ANNO 1742
1742.1 Terminata la pavimentazione del cortile del palazzo arcivescovile, l’arcivescovo procede all’ornamento della facciata dello stesso palazzo e fa costruire il prospetto all’ingresso del cortile.
All’inizio del mese di gennaio, è stata realizzata l’elegante pavimentazione del cortile con pietra proveniente dall’Istria. Nella zona in cui il cortile confinava con la strada che porta nella piazza maggiore della città, esso terminava con una struttura formata da una trabeazione di legno. Nell’anno precedente avevo fatto costruire due pilastri che si affacciavano sulla strada, su di essi avevo fatto scolpire il mio stemma e incidere il mio nome, a memoria dell’opera compiuta, con queste parole: Alessandro Borgia arcivescovo e principe di Fermo fece costruire il cortile e il prospetto di ingresso.
Sul luogo d’ingresso all’arcivescovato, poi, furono incisi i monogrammi del nostro Salvatore Gesù Cristo e della sua Madre la beata Vergine Maria. Inoltre era stata abbellita la stessa facciata del palazzo con l’apposizione di lastre di marmo che contornavano le finestre e con pilastri che sorreggevano il frontone di ingresso. Erano stati inoltre sistemati tutti gli scarichi per il deflusso delle acque piovane, nell’occasione del rifacimento della pavimentazione del cortile. La spesa impiegata fu superiore ai 1200 scudi di argento e tutto il lavoro fu eseguito dal mastro marmista Giovanni Battista Brunetti di Ancona.
1742.2 Elezione ad imperatore di Carlo Alberto duca di Baviera e grande elettore.
Nel bel mezzo delle complicate vicende belliche provocate dal re di Francia tramite il suo legato De Bellisle, che egli aveva mandato in Germania come comandante delle sue truppe per occupare, per conto della dinastia Bavarese, le province ereditarie austriache e il regno di Boemia, il 24 di gennaio sotto la pressione dell’urgenza, venne convocata, a Francoforte sul Meno, la dieta dei principi elettori, nella quale fu eletto alla suprema autorità imperiale Carlo Alberto, duca di Baviera e grande elettore.
Pertanto fu umiliata la potenza della Casa d’Austria, e a causa della promulgazione, da parte dell’ultimo imperatore, Carlo VI, della Prammatica legge di successione che il re di Francia, i principi tedeschi e quasi tutti gli altri principi cristiani avevano giurato di accettare, fu giocoforza di rispettare l’elezione anche da parte dei principi della Germania e del re di Francia. Alcuni erano spinti a ciò dal desiderio di poter annettere ai propri domini qualche territorio ereditario della Casa d’Austria, altri invece dalla paura delle potenze avversarie.[1]
1742.3 Viene spianata la strada alle truppe Austriache e Napoletane all’occupazione dei territori pontifici.
Purtroppo l’incendio della guerra non si è limitato alla Germania, ma aveva investito anche l’Italia e in particolare le nostre zone. Infatti il re di Spagna rivendicò a sé tutti i territori ereditari della Casa d’Austria in Italia, come il Milanese, Mantova, Parma e Piacenza che erano state possedute dal defunto imperatore Carlo VI. Il re di Spagna rivendicava i detti territori a Filippo suo figlio secondogenito, avuto in seconde nozze con Elisabetta Farnese. Egli aveva sposato Luisa Elisabetta, primogenita del re di Francia. Il re richiedeva insistentemente che tutti questi possedimenti gli venissero concessi dal nuovo imperatore e, a questo scopo, aveva inviato un gran numero di soldati dalla Spagna in Italia al comando del De Montemar, sbarcati in Italia ad Orbetello nella costa tirrenica.
Benedetto XIV diede loro l’assenso a che attraversassassero i territori del Patrimonio di san Pietro e le altre province dello Stato della Chiesa. L’attraversamento però doveva avvenire nella durata di poche settimane. Si sparse ad arte la notizia che gli Spagnoli stavano occupando i territori ormai perduti dalla dinastia dei Farnese e che avevano ormai occupato Ronciglione nel territorio pontificio. Poiché il papa aveva protestato per tale fatto presso la regina di Spagna, lei, con una sua lettera, aveva dato l’assicurazione al pontefice, chiedendogli solo l’autorizzazione di l’attraversare i territori pontifici al fine di non rischiare di perdere i diritti della corona Spagnola sui territori rivendicati. Rassicurato da tali dichiarazioni e al fine di evitare mali peggiori, il pontefice prese la decisione di autorizzare il passaggio delle truppe spagnole.
Fu così che, alla fine di gennaio, ben quindicimila soldati Spagnoli, attraversando il territorio del Patrimonio di san Pietro, passarono in Umbria e da là giunsero nel Piceno, per poi dirigersi verso il nord. Mentre gli Spagnoli invadevano i detti territori, circa altri dodicimila soldati, mandati da Carlo, re delle due Sicilie e fratello di Filippo, giunsero a Tolentino, a Macerata e a Recanati, ponendo i loro accampamenti presso quelle città, con l’intenzione di andare ad occupare Modena e i territori soggetti a quel duca.
Tuttavia le truppe Spagnole e napoletane non riuscirono a penetrare nei territori della “Gallia Cispadana” in parte per i segreti progetti messi in atto dal re di Francia, in parte per la scarsezza dei <mezzi> della Chiesa. Intanto il re di Sardegna aveva occupato Modena ed era riuscito ad unirsi alle truppe Austriache. Sferrò allora un attacco contro le forze Spagnole e Napoletane. Queste di conseguenza si diedero alla fuga verso Foligno e Spoleto. Volesse il cielo che le truppe sarde li avessero inseguiti fino a cacciarli dall’Italia! In tal caso lo Stato della Chiesa sarebbe potuto stare nella pace e non sarebbe stato costretto a sopportare le sofferenze provocate dalla funesta occupazione militare.
Gli eventi si svolsero in questo modo: il re di Spagna per obbedire al desiderio del papa, che glielo aveva chiesto, abbandonò i territori dell’Emilia, dirigendosi verso la Romagna e in tal modo provocò la disgrazia di tutta l’Italia. Infatti la sconfitta e la fuga del generale De Montemar spinse il sovrano a togliergli il comando dell’esercito, affidandolo al generale Giovanni De Gages. Questi, mentre le truppe Napoletane erano in fuga verso il regno di Napoli, raccolte tutte le truppe di stanza nell’Umbria, si diresse verso la “Gallia Cispadana” e l’Emilia, ma tra Modena e Bologna, a causa della strenua difesa opposta dalle truppe Austriache e da quelle del re di Sardegna, fu sconfitto e le milizie si dispersero nel territorio di Bologna, restandovi sino alla fine dell’anno.
1742.4 Il Piceno dovette sopportare molte disgrazie a causa dello stazionamento delle truppe spagnole e napoletane. In quel periodo fu molte volte violata l’immunità ecclesiastica.
Non è facile descrivere quali e quanti danni dovettero subire le popolazioni dei territori pontifici e gli addetti ai terreni degli enti ecclesiastici a causa del passaggio e dello stazionamento delle truppe, a causa della licenziosità e delle angherie della soldataglia. La gente infatti spesso era costretta a fornire il necessario per il vitto delle truppe e per il fieno e lo strame per i cavalli, ricevendone un prezzo molto basso, con la promessa che successivamente avrebbero dato il conguaglio, cosa che, in seguito, mai avvenne.
Venivano spesso requisiti i conventi dei religiosi e i collegi dei chierici, luoghi considerati più adatti e più comodi per ospitare gli uomini. Altre volte requisivano i buoi, necessari agli agricoltori per la coltivazione dei campi e li usavano per il trasporto del materiale militare. Non venivano risparmiati i possessori dei benefici ecclesiastici e neppure i beni della mensa arcivescovile di San Claudio, dove erano stati posti i loro accampamenti.
