BORGIA Alessandro Cronaca Fermana anni 1740 e 1741 tradotta da Emilio Tassi

ANNO 1740

1740.1    A Fermo si celebra la festa del beato Benedetto XI – Viene data alle stampe l’omelia pronunciata dal padre Origoni.

Clemente XI aveva approvato il decreto dell’arcivescovo di Perugia sul culto del beato Benedetto XI dell’ordine domenicano che era stato anche vescovo di Ostia e di Velletri. Immediatamente in tutte le chiese dell’ordine domenicano fu celebrata la sua festa. Il 3 gennaio la festa fu solennizzata anche nel tempio di San Domenico a Fermo, con la celebrazione di un solenne pontificale, al quale parteciparono il capitolo metropolitano, il governatore e i magistrati della città. Durante la messa fu pronunciata l’omelia di panegirico in onore del beato Benedetto XI dal p. Origoni, inquisitore generale della fede cattolica in questa città e provincia. Il discorso fu dato alle stampe ed è stato  dedicato al cardinale Vincenzo Gotti domenicano. Una copia di esso è stata distribuita ai presenti alla cerimonia.

1740.2    Morte del papa Clemente XII – Varie critiche rivolte al suo governo della Chiesa

                – Benefici da lui arrecati al Piceno.

Il 6 febbraio, in poco tempo, Clemente XII quasi novantenne, morendo, entrò nella via dell’eternità, mentre correva il decimo anno del suo pontificato. Il 13 febbraio, ho celebrato il suo funerale nella cattedrale e contemporaneamente ho ordinato a tutti i miei sacerdoti di celebrare la messa in suffragio della sua anima. Molti, dopo la sua morte, gli rivolgevano varie critiche.

Prima di tutto ricordavano che papa Clemente aveva cancellato alcuni atti di Benedetto XIII, suo predecessore e che aveva taciuto di fronte alla persecuzione scatenata contro i suoi famigliari, collaboratori e amici. Gli rimproveravano che avesse reintrodotto il gioco del lotto; di aver fatto fondere la vecchia e apprezzata moneta d’argento e di averne fatta coniare una nuova e peggiore; di aver depauperato l’erario pubblico, esausto per la costruzione di edifici suntuosi.

Si criticava il fatto che Bartolomeo Corsini, suo nipote per parte del fratello, con un comportamento incauto e inusuale si era legato di amicizia fraterna e  stretta dipendenza con Carlo, figlio del re di Spagna, non appena questi giunse in Italia. Questo nipote, al principio del pontificato di suo zio, aveva concepito il disegno di far occupare e invadere il regno delle due Sicilie, che l’imperatore  Carlo VI possedeva come fiduciario della Chiesa Romana. Bartolomeo Corsini lo aveva accompagnato, anzi per suo consiglio (come si vocifera) i funzionari e i capi militari Spagnoli avevano preso l’iniziativa di assoldare a Roma alcuni cittadini, costringendo spesso ad arruolarsi anche coloro che si rifiutavano. Per tali comportamenti si verificarono rivolte e si provocarono gravi danni sia da parte degli Spagnoli sia da parte degli imperiali contro la popolazione. Certamente ciò accadde in parte senza  il consenso del papa, in parte a causa del suo atteggiamento simulatorio e in parte a sua insaputa[1]. E’ certo che era venuta a mancare la fiducia da parte dell’imperatore, e da parte dei principi cattolici. Il pontefice rischiava di non essere considerato più il padre di tutti e perdeva autorevolezza e grazia perché egli lasciava mano libera al nipote e quindi dava a vedere di parteggiare per gli Spagnoli.

Non è mia intenzione quella di giudicare la giustezza delle critiche, né quella di giustificare tali comportamenti; ho voluto solo riferire schiettamente le considerazioni che si facevano. Nonostante ciò, la nostra provincia Picena doveva essere grata a Clemente XII. Innanzitutto per il fatto di aver voluto che il porto di Ancona fosse libero e aperto ai commerci con tutte le nazioni, poi anche per la costruzione di un ampio edificio destinato ad accogliere uomini e merci estere, al fine di controllare il contrabbando e la genuinità delle merci nel caso che fossero contraffatte. C’è anche da considerare l’opera delle difese fatte costruire nel porto per salvaguardare la sicurezza dei navigli dalla distruzione delle mareggiate, anche se queste costruzioni non sempre fecero evitare tali eventi per l’imperizia dei costruttori. Altro merito di Clemente fu quello di aver promosso la libera esportazione del frumento, specialmente nei periodi più opportuni, per cui si potettero fare dei buoni guadagni. Altro merito era stato quello di aver restaurato, con grandi spese, l’opera edilizia della via Lauretana che aveva inizio ai confini del regno di Napoli. Tuttavia alle grandi spese non sempre corrisposero gli sperati risultati, come abbiamo osservato nella nostra cronaca all’anno 1732.

1740.3   Morte di mons. Girolamo Mattei già arcivescovo di Fermo – Si celebrano messe di

                 suffragio.

Nello stesso mese si verificarono la morte di Clemente XII e quella di mons. Girolamo Mattei al quale io ero succeduto nella cattedra episcopale di Fermo. Ne sono stato informato da una lettera inviatami dal pio e dotto canonico Testa, decano del capitolo Lateranense, nominato esecutore testamentario da Girolamo Mattei, in relazione all’ultimo testamento redatto a Roma.

All’arcivescovo Mattei, non solo nel 1736, come ho sopra ricordato, ma anche nel 1739, mentre mi trovavo a Roma, avevo dato un valido aiuto, ricorrendo al papa e raccomandandolo al cardinale vicario di Roma, perché proprio in quegli anni aveva dato segni di una certo miglioramento nelle sue condizioni mentali, e in seguito io non tralasciai mai di assisterlo, aiutato da chi lo custodiva.  Mons. Mattei si aggravò la notte prima della festa di san Mattia apostolo e all’alba del 25 febbraio spirò.  L’8 di marzo ho celebrato, nella chiesa metropolitana, i solenni parentali con la celebrazione della Messa pontificale, durante la quale tenni anche l’omelia di panegirico in latino sulle virtù del defunto arcivescovo, sottolineando il grande bene da lui compiuto a favore della nostra Chiesa Fermana e ricordando particolarmente la sua grande carità verso i poveri di tutta la diocesi. Qualche giorno dopo fu celebrata un’altra solenne messa funebre nella chiesa del seminario; mons. Mattei infatti, proprio all’inizio del suo episcopato a Fermo, aveva completamente restaurato l’edificio che era stato gravemente danneggiato a causa di un rovinoso incendio. Stabilii inoltre suffragi in tutte le parrocchie. Ho ordinato anche che si celebrasse una messa in suffragio della sua anima il giorno anniversario della sua morte, ovunque, in ogni anno della mia vita a Fermo.

1740.4    Le ragioni della dispensa accordata dall’arcivescovo per l’uso delle uova e dei latticini  in tempo di quaresima – L’indulto non viene approvato da Roma.

A causa dell’estremo rigore dell’inverno e a cagione del fatto che i campi erano ancora coperti di neve e di ghiaccio, tanto che le greggi non potevano neppure uscire per il pascolo, perché si erano seccate le erbe e gli ulivi, nell’imminenza della quaresima mi parve opportuno di permettere, il consumo delle uova e dei latticini, a coloro che lo richiedevano. C’era a questo proposito, una norma generale di dispensa, valida solo per l’Italia, nel caso in cui vi fosse la necessità; sempre però bisognava chiedere la dispensa al Romano Pontefice. Si verificava inoltre la scarsità della pesca per le forti ondate.

Essendo morto il papa, non era possibile rivolgersi a lui. D’altro canto in forza di una costituzione emanata dal papa Sisto IV, era stato stabilito che in tempo di sede vacante i cardinali riuniti in conclave non potevano dedicarsi agli affari della Chiesa e in particolare non era ad essi consentito di intervenire nelle materie relative alla concessione di grazie e di amministrazione della giustizia (cose riservate esclusivamente al Romano pontefice) sia per non distrarre i cardinali dall’impegno della elezione del papa, sia per non suscitare nei cardinali quella cupidigia di potere che è insita nei mortali.

Per norma generale, tuttavia, è lecito al vescovo dare le dispense papali allorché incombe una necessità impellente e non è possibile ricorrere al papa, tanto più quindi se il papa è venuto a mancare. Pertanto, fondandomi su questa specifica norma, ho concesso quella dispensa, rispettando le modalità previste dallo stesso Clemente XII nel 1737 quando, allora, ricorreva una grave e impellente necessità. Del resto la concessi nel 1740, ponendo condizioni anche più rigorose. Nonostante tutto questo, la dispensa da me concessa non fu confermata e riconosciuta da Roma. Tale decisione mi fu comunicata con una lettera inviatami dalla sacra congregazione della suprema inquisizione con la motivazione che a Roma non si era soliti di concedere in forma generale ai vescovi alcuna facoltà di dispensa riservata al Romano pontefice che in quei momenti non c’era. Soltanto in casi particolari ed per singole persone era invece consentito ai vescovi di concedere la dispensa. Questo metodo però poteva essere praticato in alcune diocesi molto piccole, non invece nella nostra diocesi che superava i 100.000 abitanti.

1740.5   Il Regesto dei diritti e privilegi della Chiesa e della città di Fermo.[2]

Nell’archivio della città di Fermo, che è custodito presso i frati Domenicani, c’è un antico codice pergamenaceo che porta il numero 1030. Esso contiene un grande numero di privilegi e di istrumenti che riguardano la città e la Chiesa di Fermo. Si tratta di un manoscritto con una grafia che ora appare strana ed è di difficile lettura.[3] Volendo raccogliere tutto ciò che si riferisce alla Chiesa fermana, ho chiesto a Domenico Maggiori, chierico fermano, di trascrivere il prezioso e importante registro e di redigerlo in forma di copia pubblica, facendolo autenticare da un notaio. E’ stato creato un grande volume rilegato e depositato nell’archivio arcivescovile al fine di conservare la memoria storica e perché si potessero difendere i diritti pertinenti alla nostra Chiesa Fermana, di cui pochi erano sopravvissuti e molti scomparsi,.[4]

1740.6   L’arcivescovo si reca a Roma – La suppellettile sacra appartenente all’arcivescovo  mons. Girolamo Mattei viene in parte donata alla Chiesa di Fermo dalla nipote    Faustina.

Il 20 aprile, sono partito per Roma, per essere presente di persona all’avvenimento dell’elezione del nuovo pontefice, sperando che avvenisse in breve tempo, e inoltre per risolvere il problema delle suppellettili appartenute a mons. Mattei che erano state assegnate alla nostra Chiesa Fermana. Arrivato a Roma, ho capito subito che l’elezione del nuovo papa sarebbe andata per le lunghe, per cui decisi di recarmi a Velletri, da dove, alla fine di giugno, sono tornato a Roma.

Mi sono subito dedicato con diligenza a definire il lascito testamentario di mons. Mattei con Faustina, nipote di lui. Proprio in questo periodo morì il padre di Faustina, il duca di Paganica che l’aveva nominata erede universale di tutto il suo patrimonio. Il testamento scritto da mons. Mattei nel 1717, quando era a Fermo, malato, era favorevole a noi perché egli, come arcivescovo della città, negli anni passati aveva acquistato molte e belle suppellettili. Al contrario nel successivo testamento da lui scritto a Roma, quando ormai aveva rinunciato alla sede di Fermo, aveva lasciato molte delle sue suppellettili alla chiesa parrocchiale di Montenegro in Sabina (da dove proveniva la sua famiglia) per il fatto che il defunto arcivescovo era stato battezzato proprio in quella chiesa. Si doveva inoltre aggiungere che la maggior parte degli oggetti erano stati venduti proprio nel periodo in cui mons. Mattei era malato di mente ed era sotto tutela; e i nostri diritti testamentari risultavano da far valere.

Si giunse ad una transazione tra me, che agivo in nome e per conto della Chiesa fermana, e mons. Ferdinando Maria de Rossi, arcivescovo di Tarso che agiva a nome dell’erede. Secondo tale accordo, l’insieme della suppellettile rimasta andava equamente divisa tra la Chiesa di Fermo e la chiesa parrocchiale di Montenero. Inoltre alla nostra Chiesa furono assegnati tre luoghi di Monti camerali come risarcimento per la suppellettile antica ormai venduta. A tutto ciò Faustina Mattei aggiunse un catino e una brocca di argento, in omaggio alla nostra città, poiché essa vi si era sposata col nipote del futuro papa Innocenzo XIII mentre lo zio allora era ancora arcivescovo. In tale occasione era venuta a Fermo per celebrarvi il matrimonio, accolta con manifestazioni pubbliche di festa e di onore.

1740.7   Mancata elezione a papa del cardinale Giuseppe Firrao – L’arcivescovo torna a Fermo.

Già da tre mesi ero a Roma assente dalla mia diocesi e l’elezione del papa andava ancora per le lunghe. Non era andata a buon fine l’elezione del cardinale Giuseppe Firrao, napoletano anche se da moltissimi era considerato un candidato degnissimo. Una ragione poteva essere individuata nell’opposizione dichiarata dall’imperatore, il quale non desiderava che come nuovo pontefice fosse scelto un cardinale del regno di Napoli, dove regnava Carlo strettamente legato alla Spagna. Preferiva invece che fosse scelto un soggetto proveniente dagli Stati della Chiesa.  Forse altra ragione era la contrarietà nascosta del cardinale Corsini che in pubblico si mostrava favorevole al Firrao, in quanto questi aveva ricevuto la porpora da suo zio e sotto di lui aveva ricoperto l’ufficio di segretario di Stato. Nascostamente però gli era contrario perché durante tutto il suo pontificato non aveva da lui ricevuto abbastanza favori. L’attenzione dei governi e dei cardinali allora si rivolse sul cardinale Aldrovandi, originario di Bologna. Altri cardinali però, anche se pochi, si opponevano in tutti i modi e tenacemente osteggiavano questa scelta.

Stando così le cose, io non avevo più alcuna scusante per restare a lungo lontano dalla mia diocesi e del resto nessuno mi avrebbe perdonato l’assenza. Perciò decisi di tornare a Fermo, lasciando il compito di definire il documento di transazione per l’eredità e l’incarico di prendere in consegna gli oggetti ereditati dalla nostra Chiesa, al canonico fermano Marco Antonio Francolini che in quel periodo si trovava per caso a Roma. Partii e il mio arrivo a Fermo avvenne il 20 luglio.

1740.8    L’arcivescovo a Roma acquista due orcioli dorati da usare nei pontificali.

Anch’io ho adempiuto il dovere di accrescere le suppellettili da me acquistate e donate alla chiesa metropolitana. Ho acquistato a Roma due orcioli d’argento di artistica fattura e indorati sia all’esterno che all’interno, che pesano dieci libbre. Essi dovevano essere usati nelle celebrazioni pontificali per versare il vino e l’acqua nelle ampolline; e perché non sorgesse alcun dubbio a quale uso erano destinati, se sacro o profano, ho fatto incidere sui due orcioli: Per l’uso del sacro pontificale. Infatti, nel caso del defunto arcivescovo Mattei, molte delle suppellettili ci vennero negate perché gli eredi affermavano che gli oggetti non erano stati acquistati ad uso sacro,  ed egli li aveva usati sia per usi sacri che per usi profani.

1740.9    Il nuovo vescovo di Ripatransone compie i consueti doveri verso l’arcivescovo                  metropolita – Angelo Calogierà dedica un libro all’arcivescovo –  Il capitolo               degli Eremitani (agostiniani).

Subito dopo il mio ritorno a Fermo, si era presentato a me il nuovo vescovo di Ripatransone e il 18 luglio ha compiuto il consueto impegno pubblico di rendermi visita di riverenza e di presentarmi la bolla con la quale il papa presentava e raccomandava il suffraganeo all’arcivescovo metropolita.

Nello stesso periodo, Angelo Calogierà, monaco camaldolese che risiedeva a Venezia, eruditissimo che si dedicava a pubblicare opuscoli divulgativi, mi aveva offerto un volume contenente 22 di tali opuscoli, accompagnandolo con una lettera dedicatoria ampia ed elegante.

Il 27 agosto ho convocato l’assemblea generale dei frati Eremitani della nostra diocesi come era stato stabilito nel primo sinodo diocesano, riunione che da diversi anni non si era più tenuta.

1740.10    Il cardinale Prospero Lambertini viene eletto sommo pontefice.

Lo stesso giorno il cardinale Prospero Lambertini veniva eletto papa; era stato vescovo di Ancona nel Piceno, e in seguito arcivescovo di Bologna. Fallita l’elezione del cardinale Aldrovandi bolognese, per la tenace opposizione incontrata, si arrivò in breve ad individuare un altro candidato della stessa patria e amico di Aldrovandi. Prospero Lambertini si segnalava in modo preclaro per l’ampia cultura e per l’esperienza acquisita nella curia Romana dove aveva esercitato l’ufficio di avvocato concistoriale e aveva gestito altri importanti incarichi. Aveva inoltre mostrato le doti spirituali di pastore e di vescovo prima ad Ancona e poi a Bologna. D’altra parte, la sua età (aveva iniziato i 66 anni) era garanzia contro il pericolo che accadesse ciò che si era verificato durante il precedente pontificato quando, essendo papa Clemente XII gravato di anni, ormai cieco e seriamente malato, l’amministrazione della Sede Apostolica veniva gestita più che da Clemente XII, dal cardinale Corsini, suo nipote.

In particolare i vari governanti apprezzavano nel Lambertini l’ammirevole facilità con cui affrontava le situazioni. Clemente aveva lasciato faccende intricate e difficili, particolarmente in materia di giurisdizione, di immunità e di nomine ai benefici ecclesiastici. Ma specialmente era sul piano politico che emergevano i problemi più seri e intricati: innanzitutto con il regno di Napoli, dove Carlo era il re delle due Sicilie, inoltre con il principato del Piemonte e col regno di Sardegna.

I vari prìncipi governanti speravano di poter risolvere i problemi che li interessavano e la loro speranza non andò delusa. Per questo il cardinale Acquaviva, che era il rappresentante e il fiduciario del re di Napoli e di quello di Spagna, propose la candidatura di Lambertini, la sostenne con convinzione e la portò a conclusione, insieme con il cardinale Corsini. Poteva sembrare difficile che il cardinale Corsini sostenesse l’elezione di Lambertini, cioè proprio di chi aveva avuto la porpora da Benedetto XIII e non da suo zio Clemente XII, considerando anche che Clemente si era comportato severamente contro le decisioni di papa Benedetto XIII e contro i suoi famigliari ed amici. Questo dimostra che più delle nostre deboli considerazioni di uomini e dei nostri progetti, valgono le disposizioni della sapienza di Dio. Lambertini risultò eletto all’unanimità e assunse il nome di Benedetto XIV in ricordo del papa che lo aveva elevato alla porpora.

1740.11    II felice inizio del pontificato di Benedetto XIV – L’arcivescovo offre al nuovo papa la vita di Benedetto XIII da lui composta.

La proclamazione dell’elezione del nuovo papa suscitò nella nostra provincia e in tutti gli Stati della Chiesa una grandissima gioia e provocò in tutti la speranza di un lungo periodo di felice regno; tale speranza del resto era stata confermata dalle intenzioni dichiarate dallo stesso pontefice.

Benedetto XIV aveva dichiarato che intendeva dedicarsi alle questioni di interesse pubblico e generale e non di faccende private; di voler pensare alla scelta dei vescovi, dopo aver istituito una commissione di cinque cardinali che in segreto domandassero ai vescovi notizie circa la idoneità dei candidati all’episcopato, così come io avevo proposto per coloro che erano stimati degni dell’episcopato nella nostra diocesi e provincia. Aveva anche detto di voler tenere lontano da Roma i suoi parenti; di indagare sulle cause della scarsa consistenza dell’erario pubblico, di limitare le spese, di imporre alla corte papale una vita frugale, di ridurre gli stipendi e le spese del palazzo Apostolico che erano cresciute a dismisura. Aveva inoltre promesso che avrebbe alleggerito le tasse ai sudditi ed esortava a dedicarsi agli studi letterari. Infatti egli nel distribuire compiti ed uffici avrebbe preso in considerazione soprattutto la preparazione culturale dei soggetti.

Ciascuno quindi si rese conto che, durante il governo di un pontefice proveniente dalle terre della Chiesa, gli individui finora presi in considerazione perché provenienti da altri territori, non potevano più essere trascurati nella distribuzione degli uffici e dei benefici. Anticamente avevano libero accesso. Il relatore che aveva parlato dello Stato ecclesiastico <Romano> aveva riferito molte lamentele e critiche pubblicate e presentate al collegio dei cardinali nel conclave prima della elezione del nuovo pontefice.  Ne scrissi anch’io. Alla morte di Benedetto XIII, avevo cominciato a comporre[5] la biografia di quel papa e pensai che fosse giunto il momento di pubblicarla. Per questo ho pensato, prima di darla alle stampe, di farla avere a Benedetto XIV, tramite mio fratello Pietro Antonio Borgia. Perciò il primo settembre, ho scritto al papa una lettera nella quale, dopo aver espresso le felicitazioni per la sua elezione, intendevo presentargli quel piccolo omaggio. Il papa con grande liberalità accettò il dono e con suo speciale chirografo mandò il manoscritto al cardinale Francesco Antonio Fini, affinché esprimesse il suo giudizio sull’opera. Certamente nessuno meglio di lui avrebbe potuto esprimere un motivato parere. Egli infatti era stato a lungo prefetto della Casa pontificia e uditore del papa, sia prima del pontificato di Benedetto XIII, sia durante il suo pontificato e conosceva e conservava diligentemente le memorie e la documentazione di quel pontificato.

1740.12   Continuazione della terza visita pastorale – Completamento della chiesa parrocchiale di Penna San Giovanni – Benedizione della chiesa a Montefortino – Venuta a Fermo del  cardinale Firrao.

Il 5 settembre presi a continuare la visita pastorale. Sono andato prima nel castello di Sant’Angelo in Pontano, poi nel paese di Penna San Giovanni, dove, con grande soddisfazione, ho visto che la nuova e ampia chiesa parrocchiale era quasi completata, tanto che vi si celebravano i sacri riti liturgici. Mi sono poi recato ad Amandola e di seguito a Montefortino, dove il 25 settembre ho dedicato a Dio la chiesa suburbana di Santa Maria della Fonte e ho dedicato l’altare maggiore alla Vergine Maria. Mentre compivo la visita nel castello di Monte San Martino, il mio con-visitatore Isidoro Calvucci era in visita a Gualdo. Alla fine del mese siamo rientrati a Fermo.

Il 30 novembre giunse a Fermo il cardinale Firrao. Egli, nonostante il mio insistente invito di essere mio ospite al palazzo arcivescovile, ha preferito essere ospitato presso i frati Agostiniani del cui ordine era cardinale protettore.

1740.13   Il cardinale Firrao commenta con grande saggezza la mancata sua elezione al                   pontificato. – Giunge al Porto di Fermo il cardinale Acquaviva – Arriva a Fermo il  cardinale Carafa.

Del cardinal Firrao, ero restato ammirato di fronte ad un così illustre personaggio per la sua serenità e saggezza. Egli parlava liberamente e con distacco della mancata sua elezione a sommo pontefice, senza mostrare alcun disappunto e come se la vicenda non lo riguardasse. Dichiarava il ministero essere un altissimo servizio reso al Signore. Non parlava di persone eleggibili: egli era felice di voler servire il Signore con semplicità e per questo ringraziava Dio che non fosse avvenuta la sua elezione. Faceva osservare che al presente eravamo costretti a vivere in un periodo in cui i prìncipi desideravano spesso ciò che andava contro la giustizia e lo chiedevano insistentemente alla Sede Apostolica. Se si fosse concesso tutto, anche ciò che andava contro i sacri diritti, negavano che si offendesse Dio; se lo si rifiutava loro provocavano gravi danni alla Sede Apostolica, rischi ai famigliari del papa e disgrazie a coloro che erano sudditi. Era quindi preferibile servire Dio e tenersi lontani da questi pericoli. Queste osservazioni mi hanno fatto ricordare le tormentate vicende accadute nella elezione di Marcello II e di Paolo IV, allorché l’imperatore aveva dichiarato la sua opposizione. Io avevo descritto questa vicenda, traendo le notizie da Oldovino, citato dal Chacon (alias Ciacconi, tomo III, Vita di Paolo IV). Ho riferito questi casi durante il pranzo offerto nell’arcivescovato al cardinale Firrao e ai vescovi che erano venuti a Fermo per incontrarlo ed ossequiarlo.

Il 7 ottobre, insieme con lui, sono sceso al Porto di Fermo dove era giunto il cardinale Acquaviva diretto verso il regno di Napoli. Egli ci ha riferito con grande soddisfazione (a proposito del conclave) del successo raggiunto con i suoi consigli e interventi e sottolineava con quanto impegno e attenzione aveva svolto la sua opera e come l’aveva portata a termine. Dopo la partenza del cardinale Firrao, il 20 ottobre, è giunto nella nostra città anche il cardinale Pietro Luigi Carafa. Era ospite nel convento dei Domenicani, non avendo accettato il mio invito. Era però venuto nel palazzo, accettando l’invito a pranzo, insieme con il suo seguito. Il 23 ottobre si era portato al Porto di Fermo. Il giorno seguente, io partii per Roma.

1740.14    L’arcivescovo si reca a Roma per ossequiare Benedetto XIV – Il cardinale Fini                    consiglia all’arcivescovo di apportare alcune variazioni e correzioni al libro della  vita di Benedetto XIII – Il cardinale Fini riferisce al papa sul medesimo libro.

Duplice era la ragione per cui mi ero recato a Roma: la prima era quella di presentarmi al nuovo pontefice per esprimergli il mio ossequio; la seconda era di curare la pubblicazione della vita di Benedetto XIII che era nelle mani del cardinale Fini. Il nuovo Pontefice mi accolse con grande benignità, dandomi i segni della sua sincera amicizia.

Del problema della pubblicazione della vita di Benedetto XIII avevo parlato con il cardinale Fini il quale mi ha indicato alcuni passi nei quali difettava la precisione storica e altri punti che potevano apparire offensivi. Mi fu facile soddisfare le sue richieste, apportando alcune modifiche, omettendo alcuni brani o aggiungendo qualche altra considerazione. Dopo di che egli ha riferito al sommo pontefice della nostra discussione, esprimendo il suo parere favorevole alla degna pubblicazione del volume. L’abitudine dei Romani però non gradiva che ogni cardinale potesse intervenire per porre la censura alle pubblicazioni. Per questo il pontefice, nonostante che fosse d’accordo con il cardinale Fini sulla opportunità della pubblicazione, stimò che fosse opportuno consegnare l’opera al maestro del sacro Palazzo, affinché apponesse il suo placet alla pubblicazione, dopo averne preso visione e dato assenso.

1740.15    Mons. Giovanni Battista Conventati, arcivescovo di Tarso e in seguito vescovo di   Terracina, muore a Montegranaro – Viene appianata la questione della sua eredità    con la camera Apostolica.

Era necessario che intervenissi per risolvere in qualche modo la controversia insorta sulla eredità dell’arcivescovo Giovanni Battista Conventati. Egli, appartenente ad una antica e nobile famiglia di Montegranaro, paese della nostra diocesi, per lungo tempo visse a Roma presso la congregazione dell’Oratorio di San Filippo Neri. Fu creato arcivescovo di Tarso e in seguito di Terracina; in seguito rinunciò al vescovato e si ritirò a vivere nel suo paese, dove morì, dopo aver scritto il proprio testamento nel quale lasciava tutti i suoi beni a favore di varie opere benefiche. I collettori degli spogli sostenevano che tali beni dovessero essere assegnati alla Camera Apostolica in quanto il defunto arcivescovo non aveva il diritto di far testamento per tali beni poiché acquisiti da lui grazie all’attività durante il suo servizio per la Chiesa. Infatti la facoltà di fare testamento fino alla somma di mille ducati d’oro, che egli aveva come vescovo assistente del pontefice, risultava inefficace poiché il diploma <del titolo> a lui concesso da Benedetto XIII sarebbe dovuto essere registrato nei libri della Camera Apostolica, mentre mancava. In tale difficile situazione era necessario provvedere agli stipendi della servitù, ai suffragi per la sua anima e a preparare la sua sepoltura. Infatti egli, prima di morire, aveva pensato di prepararsi un sepolcro di marmo nella chiesa dei frati Minori Conventuali. Tuttavia il sepolcro non era stato costruito, né si poteva realizzarlo perché non si trovava chi lo pagasse.

Pertanto il cadavere rimaneva insepolto e rimaneva nella sala delle riunioni del monastero di quei religiosi. Spinto dalla compassione per la misera sorte dell’arcivescovo defunto, ho trattato della vicenda con il tesoriere generale della camera Apostolica affinché si trovasse una soluzione. Alla fine si giunse alla decisione che la maggior parte dei beni lasciati in eredità fossero destinati alla camera Apostolica, ma che la restante somma di denaro fosse spesa per la soluzione dei vari doveri, come richiedono la giustizia e il senso di pietà cristiana.

1740.16    Difesa dei diritti della mensa arcivescovile sul mulino di Grottammare contro le   pretese della curia vescovile di Ripatransone – Vengono confermati i decreti                   del secondo Sinodo Fermano.

A Roma ho dovuto interessarmi anche di un’altra controversia. I funzionari della curia vescovile di Ripatransone avevano fatto incarcerare il responsabile della molitura del grano nel mulino di proprietà della nostra mensa che si trova nei pressi di Grottammare. L’accusa era quella dei aver provocato dei danni al territorio.

In primo luogo, inviai un memoriale al vescovo di Ripatransone per risarcimento. Tutti i dipendenti che lavoravano per la mensa arcivescovile non sono soggetti ad altri che all’arcivescovo di Fermo e al suo tribunale e ciò in forza di un privilegio concesso dal papa san Pio V, allorché aveva scorporato dalla giurisdizione di Fermo il paese di Grottammare, ponendolo sotto la nuova diocesi del vescovo Ripatransone, dove quel papa aveva istituito una nuova sede vescovile. In tale occasione aveva chiaramente specificato che dalla nuova giurisdizione del nuovo vescovo erano da considerarsi esenti tutti i diritti e tutti i beni temporali dell’arcivescovo di Fermo in modo tale che nei confronti di essi non fosse causato alcun danno o pregiudizio.

Il vescovo, tuttavia, si rifiutava di riconoscere i diritti di giurisdizione dell’arcivescovo di Fermo sui beni della mensa; nonostante avesse fatto scarcerare il responsabile del mulino, il quale aveva dato la fideiussione di restare a disposizione, di presentarsi ai giudici e di obbedire alle sue disposizioni. Perciò egli inviò a Roma il monitorio mandato a lui dalla mia curia nel quale richiedevo il rispetto dei privilegi della mensa arcivescovile, in particolare di quello del foro di cui godeva quell’operaio del mulino, nel caso sollevato dalla curia di Ripatransone. Il vescovo quindi ricorse alla sacra congregazione del Concilio, lamentandosi come se il mio richiamo andasse contro i decreti del concilio Tridentino. Tuttavia mi fu facile dimostrare che le lamentele di quel vescovo erano inopportune ed inefficaci, in quanto tutti i vescovi di Ripa suoi predecessori avevano sempre riconosciuto di non avere alcun potere sui beni della mia mensa, né alcun diritto sui dipendenti di essa, anche se questi abitavano nell’ambito del territorio della diocesi di Ripatransone. A tal fine ho addotto molti documenti. Pertanto negli anni successivi non si fecero più simili controversie né in congregazione né altrove.

Nei confronti di alcuni decreti contenuti nel nostro secondo Sinodo diocesano, erano state avanzate alcune osservazioni critiche in particolare in relazione al divieto delle processioni notturne, inoltre anche sulla necessità di chiedere il permesso del vescovo da parte dei chierici che avessero voluto citare in giudizio un laico di fronte al giudice laico (secolare) e su altri punti riguardanti in generale la disciplina ecclesiastica. Il papa all’inizio del suo pontificato aveva stabilito molti editti che a Roma si pubblicavano dal cardinale vicario e i nostri erano consoni e conformi a questi. Ebbene i decreti del nostro sinodo erano secondo le norme e pertanto respinsi tutte le critiche.

1740.17    Benedetto XIV rifiuta il permesso di poter esportare il grano per via marittima.

Mentre ero ancora a Roma, moltissimi dal Piceno chiedevano con insistenza che Benedetto consentisse l’esportazione marittima del frumento. Anch’io insistevo pressi i funzionari per ottenere la stessa cosa, per il fatto che dall’esportazione dei grani dipendevano le entrate della intera provincia. Tutti i nostri sforzi però risultarono inefficaci; infatti Benedetto XIV respinse ogni richiesta, in parte anche per le insistenti proteste degli Anconetani che si lamentavano che sotto Clemente XII si era largheggiato troppo nel consentire le esportazioni. Questa cosa non era vera, e del resto allora la provincia aveva abbondanza di grano, anche se la raccolta era stata scarsa. Il papa comunque non fece alcuna concessione, nonostante che molti cardinali e il vescovo di Senigallia, suo conterraneo, fossero favorevoli.

1740.18    Missioni tenute a Roma da fra’ Leonardo di Porto Maurizio – Ragioni per le quali  vengono abolite a Roma le elemosine – Soldati smobilitati – L’arcivescovo ritorna a   Fermo – Acquisto dei libri pontificali.

Frattanto a Roma andavano scemando l’entusiasmo e la soddisfazione rispetto agli inizi del pontificato di Benedetto XIV. Eera vero che il papa si impegnava strenuamente nel suo governo pastorale, vigilava costantemente nel correggere e migliorare il comportamento della gente e aveva promosso le sacre missioni, chiamando a predicare a Roma fra’ Leonardo da Porto Maurizio, celebre frate dei Minori Riformati. Tuttavia due cose dispiacevano all’animo dei più: la prima era il fatto che improvvisamente e senza alcuna scelta, furono sospese ed abrogate le elemosine che i precedenti pontefici erano soliti distribuire. Ciò avvenne in parte perché le casse pontificie erano ormai esauste e perché c’era il sospetto che le distribuzioni più che aiutare i poveri e i bisognosi servissero per soddisfare le superfluità delle donne nobili e altre ambizioni. L’altra cosa era che, nonostante che fosse stata annunciata a Roma la morte dell’imperatore eletto Carlo VI, si stava ancora realizzando la decisione adottata di disarmare le soldatesche che Clemente XII aveva di molto aumentate, dopo la rivolta trasteverina, quando sarebbe stato invece opportuno di mantenerle in previsione dei futuri probabili rivolgimenti che si sarebbero potuti verificare in Italia. Molti pensavano che ne sarebbero derivati gravi danni per la Sede Apostolica e per tutto lo Stato della Chiesa. Volesse il cielo che tale ipotesi fosse stata poco realistica e che i fatti non fossero forieri di gravi disgrazie!

Poiché si avvicinavano le feste natalizie, mentre la licenza di dare alle stampe il mio libro sulla vita di Benedetto XIII da parte del maestro del sacro Palazzo si protraeva a lungo, decisi di tornare a Fermo. Nonostante che le strade fossero disastrate per la neve e il gelo, arrivai incolume il 16 dicembre. Prima di ripartire, acquistai dalla tipografia Vaticana i Libri pontificali editi in maniera perfetta ed elegantemente rilegati.

1740.19    L’arcivescovo si ferma presso la sua piccola residenza di San Claudio – Piantagione di  alberi in varie località – Il seminario viene circondato da mura.

Durante l’anno a San Claudio, oltre ad avere effettuato vari lavori di riparazione di edifici, ho restaurato dalle fondamenta il piccolo fabbricato che si trova vicino alla fonte, che negli anni precedenti era crollato. La parte inferiore l’ho destinata per conservare e pressare i formaggi mentre la parte superiore viene adibita a magazzeno per raccogliere i legumi.

Nel vivaio suburbano della città, ho fatto piantare 400 gelsi; a San Martino e a San Claudio i gelsi e gli olivi furono piantati e disposti in filari; a Santa Croce sono stati piantate, tra salici e pioppi, ben 3000 piante e ciò per frenare le inondazioni del fiume Ete.

Nella parte che guarda verso il Girfalco il nostro seminario è aperto a tutti e indifeso e vi è soltanto un alto scoscendimento, ma non è circondato da mura di cinta. Quest’anno ho fatto costruire un alto e robusto muro in laterizio.

1740.20    Difesa della libertà della fiera a San Claudio.                    Il tesoriere generale aveva tentato di violare la tradizionale libertà della fiera di San Claudio. Richiedeva cioè un tributo da pagare sulle merci in entrata e in uscita e faceva sequestrare tutte le merci che senza il suo permesso venivano esposte fuori del recinto di San Claudio o che non avevano pagato il balzello da lui stabilito. La città di Fermo, reputando che ciò fosse un abuso e che fosse suo dovere difendere la libertà della fiera, si opponeva decisamente alla pretesa del tesoriere. L’esito della protesta però sarebbe stato molto incerto se la causa non fosse stata assunta dall’arcivescovo.

Trovandomi a Roma, avevo deciso di introdurre la causa e avevo chiesto all’uditore del papa che assegnasse la controversia alla sacra congregazione dell’Immunità. Egli però l’aveva affidata ad una speciale commissione istituita per l’occasione per decidere la controversia. Tale consesso ha emesso una sentenza che riconosceva la completa libertà della fiera di San Claudio.

ANNO  1741

1741.1    L’abate di Farfa contesta l’elezione fatta del parroco di San Pietro di Fermo; al soggetto prescelto, l’arcivescovo conferisce la detta parrocchia.

All’inizio dell’anno, è insorta una controversia per la collazione della chiesa parrocchiale di San Pietro in Penna, nella città di Fermo. In base ai decreti del concilio Tridentino, dopo il concorso svoltosi alla mia presenza, avevo nominato parroco di San Pietro in Penna il sacerdote fermano Giuseppe Nicola Mazzoleni, al quale tuttavia il cardinale Domenico Passionei, abate di Farfa, si rifiutava di concedere la bolla di nomina, perché affermava che la nomina per parroco spettava a lui, scegliendo il soggetto tra coloro che erano stati dichiarati idonei dall’arcivescovo al concorso canonico indetto dall’arcivescovo stesso e ciò in forza di un antico accordo intervenuto tra l’arcivescovo di Fermo e l’abate di Farfa. Tale accordo però era stato stipulato temporaneamente e con scadenza determinata e in seguito era stato rescisso di comune accordo tra l’arcivescovo di Fermo cardinale Cenci e l’abate di Farfa cardinale Barberini. La controversia fu definita dalla congregazione dei cardinali interpreti dei decreti del Concilio Tridentino. