privati, ma alcuni si dispersero. I contadini poi che accompagnarono gli animali, li abbandonarono e, preoccupati di salvare la propria vita, fuggirono cercando di raggiungere le proprie case per vie traverse, segrete e poco frequentate.
Anche Fusarelli di Viterbo, che svolgeva il ruolo di commissario Apostolico presso l’esercito Spagnolo, dopo aver accompagnato queste truppe fino a Fermo, non proseguì più oltre, come sarebbe stato suo dovere, fino al confine del regno di Napoli per recuperare le nostre proprietà, ma andò prima a Viterbo, poi a Roma.
1744.9 Accampamenti degli Austriaci a Santa Maria a Mare – I militari si danno a infastidire i contadini – Lobkowitz li rimprovera e punisce severamente i soldati indisciplinati.
Il giorno 18 marzo, le truppe rimanenti di cavalleria e tutta la fanteria raggiunsero il Porto di Fermo. La fanteria arrivava al numero di 22.000 e con i malati, gli stallieri, gli asinai, i servi e le donne arrivavano a 28.000. Inoltre giunsero 8.000 cavalli, buoi e muli, alcuni dei quali servivano per i soldati, per i capi e per gli ufficiali, altri per fare i trasporti di oggetti e di viveri. Il generale, fissò l’accampamento a Santa Maria a Mare, dove c’era l’opportunità di rifornirsi facilmente di acqua nel fiume Ete, dispose tuttavia alcuni reparti di cavalleria, in particolare gli Ussari, a Grottammare, a San Benedetto e al Porto d’Ascoli. Egli fissò il suo quartiere generale, insieme con alcuni capitani e ufficiali, al Porto di Fermo presso gli edifici di proprietà della famiglia Maggiori.
I contadini furono però sempre infastiditi e vessati dai soldati che giravano per le campagne. Pertanto ne scrissi a Lobkowitz affinché, come aveva promesso, affrontasse la situazione fissando precise regole; egli mi rispose dandomene assicurazione. Siccome però i soldati continuarono ad insolentire e infastidire la popolazione, il 19 marzo nei pressi dell’edicola che sorgeva lungo la strada che da Fermo conduceva al Porto di Fermo, verso sera due soldati furono uccisi e un terzo ferito. Perciò l’ira del generale si accese e crebbe ancora di più allorché venne a sapere che alcuni soldati avevano fatto violenza ad alcuni contadini del villaggio di Capodarco e avevano costretto alcuni militari di polizia ad offendere le persone più ragguardevoli del luogo. I campagnoli poi, temendo che altri sarebbero venuti e che si sarebbero ripetute e accresciute le violenze operate in antecedenza dagli Spagnoli, presero dei fucili e spararono alcuni colpi in aria senza ferire nessuno. Per questo fatto i soldati arrestarono alcuni contadini, consegnandoli ai comandanti.
Lobkowitz di nascosto, ma in modo deciso, ricordò ai soldati che dovevano agire rispettando le norme della disciplina militare e rafforzò i controlli affinché la situazione non precipitasse. In seguito, il 21 di marzo, egli condannò a morte, con proiettili di fucili, uno che era stato sorpreso a rubare e altri li condannò alla fustigazione. Nello stesso giorno 21, placatesi le onde burrascose del mare, le vettovaglie furono scaricate dalle piccole navi sulle quali erano state trasportate.
1744.10 Lettera del cardinale Valenti diretta all’arcivescovo per invitarlo a prestare il suo aiuto al governatore di Fermo che incontrava difficoltà a causa dei sommovimenti militari.
Il 22 marzo cadeva la domenica di passione; proprio in quel giorno ricevetti la lettera del cardinale Valenti, segretario di Stato. In essa mi veniva raccomandato che, in quelle circostanze di grande turbamento e di confusione, io aiutassi il governatore della città. In quel giorno 22 è stata esposta, per la seconda volta, in cattedrale, la reliquia del sacro capo di san Savino, insieme con le reliquie di santa Caterina.
Nei forni del Porto di Fermo, costruiti presso il magazzino del conte Vinci, i cuochi austriaci iniziarono la cottura del pane per i militari. Nel giorno 21, all’ospedale approntato nel convento dei frati Minori dell’Osservanza, furono ricoverate alcune centinaia di soldati ammalati e, in seguito, altri ancora. Poiché, però, in questo luogo, non si erano potuti accogliere tutti gli infermi, furono approntati per loro altri due ospedali: uno nel convento dei Conventuali di san Francesco, all’interno della città, e un altro presso il monastero dei Canonici Lateranensi, a Santa Caterina. Purtroppo nei paesi, ove erano, i militari si ammalavano di frequente a causa dell’insalubrità dell’aria, per la vicinanza del fiume Ete e a volte per le pessime condizioni metereologiche e per le tempeste. In effetti, non era ancora esaurito il freddo invernale e nel mese di marzo, per ben tre volte, la neve cadde abbondantemente dal cielo.
Nell’impegno della organizzazione dei tre ospedali, molto hanno contribuito il clero secolare e quello regolare, anche le suore e le monache e in particolare, più di altri, i religiosi dell’ordine di sant’Agostino che hanno messo a disposizione i molti letti e i materassi dati loro dagli Spagnoli che li avevano usati precedentemente e quelli che i frati stessi erano riusciti a procurare per gli Spagnoli.
1744.11 L’arcivescovo invia al clero e al popolo una lettera circolare nella quale ammonisce e chiede al popolo di non usare le armi contro i soldati austriaci.
Il 25 marzo, festa dell’Annunciazione, ho scritto una lettera pastorale a tutti i parroci della diocesi affinché ammonissero tutto il popolo a non usare le armi contro i militari austriaci, poiché, in tal caso, la situazione si sarebbe aggravata. Chi aveva delle lamentele da fare, doveva denunciare i soprusi, rivolgendosi direttamente al comandante in capo. Per convincerli, riportai le parole che Paolo usava nella prima lettera a Timoteo capitolo secondo, quando esorta: “è necessario si facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini, per i re e per tutti quelli che stanno al potere, al fine di poter vivere una vita calma e tranquilla”.
1744.12 Sofferenze dei contadini per la requisizione del fieno e della paglia per gli Austriaci.
Il 26 marzo, mi recai da Lobkowitz, accompagnato dal governatore, verso il quale egli, risentito, nutriva sospetti per l’uccisione dei militari. Con le nostre ragioni non riuscimmo a fargli superare questi sospetti, nonostante che lo stesso governatore in quella circostanza avesse agito con rigore, emanando un’ordinanza che comminava la pena di morte e la confisca dei beni per coloro che avessero arrecato danni ai soldati. Inoltre gli amministratori fermani promisero anche un premio a tutti coloro che avessero denunciato i colpevoli.
Nello stesso giorno, il generale, dopo un editto militare per il foraggio, aveva inviato alcune migliaia di soldati a piedi e a cavallo, in tutte le località del territorio governato da Fermo, e anche in quelle limitrofe, con l’ordine di requisire tutto il fieno e la paglia, per la grave penuria di tali generi, per cui l’esercito si trovava in grave difficoltà. Ciò provocò gravi difficoltà ai contadini. In molti luoghi, fieno e paglia erano esauriti, perciò i buoi e gli altri animali, necessari alla coltivazione e alla concimazione dei campi, non potevano essere alimentati. Altri danni erano provocati dai soprusi compiuti dai soldati e dai pastori girovaghi: in un luogo venne sottratto un maiale, altrove scomparve una pecora. Alcuni dovettero assistere alla sottrazione degli alimenti necessari alle famiglie; ad altri venne bevuto il vino o peggio sversato a terra. Per di più lamentarono che erano stati razziati tutti i polli e le galline.
1744.13 Tentativo di difesa dei terreni della mensa arcivescovile dagli abusi dei soldati Austriaci – L’arcivescovo fa omaggio a Lobkowitz di alcune regalie.
Neppure i latifondi e le proprietà della mia mensa si salvarono. Fin dall’inizio avevo versato il denaro secondo le norme militari, per la tassa detta di salvaguardia. Nonostante ciò, non si poteva avere certezza che si impedisse ai soldati di sequestrare il fieno e una parte della paglia. Io stesso avevo pregato il generale che mi garantisse di poter disporre almeno di quel poco fieno e paglia strettamente necessari ai miei cavalli. Lobkowitz acconsentì e mise a mia disposizione sette soldati da dislocare nei miei possedimenti a loro difesa, naturalmente dietro il pagamento del congruo compenso da dare ai militari. Ottenuto tutto ciò, lo stesso giorno, 27 marzo, io ed il governatore mandammo un regalo al generale: vino, zucchero, dolciumi vari, lumache e frutta e in più una cerva di ottima specie.
1744.14 Fabio Colloredo viene inviato da Roma come commissario Apostolico presso l’esercito Austriaco.
Frattanto, per mezzo di miei cursori celeri spediti a Roma, avevo esposto alla Santa Sede il miserevole stato in cui eravamo costretti a vivere e avevo chiesto di mandare un commissario Apostolico presso le truppe austriache, come era stato mandato antecedentemente per gli Spagnoli. Ciò affinché il commissario si interessasse dei numerosi problemi e in particolare affrontasse il problema dei viveri e dei trasporti nell’intera provincia Picena, in modo tale che il peso di mantenere e provvedere all’esercito non gravasse soltanto sulle spalle della nostra città.
In quel giorno, 27 marzo, fui informato che il marchese Fabio Colloredo, che stava a Recanati, era stato incaricato, dal papa, come commissario Apostolico. I suoi parenti erano vassalli imperiali ed erano in ottima considerazione e stima presso i regnanti austriaci imperiali. Il Colloredo però, atterrito dalla situazione miserevole, esistente presso di noi, e dalla grave penuria in cui versava l’intera provincia, in un primo momento aveva rifiutato l’incarico poi, avendo saputo che l’esercito sarebbe stato diviso e dislocato nei luoghi vicini, aveva accettato.
1744.15 Lobkowitz restituisce dodici contadini che aveva fatto arrestare – Visita alle varie località costiere – Si realizza la dislocazione delle diverse unità dell’esercito.
Lobkowitz, su richiesta di Roma, tramite una lettera del cardinale Alessandro Albani, consegnò al governatore i dodici contadini che aveva fatto arrestare, al fine che fossero giudicati dallo stesso governatore e da lui puniti i maggiormente colpevoli. Il governatore temporeggiava e, con un celere cursore, chiedeva a Roma che mandasse un giudice che processasse gli imputati per i crimini. Adduceva come motivo il fatto che egli non voleva essere sospettato di partigianeria da Lobkowitz. Roma però non inviò nessuno, ed allora il governatore istruì il processo, e alla fine chiese a Roma la determinazione della pena. I giudici romani da parte loro differivano la decisione e nel frattempo facevano rinchiudere i rei nella mole Anconetana.
Lobkowitz, dopo aver ispezionato tutta la costa, fino alla foce del Tronto, nella vallata e sulle rive considerate come confine tra lo Stato Romano e il regno di Napoli, e dopo aver ricevuto lettere dalle curie di Roma e di Napoli, inviò a Vienna un suo capitano, con il parere dei generali dello stato maggiore che aveva con sé, perché venisse presa la decisione se si dovesse procedere all’invasione del regno di Napoli, oppure fosse preferibile ritirarsi nello stato di Milano. Il provvedimento si doveva prendere al più presto, mentre non c’era sicurezza, per mancanza di alimenti, decidendo se per ordine della regina potesse ritirarsi, oppure dovesse inseguire subito gli Spagnoli all’interno del territorio del regno di Napoli, senza aver fatto riposare adeguatamente i soldati.
Nel frattempo egli aveva disposto il trasferimento degli accampamenti dei vari reparti più all’interno, verso le vicine colline. Si era infatti accorto di un inconveniente: nei vecchi acquartieramenti i soldati si ammalavano facilmente, a causa dell’inclemenza del clima e per il fatto che il freddo ancora non cessava. Del resto era difficile provvedere a tutto l’esercito riunito in un sol luogo perché mancava il pascolo per gli animali. Decise pertanto di dividere le truppe e di dislocarle nelle diverse località del territorio. Certamente, se tale decisione egli l’avesse adottata dall’inizio, avrebbero evitato tante difficoltà e calamità, sia per noi, che per le truppe.
1744.16 Lobkowitz si trasferisce a Macerata – L’arcivescovo gli manda una lettera di saluto e di augurio.
Il primo giorno di aprile, i soldati cominciarono a lasciare gli accampamenti del Porto di Fermo per raggiungere le zone loro assegnate, che per lo più erano le località della nostra diocesi, nei paesi della costa Adriatica. Nello stesso giorno, Lobkowitz mandò da me e dal governatore il cavaliere gerosolimitano e generale, Del Monte, suo familiare ed aiutante, per salutarci e per comunicarci la sua decisione di andare a risiedere in Macerata. Non potendomi recare di persona da lui, al Porto di Fermo, perché impegnato in cattedrale per i riti della settimana santa e anche perché impedito dalle difficoltà del viaggio, gli mandai una lettera nella quale gli esprimevo l’augurio di ogni bene e gli manifestavo l’auspicio di potermi congratulare con lui, che, come vincitore in Italia senza aver provocato spargimento di sangue, sarebbe stato l’artefice della pacificazione.
Il giorno seguente, 2 aprile, giovedì santo, egli partì per Macerata. All’ora di pranzo arrivarono a Fermo sei legioni di soldati della fanteria, cioè circa cinque o seimila uomini; pernottarono in città e il mattino seguente partirono per raggiungere Tolentino e San Severino. Per traghettare il fiume Tenna, nel giorno precedente era stato costruito da loro un ponte di legno; a causa però di una piena causata dallo scioglimento delle nevi, improvvisamente era crollato. Pertanto il 2 di aprile, si dovette costruirne di nuovo un altro in tutta fretta. Il passaggio e il pernottamento di tutte queste truppe a Fermo non provocò danni.
1744.17 Dislocazione delle truppe nel territorio del Piceno.
Lo smistamento dell’esercito fu realizzato in questo modo. A Macerata, presso Lobkowitz comandante supremo, si stabilì la legione detta de Wallis. A Tolentino si stanziò la legione Teutonica, comandata da due generali dello stato maggiore: Brown e Novato. A San Severino trovarono stanza due legioni: la prima detta Piccolomini, l’altra Collaredo. A Montemilone <= Pollenza> si fermò la legione chiamata Vasquez e Marullo, comandata dal luogotenente generale Hinder, a Montecchio <=Treia> la legione Pallavicino. Tra Montecassiano e Montefano si fermò la legione Spreissen, comandata dal luogotenente generale Heussen. Tra <Monte> San Giusto e Montegranaro la legione Thraun. Gli Slavi o Illirici si stanziarono tra Montolmo <= Corridonia> e Montegiorgio. La legione Andreasi fu distribuita tra Morrovalle, Montecosaro e Montelupone. Infine la legione Daun si acquartierò a Civitanova. Tutte queste legioni formavano la fanteria.
La cavalleria degli Ungari, comunemente chiamata Ussari, si stanziò a Rapagnano e a Mogliano; altri Ungari, Ussari con i Liburni (Viburni), detti Croati furono dislocati a Marano <= Cupramarittima>, Grottammare, San Benedetto e Porto d’Ascoli; la cavalleria scelta trovò stanza a Ripatransone.
La parte restante delle truppe a cavallo, molto numerose, furono destinate soprattutto al Porto di Fermo; al comando del maresciallo, luogotenente generale conte Lindense. Per una parte furono dislocate a Sant’Elpidio a Mare, a Monte Santo <=Potenza> e nella stessa città di Fermo. A questa prima sistemazione, ne seguirono, poi, altre minori: a San Ginesio, Sarnano e in altre località secondo le esigenze, e la ristrettezza delle stazioni decise.
1744.18 Giacomo Boni, frate domenicano viene incaricato di predicare nella chiesa metropolitana – Girolamo Lili canonico di Fabriano predica nella chiesa di Santo Spirito.
Il giorno 5 aprile, domenica di Pasqua, il padre Giacomo Boni, frate domenicano della congregazione Gavotta, che era il predicatore della quaresima, ha fatto molte bene la predica nella nostra cattedrale. Mentre nella chiesa di Santo Spirito, non essendo giunto il religioso indicato dalle autorità civili, ho incaricato per la predicazione un sacerdote pio e dotto, don Girolamo Lili, canonico di San Nicola di Fabriano, al quale la comunità poi pagò il servizio.
Il 7 aprile, 260 soldati convalescenti, su un totale di circa 700 malati, furono trasferiti nell’ospedale di Santa Maria dell’Umiltà. In quel periodo molte ragazze, a causa dei sommovimenti e degli eventi bellici, temettero per il proprio onore. Per questo furono autorizzate da me ad essere ospitate nei monasteri di monache, in città e nei paesi della diocesi. Tale decisione era stata approvata dalla Santa Sede.
1744.19 Si sparge la diceria del ritorno dei soldati Borbonici – L’arcivescovo rassicura l’animo del popolo.
Il giorno 8 aprile, due ufficiali di cavalleria insieme con i loro squadroni, il primo dei quali era chiamato con il nome del principe Eugenio di Savoia, l’altro invece apparteneva alla legione di Berlinghen, salirono a Fermo. Il primo prese stanza nel chiostro di San Domenico, l’altro nel chiostro di Sant’Agostino. Nello stesso giorno giunse da Roma il decreto che disponeva di togliere le guardie dalle porte della città e delle località interne del territorio del Governo Fermano, dal momento che era scomparsa la peste in Calabria, perciò era stata abolita ogni norma di cautela stabilita nella nostra città. Tali norme, però, restarono in vigore nelle località della costa.
Si sparse la falsa notizia che stavano per ritornare le milizie Borboniche, i cui uomini rifuggivano da ogni disciplina e senza formazione, tanto da non usare alcuna pietà. Gli abitanti delle campagne spaventati cercarono di portare in città tutto ciò che possedevano nella case rurali e disperati, volevano darsi alla fuga. Convocai, subito, lo stesso giorno 8 aprile, i parroci presso di me, per fugare ogni timore nato da questa falsa notizia e per incoraggiare l’animo dei contadini e persuaderli a non abbandonare le loro case, il che sarebbe stato ben più pericoloso. La notizia in realtà non era completamente falsa, dal momento che stavano arrivando alcune truppe di rinforzo provenienti dall’Illiria e dai Liburni.
Il giorno 11 aprile tre navi da carico, che trasportavano il fieno per i cavalli, a causa di una tempesta e della spinta del violento vento, andarono a schiantarsi nei pressi del monte di Ancona e colarono a picco, perché non avevano peso sufficiente nel fondo della nave.
1744.20 Si cerca di provvedere alle conversioni dei soldati tedeschi e alla loro riconciliazione con la Chiesa cattolica.
Il 13 aprile, mi giunse una lettera spedita dal comandante del contingente militare che si trovava a Montegranaro. In essa egli mi chiedeva di concedere al sacerdote Martello, pievano del luogo, la facoltà di assolvere e riconciliare con la Chiesa un suo soldato che aveva seguito gli errori luterani. Quel sacerdote infatti era l’unico che conosceva la lingua tedesca. Ciò mi fece intendere l’esigenza che molte legioni mancavano del cappellano, mentre da noi mancavano sacerdoti che capissero la lingua tedesca. Ciò era molto pregiudizievole per la salvezza spirituale dei militari. Dopo questa esperienza, volli venire a conoscere se altre persone fossero interessate. Del resto mi preoccupavo non solo di quel soldato, ma specialmente di quelli che erano a Fermo ricoverati in ospedale. C’era la necessità di provvedere alla loro conversione dalle eresie e alla conseguente riconciliazione con la Chiesa.
1744.21 La città di Fermo viene esentata dal pagamento del contributo in favore delle truppe Austriache.
Il commissario apostolico aveva ordinato a tutte le località della provincia, che non ospitavano formazioni militari, di dare un gravoso tributo di 13.400 scudi ogni mese. La città di Fermo era esentata dal tributo; aveva dovuto però fornire 16 rubbi di grano al giorno per preparare 6.400 razioni di pane, di cui 30 once di pane nero e 18 di pane bianco.
Inviai subito a Macerata, come miei rappresentanti, Bonaventura Guerrieri e il conte Spinucci perché si recassero dal commissario Apostolico e dai provveditori dell’esercito per trattare il problema. Essi tornarono il 20 aprile e ottennero che Fermo fosse esentata dall’obbligo, ma che fosse incaricata a provvedere al pane nei forni del Porto di Fermo per le necessità delle varie stazioni di soldati del territorio della città di Fermo.
1744.22 Gli Spagnoli con un colpo di mano occupano la città di Ascoli, ma si ritirano subito – Incendiano ogni cosa lungo la vallata del Tronto per danneggiare gli Austriaci.
Un folto gruppo di soldati Spagnoli, con un colpo di mano, entrarono nella città di Ascoli e, cacciati gli Austriaci, catturarono alcune guardie che sorvegliavano le porte. Hanno abbandonato però subito la città sia perché vi scarseggiavano i viveri (in Ascoli infatti c’era una grande penuria di frumento) sia perché temevano di essere accerchiati dagli Austriaci, dentro al territorio dello Stato Romano. Essi tuttavia nel percorrere la vallata del Tronto, incendiarono ogni cosa: capanne, fieno e paglia. Questo successe raramente nei territori nemici, ma mai assolutamente si faceva nei luoghi di transito; essi quindi violarono il diritto di guerra e di pace, di cui bene ha scritto il Grozio, nonostante che egli non aderisse alla nostra fede (cattolica), quando, nel terzo libro cap. 17 della sua opera, ha parlato dei mezzi che erano consentiti da usare in tempo di guerra e sosteneva quanta moderazione si dovesse avere per non provocare offese o danni. E benché da parte di tutti si fosse convinti che fosse assolutamente dannoso, abbiamo dovuto purtroppo conoscere come tutto questo invece avveniva frequentemente, nel nostro tempo. Questo lo abbiamo notato allorché gli eserciti stranieri avevano occupato e attraversato i nostri territori.
In tal modo, veniva dimenticato il comportamento che Mosè tenne allorché attraversò col suo popolo il territorio del re di Edom. Egli fu attento a non recargli alcun danno. Tale comportamento gli fu suggerito dalla parola di Dio ed era divenuto per tutti noi un esempio da seguire da parte dei governanti e dei comandanti. Infatti nel libro dei Numeri al capitolo 20 si trova scritto: “ Non passeremo né per i campi, né per le vigne, non berremo l’acqua dei pozzi, seguiremo la via regia, senza deviare né a destra né a sinistra, fino a che non avremo oltrepassato i tuoi confini”. E più oltre: “Passeremo per la strada maestra, e se noi ed il nostro bestiame berremo la tua acqua, te la pagheremo, lasciaci soltanto transitare a piedi, attraverseremo velocemente il tuo territorio.”
Gli Spagnoli si comportarono in modo ben diverso, proprio al fine di beffare e danneggiare il nemico. E dopo aver fatto tutto ciò, tolsero i loro accampamenti e si diressero verso L’Aquila.
1744.23 I soldati Austriaci malati lasciano Fermo; i morti vengono sepolti presso Sant’Andrea.
Il 20 aprile, i militari malati lasciarono Fermo e vennero portati al Porto di Fermo per essere imbarcati e portati a Senigallia. Duecento tra i ricoverati, erano morti e furono tumulati nel terreno di proprietà dell’ospedale di Santa Maria dell’Umiltà che io avevo prima benedetto, con il sacro rito, come cimitero e le fosse furono scavate in profondità nei pressi dell’edicola suburbana di Sant’Andrea.
I molti militari guariti tornarono sotto le bandiere dei loro reparti. Alcuni però, che non avevano speranza di guarire, rimasero ricoverati nell’ospedale. Col passare del tempo più di sessanta di loro, morirono. Per disposizione dei medici, furono bruciati i materassi e i cuscini di crine che erano serviti a coloro che erano morti, poiché si temeva che si propagasse il contagio della febbre maligna e della dissenteria che avevano colpito la maggior parte di coloro che erano deceduti. I materassi migliori invece furono caricati sui carri fino al Porto e messi sulle navi per essere ancora utilizzati.
1744.24 Le autorità militari Austriache fanno misurare il territorio dal Tronto a Fermo.
Frattanto gli Austriaci fecero accuratamente misurare dai loro geometri la zona compresa tra il fiume Tronto e la nostra Città. Fecero annotare con grande precisione ogni particolare, redigendone una dettagliata mappatura. Vennero annotati tutti i particolari topografici, senza escludere nulla: le città, i paesi, le zone suburbane, l’aspetto geografico e orografico e vennero delineate carte e mappe fatte ad arte, con maggior precisione delle altre esistenti, come se in quei luoghi si dovesse combattere una guerra, annotando tutte le cose che potevano interessare, per organizzare accampamenti, o dovessero essere utilizzate per esigenze strategiche o per condurre le battaglie o essere utilizzate per stanziare, per esser accolti e per nascondersi.
1744.25 Il generale Zolli comandante della legione Thraun consegna all’arcivescovo un disertore condannato a morte, per essere graziato dallo stesso arcivescovo.
Accadde che venni a sapere che in Montegranaro due soldati erano stati arrestati e condannati a morte, come disertori e fautori di diserzioni. Mi sono allora rivolto al generale Zolli che comandava la legione Thraun, accampata in quella zona, e gli chiesi la grazia per i due condannati affinché la gioia della Pasqua non fosse turbata dal truce spettacolo di esecuzioni capitali. Egli concesse la grazia ad uno dei due disertori, colui che appariva meno colpevole, mentre per l’altro, purtroppo, confermò la condanna. Il 24 aprile, per ordine del comandante Zolli, quello graziato che si chiamava Antonio Paolo della Boemia, si presentò a me, per ringraziarmi di avergli salvato la vita. Gli rivolsi alcune raccomandazioni e gli consegnai dei piccoli regali. Al comandante inviai alcuni doni di carattere religioso di un qualche valore.
1744.26 Lobkowitz muove un reparto dell’esercito dando l’impressione di inseguire le truppe Spagnole nel regno di Napoli – Difficoltà nel reperire il fieno.
Nel frattempo, il 27 aprile, il conte Colloredo era tornato a Macerata, presso il comandante principale Lobkowitz, che lo aveva inviato, partendo dal Porto di Fermo, affinché riferisse ai governanti di Vienna, sulle cose avvenute nella sua impresa e per ricevere dalla regina gli ordini sul da farsi in seguito. In sostanza gli ordini principali erano che il Lobkowitz dovesse condurre l’esercito nel regno di Napoli, con l’apparenza di inseguire gli Spagnoli, ma in realtà per esplorare l’intenzione del re napoletano Carlo e i sentimenti della popolazione regnicola. Secondo l’opportunità della situazione egli avrebbe deciso cosa in pratica dovesse fare.
A Macerata, egli svolse il consiglio di guerra con gli ufficiali superiori, e giunse alla decisione di preparare i soldati alla marcia per la partenza, di confezionare abiti da indossare più facilmente, di ordinare ai militari di provvedere il fieno nel territorio, e di predisporre il cibo per i cavalli nel giro di quattro giorni. Era però molto difficoltoso rifornirsi del fieno proveniente per via di mare e per giunta, questo, nelle nostre zone, nei giorni precedenti, scarseggiava. Senza l’arrivo di una nave da carico, il territorio Fermano avrebbe corso il rischio di vedere le messi utilizzate per il pascolo dei cavalli e dei muli e quindi trovarsi compromesso il raccolto.
1744.27 Il conte Linden con un distaccamento di soldati Austriaci entra nel territorio del regno di Napoli senza provocare alcun danno.
Il conte Linden, insieme con il conte di Althan, con un grande distaccamento di truppe Austriache, dopo oltrepassato il Tronto, entrarono nel territorio del regno di Napoli, senza trovare alcuna resistenza. Gli Spagnoli infatti erano avanzati e giunti ormai lontano. Esplorarono la zona e si accorsero che era completamente priva di ogni pascolo, resa tale dagli Spagnoli per impedire che gli Austriaci, quando vi sarebbero giunti, vi si potessero insediare. Pertanto, il conte Linden con i suoi, senza provocare danni, abbandonarono questo territorio, in breve tempo.
Tuttavia gli Illirici che erano accampati a Montegiorgio e a Montolmo, organizzarono una rivolta: vollero tentare di abbandonare l’impresa, affermando che era scaduto il periodo del loro impegno militare. Bloccati però dagli inseguitori presso il fiume Potenza e spaventati dai colpi delle numerose bombarde, erano stati ricondotti indietro e riuniti al resto dell’esercito.
1744.28 Gli Austriaci preparano la spedizione contro il regno di Napoli – Il conte di Sora, comandante di un contingente Austriaco viene lasciato nel Piceno per bloccare i valichi che dal regno immettono nel Piceno.
Il primo giorno di maggio, si tolsero gli accampamenti e si spostarono due formazioni di cavalleria che erano insediate nella città. Lo stesso giorno il conte di Linden venne da me e dal governatore e ci comunicò che sarebbe partito da Fermo, giurandoci che si sarebbe impegnato a far in modo che le truppe non avrebbero provocato danni alle messi nei campi di grano.
Il 2 maggio, con due legioni di cavalleria, si diresse verso Civitanova, giunse a Macerata, arrivando, poi, fino a Foligno, dove lo avevano preceduto molte altre formazioni di cavalleria. Non era infatti imminente la spedizione verso il regno di Napoli, specialmente in considerazione del fatto che il re di Sardegna, il 20 aprile, conquistata Nizza, aveva attaccato e respinto i militari Spagnoli e Francesi, nei pressi del monte Bianco, ma poi era stato costretto a ritirarsi dal monte e da Villafranca. Intanto era arrivata nel mare Ligure anche una numerosa flotta inglese guidata dall’ammiraglio Mattei.
Vennero anche schierati 1500 soldati sul confine tra il Piceno e il regno di Napoli al fine di bloccare ogni passaggio dal regno al Piceno. Il comando era stato assunto dal conte di Sora, tribuno dei Parti. Nell’altro settore, venne preparato l’intero esercito Austriaco, ingrossato dal continuo arrivo di soldati ausiliari e da due legioni di fanteria, formate da Ungheresi, ognuna delle quali contava più di mille uomini e in aggiunta da altre truppe di Umbri, di Sabini e di Ernici, tutti schierati contro il regno di Napoli. Tutto questo accadeva presso Ceparano, al confine dello lo Stato pontificio, lungo il fiume Liri.
1744.29 Gli Austriaci pongono l’accampamento a San Claudio – Lobkowitz da Macerata si trasferisce a Foligno.
All’aurora del 3 maggio, ricevetti la notizia che la sera precedente il territorio di San Claudio, appartenente alla mensa arcivescovile, era stato destinato per porvi l’accampamento. Diedi subito le disposizioni, per quanto era possibile, ai fattori, al fine che evitassero ogni increscioso incidente. Nel pomeriggio di questo giorno arrivarono a San Claudio ben sei legioni di soldati, guidati dal generale Pistaluti. Nel giorno seguente, 4 maggio, giunse a Santa Maria in Rocciano tutta la cavalleria, al comando del conte Lindau. Il reparto, dopo il riposo notturno, si era avviato verso Tolentino.
I capi e gli ufficiali fecero attenzione e si preoccupavano che i soldati non strappassero le messi di grano e che i cavalli non pascolassero il fieno. Da parte mia ho distribuito alcuni sorveglianti nei luoghi più esposti e delicati, e in tal modo le messi di grano non furono né asportate né danneggiate, né diminuite. Tuttavia il fieno ammucchiato nei campi, una gran parte della paglia e anche non poca della legna accatastata venne ceduta alla truppa. Anche alcuni teneri arboscelli vennero tagliati affinché i soldati se ne servissero per costruire delle palizzate dove legare i cavalli.
Il 5 maggio, il comandante supremo Lobkowitz, gli ufficiali superiori e il marchese Colloredo, commissario apostolico, lasciarono Macerata, dirigendosi verso Foligno dove intanto tutte le truppe, di stanza nel Piceno, stavano convergendo.
1744.30 Il cardinale Borghese, protettore della congregazione dei Silvestrini – L’arcivescovo di Fermo viene scelto come presidente del capitolo generale dei Silvestrini e predispone il viaggio a Fabriano; differisce ad altro periodo il viaggio a Roma per compiere la visita alla sede Apostolica, su richiesta dei Fermani – La famiglia Borgia viene iscritta nell’albo della nobiltà fermana – Il governatore di Fermo, ospitato per due mesi nel palazzo arcivescovile, torna nella sua abituale residenza.
Il cardinale Francesco Borghese, protettore della congregazione monastica dei Silvestrini, nell’imminenza del capitolo generale dell’ordine, che si sarebbe celebrato a Fabriano, mi ha designato come presidente di quell’assemblea, con tutte le facoltà a lui concesse dal papa, nella funzione di visitatore Apostolico e con le facoltà stabilite dal papa per la commissione cardinalizia competente.
Da parte mia, avevo già stabilito di recarmi a Roma per compiere la visita alla Sede Apostolica, al termine del cinquantatreesimo triennio, subito dopo svolto il capitolo dei religiosi Silvestrini a Fabriano. La città di Fermo però era fortemente preoccupata per la mia assenza. Per questo, il 10 maggio, i priori e gli altri magistrati erano venuti, in delegazione ufficiale da me e mi hanno chiesto di non lasciare la città in un momento così pericoloso e delicato. Ho risposto loro che volentieri avrei rimandato a un momento più sicuro il mio viaggio a Roma e che, appena espletato il mio impegno a Fabriano, sarei tornato a Fermo per non esser assente dal governo cittadino. Questa mia decisione era stata gradita talmente alle autorità ed ai nobili cittadini, che il 16 maggio hanno deliberato di iscrivere nell’albo della nobiltà fermana mio fratello Camillo Borgia.
Ippolito Rasponi, governatore di Fermo, conoscendo che avrei dovuto presto assentarmi, il 13 maggio, era tornato nel suo palazzo, dopo essere stato mio ospite gradito per due mesi nel palazzo arcivescovile con amicizia e massima solidarietà. In tale periodo ebbi modo di apprezzare, più da vicino, la rettitudine della sua coscienza, il candore del suo animo e l’onestà dei suoi costumi.
1744.31 Il conte di Sora rimuove il centurione dal Porto di Fermo ed essendo stata catturata una nave dagli Austriaci, ordina che venga trasferita ad Ancona per essere disinfestata.
Nello stesso giorno, gli Austriaci catturarono una nave Francese, proveniente da Salonicco, carica di tabacco o erba nicosiana nelle vicinanze della nostra spiaggia Fermana. Il centurione comandante austriaco del Porto di Fermo, senza motivo, aveva sequestrato il vicario dell’autorità civile e il conte Ruffo, mandati da Fermo per controlli. Ma non c’era alcun motivo per tenerlo e dopo poco tempo li lasciò liberi. Io e il governatore inviammo allora una lettera al Conte (alias marchese) di Sora, che risiedeva a Ripatransone, allegando anche le richieste della città Fermana, per chiedere che la nave sequestrata fosse inviata ad Ancona, per il sospetto del contagio di peste, e fosse sottoposta a disinfestazione, secondo le norme in vigore, chiedendo anche che il centurione, per il suo abuso, fosse espulso. Il marchese di Sora aderì ad ambedue le nostre richieste e allontanò subito dal Porto di Fermo quel centurione, sostituendolo con un altro soggetto più prudente.
1744.32 L’arcivescovo si reca a Gualdo Tadino per effettuare la visita al monastero di San Benedetto a lui affidato in commenda – Si reca poi a Fabriano per presiedere il capitolo generale dei Silvestrini.
I soldati Austriaci feriti, rimasti in città, il 16 maggio furono imbarcati perché dovevano essere trasferiti a Senigallia, per essere ricoverati nell’ospedale, appositamente preparato per loro. Il 18 maggio, mi recai a San Claudio, e il 19 partii per San Severino. Al mattino del 20 giunto a Fabriano, percorrendo una strada aspra e scomoda, attraverso il valico appenninico di Valsorda, arrivai, sul far della notte, a Gualdo dell’Umbria della diocesi di Nocera e mi recai in visita al monastero di San Benedetto che era sotto la mia giurisdizione, essendone io l’abate commendatario, nominato a vita, da Clemente XI fin dal 1728. Ho ammirato il nuovo organo che avevo fatto istallare ed ho esaminato le antiche porte di legno rinnovate a mie spese.
Al mattino del 23 maggio, vigilia della Pentecoste, sono ripartito per Fabriano per partecipare all’imminente capitolo generale della congregazione dei monaci Silvestrini.
1744.33 Capitolo dei Silvestrini presieduto dall’arcivescovo – Viene eletto abate generale il padre Porfirio Tufi – Terremoto nel Piceno.
Io ero stato designato in precedenza dal medesimo cardinal Borghese a presiedere anche il capitolo generale che si tenne nel 1740 ma, allora, essendomi stata consegnata la lettera di nomina mentre ero in partenza per Roma e Velletri, non ero stato in grado di accettare l’impegno; e questo incarico passò all’arcivescovo di Camerino.
In quel capitolo fu eletto abate il padre Bianchini che aveva svolto già l’incarico di procuratore generale dell’ordine stesso. Egli, pur essendo un illustre religioso, per il suo modo di fare aveva indispettito altri superiori; infatti egli aveva caldeggiato la nomina a procuratore generale del suo predecessore nella carica di abate. Per questo fu accusato di aver eletto il procuratore non mediante una regolare elezione giuridica, ma per semplice scambio di cariche tra loro due. In seguito si verificarono anche altri fatti incresciosi per cui l’armonia tra i monaci era stata seriamente compromessa, tanto che furono avanzate proteste e lamentele al protettore dell’ordine ed al pontefice Romano.
La visita apostolica, disposta in conseguenza di ciò da Roma, aveva portato alla sospensione della facoltà di ammettere i novizi a vestire l’abito monastico e altre norme vennero disposte dalla competente congregazione cardinalizia per appianare i frequenti contrasti. La medesima congregazione aveva anche suggerito al papa di restringere il diritto passivo di essere eletto nella prossima elezione abbaziale del nuovo padre generale, indicando soltanto tre monaci, tra i più idonei, da scegliere come nuovo abate. Sono stati pertanto indicati come possibili candidati il padre Tufi, che poi fu effettivamente eletto, il padre Marsili e il padre Capitani.
Io dovevo fare in modo che, nella maniera più discreta possibile, il progetto fosse realizzato. A conclusione dell’assemblea avrei dovuto assumere iniziative riguardo al miglioramento del comportamento dei monaci, in ordine alla disciplina monastica e agli studi letterari, in modo che venisse ristabilita la pacificazione degli animi. Con l’aiuto di Dio ero riuscito a raggiungere tutti gli scopi e nel secondo giorno dalla festa di Pentecoste (25 maggio) era stato eletto all’unanimità abate generale il padre PorfirioTufi e riuscii anche a far accettare i suggerimenti e le disposizioni formulati dalla congregazione dei cardinali. Il 26 maggio, due giorni dopo Pentecoste, verso le 21 (ora terza della notte), la terra fu scossa dal terremoto che colpì non solo Fabriano, ma anche Fermo e per tutto il Piceno.
1744.34 L’arcivescovo rimane bloccato sulla via del ritorno a Fermo – Mons Michelovick, arcivescovo di Scodrje, educato nel collegio Illirico di Fermo, per caso venuto nella nostra città da Roma, celebra e tiene la sacra ordinazione generale, mentre l’arcivescovo di Fermo era rimasto bloccato dal cattivo tempo – Pirro Alberici viene nominato governatore di Macerata.
Espletati i lavori del capitolo dei monaci Silvestrini, il giorno successivo, ero partito da Fabriano per recarmi a San Severino a far visita al vescovo. Il tempo era piovoso. Iniziata la notte, un’altra scossa di terremoto fece tremare, una seconda volta, la terra. La violenza della pioggia era tanto intensa, che né il giorno 28, né il 29 maggio non potei riprendere il viaggio e ciò mi dispiacque moltissimo. Infatti, quando ero partito da Fermo, avevo concordato con i giovani, che avevano passato il periodo prescritto nella casa della Missione e aspettavano l’ordinazione, che sarei tornato in città per il sabato fissato per conferire loro il presbiterato e gli altri ordini sacri. Ma ero riuscito a malapena a partire quel sabato.
Arrivato a San Claudio ho appreso con gioia che l’ordinazione era stata celebrata e tenuta quel sabato, data prevista, nella cappella del mio arcivescovato, dall’arcivescovo di Scodrje di Serbia mons. Giovanni Battista Nicolovich, con la licenza concessa dal mio vicario generale. L’arcivescovo Nicolovich era nato fuori dall’Italia, nell’Illiria, oppressa dal dominio dei Turchi. Da giovane era stato educato nel collegio Illirico di Fermo ed ordinato da me sacerdote. Tornato in Serbia, divenne vicario generale della sua diocesi e poi visitatore apostolico della Bulgaria. Venuto a Roma per riferire alla congregazione di Propaganda sulla situazione delle zone visitate, fu proposto e consacrato arcivescovo di Serbia. Egli, nella festa di Pentecoste, era venuto a Fermo per salutarmi, prima di tornare in patria, ma per disposizione della divina provvidenza, non potendo io essere a Fermo in quel sabato stabilito, a causa del maltempo, egli intervenne in modo tale che non restò delusa la speranza degli ordinandi, che avevano ormai completata la preparazione nel casa dei preti della Missione, per ricevere gli ordini sacri.
Alla fine di maggio, il patrizio di Roma, Pirro Alberici è stato inviato come nuovo governatore a Macerata.
1744.35 Nella residenza di campagna San Martino e in quella che esiste sotto il palazzo arcivescovile vengono riparate le condutture dell’acqua per ripristinarne il flusso – Pietro Paolo Leonardi è nominato vicario generale.
Il primo di giugno, sono rientrato a Fermo dove ho celebrato la festa del Corpus Domini alla quale ha partecipato anche l’arcivescovo di Scodrje.
In questo periodo feci riparare la fontana, costruita nell’anno precedente, nella residenza di campagna di San Martino, che si era rovinata e screpolata a causa del gelo durante il rigidissimo scorso inverno. Inoltre mi dedicai a far riparare e restaurare anche un’altra fontana fatta costruire dalla buona memoria dell’arcivescovo, cardinal Ginetti, sul lato orientale del palazzo arcivescovile, proprio sotto il giardino pensile, alla quale da moltissimo tempo mancava il flusso dell’acqua; infatti la sua conduttura si era in parte occlusa per i moltissimi anni, in parte anche guastata per la trascuratezza di tutti, e venne ripristinata.
Il 7 giugno io nominai vicario generale, Pietro Paolo Leonardi di Amelia. Durante la sua adolescenza era vissuto presso di me e aveva seguito a Fermo gli studi letterari. In seguito si era recato a Roma per acquisire esperienza nella prassi curiale. Per tre anni è stato a Ferentino, come vicario generale del vescovo del luogo, Fabrizio Borgia, mio fratello. Infine era stato richiesto da me per essere mio vicario generale della diocesi, negli affari spirituali e civili.
Infatti, dopo la partenza da Fermo di Marco Antonio Massucci, ultimo mio vicario, ero stato pressato da innumerevoli raccomandazioni di importanti personaggi e persino da una lettera del cardinale segretario dello Stato Pontificio, mons. Valenti, perché scegliessi questo o quello, dato che la carica era molto ambita. A maggior ragione avevo deciso di soprassedere alla nomina del vicario per poter scegliere liberamente.
1744.36 Maria Teresa regina di Ungheria e di Boemia manifesta la sua intenzione di rivendicare il regno delle due Sicilie e il suo proposito di ripristinare l’antica giurisdizione ecclesiastica e le sacre immunità – Il conte di Sora entra in Abruzzo.
Nel frattempo, Maria Teresa regina di Ungheria e di Boemia, aveva espresso pubblicamente la sua ferma intenzione di rivendicare il regno delle due Sicilie e, a questo fine, addusse molte ragioni contro il re napoletano Carlo. Prima di tutto, egli non aveva mantenuto gli impegni assunti, inoltre dava a vedere di nutrire il proposito di annettere alla Spagna il regno di Napoli. Maria Teresa poi (come erano soliti fare i nuovi sovrani) offrì diverse promesse ai napoletani e agli altri abitanti del regno: si impegnò a concedere vari privilegi ed esenzioni, promise l’amnistia per i crimini commessi nel passato e specialmente di ripristinare e riaffermare l’autorità e la giurisdizione dei vescovi e di restituire l’immunità delle persone ecclesiastiche, nonché il decoro del clero diocesano e di quello religioso. Disse anche di volere abolire ogni disposizione contraria e in particolare di non riconoscere gli accordi stipulati tra la Santa Sede e re Carlo e da quest’ultimo imposti al tempo di Benedetto XIV. Dichiarò inoltre di volere restituire i diritti dei vescovi che erano stati manomessi dalla cupidigia dei governanti regi e di difendere la sacralità della religione. Dovrei far notare che tali questioni interessavano anche alcune località e paesi in qualche modo soggette alla giurisdizione metropolitica dell’arcivescovo di Fermo perché alcune di queste località stavano nel territorio confinante del regno Napoletano.
Per ordine dalla regina, il conte di Sora, comandante del contingente austriaco nella spiaggia di Fermo e nel Piceno, presidiava il confine tra il Piceno e il Regno. Il suo contingente era ridotto a soli 800 uomini perché tutti gli altri erano rientrati nei ranghi dell’esercito. Egli si mosse per entrare nel territorio del regno ed giungere fino a Teramo, in Abruzzo. Passato dentro al territorio del regno, immediatamente emanò un editto. Proclamò l’amnistia, aprì le porte delle prigioni, e dichiarò che con la fine del potere del re di Napoli, si instaurava l’equità e la clemenza, cose che creavano nell’animo degli abitanti una nuova necessaria speranza di libertà.
1744.37 Lobkowitz attraversa il Tevere e avanza contro il re Carlo raggiungendo il castello di Nemi – Carlo, re delle due Sicilie, passato il confine dei domini pontifici con il suo esercito, occupa Velletri – Le calamità che gli abitanti di Velletri subiscono sia da parte degli Austriaci che da parte degli Spagnoli – Pistaluti generale austriaco viene catturato dagli Spagnoli presso il Colle della Noce.
Lobkowitz, dopo aver attraversato il Tevere, presso Monterotondo, andò a Roma e, ricevuto da papa Benedetto, tra il giubilo dei Romani, passò in rassegna l’esercito che aumentava continuamente per l’arrivo di nuovi soldati provenienti dalla Germania; poi, organizzato lo schieramento delle truppe, avanzò contro il re di Napoli.
Il re napoletano, Carlo, preferì, però, recarsi a combattere in territorio estero piuttosto che nel proprio. Pertanto insieme con il duca di Modena, con Gages, con Castropignano e con le truppe Napoletane e Spagnole dal confine del suo regno, attraversando il fiume Liri, invase il territorio dello Stato Romano. Giunse prima a Veroli, poi raggiunse Ferentino, accolto e ospitato nell’episcopio da mio fratello vescovo del luogo, da qui passò in seguito ad Anagni e poi a Valmontone dove si fermò qualche giorno per rifornirsi di quanto gli occorreva a Velletri. Poi, il 29 maggio, il re Carlo con tutto il suo esercito, che contava circa 30.000 uomini, per evitare la battaglia in campo aperto, si diresse alla volta di Velletri. Alle porte della città fu accolto dal vescovo ausiliare che gli porse il Crocifisso che egli baciò e ricevette dalle autorità della città le chiavi. Egli andò ad abitare nel magnifico palazzo della famiglia Ginetti, il duca di Modena andò in quello dei Terenzi; allora Castropignano si insediò nel palazzo Buzi, mentre Gages si sistemò nella mia casa paterna. Il re fece accampare l’esercito nei pressi della città, provocando ingenti danni alle vigne circostanti.
Apprestò le difese sul colle che sovrastava Velletri (dove sorgeva il convento dei Cappuccini) e distribuì le truppe sulla vicina collina, presso la chiesa di Santa Maria Regina degli Angeli. Al contrario Lobkowitz, giunto a Marino, salì per occupare le alture e si fermò nel castello di Nemi e pose gli accampamenti nelle pendici del monte dei Faggi (detto dagli abitanti del luogo, Faiola). Quasi tutto il territorio del monte dei Faggi è all’interno del territorio di Velletri e si chiamava Artemisio, poiché anticamente era detta Artemisio la località tra Ariccia e Nemi.
Si combatté tra i soldati d’avanguardia. L’incursione militare, da una parte e dall’altra , a motivo della prossimità dei luoghi era facile e frequente. Gli Austriaci occupavano le vette delle colline e distruggevano le condutture dell’acqua che servivano alla città di Velletri per mettere in difficoltà i nemici con la mancanza dell’acqua. Sembrava che gli uni e gli altri avessero uno scopo ben preciso: il re Carlo voleva, prima di tutto, evitare la battaglia in campo aperto, impedire l’assalto di Lobkowitz e l’invasione del Regno di Napoli e infine cercava di salvare per sé e per i regnicoli l’integrità delle messi. Lobkowitz da parte sua aspettava l’arrivo di altre nuove truppe, attendeva la notizia dell’invasione, da parte del conte di Sora, del territorio napoletano, entrando dal Piceno e specialmente l’arrivo della flotta inglese, nelle coste napoletane.
Il sommarsi di queste due strategie provocò immense disgrazie e calamità alla città di Velletri. Gli Spagnoli costringevano gli abitanti a restare entro le mura per cui la città soffriva la fame e la sete, proibivano inoltre agli abitanti di uscire per recarsi in campagna, a coltivare la terra e le vigne. Gli Austriaci invece impedivano ogni rapporto e commercio con la città di Roma. Comunque gli Spagnoli provocarono maggiori danni perché, scarseggiando le merci alimentari e i pascoli, approfittarono di tutte le messi, soprattutto del frumento e dei prodotti dei campi, magari ancora non maturi, per sfamare i loro cavalli e giumenti, mentre gli Austriaci si astenero almeno dal rovinare le messi.
Il re Carlo, in occasione della solennità del Corpus Domini, diede un segno di generosità e di rispetto: promise solennemente sulla sua parola che, una volta cessata la guerra e accertati i danni provocati, li avrebbe completamente risarciti e ripagati. Chiaramente tale promessa non era seria e neppure apparente. Frattanto, i soldati non smettevano di causare danni e tolleravano che le messi fossero usate per pascolare i cavalli.
Il 17 giugno, dopo che gli Austriaci avevano occupato alcune zone minenti, attorno al monte dei Faggi, furono scacciati perché gli Spagnoli li sorpresero nel sonno e ubriachi. Gli Spagnoli ripresero il Colle della Noce che appartiene alla mia famiglia Borgia e catturarono perfino il comandante Pistaruzi, poi rubarono tutto il grano lasciato intatto dagli Austriaci, per darlo in pasto ai loro cavalli.
Tutto ciò naturalmente indispettiva moltissimo la gente, anche perché all’arrivo dei Napoletani gli abitanti erano stati costretti a consegnare il fieno per nutrire i cavalli per il periodo di quattro mesi. Ma i comandanti Spagnoli dicevano nocivo il fieno secco, affermando che i loro cavalli erano abituati a mangiare più la paglia che il fieno, preferirono andare per i campi, piuttosto che accettare il fieno conservato in città. Inutilmente il 26 giugno, a stento, il re Carlo pubblicò un’ordinanza con la quale proibiva ai soldati di andare ancora a tagliare il grano per darlo ai cavalli. L’ordine dato era inutile perché le messi ormai non esistevano più, non solo nei pressi della città, ma neanche nelle zone montuose.
1744.38 Il conte di Sora attacca gli Spagnoli presso L’Aquila nella zona dei Vestini. Egli ferito è costretto a ritornare al Porto di Fermo.
Nello stesso periodo il conte di Sora, partito da Teramo d’Abruzzo, era arrivato all’Aquila nella zona dei Vestini, accolto con gioia dalla gente alla quale aveva fatto balenare la speranza che sarebbero giunte presto altre truppe. Poiché però i rinforzi non giungevano, anzi si era saputo che da Pescara e da altre parti del regno stava arrivando un forte contingente di soldati Napoletani per combattere contro di lui, uscito da L’Aquila attaccò coraggiosamente i Napoletani. Durante il combattimento, tuttavia, fu ferito e, disperando dei rinforzi, ritornò ad Ascoli, da lì passò al Porto di Fermo e infine a Macerata dove si fermò per essere curato della ferita riportata. Prima, però, aveva dato ordine alle sue truppe di partire per raggiungere Spoleto dove si stava tentando, da quell’altra parte, l’invasione del regno di Napoli, sotto il comando del conte Gorano.
L’infelice esito della tentata invasione dispiacque ed esasperò gli animi di questi regnicoli, poiché, odiando il re napoletano Carlo, si sentivano da una parte delusi dagli Austriaci e dall’altra esposti alle prevedibili rappresaglie dei Napoletani. Successivamente, infatti, si procedette con severità contro la maggior parte di quelli considerati dai funzionari del re come sostenitori di un nuovo regime.
1744.39 Gli Spagnoli e i Napoletani giungono al Porto di Fermo per inseguire e sconfiggere le residue truppe austriache – Esse però prima di partire incendiano il fieno e fuggono verso Senigallia.
Alla fine del mese di luglio, 100 soldati di cavalleria e 400 di fanteria, comandati da Emanuele Lion, usciti dal territorio del regno, arrivarono al Porto di Fermo con l’intento di distruggere tutto quello che gli Austriaci avevano abbandonato nella nostra spiaggia. I soldati Austriaci che erano pochissimi, prevedendo ciò, avevano incendiato le cose che, più delle altre, erano rimaste, cioè tutti i depositi di fieno. Poi, saliti sulle navi, si erano diretti verso Senigallia, per mettersi in salvo. Gli stessi Spagnoli e i Napoletani appiccarono il fuoco al residuo fieno conservato nei nostri depositi e si misero in marcia verso Civitanova per giungere a Iesi e per impadronirsi delle cose che erano state lasciate dagli Austriaci in fuga. Era loro proposito, con l’aiuto di alcune piccole triremi Napoletane, di occupare Senigallia, dove gli Austriaci avevano raccolto una gran quantità di vettovaglie, ma sospettavano che gli Austriaci, già aumentati di numero, avessero rafforzato le difese e le mura della città, per difendere tutto ciò.
Ben presto allora, ritornarono entro i confini del Regno, non passando però lungo la spiaggia da cui erano venuti, ma seguendo un altro percorso, cioè passando per Montegiorgio, Montalto, e Ascoli. Infine, arrivati a Teramo, cacciarono dalla città e dal territorio del regno il vescovo <=Tommaso Alessio De’ Rossi> perché a loro era sembrato che si fosse comportato troppo ossequiosamente con gli Austriaci e sequestrarono i suoi beni e proventi. Il vescovo fu quindi costretto a rifugiarsi nel paese di Monsampolo, facente parte della sua diocesi, anche se sul piano civile apparteneva ad Ascoli. Egli fu ospitato nel convento dei frati Minori.
1744.40 Viene discussa a Roma la causa sui confini di un terreno di San Claudio davanti all’uditore della sacra Rota.
Nel frattempo, presso la congregazione della Rota, il 12 giugno, venne trattata la causa sui confini di un terreno di San Claudio, di cui ho già parlato in questa cronaca, e precisamente nell’anno 1737 al n. 8 e nel 1742 al n. 14, davanti a mons. Visconti. Ne è scaturita una duplice decisione: la prima riguardante la manutenzione risultava favorevole alla mensa arcivescovile, l’altra in tema di reintegrazione era favorevole ai frati di Santa Maria della Fonte e ad altri avversari, almeno nella forma elaborata dalla camera Apostolica, ponente monsignor Guglielmi.
Ai ricorrenti, infatti, veniva attribuita la proprietà che era fuori della mappa disegnata nel 1657 e tale decisione mi lasciava indifferente. Quando però veniva avanzata l’ipotesi di comprendere anche quella parte della terra contenuta all’interno della suddetta mappa, che era stata riconosciuta come proprietà della mensa dallo stesso uditore della Camera, Guglielmi, a motivo della divisione tra i pareri, si dispose che la causa fosse riproposta per la seconda volta. Secondo me, era deplorevole poi la testardaggine degli avversari di addurre e di appigliarsi a tutti i cavilli e di riferirsi ad antichi documenti che oltretutto venivano interpretati in modo improprio, per impedirmi di difendere la sentenza dell’uditore della Camera, Guglielmi, nella parte soprattutto favorevole alla mensa arcivescovile.
1744.41 Gli Austriaci conquistano Velletri, ma dopo poco tempo vengono respinti – I danni che la città doveva subire.
In questa circostanza, i danni furono abbastanza lievi; ma poco dopo saremmo stati gravati ancor più stati e costretti ad affrontare catastrofi maggiori. Lobkowitz aveva messo in giro la voce del suo progetto di imbarcare una parte delle sue truppe sulle navi inglesi, che intanto erano ancorate nel porto di Roma, per trasferirle nel regno di Napoli. La voce era stata fatta girare ad arte per ingannare il nemico e fargli pensare che la città di Velletri non correva alcun rischio di invasione. Fu fissata la data dell’11 agosto per il trasferimento delle truppe ad Ostia Tiberina. La notte precedente al falso trasferimento, alcune migliaia di soldati per una strada inconsueta e quasi sconosciuta ricevettero l’ordine di occupare la città di Velletri, iniziando l’invasione dalla parte orientale e più bassa, verso il mare, dove gli Spagnoli e i Napoletani meno si aspettavano l’attacco e dove avevano posto minori difese. Le truppe erano guidate dal generale in capo, Brawn e dal suo luogotenente generale, Novati, il quale all’aurora era giunto, non visto, alla chiesa di Santa Maria dell’Orto e dopo aver ucciso i soldati che facevano la guardia della strada, subito attaccarono la cavalleria napoletana, che era accampata davanti alla città, negli orti suburbani della mia famiglia Borgia. Con un attacco improvviso, in parte li uccisero, in parte li misero in fuga, e incendiarono le loro tende. Il fuoco diffondendosi bruciò la paglia e il fieno per i cavalli, che gli Austriaci, o catturano o azzoppano, in modo che fossero resi inabili. Il fuoco però si appiccò agli edifici della mia villa di campagna, distruggendo la parte esposta a mezzogiorno e fece scoppiare i recipienti vuoti del vino. Tuttavia nelle cantine dove erano custodite le botti piene di vino il fuoco non avanzò molto, per la forte umidità degli ambienti.
1744.42 Gli Austriaci appiccando il fuoco, distruggono le case della famiglia Gagliardi e molte altre case di Velletri – Gli edifici della famiglia Borgia vengono occupate e rovinate dalle truppe austriache – Rubano il museo numismatico della famiglia.
I militari Austriaci, entrarono nella città, senza trovare resistenza. Nessuno, infatti, si era preoccupato di difendere la porta della città. La decisione principale era stata quella di catturare il re di Napoli, il duca di Modena e Gages che avevano, sotto il re, il comando supremo dell’esercito e guidavano la guerra.
Cominciarono ad appiccare l’incendio, qua e là, alle case, non rispettando neppure l’episcopio; dove però le fiamme furono subito spente, come pure in altri palazzi. Ventitré furono le case incendiate, le principali furono quelle della famiglia Gagliardi, imparentata con la nostra, sita in piazza San Giacomo, con tutto lo splendido arredamento domestico. I danni alla casa con la suppellettile perduta era stimata circa 10.000 scudi d’oro. Era stata occupata per farvi risiedere il duca Atrisco, capo della cavalleria. Egli però era assente perché viveva nei castelli montani.
Si mossero dalla piazza di San Giacomo, fino alla vicina piazza, detta Inferiore, si recarono pure negli edifici della mia famiglia, con la speranza di catturare anche il comandante in capo Gages. Egli, solito ad alzarsi dal letto prima dell’aurora, si era allontanato, salendo verso il monte e aveva lasciato la casa alla custodia dei soldati. Questi resistettero strenuamente alle truppe Austriache che stavano aggredendo il palazzo. Si combatté a lungo a colpi dei fucile. Quando però gli Austriaci si accorsero che il loro entrare dalla porta, collocata sulla parte anteriore del palazzo, era troppo difficoltoso, hanno attaccato il lato posteriore, verso l’edicola della Santissima Trinità, e, infine, lo hanno espugnato ed invaso, mentre i difensori si diedero alla fuga. Rubarono tutto quello che poterono nelle stanze occupate da Gages e dai suoi ufficiali senza distinguere ciò che apparteneva al Gages e ai suoi ufficiali, da quello che apparteneva invece alla mia famiglia. Poche cose comunque sottrassero agli occupanti Spagnoli poiché molti oggetti erano stati trasferiti nei locali più nascosti e segreti e le casse, che contenevano i piani strategici e i documenti riservati, al momento dell’invasione improvvisa degli Austriaci, furono consegnate ai miei fratelli dall’ufficiale che fungeva da segretario di Gages, affinché le custodissero con cura come se fossero i gioielli più preziosi di una corona da re. Certamente se gli Austriaci fossero venuti a conoscenza dei piani delle truppe Spagnole, la guerra sarebbe immediatamente terminata.
Intanto gli Austriaci, nel fare bottino, in parte hanno rovinato e in parte asportato il prezioso letto con il relativo tendaggio di damasco di seta ricamata, perché pensavano che esso venisse usato dal Gages. Questo fatto provocò in me un grandissimo dispiacere, poiché quel letto era stato usato da Benedetto XIII allorché, ancora cardinale, si fermò a casa mia, mentre si recava a Roma per partecipare al conclave in cui fu eletto papa. Nella stessa stanza, i soldati hanno aperto a forza un armadio in cui erano conservate le antiche monete degli imperatori romani, delle nobili e auguste matrone, dei consoli romani ed erano tutte disposte in modo ordinato. La maggior parte erano di bronzo, molte però erano d’argento e alcune anche d’oro, acquistate, con solerte attenzione, nel corso di molti anni, dai miei antenati e da me aumentate di numero; ad esse avevo aggiunto altre monete riguardanti vari pontefici romani. Rubarono quindi tutta la raccolta di monete. Peraltro il furto non avrebbe procurato loro un grande guadagno, mentre, invece, provocò a me un grande dolore e un grave danno.
Salirono poi nelle stanze del piano superiore, dichiarando che volevano controllare se ci fossero nemici; anche lì rubarono molti oggetti e spararono alcuni colpi di fucile, che echeggiavano per tutta l’abitazione, senza peraltro ferire alcuno, né degli inservienti o familiari, né degli aiutanti di Gages, i quali peraltro si erano mescolati e confusi con i miei servi poiché, avendo mutato i loro vestiti, facilmente confusero gli Austriaci, ma soprattutto perché i miei fratelli si difesero con il parlare, trattando e con l’offrire agli invasori una bella somma di denaro, pregandoli insistentemente di abbandonare la casa. Gli Austriaci ben presto si ritirarono. Di fatto, quando nella città bassa si notò la confusione e il fuggi fuggi generale, a causa dell’improvvisa sortita degli Austriaci, il re e il duca di Modena, abbandonando la città bassa, si erano avviati verso gli accampamenti degli Spagnoli posti sul monte dei Cappuccini. A questo punto la guardia speciale del corpo, formata da Belgi, scesero nella città bassa e attaccarono gli Austriaci invasori e li respinsero. I militari Austriaci, che si erano sparpagliati per le case per far bottino, essendo rimasti in pochi, sono stati costretti a retrocedere fino all’accampamento di Cintiano, portando con sé il bottino e i molti prigionieri. Gli Spagnoli, da parte loro, fecero prigioniero il comandante degli Austriaci in fuga, il quale si trovava nel palazzo dei Toruzi, al quartiere di San Martino, dove credeva di poter catturare il duca di Modena. Frattanto, nelle zone più alte delle colline, la battaglia era accanita con molte vittime da ambo le parti; tuttavia le perdite degli Austriaci furono superiori. E’ il caso di osservare che gli Austriaci avrebbero potuto vincere quella battaglia se si fossero affrettati, un po’ di più, a occupare tutta la città e non si fossero attardati a fare bottino e ad appiccare il fuoco.
1744.43 La famiglia Borgia si rifugia a Ferentino – Lobkowitz si rammarica dei danni provocati alla famiglia Borgia, ma non dà assicurazioni di poter restituire il museo numismatico, né gli altri beni sottratti.
Mio fratello Camillo prese la decisione di trasferirsi, insieme con tutta la famiglia, a Ferentino presso l’altro nostro fratello Fabrizio, vescovo di quella città. Tale decisione era stata precedentemente differita, ma Camillo, spaventato da ciò che stava avvenendo, si era convinto ad eseguire tale scelta. Si fece anche il tentativo presso gli Austriaci di recuperare gli oggetti trafugati di nostra proprietà. Per questo avevo scritto una lettera a Lobkowitz, il quale aveva risposto che gli dispiaceva moltissimo ciò che era avvenuto, e assicurava che nel caso in cui si rinvenissero gli oggetti trafugati egli avrebbe ordinato di riconsegnarceli; osservava però nel contempo che era cosa impossibile trovare il materiale sottratto. Mio fratello Camillo scrisse una lettera al card. Valenti, segretario di Stato, per segnalargli il fatto, mentre mio fratello Cesare, milite gerosolimitano, indirizzava al papa Benedetto XIV una supplica sullo stesso argomento. Vista la situazione e le condizioni di quel momento, non si poté ottenere null’altro che lettere di commiserazione e la speranza che a tempo opportuno la richiesta sarebbe stata presa in considerazione.
1744.44 Gli Spagnoli rafforzano la parte più bassa di Velletri scavando una linea di circonvallazione per difendersi, provocando un grave danno ai terreni suburbani. – L’arcivescovo scrive una lettera al cardinale segretario di Stato sui danni provocati alla sua patria e alla sua famiglia – Riunioni per scongiurare questi danni – Benedetto XIV sembra preoccuparsi soltanto dell’incolumità di Roma.
Frattanto Gages, per meglio premunirsi contro le sorprese, aveva pensato di rafforzare le difese della parte più bassa della città, con nuove opere, tracciando un fossato di circonvallazione attorno alla città stessa. Non aveva però considerato che tale operazione provocava danni ai terreni suburbani, decretando la rovina della nostra casa sita fuori le mura, con il pretesto che intralciava l’azione per difendere meglio la città. Tuttavia, fortunatamente, Gages sospese l’esecuzione del progetto ideato, fino a quando non si fossero presentate ulteriori condizioni di urgenza. Riflettendo su tutto ciò, e sulle ulteriori calamità che incombevano sulla città e sulla mia famiglia, pensai che fosse necessario di scrivere allo stesso cardinale segretario di Stato chiedendo di provvedere a che nei territori di dominio della Chiesa, e particolarmente a Velletri, i due eserciti contendenti si astenessero dal compiere azioni militari.
Certo non era inconsueto concedere il passaggio a truppe straniere, ma da ciò non si poteva far scaturire l’audacia di scatenare azioni di guerra, anche se ciò era accaduto nel passato in frequenti occasioni. Tuttavia era inusitato e inconcepibile che sovrani cristiani si facessero guerra l’uno contro l’altro ed era del tutto nuovo quel combattersi reciprocamente dentro i territori della Chiesa Romana, sotto gli occhi del Romano pontefice che è il padre di tutti, mettere tutto a ferro e a fuoco e rapinare, devastando non i beni propri dei belligeranti, ma quelli degli altri, proprio i nostri. Era assolutamente necessario che il papa Benedetto XIV intervenisse con paterna severità per imporre a tutti un diverso comportamento, altrimenti ben presto si sarebbe provocata la fine di tutto.
Il segretario di Stato mi rispose, anche a nome del papa, lodando ed apprezzando la mia preoccupazione per la patria e per la mia famiglia e che il papa stesso era moltissimo addolorato per i combattimenti e non tralasciava nessuna attenzione per far superare le ostilità, era però convinto che l’unico mezzo efficace che restava, era quello di elevare la preghiera a Dio, per ottenere da lui il frutto sperato negli interventi praticati per la pace.
Una cosa, però, tralasciai di dire: non era ormai più il momento di limitarsi a dare consigli. Sapevo per certo, infatti, che l’origine di tutte le disgrazie scaturiva dal fatto che tutti i sommovimenti bellici erano in corso perché, all’inizio, le città, le località minori e le terre governate da Roma non erano abbastanza munite di difese. Velletri, per questo, era stata, nel passato sempre difesa e custodita in caso di rischi di guerra proveniente da Napoli, grazie all’opera dei propri cittadini e per mezzo del presidio militare messo a disposizione dai Romani pontefici, come fecero ad esempio Sisto IV e Paolo IV. Questo perché essi sapevano che le loro decisioni non servivano soltanto alla sicurezza di Velletri, ma erano utili a difendere e salvaguardare anche Roma. Quindi il vero problema era questo: allorché veniva concesso il passaggio delle truppe nel territorio della Stato Romano, era sempre necessario stipulare chiari accordi che i soldati esteri non avrebbero mai potuto varcare la cinta di mura delle città. Bisognava anche stabilire che qualsiasi esercito, tutto intero e contemporaneamente, non potesse mai entrare in un territorio dello Stato pontificio. Erano da stabilire anche le modalità: i soldati dovevano entrare distribuendoli pochi per volta, stabilendo caso per caso il numero delle legioni ammesse al passaggio, cosicché dopo transitata una legione, si potesse concedere il passaggio di un’altra. Soltanto così, infatti, si era in grado di contenere e di controllare le truppe.
Purtroppo la realtà da noi era diversa: il papa, al di sopra di tutto, ha avuto la preoccupazione di salvaguardare Roma dalle truppe straniere, per evitare che vi si scatenasse la sfrenatezza dei soldati. Per questo, sin dall’inizio degli eventi bellici, egli aveva fatto convergere numerose truppe a Roma, richiamate dalle città vicine e soprattutto da Viterbo, per provvedere alla difesa di Roma, aumentando sempre il numero dei soldati, man mano che il pericolo si avvicinava alla capitale, fino ad alcune migliaia. Questo sistema indubbiamente favorì moltissimo la salvezza e la sicurezza della città capitale, ma non quella dei territori dello stesso Stato.
1744.45 Gli Spagnoli e i Napoletani approntano gli acquartieramenti d’inverno scoperchiandoi tetti di tutte le case agricole del territorio – Devastano tutte le proprietà suburbane della famiglia Borgia – Gages comandante supremo degli Spagnoli ripaga molto male l’ospitalità e tutti gli altri favori ricevuti in casa nostra a Velletri, negando il suo impegno che egli avrebbe risarcito i danni causati né restituito i beni sottratti. In compenso manda soltanto una lettera al cardinale Traiano Acquaviva a favore della mia famiglia – Gli Spagnoli approfittano delle uve, vendemmiandole a Velletri.
Dopo quello che era accaduto a Velletri, al cumulo di disgrazie si aggiunse il disastro perché i soldati Spagnoli e Napoletani, ricevuto l’ordine di preparare gli acquartieramenti invernali, si misero a scoperchiare tutte le case sparse per le campagne di Velletri, per poter coprire gli alloggiamenti invernali con le tegole, le travi e le assi sottratte. A questo scopo i soldati devastavano ogni cosa. Non risparmiarono neppure le case di campagna della mia famiglia, poste fuori la porta Napoletana, nonostante che il generale Gages avesse disposto diversamente. I soldati infatti avevano già scoperchiato i tetti e le altre coperture. In tal modo, in questo nostro suburbio, tutto ciò che si era salvato dal fuoco, che fu appiccato dagli Austriaci, venne completamente devastato dai soldati Spagnoli e Napoletani. Questa stessa triste sorte toccò anche ai tetti di un altro nostro edificio suburbano che era fuori della stessa porta, presso l’edicola di Santa Maria delle Fosse, che anticamente apparteneva alla famiglia Micheletti, parenti di nostra madre Cecilia Carboni. I soldati allo stesso modo devastarono un altro nostro antico edificio, sito fuori porta Romana, presso la Fonte Nuova. Fu danneggiata anche la nostra vigna presso Santa Caterina.
Forse lo stesso Gages provò vergogna per il fatto che era stato riservato un trattamento tanto ingiurioso alla nostra famiglia la quale, tra numerosi rischi e pericoli, aveva custodito e salvato non solo i documenti segreti del re e le sue cose, aveva nascosto e persino salvato da vari pericoli i suoi conti e i servitori con somma fedeltà e impegno. Per questo Gages stesso aveva disposto di far stimare i danni arrecati, ma dopo la stima, disse ai nostri amministratori che egli non immaginava il modo di procedere al risarcimento, anzi affermò che non poteva neppure restituire le stoviglie e le suppellettili d’argento e di lino sottratte dagli Austriaci, tutte cose che erano state da lui usate, in quanto egli era nostro ospite e, quindi, anche affidatario di tutti gli oggetti che avevano usato in quanto ospiti che le tenevano a loro disposizione e che, in base alla legge, essi avrebbero dovuto restituire in modo completo. Anzi affermava che egli non era in dovere neppure di risponderne, come se la nostra famiglia fosse stata responsabile di quegli eventi bellici, mentre ne eravamo soltanto le vittime, senza alcuna responsabilità. Ci si può rendere conto di quanto i responsabili comandanti militari non avevano a cuore se non in modo irrazionale le cose e gli interessi dei sudditi della Chiesa Romana. Nel con tempo, si rifletteva su come Benedetto XIV aveva rinunciato al potere delle due spade, quella spirituale e quella temporale, che la divina provvidenza ha affidato ai romani pontefici, a tutela dei propri sudditi.
Tuttavia Gages, per sua bontà, promise di mandare una lettera al cardinale Traiano D’Acquaviva, autorità potente come agente a Roma degli affari dei due re di Spagna e di Napoli, con la quale lo pregava di raccomandare al papa Benedetto la nostra famiglia Borgia. Il comandante forse sospettava che i danni da noi sofferti senza rivalsa, non contassero granché per il papa. Si stava correndo il rischio che coloro i quali da sempre erano fedeli a san Pietro, considerati e chiamati figli dei Romani pontefici, in caso di richieste che essi facessero al papa, avessero bisogno di essere raccomandati da parte di sovrani stranieri, affinché le persone che erano sudditi dello Stato Romano pontificio, fossero prese in considerazione con le loro cose e i loro onori.
Era imminente il tempo della vendemmia e i soldati scorrazzavano per le campagne rubando a man bassa, pubblicamente, l’uva non solo per mangiarla, ma anche per pigiarla e prendersi il mosto. Ai nostri agricoltori era stato proibito di poter iniziare la vendemmia prima del mese di ottobre.
1744.46 Riunione degli Eremitani della diocesi – Ampliamento di edifici e appezzamenti di terra comprati presso capo di Gera – Nuovo metodo di costruzioni agricole non più con la malta di fango, ma con la calce – Arrivo a Fermo del cardinale Luigi Carafa.
Alla fine di agosto, ho convocato, nell’episcopio, la riunione di tutti i frati Eremitani della diocesi. All’inizio di settembre, mi sono messo in viaggio per arrivare a Monteverde. Mi sono fermato prima a Grottazzolina, per visionare un appezzamento alberato che, il 27 di febbraio, mi era stato venduto da Nicola Gasparo e acquistai per utilità della mensa vescovile, a mie spese. Era sito in una località detta Fonterotto. Ne feci scrivere l’atto di compravendita a Nicola Blancuccio, notaio di Fermo. Mi recai a visionare un altro simile appezzamento di terra nel territorio di Monteverde, dove erano i possedimenti della mensa vescovile, sito nei pressi del capo di Gera, accanto al fosso omonimo che avevo acquistato a mie spese, il 22 gennaio scorso, da Bernardino Berdotti e dai sindaci di quella chiesa per utilità della mensa e dei coloni stessi, ai quali mancava la produzione di vino. Ne feci redigere l’atto di acquisto da Giuseppe Antolini, notaio pubblico di Belmonte. Mi recai a Monteverde specialmente per verificare lo stato degli edifici che facevo costruire presso il mulino, destinati a conservare i prodotti e anche ad uso dei fattori. Finora non esistevano veri e propri magazzini adeguati a ricevere e conservare i prodotti, né locali dove poterci fermare io o gli altri amministratori, quando si andava a controllare. Fino ad allora bisognava, infatti, chiedere ospitalità in casa di altri.
Generalmente gli edifici erano stati fatti costruire in parte con laterizi, collegati con il fango. Pensai bene allora che sarebbe stato meglio che le costruzioni fossero eseguite non con malta di fango, ma con la calce. Mi ero accorto, per esperienza, che gli edifici murati con il fango ben presto crollavano e non potevano reggere all’usura del tempo e alle intemperie, cosa che non accade alle costruzioni in cui i laterizi erano collegati con calce. Perciò, anche se, nei precedenti anni del mio episcopato, preferii lasciar seguire l’abitudine che si usasse il fango, in alcuni edifici rurali, poi ho deciso di proibirlo ai miei fattori e di far usare malta di calce. E’ preferibile spendere di più, ma avere case durevoli, piuttosto che risparmiare denaro e avere costruzioni destinate ad andare presto in rovina. L’edificio, iniziato nel mese di giugno, ad ottobre era stato terminato.
In quel mese di ottobre, mentre ero a villeggiare a San Martino, venne a Fermo il cardinale Pietro Luigi Carafa. Lasciata subito la campagna, ero tornato a Fermo per incontrarlo ed accoglierlo nel palazzo arcivescovile, dove rimase mio ospite per tre giorni. Al quarto giorno partì per recarsi a Loreto.
1744.47 Lobkowitz toglie l’assedio da Velletri – Carlo re delle due Sicilie si dirige verso Roma per inseguire gli Austriaci.
Il primo di novembre, ho celebrato, nella chiesa cattedrale, la solennità di Tutti i Santi; mi sono rivolto al popolo, con un lungo sermone, e insieme abbiamo intensamente pregato Dio per la pace e per la fine delle calamità pubblica. Nello stesso giorno di novembre Lobkowitz, che ormai non credeva più di poter assaltare le difese che Gages aveva approntato attorno a Velletri, al monte dei Faggi, ed al colle dei Cappuccini, anche perché le sue truppe erano prive del fieno e di pascoli per gli accampamenti invernali, tolse l’assedio alla città di Velletri e con tutto l’esercito si ritirò avviandosi verso Roma e Viterbo. Il re di Napoli lo inseguì, verso Ponte Milvio presso l’urbe romana, dove fu combattuta una battaglia con molti morti e feriti da ambo le parti. Vennero devastati i vigneti fuori la Porta Flaminia e vennero svuotate le riserve di vino. Frattanto nei combattimenti cadevano questi figli, quasi alla presenza del sommo e comune padre.
Il re entrò a Roma e fu accolto con tutti gli onori dal papa Benedetto XIV; venne omaggiato con doni e arricchito di indulgenze, come se con tutto il suo esercito fosse venuto a portare la salvezza e non invece disgrazie e calamità allo Stato Romano. Entrò prima nella basilica di san Pietro e poi in quella del Laterano, con devozione, mentre tutto il popolo Romano implorava la pace dal re. Tornò subito a Velletri e con il cavallo a galoppo si avviò verso Gaeta e Napoli, dopo aver arrecato gravissimi danni alle città e agli abitanti, senza promettere nessun risarcimento, senza dir nulla, anche se i racconti dei cronisti dicevano tutt’altro riguardo ai motivi che alimentavano la speranza dell’equità e della giustizia.
1744.48 Le calamità degli abitanti di Velletri e il pericolo di peste – Morte del vescovo suffraganeo di Velletri mons. Gaetano de Paolis.
A Velletri, per la carenza di acqua, per le continue sofferenze, per la sporcizia provocata dalla presenza dei soldati, per i cadaveri e le carcasse dei giumenti o rimasti insepolti oppure seppelliti alla meno peggio, c’era rimasto una grande fetore e gli abitanti rischiavano il contagio di malattie e difatti ci furono dei morti, tra i quali mons. Gaetano de Paolis, vescovo di Cardi, suffraganeo e arciprete della Chiesa di Velletri, uomo nobile e pio.
1744.49 Calamità che colpiscono gli abitanti di Nocera Umbra.
La maggior parte delle truppe napoletane ritornarono entro i confini del loro regno. Ma gli Spagnoli con il duca di Modena e con il comandante Gages, inseguivano gli Austriaci. Questi indietreggiando, prima si diressero verso Viterbo, poi cambiarono direzione, e si mossero verso Perugia e, dopo aver lasciato i bagagli e le salmerie, entrarono nel Piceno e si diressero verso Pesaro.
Il conte di Sora, che doveva difendere i bagagli, occupò Nocera Umbra dove venne intercettato, insieme a tutte le sue truppe, da parte degli Spagnoli, che erano accampati a Foligno. Purtroppo anche in questa circostanza fui colpito da grande dolore per le disgrazie che subirono gli abitanti di Nocera, di cui nel passato ero stato vescovo. Gli Spagnoli, infatti, dopo aver fatto prigioniero il Conte, si diedero a depredare quasi tutte le abitazioni della città, fatte poche eccezioni.
Gli Austriaci, abbandonata Perugia, continuarono la ritirata a marce forzate e raggiunsero Gubbio, Fossombrone e Pesaro; imboccarono poi la via Flaminia e Lobkowitz fissò la sua sede a Forlì distribuendo, per tutte le province, l’esercito, il cui passaggio non fu certo innocuo per la gente. Impose addirittura un contributo a tre intere Legazioni: Bologna, Ferrara e Flaminia. Il contributo era fissato in 27.000 scudi di argento di moneta romana per ogni mese fino al mese di aprile.
Gli Spagnoli invece, ritiratisi dall’Umbria, occuparono la Sabina e la Provincia che chiamavano Patrimonio di san Pietro. Il comandante Gages, con la maggior parte delle sue truppe, aveva fissato la sua sede a Viterbo. Il duca di Modena, invece, dall’Umbria, sotto falso nome, era passato nel Piceno e, arrivato al Porto di Fermo, dove, imbarcatosi, si era diretto a Venezia.
1744.50 Benedetto XIV invia come suo legato Alessandro Clarelli a Velletri per far ripulire e risanare la città.
Benedetto XIV, avendo saputo che Velletri, a causa del fetore e della sporcizia lasciata dai soldati, correva il rischio di subire un contagio, vi mandò come suo legato Alessandro Clarelli di Rieti, prelato della curia Romana, con un manipolo di soldati e con carri da carico, con il compito di far ripulire e risanare la città. Inviò anche un gruppo di medici e di chirurghi perché curassero la salute dei malati, e riducessero la virulenza delle malattie. Risanarono l’ambiente, evitando il rischio del contagio pestifero.
1744.51 L’arcivescovo decide di intraprendere il viaggio per Roma.
Durante le feste del Natale del Salvatore, scadeva il tempo per compiere la visita alla Sede Apostolica, per la quale avevo già chiesto ed ottenuto la proroga di sei mesi. Temevo che, nella prossima primavera, il Piceno potesse essere ancora disturbato dal passaggio e dall’acquartieramento delle truppe, o, peggio, potesse di nuovo essere invaso, e quindi mi sarebbe stato impossibile di recarmi a Roma. Il dovere di un vescovo infatti è quello di stare in mezzo al suo gregge nei momenti di pericolo. Dopo passate le feste, avevo deciso di intraprendere il viaggio per Roma, anche se le strade sarebbero state innevate, anzi ghiacciate e chiuse. Pertanto il 30 dicembre, giorno favorevole, dedicato alla festa di san Savino, patrono di Fermo, mi posi in viaggio per andare Roma.