Sia il generale Enriquez, sia il governatore napoletano di Macerata affermavano di essere autorizzati a fare tutto ciò, in forza dell’autorità Apostolica, come se si trattasse di aiutare un esercito destinato a liberare i Luoghi Santi di Gerusalemme e a difendere il Sepolcro di Cristo. Tutto ciò provocò in me una grande sofferenza e me ne lamentai vibratamente con Roma, ma fu tutto inutile. E’ prassi ordinaria, adottata dalla Curia Romana, che tutte le volte che veniva affidata qualche incombenza a governatori delle città o delle province, essi dichiaravano di esercitare tale compito in forza dell’autorità Apostolica, nei confronti dei sacri diritti, delle leggi e delle immunità delle chiese, come se gli apostoli avessero ricevuto dal Signore Gesù l’autorità di amministrare materialmente la Chiesa, quando invece ad essi fu comandato di insegnare al popolo e “a osservare tutto ciò che vi ho comandato” (Matt. 28, 20).
Da ciò nasceva il fatto che i principi laici (secolari) eludevano o peggio calpestavano l’immunità delle chiese, le libertà del clero, i privilegi di cui godevano i beni ecclesiastici. Ciò, oltre ad essere molto grave in sé, costituiva un grave disprezzo delle legittime consuetudini. Erano specialmente presi di mira dalle truppe quei luoghi che si trovavano lungo le vie di fuga; tra queste località c’era la città di Gualdo dell’Umbria dove si trovava il monastero di San Benedetto a me affidato in commenda perpetua. Esso aveva non poco sofferto per i danni subiti e per le contribuzioni imposte ai beni e ai possedimenti del monastero.
1742.5 Dio si fa vindice dell’immunità violata.
Mentre a causa delle lotte tra i principi (governanti), delle sfrenatezze dei soldati, delle angherie degli uomini, la situazione spirituale e le vicende umane subivano uno sconvolgimento nel nostro territorio, si rivelava evidente il progetto punitore di Dio. Benedetto XIV fu costretto a pentirsi amaramente di aver incautamente occasionato (o spontaneamente o spinto da qualche grave motivo o anche indotto da qualche consiglio errato) l’invasione dell’intero Stato della Chiesa e specialmente aver causato particolari danni alla sua Bologna nella quale i soldati si trattennero più a lungo.
Oltretutto, proprio coloro che riscuotevano maggior fiducia presso di lui e coloro che gli garantivano la stima e la fedeltà dei sovrani ambiziosi, lo tradirono con fallaci rassicurazioni. Lo persuasero infatti che, a seguito del passaggio delle truppe nelle nostre terre, sarebbe affluita nell’erario pubblico pontificio una grande quantità di denaro spagnolo, quasi che il papa, inerme di fronte al potere militare, potesse imporre qualcosa ad un esercito agguerrito e ben armato, imponerndosi in forza e in nome delle leggi cristiane. Forse questi suoi consiglieri pensavano che il Romano pontefice fosse obbligato ad aprire la strada del suo Stato ai principi cristiani che si dicevano suoi figli, ma questi, di fatto, si muovevano spinti dal desiderio di tutelare i propri interessi o peggio per compiere ruberie e rapine. E’ un fatto certo però che sulle truppe Spagnole e Napoletane si abbatté la punizione di Dio; infatti senza neppure combattere, anzi senza neppure aver iniziato il combattimento, furono colpite da malattie e dalle avverse condizioni atmosferiche.[2]
1742.6 La Società (confraternita) della Carità di Fermo.
Alcune nobildonne di Fermo avevano deciso di istituire un’opera protesa ad alleviare le gravi necessità e le sofferenze dei malati poveri e miserabili, secondo le regole fissate e lo spirito della congregazione fondata da San Vincenzo de Paoli in Francia. Ho concesso subito e volentieri la mia approvazione.
1742.7 Restaurato l’organo del mio monastero di Gualdo Tadino in diocesi di Nocera Umbra.
L’antico organo esistente nella chiesa del monastero di San Benedetto di Gualdo Tadino, in diocesi di Nocera Umbra, dato a me in commenda, di cui ho detto sopra, era gravemente danneggiato a causa dell’abbandono e per la polvere che vi si era accumulata. Ne curai il restauro spendendo una ragguardevole somma di denaro. Il lavoro fu portato bene a termine e lo strumento tornò in funzione già all’inizio della quaresima, in modo che il sabato santo, secondo la tradizione liturgica, poté suonare insieme con le campane, durante la Messa della Risurrezione, con grande gioia del clero e del popolo.
1742.8 L’arcivescovo fa ampliare i sacri vasi per contenere gli oli santi e ne aggiunge un terzo per il sacro crisma.
Feci esaminare i tre vasi di stagno, destinati a contenere gli oli santi degli Infermi, dei Catecumeni e del Crisma; essi furono giudicati troppi piccoli in confronto alla ampiezza della diocesi. Per questo decisi di farli rifondere in modo da ricavarne due, dai tre esistenti per contenere l’olio dei Catecumeni e quello degli Infermi, ottenendo due vasi di stagno più capienti. Disposi poi di farne fare uno nuovo d’argento dorato più grande, per contenervi il sacro Crisma. Il giovedì santo 22 marzo, allorché avvenne la consacrazione degli oli santi, i tre vasi vennero usati per la prima volta.
1742.9 Continuazione della terza visita pastorale – Consacrazione della chiesa nel castello di Guardia – Consacrazione della chiesa del monastero di Santa Marta a Fermo.
Dopo le feste di pasqua ho ripreso la visita pastorale. Mi sono recato a Montottone, Petritoli, Montefiore e Carassai (Guardia) dove il 27 maggio ho consacrato l’antica chiesa di Santa Maria del Buon Gesù nella quale era stata costruita la nuova volta e dove ho benedetto anche l’altare maggiore. Sono poi salito a Ripatransone dove ho compiuto il mio dovere con la visita canonica al vescovo di quella città mons. Giacomo Costa, mio suffraganeo. Successivamente sono andato a Massignano e a Campofilone per compiere la visita, mentre il pievano di Sant’Angelo in Montespino visitava a mio nome altre località viciniori.
All’inizio di giugno mi ero ritirato nella villa di San Martino presso Fermo e il 16 giugno rientravo in città. Il 17 prima domenica dopo la Pentecoste, ho consacrato la chiesa delle sante Marta e Caterina delle monache Domenicane, dopo che era stata ampliata e abbellita con eleganza e ho consacrato anche l’altare laterale in onore di san Vincenzo Ferrer.
1742.10 L’arcivescovo si reca in visita a Loreto e poi si porta a Santa Croce al Chienti – Con un decreto viene confermato il diritto dei poveri a raccogliere le spighe di grano nelle campagne.
Mi sono recato a Loreto per compiere un pellegrinaggio di devozione in onore della Vergine Lauretana; e durante il viaggio corsi il rischio di fare naufragio allorché in carrozza, insieme con i due figli di mio fratello, ero costretto ad attraversare il fiume Potenza, gonfio per la piena.
Al ritorno mi sono fermato presso il monastero di Santa Croce di proprietà della mensa arcivescovile per vedere i lavori dei restauri della chiesa e degli altri edifici rurali. Dopo aver chiesto il parere di esperti mastri muratori, ho dato disposizione che i lavori necessari da compiersi, venissero eseguiti in parte durante l’anno corrente, in parte nel successivo anno.
Al ritorno in sede, ho ricevuto la lettera inviata dal papa a tutti i vescovi dello Stato della Chiesa con la quale egli chiedeva che venisse dovunque ribadito il diritto dei poveri a raccogliere liberamente le spighe di grano nei campi dopo la mietitura. Ottemperando al suo ordine, ho pubblicato uno speciale editto a questo scopo. Tale diritto infatti era stato sancito già nella legge dell’antico testamento al capitolo 19 del libro del Levitico e nel cap. 24 del Deuteronomio e al presente si riteneva avesse ancora validità. Tale disposizione tuttavia si riteneva riferibile anche alla tradizione cristiana oltreché alla legge di Dio. Di fatto, questo diritto non solo era contenuto nella legge veterotestamentaria, ma anche in quella evangelica alla quale noi siamo obbligati.
1742.11 Aumento del prezzo del grano.
La raccolta del grano in quest’anno era stata alquanto scarsa, di conseguenza il prezzo del frumento aveva avuto un lieve aumento, raggiungendo più di cinque scudi per ogni rubbio. Peraltro, anche e specialmente a causa del maggior numero di soldati presenti nella nostra provincia, era stato stabilito il divieto di fare esportazione del frumento.
1742.12 I predicatori appartenenti agli ordini religiosi eletti dalle comunità civili, anche se predicano nelle chiese del proprio ordine, sono obbligati non solo a chiedere e ricevere la benedizione del vescovo, ma anche ad ottenere la sua autorizzazione così come qualsiasi altro predicatore.
I frati dell’ordine di Sant’Agostino di Sant’Angelo in Pontano, in questo anno, avevano osato di mettere in discussione i diritti dell’arcivescovo. Allorché infatti la comunità locale nominava il predicatore della quaresima per predicare nella chiesa del proprio ordine, i frati si rifiutavano di chiedere l’autorizzazione all’arcivescovo, ma ne chiedevano soltanto la benedizione: Non volevano presentarsi al vicario foraneo del luogo, non rendevano conto delle offerte raccolte a favore dei sacri luoghi della Terra Santa, di quelle che andavano a favore dell’ospedale degli esposti di Fermo, di altre destinate al suffragio dei defunti.
La controversia relativa, presentata a Roma fu discussa presso la congregazione degli interpreti del Concilio di Trento, il 21 aprile e di nuovo l’11 agosto. Fu respinto il ricorso presentato dai frati e fu ribadita la prassi vigente e da me difesa.
1742.13 L’arcivescovo versa a Roma il contributo imposto al castello di Monteverde, al monastero di San Claudio e a quello di Santa Croce per il passaggio e per lo stazionamento delle truppe straniere, deciso da Clemente XII.
Altre iniziative furono prese contro i privilegi della mensa arcivescovile, nell’ambito delle disposizioni generali. Infatti, dopo che venne fissata da Clemente XII una forte somma di denaro pubblico per sopperire alle spese del passaggio e dello stazionamento delle truppe Spagnole ed in seguito di quelle Austriache, venne anche fissato, a partire dall’anno 1734 e fino al 1736, in tutti i possedimenti dello Stato della Chiesa, un altro contributo distribuito da versare ad ogni città e paese delle varie province sulla base del numero degli abitanti.
Fu deciso di dividere la somma totale in quattro parti: due riservate alla Camera Apostolica e due alla città di provenienza. Si trattava di circa 856.000 scudi da versarsi entro un quinquennio e cioè entro il 1739. Nessuno doveva considerarsi esonerato da tale obbligo, neppure appellandosi ad esenzioni concesse in precedenza o a privilegi goduti per consuetudine.
Pertanto tutte le proprietà della mensa arcivescovile erano soggette all’obbligo, e si doveva sborsare ogni anno la somma di circa 100 scudi, tratti dal mio reddito accertato. Siccome però i beni della mensa erano siti alcuni nel territorio della città di Fermo, altri in territorio di altri paesi appartenenti all’antico stato fermano, altri infine erano siti in località direttamente soggette alla giurisdizione civile e politica dell’arcivescovo (vedi il castello di Monteverde, il monastero di San Claudio e l’abbazia di Santa Croce) giudicai che il contributo per i beni della mensa siti nei territori o di Fermo o degli altri paesi del Fermano dovevano essere da me versati per la quota dei 2/5 alle rispettive comunità locali e per il resto andavano versati alla Camera Apostolica. Ma i 2/5 della tassa proveniente dalle tre località direttamente dipendenti dall’arcivescovo dovevano essere destinati allo stesso arcivescovo.
Ora la città di Sant’Elpidio a Mare, nel cui territorio si trovava il monastero di Santa Croce, avanzò la pretesa di riscuotere i 2/5 della tassa, in quanto rivendicava a sé il possesso e la giurisdizione sul detto monastero di Santa Croce. L’origine di quel monastero però risale all’887 e fu fondato dall’imperatore Carlo il Grosso e dal vescovo di Fermo Teodosio <o Teodicio>, molto prima cioè dell’esistenza della città di Sant’Elpidio. In forza di questo fatto ottenni dalla congregazione che i 2/5 della tassa proveniente dal monastero di Santa Croce fossero riservati a me invece che al comune di Sant’Elpidio.
1742.14 Il luogotenente dell’uditore della Camera Apostolica pronuncia la sentenza riguardante un terreno sito a San Claudio.
I frati del convento di Santa Maria della Fonte, dell’ordine di sant’Agostino, nei pressi di Macerata, portavano avanti la controversia avanzata presso la curia dell’uditore della Camera Apostolica, affinché fosse loro riconosciuto il diritto di occupare parte di un terreno della mensa a San Claudio, sulla base di una sentenza pronunciata dal vicario generale di Ancona. Il 22 giugno di quest’anno il luogotenente dell’uditore, Guglielmi, per gli atti del notaio Claudio, ha pronunciato due pareri e con essi si affermava che tutto ciò che era contenuto nella mappa catastale compilata nel 1657 dentro il fosso antico tracciato dal cardinale Ottavio Bandini, veniva confermato come appartenente alla mensa episcopale di Fermo; ciò invece che cadeva fuori del corso di detto fosso, che ovviamente non era da noi rivendicato, veniva attribuito ai frati di Santa Maria della Fonte.
1742.15 Rivendicazione delle libertà del mulino di Monteverde contro le pretese degli abitanti di Servigliano.
Gli abitanti di Servigliano si opponevano ai diritti del mulino di Monteverde i quali, per un decreto emanato dalla congregazione dell’Immunità fin dal 1630, cioè da più di cento anni, venivano dichiarati inviolabili. I Serviglianesi avevano deciso che nessuno andasse a macinare fuori del loro territorio, anzi avevano preteso da qualche abitante di Servigliano, che si era servito del mulino di Monteverde, che pagasse una cauzione. Minacciai la scomunica contro l’autore dell’abuso e ammonii gli esecutori i quali, dopo aver inutilmente ricorso alla curia Romana, furono costretti a restituire immediatamente la cauzione estorta.
1742.16 Benedetto XIV opportunamente emana sapienti disposizioni circa le cause di appello – Il Papa condanna i riti <funebri> cinesi.
Il papa, pur tra le gravi calamità e i conflitti tra gli Stati e anche tra i contrasti all’interno del suo Stato, era sempre attento ad adottare nuove decisioni e dare sagge leggi per il governo spirituale del popolo. Pubblicò infatti due disposizioni. La prima fu emanata il 30 marzo e si riferiva al problema di quando concedere o quando rigettare le istanze di appello avanzate a Roma. Con tale legge si voleva tutelare l’autorità dei vescovi e si impediva che le loro decisioni venissero eluse con appelli ingiustificati e quindi o impedite o quanto meno ritardate con grave danno della disciplina ecclesiastica, nei confronti dei vescovi. Ora, se tali disposizioni emanate dal pontefice venissero rispettate, specialmente dalla curia Romana, sarebbero veramente importanti ed utili.
Nella seconda disposizione, pubblicata nel mese di luglio, Benedetto XIV aboliva e revocava nei riti <funebri> cinesi, quelli che Carlo Ambrogio Mezzabarba, patriarca di Alessandria, nominato nel 1719 al mio posto visitatore Apostolico presso l’imperatore cinese, aveva concesso e consentito. Da questa vicenda mi fu data l’occasione di ringraziare il Signore il quale allora mi aveva ispirato di rifiutare quella legazione offertami dal papa. Di questi episodi ho parlato diffusamente nella Cronaca Nocerina.
1742.17 Viene pubblicato dalla curia arcivescovile il decreto relativo al culto da prestare a san Girio – Benedetto XIV concede la facoltà di praticare tale culto e permette l’ufficio e la celebrazione della Messa in suo onore nel territorio di Monte Santo.
Quest’anno la causa sul culto prestato ab immemorabili al beato Girio, speciale patrono della terra di Monte Santo, è stata introdotta, presso la Sede Apostolica. La richiesta era stata formulata il 22 gennaio 1739 da Nicola Calvucci, primicerio e vicario generale, nonché mio uditore a ciò deputato nella sua qualità di giudice speciale, insieme con Giuseppe Gasparrini, dottore in diritto canonico e civile, nonché vicario foraneo a Monte Santo, e a Carlo Antonio Gazzani dottore in teologia. Essa è stata discussa a Roma nella congregazione dei Riti e confermata il 28 luglio da papa Benedetto XIV che la approvò definitivamente il 1 di agosto per la sollecitazione di fra’ Antonio Maria Costantini dei padri Cappuccini, procuratore della causa per conto della comunità di Monte Santo. L’anno seguente fu concessa dal papa l’autorizzazione al clero di Monte Santo di poter recitare l’ufficio e celebrare la Messa con il rito doppio minore, in onore del loro beato.
1742.18 Viene istituita e prescritta la predicazione agli ebrei in occasione e durante la fiera alla quale essi partecipano.
Quest’anno la festa di san Bartolomeo, in occasione della quale si era soliti tenere una fiera, capitò di sabato. Il papa mi comunicò l’autorizzazione di prolungarla anche nella domenica, però dopo la celebrazione della Messa, come era tradizione di fare. Durante la grande fiera del mese di agosto, molti negozianti ebrei la frequentavano e vi si fermavano per tutto il periodo. Pensai che fosse mio dovere presentare a questi negozianti ebrei il Vangelo per diradare dalle loro menti le tenebre dell’errore in modo che si convertissero e abbracciassero la fede cristiana. L’iniziativa venne organizzata nella chiesa della Madonna del Carmine e le prediche furono tenute in maniera egregia dal padre Nicola da Offida, cappuccino.
1742.19 Prosecuzione della terza visita pastorale – Consacrazione di una chiesa nel Porto di Fermo – Apertura e inaugurazione dell’Oratorio di san Filippo Neri a Sant’Elpidio.
All’inizio di settembre, dopo aver dato l’incarico di compiere la visita a Monterubbiano, a Moresco, a Lapedona e a Torre di Palme, al pievano Nardi di Altidona, mi ero recato in visita al Porto di Fermo, dove ho consacrato la chiesa e l’altare della Madonna del Rosario il giorno 21 settembre, festa di San Matteo. Subito dopo mi sono ritirato nella villa di San Martino per trascorrere le ferie d’autunno.
I religiosi della Congregazione dell’Oratorio di san Filippo Neri avevano fondato a Sant’Elpidio a Mare un loro Oratorio che era stato inaugurato in occasione della festa della natività della Vergine Maria.
1742.20 Rifusione dell’antica campana di San Claudio e consacrazione di essa e delle altre campane.
Celebrata la festa di tutti i Santi e la commemorazione dei Defunti, ero andato a San Claudio, dove il 7 novembre, avevo benedetto l’antica campana della chiesa, insieme ad altre piccole campane. In essa erano state incise, con caratteri antichi, queste parole: Nell’anno del Signore 1297 Filippo lombardo, vescovo di Fermo, fece costruire. Ho voluto che se ne conservasse il ricordo, con queste stesse parole. Negli anni precedenti, forse per un errato e troppo energico scampanio, essa si era incrinata per cui non se ne era più potuto ascoltare il rintocco, poiché emetteva un suono roco. Per questo era stato necessario procedere alla sua rifusione che era stata eseguita dal mastro campanaro Giovanni Battista Santoni di Ancona, residente nel castello di Petriolo. Volli che fossero mantenuti l’antica forma e il peso (per quanto era possibile), la tonalità e l’iscrizione originaria con l’aggiunta di queste altre parole: Nell’anno 1742 Alessandro Borgia arcivescovo e principe di Fermo di Velletri, conservato il peso, la forma e la tonalità. Il peso della campana era di 1413 libbre, oltre il peso dei ceppi ai quali era sospesa.
1742.21 Secondo restauro della torre della chiesa Metropolitana.
Era necessario intervenire sulla torre della chiesa metropolitana che era stata già restaurata una prima volta nel 1731, mediante la apposizione di lastre di pietra istriana nei punti in cui l’antica muratura aveva ceduto con il passare del tempo. Ora si era reso necessario di intervenire di nuovo per riparare i punti rovinati del muro della torre, facendoli ricoprire con altre lastre di pietra o perché le vecchie pietre non erano abbastanza robuste, oppure perché non erano state fissate bene con la calce, nonostante che io mi fossi raccomandato. Sta di fatto che, in breve tempo, si erano distaccate a causa delle infiltrazioni dell’acqua, della neve e del ghiaccio, minacciando di cadere. Pertanto, rimosse le lastre pericolanti, sono state sostituite con altro materiale marmoreo di più alta qualità, preparato nel corso dell’estate. Durante l’autunno, la parte più alta della torre era stata rinforzata e si era fatto in modo che la copertura marmorea costituisse non solo un ornamento, ma che rafforzasse la struttura della torre; infatti le lastre furono incastrate all’interno della struttura e fu data ad esse un’opportuna inclinazione in modo che l’acqua defluisse rapidamente e non si infiltrasse, rovinando tutta la muratura della torre. Per finanziare le notevoli spese del lavoro, una parte del denaro fu offerta da me, l’altra parte è stata reperita dalle contribuzioni delle mezze annate fissate dalle costituzioni emanate da Benedetto XIII a favore delle chiese cattedrali.
1742.22 Benedetto XIV prepara le disposizioni relative all’abolizione dell’obbligo di astenersi dai lavori occupazionali in alcune feste di precetto – Parere espresso dall’arcivescovo.
Il re delle due Sicilie, altri principi e molti vescovi avevano chiesto a Benedetto XIV che fosse ridotto il numero dei giorni delle feste di precetto in onore dei santi in cui c’era l’obbligo di astenersi dai lavori occupazionali e ciò per andare incontro alla necessità di incrementare la produzione agricola necessaria per i crescenti bisogni della società civile.
Nel periodo delle ferie autunnali, il papa aveva convocato a Castel Gandolfo numerosi prudenti personaggi, studiosi di diritto e di cose religiose perché discutessero il problema, approntassero e redigessero un testo da inviare poi ai vescovi e ai teologi residenti a Roma e altrove onde avere il loro parere. L’8 dicembre ricevetti una lettera del cardinale Valenti, segretario di Stato, nella quale mi chiedeva che, dopo aver letto il testo del progetto preparato e studiatolo attentamente, esprimessi il mio motivato parere. Lo feci subito e lo trasmisi immediatamente il 21 dicembre e il 4 gennaio aggiunsi qualche ulteriore considerazione.
In sostanza questa era la mia opinione: dovevano essere conservate tutte le feste di precetto esistenti nella liturgia affinché, a causa della loro abrogazione, traslazione o unione, i sacri riti liturgici non subissero un grave danno né diminuisse la pratica religiosa del popolo. Tuttavia bisognava introdurre la seguente precisazione cioè, pur mantenendo integralmente l’obbligo della partecipazione alla celebrazione della Messa, in tutte le feste di precetto già esistenti a norma della costituzione di Urbano VIII, invece l’obbligo di astenersi dai lavori occupazionali sarebbe restato soltanto per tutte le domeniche dell’anno e per le solennità in onore di Dio, istituite per far memoria dei misteri della nostra redenzione e riconosciute come tali dalla tradizione liturgica della Chiesa. Per quanto riguardava invece le feste dei santi, l’obbligo dell’astenersi dai lavori era lasciata alla decisione dei vescovi che, nel decidere, avrebbero dovuto tener conto di particolari devozioni del popolo, delle consuetudini locali, delle necessità e delle situazioni difficili della società civile. Aggiunsi poi che il martedì dopo Pasqua fosse immune dai lavori occupazionali, contro il parere dei teologi di Tarragona, che lo avevano tolto. Adducevo come motivo il fatto che il popolo cristiano potesse avere maggiori occasioni per adempiere il precetto della comunione pasquale. Al contrario reputai con simile ragione che non fosse obbligatorio astenersi dal lavoro il lunedì e il martedì dopo Pentecoste così come nei tre giorni che seguono la festa del Natale.[3]
1742.23 I missionari che hanno predicato e istruito il popolo nella diocesi di Fermo – Fra’ Eusebio da Monte Santo cappuccino assume l’ufficio di predicare le Missioni al popolo della diocesi.
Nei precedenti anni del mio episcopato, qui a Fermo, le sacre missioni per l’intera diocesi e per la stessa città sono state predicate dai sacerdoti della Compagnia di Gesù, dai preti della congregazione della Missione; in particolare erano state tenute dai padri Biagi, Ferrari e Roselli, percorrendo, ora l’una ora l’altra parte della diocesi. L’ultima volta a svolgere tale missione era stato padre Giovanni Battista Cancellotti della Compagnia di Gesù in alcune località della nostra diocesi in particolare a Petritoli, Montegranaro, Monterubbiano, Sant’Elpidio a Mare, Monte Santo. Volendo di nuovo organizzare le sacre missioni in tutta la diocesi con la predicazione di alcuni valenti oratori e, venuto a conoscenza che fra’ Eusebio da Monte Santo dei frati minori Cappuccini con grande successo aveva predicato nella diocesi di Camerino confinante con la nostra, affidai a lui di tenere le missioni anche da noi. Padre Eusebio e i suoi confratelli si recarono nelle zone montane: Loro, Sant’Angelo in Pontano, Gualdo, Amandola, Montefortino e nelle Ville d’Ascoli che mi stavano particolarmente a cuore perché in tali località non si erano recati i predicatori, né in avvento né in quaresima e perciò si sentiva il bisogno di mandarvi i predicatori.
ANNO 1743
1743.1 Viene perseguito l’illecito commercio del sale e del tabacco organizzato e praticato degli abitanti di Ancarano.
Gli appaltatori delle imposte provocarono un brutto inizio di questo nuovo anno. Essi infatti, per incarico del re delle due Sicilie, fecero pressione presso Benedetto XIV e la curia Romana per ottenere l’autorizzazione ad indagare e verificare la legalità nel popolo del castello di Ancarano, che per un antico privilegio era soggetto alla giurisdizione del vescovo di Ascoli, benché fosse nel territorio del regno di Napoli. La finalità era quella di stroncare il contrabbando del sale e della polvere di nicotina o tabacco che gli abitanti di Ancarano esercitavano in tutto il Piceno e in Abruzzo. Fu mandato Martino Innico Caracciolo napoletano, con un notevole numero di soldati e di ispettori ad occupare quel castello e minacciare la popolazione.
Fu violato in tal modo il diritto di sovranità che in quella località per consuetudine si diceva appartenere al vescovo di Ascoli. In secondo luogo fu violata l’immunità degli ecclesiastici e il diritto di asilo delle chiese. Infatti mentre i poveri abitanti di Ancarano avevano trovato asilo nelle chiese, i soldati li avevano a forza tratti fuori dai luoghi sacri, in spregio di ogni norma e legge e anzi, mentre bivaccavano e si divertivano nei luoghi sacri, ammanettavano la gente senza aver alcun riguardo neppure per i sacerdoti, verso i quali si deve rispetto dovunque, ma specialmente nei luoghi sacri.
Dopo ciò, senza fare alcuna distinzione, portarono gli arrestati ammanettati ad Ascoli e li rinchiusero in terribili carceri come se fossero rei di lesa maestà divina o umana, mentre la loro colpa era soltanto quella vi vendere il sale e il tabacco ad un prezzo inferiore rispetto a quello a cui lo vendono gli avari funzionari pubblici. Il papa Benedetto XIV, in considerazione della violazione dei diritti sacri, condannò simili eccessi e ordinò che fossero liberati i sacerdoti e tutti coloro verso i quali era stato violato il diritto di asilo ed erano stati tratti fuori dalle chiese con la forza.
Il Caracciolo, celebrato il processo contro i rei, aveva pronunciato alcune sentenze di condanna. Contro la maggior parte emise condanne di galera, altri li costrinse ai lavori forzati. Egli scelse, nel castello di Ancarano, un pretore con un certo numero di ispettori. Alla fine di marzo egli tornò a Roma, dove fortunatamente, fin dall’inizio dei processi, si era recato anche il vescovo di Ascoli che si fece ricevere dal Papa al fine di protestare e rivendicare i suoi diritti conculcati. A Roma, discussa la controversia avanzata dal vescovo di Ascoli era stata presa la seguente decisione: gli ausiliari insediati ad Ancarano vi si dovevano trattenere solo per tre anni e dovevano sottostare all’autorità del Camerlengo della Chiesa Romana per controllare il commercio illegale del sale e del tabacco, rispettando comunque i diritti del vescovo di Ascoli, al quale è stata confermata con una lettera apostolica la garanzia che in ogni caso sarebbe stata rispettata giurisdizione della Chiesa ascolana. I condannati alle triremi o ai lavori obbligati potevano riscattare la pena, pagando una penale in denaro da versare alla Camera Apostolica come risarcimento delle spese processuali. Il vescovo di Ascoli poi, prima di ritornare nella sua sede, concesse il perdono ai condannati, tranne poche eccezioni e ciò gli è stato riconosciuto a merito, al suo ritorno ad Ascoli.
1743.2 Muore a Roma in concetto di santità suor Angela Caterina Borgia, sorella dell’arcivescovo.
Il 31 gennaio, mia sorella suor Angela Caterina Borgia, di anni 49, si addormentò nel Signore nel monastero di Santa Maria in Silice. Essa il 19 marzo 1719 aveva emesso la professione religiosa nelle mie mani, secondo la regola di sant’Agostino, allorché io ero a Roma a motivo della legazione in Cina a me proposta, come ho scritto nella Cronaca Nocerina. Era vissuta nel monastero di Roma, dedicandosi alla preghiera e alla contemplazione, lottando strenuamente contro il nemico di Dio e degli uomini ed era vissuta, consumata da una persistente malattia.
Era sofferente a causa di complessi problemi cardiaci e in particolare in ogni venerdì da mezzogiorno alle tre del pomeriggio (in quelle stesse ore cioè nelle quali il Signore Gesù restò inchiodato sulla croce) spesso sveniva, per poi tornare in sé. Nacque così un prudente sospetto che ci fosse nel suo cuore qualcosa che andava oltre l’ordine naturale, il che veniva confermato dalle sue stesse parole. Per questo, dopo la sua morte, il cadavere fu sottoposto ad esame autoptico e nel suo cuore furono trovati tre chiodi fatti come corde di strumenti musicali, con i quali Gesù aveva trapassato il suo cuore. La cosa fu riferita al cardinale Giovanni Antonio Guadagni dell’ordine carmelitano, vicario di Roma, il quale ordinò che fosse scritta una precisa relazione con il racconto fedele di quanto avvenuto e dispose che la salma, insieme con un’ampolla di vetro dentro la quale fossero posti i tre chiodi, venisse posta in una bara non però collocata in una sepoltura comune, ma nel coro delle monache. Tutto questo fu eseguito puntualmente a cura di mio fratello Pietro Antonio Borgia. Fu pertanto aperta un’inchiesta sulla vita e sulle virtù di questa serva di Dio e furono riferite molte notizie che rivelavano la sua pratica eroica delle virtù, nonché alcuni aspetti della sua vita che appaiono meravigliosi e che vanno oltre le possibilità della natura. I primi scritti relativi a queste vicende li ebbi da mio fratello, mentre mi trovavo a Roma.
Il 6 di febbraio, dalla priora del monastero del Corpus Domini di Montefiore, ricevetti una lettera nella quale mi veniva segnalato che il giorno precedente era morta giovanissima suor Angela Egidi, monaca di quel monastero che nei precedenti anni aveva emesso la sua professione religiosa nelle mie mani, mentre ero allora in visita pastorale a Montefiore. Era stata una religiosa di altissima spiritualità e durante la sua breve vita non aveva evidenziato neppure il più piccolo difetto, aveva perfettamente osservato la regola e tutte le pratiche ascetiche e le raccomandazioni che io stesso le avevo rivolto. Nel momento della morte aveva mostrato una meravigliosa fortezza d’animo e una straordinaria serenità.
Impressionato da queste straordinarie attestazioni, quasi contemporaneamente al caso di mia sorella, e considerando questi eventi come doni della infinita misericordia di Dio verso di noi, scrissi a tutte le superiore dei monasteri della diocesi una lettera nella quale evidenziavo come tutte queste testimonianze costituissero un chiaro esempio di vita perfetta capaci di stimolare tutte le monache alla fedeltà ai loro impegni e chiedevo contemporaneamente a tutte le religiose preghiere a Dio affinché le mie colpe e quelle dei miei sacerdoti non fossero di ostacolo alla gloria di Dio, che si era iniziata a manifestare nella vita della mia sorella.
1743.3 Morte del cardinale Corradini: la pensione di cui godeva viene trasferita – Terremoti.
L’otto febbraio muore il cardinale Pietro Marcellino Corradini, vescovo di Tuscolo, all’età di 85 anni. A lui, per disposizione di Clemente XI, era stata assegnata una pensione di 200 scudi a carico della mensa arcivescovile di Fermo ed egli li aveva goduto per lungo tempo. Giunto quasi alla fine della vita, ne aveva trasferita circa la metà, cioè quanto gli permetteva la legge, a favore di suoi quattro famigliari.
Si sta diffondendo la malattia della febbre e del catarro da raffreddore. Il 20 febbraio verso sera, la terra era stata scossa dal terremoto; non fu molto violento, ma molto più lungo di quello che si era verificato nel 1741. Alla vigilia dell’Ascensione, il 22 maggio, tra le ore tredici e le quattordici del giorno, di nuovo, la terra tremò lievemente per due volte. In modo violento invece tremò nel mese di novembre, il giorno 28 prima dell’ora nona della sera, nel giorno in cui si ricorda la memoria di san Giacomo della Marca, mentre il cielo era nuvoloso e piovoso.
1743.4 Permesso di usare i latticini durante la quaresima – Padre Campana predica a Fermo – Visita agli ospedali e agli orfanotrofi della città.
A causa della diffusione della predetta malattia, è stato consentito l’uso dei latticini durante tutta la quaresima. Il maestro padre Campana dell’ordine dei Predicatori, inquisitore a Crema e uomo celebre, svolse la sua predicazione nella chiesa cattedrale; egli aveva predicato alla presenza dell’imperatore e del re di Sardegna.
Ho anche compiuto la visita pastorale agli ospedali e agli orfanotrofi di Fermo.
1743.5 Restauro delle case coloniche a Santa Croce.
Dopo aver celebrato le feste di Pasqua, mi sono recato a Santa Croce, dove erano state riparate le case coloniche nelle parti in cui risultavano rovinate e necessitavano di restauro. Sono state inoltre rinforzate le difese degli argini contro le inondazioni dell’Ete e del Chienti. Sono state poi messe a dimora la piante di alberi da fiume. Infine ho dato disposizioni per riparare e ripulire l’antica chiesa. Decisi anche di costruire un edificio in difesa della proprietà dei terreni della mensa arcivescovile, in zona detta Felceto dove i contadini usavano costruire delle capanne per gli attrezzi. Fatti i preparativi per realizzare l’opera, il lavoro fu rimandato al prossimo anno.
1743.6 Ippolito Rasponi viene nominato governatore di Fermo.
Frattanto il 29 aprile era partito da Fermo il governatore Carlo Gonzaga per assumere la stessa carica a Centocelle. Come successore venne nella nostra città Ippolito Rasponi di Ravenna, proveniente dalla città di Ascoli. Egli rispettò puntualmente tutte le nuove norme previste dal cerimoniale, nei miei confronti.
1743.7 Riunione dei vicari foranei – Restauro della chiesa di San Martino a Grottammare.
Ho convocato la riunione di tutti i vicari foranei della diocesi, all’inizio del mese di maggio. Subito dopo mi sono recato a Grottammare, un tempo Cupra Marittima, per decidere gli opportuni provvedimenti al fine di riparare la chiesa di san Martino che, dopo l’erezione della mensa vescovile di Ripatransone, era restata in assegnazione con tutte le sue pertinenza alla mia mensa arcivescovile. Anche il mulino era gravemente mal ridotto e fatiscente per la sua antichità; e tutti gli altri edifici avevano bisogno di essere restaurati. Vennero fissati i criteri e le norme per realizzare gli interventi più urgenti. Ritornato a Fermo ero andato a stare in campagna nella villa di San Martino dove rimasi fino alla vigilia della Pentecoste. Il giorno dopo celebrai la solennità in città e amministrai la Cresima in cattedrale.
1743.8 Si sparge in tutta Italia la notizia del sospetto contagio di pestilenza – Viene a Fermo Federico Lanti, prefetto della provincia del Metauro – Giosia Caucci.
Intanto il terribile flagello dell’umanità, la peste, che imperversava a Messina, era passata in Italia e stava interessando alcune zone della Calabria. La paura si diffuse a Roma per cui venne interrotto ogni rapporto commerciale con il regno di Napoli; furono introdotte alcune cautele non soltanto a Roma, ma anche nelle varie province dello Stato ecclesiastico per scongiurare ogni rischio, come se il fenomeno del contagio fosse imminente nelle nostre regioni. Vennero poste sentinelle nelle porte della città, le coste erano guardate da numerosi soldati i quali giorno e notte dovevano impedire l’attracco di qualsiasi nave sospetta. Si vociferava, infatti, che molte navi avevano lasciato Messina. Fu organizzata la protezione di tutta la costa adriatica da Pesaro al confine con il regno di Napoli. Se ne dette la responsabilità a Filippo Lanti, prefetto della provincia del Metauro. Egli in un primo momento mandò da noi un suo ispettore, poi egli stesso nel mese di agosto venne a Fermo per ispezionare di persona l’intera zona costiera. Si decise di interrompere tutte le fiere; tuttavia in seguito al mio intervento unito a quello dei priori della città di Fermo, in qualche modo, il provvedimento fu attenuato per impedire che i contadini subissero un grave danno a causa dell’impossibilità di vendere le pecore sul mercato.
Il governatore di Fermo, Rasponi, ebbe l’incarico di sorvegliare tutta la zona montana fino al confine con il regno di Napoli. Tutta la provincia fu affidata anche a Giosia Caucci ascolano il quale, dopo aver lasciato spontaneamente il chiericato della camera Apostolica e la prefettura della zecca pontificia, era ritornato in patria per dedicarsi completamente a Dio nella casa della congregazione dell’Oratorio di san Filippo Neri. Rasponi da parte sua doveva sorvegliare in particolare la parte della costa che era sotto la giurisdizione di Fermo.
Alla fine dell’anno era ormai scomparso il pericolo della peste proveniente dalla Sicilia e dalla Calabria, ma si era diffusa la notizia che il morbo potesse arrivare dalla Dalmazia e dalle province meridionali del dominio Austriaco. Per questo il commercio con questi territori fu immediatamente interrotto e fu disposta anche la quarantena.
1743.9 Il papa abroga la tassa imposta sui certificati necessari per compiere atti legali, ma la sostituisce con un’altra imposta.
La tassa recentemente imposta sui documenti e sui certificati necessari per gli atti legali si stava protraendo nel tempo per colpa di avidi esattori e perciò stava diventando insopportabile. Le proteste erano sempre più numerose e pubbliche, per la ragione che essa limitava sempre più la libertà di commercio provocando gravi danni alle persone, anche a causa delle lentezze della burocrazia nel rilasciare i certificati.
La protesta giunse agli orecchi di Benedetto XIV che, allarmato, il 15 agosto abolì l’odiata imposta. Per evitare però che si verificasse la diminuzione delle entrate per il pubblico erario valutabile in circa 60.000 scudi di argento, fissò un contributo di 36.900 scudi da doversi ricavare da tutti i luoghi di Monti delle città e dei paesi e dalle rendite degli uffici vacabili nella curia Romana. La cosa fu accolta con grande soddisfazione dalla gente, ma ad alcuni non sembrò opportuno aprire la strada ad una nuova tassazione che avrebbe provocato un impoverimento dei luoghi di Monti, pregiudicando così gli aiuti per sovvenire ai bisogni dei poveri. I sacerdoti peraltro si lamentavano per il fatto che tutte le località fossero indiscriminatamente e in modo uguale sottoposte alla nuova imposta e perché era stata violata ogni immunità ecclesiastica, andando così contro i diritti acquisiti e i privilegi consolidati.
1743.10 Nuova creazione di cardinali – Il cardinale Cosimo Girolami – Perché il Romano pontefice deve fare le scelte anche tra i sudditi del suo Stato.
C’era attesa per la creazione di nuovi cardinali che doveva essere fatta da Benedetto XIV; soprattutto si era creata la convinzione che il papa avrebbe scelto solo individui molto dotti. Aveva fatto capire che tale fosse la sua intenzione. Invece il 9 settembre, contrariamente a quello che si era inteso, elesse nuovi cardinali seguendo la prassi sempre seguita dalla curia. Fra gli altri fu promosso Cosimo Raffaele Girolami, fiorentino, uomo dotto che aveva ottenuto in commenda il monastero di Campofilone nella nostra diocesi e anche il ricco beneficio di sant’Angelo in Collicello (o Collicillo) a Montegiorgio. Il primo di questi nel passato era stato ottenuto dal cardinale Gotti e il secondo dal cardinale Pieri.
I candidati che provenivano dall’interno dello Stato pontificio si lamentarono perché Benedetto XIV, che proveniva dai domini della Chiesa, nel distribuire gli incarichi di legazione presso i sovrani, tra cui poi si faceva la scelta dei porporati, mostrava verso di loro scarsa attenzione; mentre, di fatto, proprio tra questi non mancavano coloro che si distinguevano per ingegno, nobiltà e dignità e di cui la Sede Apostolica potrebbe servirsi, essendo essi insospettabili ed imparziali, in contrasto con quei difetti dai quali scaturivano i peggiori mali per la Chiesa e per il suo Stato.
1743.11 Ultima tornata della visita pastorale.
Il 10 settembre mi accinsi a completare la visita pastorale nelle ultime località della diocesi. Mi sono recato a Santa Vittoria, mentre il pievano di Sant’Angelo in Montespino si recava a Montefalcone e a Smerillo. Da Santa Vittoria sono passato a Servigliano. Qui dovetti sostare per un tempo superiore al previsto a causa della pioggia che durò per parecchi giorni. Vi ho conferito anche gli ordini sacri a pochi individui. Mentre ancora continuava la pioggia, mi sono recato a Grottazzolina e il suddetto pievano compiva la visita a Belmonte. Da Grottazzolina salii a Montegiorgio dove riuscii a comporre una controversia insorta tra le monache di Sant’Andrea e la famiglia Zenobi a causa del nuovo edificio la cui facciata era di fronte al monastero.
Il 28 settembre ero ritornato a Fermo. Quest’ultimo periodo della visita fu preceduto dalla predicazione delle sante missioni da parte di p. Eusebio da Monte Santo e da altri suoi confratelli: a Monte San Martino, a Montefalcone, Smerillo, Santa Vittoria, Servigliano e Belmonte.
1743.12 L’arcivescovo raccomanda al cardinale Alberoni di rimettere in vigore l’immunità ecclesiastica; egli infatti era stato nominato dal papa segretario della congregazione dell’Immunità.
Il primo di ottobre, mi recai a Loreto, non soltanto per visitare e venerare la santa Casa, ma anche per salutare il cardinale Alessandro Faroldi Alberoni, governatore della medesima santa Casa, legato a me da grande amicizia e nominato dal papa segretario della sacra congregazione dell’Immunità ecclesiastica. Intendevo, con tale incontro, esortarlo a difendere e ridare vigore alla immunità ecclesiastica, svigorita dalle troppe guerre e daicontrasti e di rimetterla in auge non in modo formale, ma in realtà, il che rispondeva al desiderio di tutti i vescovi e di tutta la Chiesa. Compiuto tale impegno. Dopo ritornato a casa, mi sono recato a stare nella villa di San Martino.
1743.13 Antichi e nuovi monumenti rinvenuti a San Martino presso Grottammare.
Mi sono recato a Grottammare, dove sorge l’antica chiesa di San Martino e dove si trovavano altri vecchi edifici appartenenti alla mensa arcivescovile di Fermo. Nella primavera trascorsa erano stati iniziati i lavori di restauro di alcuni di quegli edifici e mi sono recato a verificare i lavori che stavano terminando.
Numerosi sono stati gli interventi e molto il denaro speso per restaurare le mura, i tetti, gli altari e la chiesa gravemente rovinati per l’incuria e per le stesse condizioni del luogo, anche nelle pitture famose per la loro antichità. Nei pressi della chiesa esiste una lapide marmorea abbandonata che è chiara testimonianza che in quel luogo sorgeva il tempio in onore della dea Cupra, fatto restaurare dall’imperatore Adriano. Nella lapide si leggevano le seguenti parole:
IMP[erator] CAESAR DIVI TRAIANI \\ PARTHICI F[ilius] DIVI NERVAE NEP[os] \\
TRAIANUS ADRIANUS AUGUSTUS \\ PONT[ifex] MAX[imus] TRIB[uni] POTEST[as] A. XI \\ CONS[ul] III MUNIFICENTIA SUA \\ TEMPLUM DIVAE CUPRAE \\ RESTITUIT
L’imperatore Cesare Traiano Adriano augusto figlio del divino Traiano Partico e nipote del divino Nerva, e pontefice massimo con potere di tribuno, nell’anno 11°, console per la terza vola, per sua munificenza ricostruì il tempio di Cupra
Tale lapide venne posta accanto alla porta laterale del tempio, non per conservare la memoria di una falsa superstizione, ma per attestare la verità storica dell’antichità della chiesa. Pertanto era certo che da questo tempio della dea Cupra, derivava il nome Cupra Marittima, mentre Cupra Montana coincide con Ripatransone sito nell’altura che si eleva sopra il mare Adriatico. Inoltre all’interno della chiesa e presso la porta principale ho fatto collocare l’iscrizione marmorea che attesta il restauro da me realizzato nel quale ho fatto incidere il mio stemma e in cui è stata scolpita l’iscrizione: “Alessandro Borgia \ arcivescovo e principe di Fermo \ restaurò \ l’antica chiesa di san Martino \ proprietà della Mensa \ nell’anno del Signore 1743 “.
A Gualdo Tadino, a me affidato in commenda, ho fatto restaurare le tre grandi porte di legno di noce della chiesa. Inoltre nella chiesa cattedrale di Fermo, ho fatto restaurare l’altare della cappella dedicata al SS. Nome di Dio, abbellita con eleganza dall’arcivescovo Mattei, le cui pareti e pitture erano gravemente rovinate a causa delle infiltrazioni d’acqua non ben contenuta e incanalata a causa delle condutture in muratura. Feci in modo, mediante l’uso di una conduttura di piombo, di impedire all’acqua piovana di penetrare e di rovinare di nuovo le pareti. Nella stessa cappella poi dalla parte del muro su cui poggiava il tetto sopra l’organo, ho restaurato la parete che stava per crollare e ho sostituito la trabeazione su cui poggiava con un arco in muratura per cui attualmente la parete risulta più sicura. La spesa occorrente era stata offerta da me.
1743.14 Nella villa di San Martino presso Fermo l’arcivescovo ripara la cisterna per l’acqua, fa preparare una grotta, fa costruire una fontana – Piantagione di alberi – Nuove fortificazioni presso il fiume Chienti.
Tornai subito dopo nella villa suburbana di San Martino. Allorché mi recai, lì, nella passata primavera, feci riparare la vecchia cisterna per raccogliere l’acqua piovana dove, per la trascuratezza dei coloni, andava a confluire l’acqua melmosa. Tutt’intorno nella parte superiore feci costruire una canalizzazione nella quale l’acqua, scorrendo, si depurava prima di arrivare nella cisterna stessa. Nel locale accanto alla cucina che fungeva da dispensa, feci scavare una grotta per refrigerare il vino e per conservare meglio la frutta nel periodo estivo. In autunno poi, ho fatto costruire una fontana di acqua corrente per comodità dei contadini e per fare abbeverare le pecore. Notando infatti che poco lontano dalla villa, dalla parte orientale, si elevava una collina dalla quale scaturiva un’acqua sorgiva potabile, seppure in piccola quantità, con un duplice scavo a destra e a sinistra l’ho convogliata in una vasca laterizia, da cui l’acqua scendeva in modo che i coloni la potessero attingere per il proprio uso. Sul muro della costruzione feci incidere il mio stemma e annotare l’anno in cui era stata costruita.
A Grottazzolina erano stati piantati alberi di gelso nella zona detta Fontigliano, insieme con altri generi di alberi. A San Claudio sono stati rinforzati gli argini del fiume con più robuste palizzate aggiunte a quelle che vi esistevano per frenare l’impeto delle acque, con non lieve spesa.
1743.15 L’arcivescovo acquista a Francavilla un grande edificio e un ampio orto.
Nel castello di Francavilla, dove la mensa arcivescovile possiede alcune terre, non esisteva un adeguato numero di edifici. Veramente essa aveva delle case all’interno del paese, ma esse erano troppo anguste, vecchie e fatiscenti, prive di luce ed umide. Ottenuta l’autorizzazione dalla Sede Apostolica, le ho vendute tutte al prezzo di 150 scudi di argento al pievano del luogo, perché le adattasse a uso suo e dei suoi successori, dal momento che nel paese mancava una residenza per il parroco. Con la somma ricavata ho acquistato alcuni edifici costruiti poco fuori dalle mura del castello, in un’ampia zona. Le comprai da Nicola Orazi dato che, non ancora terminate, venivano vendute all’asta. Ai soldi ricavati dalla vendita precedente aggiunsi altro po’ di denaro e comprai anche un pezzo di terra piantato ad uliveto per l’utilità della mensa.
1743.16 La pubblicazione di un libro che tratta della storia sacra e profana viene dedicata all’arcivescovo.
I canonici della collegiata di Civitanova quest’anno hanno curato l’edizione a stampa presso l’editore Zempel di Roma del volume scritto da Giovanni Marangoni di Vicenza che tratta della storia religiosa e civile di Civitanova; il volume era stato dedicato a me.
Nel primo libro l’autore trattava di san Marone. In questa parte sono stati inseriti gli Atti della ricognizione del corpo del martire da me eseguita. Nel secondo libro venivano riferite tutte le notizie che riguardavano le sacre memorie del santo martire. Il terzo libro ricostruiva la storia di Civitanova.
L’autore sviluppava l’argomento in modo dotto e con diligenza, partendo dalle memorie e dai fatti più antichi. L’opera non era però esente da inesattezze poiché l’autore non era originario di questi luoghi né si era preoccupato di venire a visitarli. Inoltre non aveva mai scritto delle nostre vicende e non conosceva i nostri documenti, ma soprattutto non mi aveva fatto conoscere il suo scritto prima di pubblicare. Se lo avesse fatto, certamente avrei potuto correggere alcuni errori dovuti alla mancata conoscenza della nostra storia locale.
1743.17 Il conflitto tra Spagnoli e Austro – Piemontesi.
Per tutto quest’anno, gli Spagnoli hanno occupato la zona di Bologna e della Flaminia. A febbraio, al fine di avanzare e di penetrare nella “Gallia Cispadana”, dopo aver abbandonato Sculteura, gli Spagnoli si scontrarono con gli Austriaci e i Piemontesi presso Campo Santo e combatterono con tanta tenacia, tanto che la battaglia si protrasse da mezzogiorno fino alla nona ora della notte e gravi furono le perdite da ambedue le parti. In tal modo coloro che si dicevano cristiani non smettevano di combattersi nel pieno dell’inverno e nelle ore notturne, mentre gli infedeli e i barbari interrompevano le ostilità in inverno e durante la notte.
La guerra fu infausta per gli Spagnoli che furono costretti ad indietreggiare fino a Bologna. Incerti sulla decisione da prendere, se ripiegare verso il Piceno o tornare ad avanzare verso nord, crearono danni nella zona con la permanenza dei feriti, con l’ingente numero di macchine da guerra, con l’arrivo de nuove truppe, fino a quando non furono presi da un nuovo timore, allorché nel mese di ottobre, giunse l’esercito Austriaco e infine allorché il re di Sardegna, dopo aver oltrepassati gli impervi valichi delle Alpi, dalla Savoia penetrò in Italia e scacciò Filippo insieme alle truppe Spagnole e Francesi. Alla fine dell’anno gli Austriaci avanzarono fino a Rimini, mentre gli Spagnoli, arretrando, si insediarono nei pressi di Pesaro.[4]
1743.18 Il cardinale Guadagni, vicario del Papa per la città di Roma chiede che si istruisca l’inchiesta stragiudiziale sulla santità di Angela Caterina Borgia e in seguito dispone che si istruisca il processo canonico.
Frattanto il cardinale Guadagni, vicario del papa, nel mese di giugno aveva chiesto a fra’ Tommaso Maria Rossi dell’ordine dei Predicatori, parroco della chiesa dei santi Ciriaco e Giulitta in Roma, di interrogare in forma stragiudiziale, singolarmente tutte le suore del monastero di Santa Lucia in Silice, sulla santità della vita e sulla eroicità delle virtù di mia sorella Angela Caterina Borgia di cui ho parlato sopra. Il frate doveva redigere una relazione che fosse approvata in seguito da persone qualificate. Il cardinale successivamente emanò un decreto che disponeva l’inizio del processo canonico diocesano, secondo le norme vigenti. Il 9 dicembre il fascicolo fu consegnato a mio fratello Pietro Antonio Borgia, residente a Roma con la relazione e il parere espresso dal teologo Carlo Antonio Tedeschini Minore Conventuale di san Francesco e consultore della congregazione dei Riti e dagli altri consultori. Dopo di che fu disposto che si aprisse il processo ordinario canonico presso la curia del vicariato di Roma.
1743.19 Costruzione della chiesa di Santa Maria della Misericordia.
I frati dell’ordine degli Agostiniani scalzi officiavano l’angusto oratorio di Santa Maria della Misericordia nei pressi di Fermo. Da diversi anni sono stati impegnati a costruire una chiesa più grande, ma, per la mancanza di fondi, il completamento della costruzione era stata rimandata agli anni seguenti.
1743.20 Morte del padre Lucio da <Monte> San Giusto – Padre Antonio da Lhesa viene nominato confessore dell’arcivescovo.
A settembre di quest’anno, padre Lucio da <Monte> San Giusto, già custode della provincia dei frati Minori di san Francesco, detti dell’Osservanza, che era stato mio confessore fin dall’inizio del mio ingresso a Fermo e mi aveva costantemente aiutato nel compiere la visita pastorale, specialmente per quanto atteneva al controllo degli obblighi di Messe, giunto alla età di ottanta anni, morì nel Signore. Fu uomo pio, integro e veramente religioso. Nominai come successore padre Antonio di Lhesa, albanese.
[1] Appare chiara l’attenzione con cui l’arcivescovo seguiva le vicende internazionali. Si trattava, come viene poi osservato, dei prodromi della guerra per la successione austriaca, che tanti danni provocò nelle nostre zone.
[2] La sintetica ricostruzione dei contrastanti eventi appare complessa. Quello che emerge chiaramente è il giudizio fortemente critico sulla linea politica seguita da Benedetto XIV in quella circostanza. Spesso l’arcivescovo ricorre all’amarezza e al paradosso. Negli anni successivi, soprattutto nel 1744, l’arcivescovo descriverà la situazione creatasi nel Fermano e a Velletri con attenzione ai particolari eventi.
[3] Si tratta della vivace e lunga polemica con il rigorista cardinale Quirini vescovo di Brescia sull’obbligo di astenersi dai lavori occupazionali nei giorni delle feste dei santi. La documentazione dell’archivio arcivescovile fermano, relativa all’indulto emanato dal Borgia su autorizzazione ottenuta dal papa Benedetto XIV si trova nella posizione III-F-13/14. I testi delle polemica intercorsa tra Borgia e Quirini furono pubblicati nel 1747. Se ne ha un ampio riscontro nelle lettere di quegli anni, cfr. E. Tassi, Dieci anni di epistolario…, cit., pp. 75-80. Catalani ne parla a lungo nel De Ecclesia Firmana cit. pp. 346-347.
[4] Il Borgia sintetizza i principali avvenimenti del conflitto per la successione austriaca che si svolsero in Italia. E’ la fase in cui le forze Austriache, Francesi e Piemontesi costringevano gli Ispano- Napoletani ad indietreggiare e a stanziarsi nel Piceno, fino al basso Lazio. Nel prosieguo della presente Cronaca il Borgia dedica molto spazio alla descrizioni delle tristi conseguenze sofferte dalle nostre popolazioni, in tale drammatico momento storico. Il lettore comprende le motivazioni che lo hanno indotto il Borgia ad assumere un atteggiamento critico nel confronti della politica pontificia del momento, accusata di scarsa comprensione degli eventi, di inefficienza e di colpevole debolezza.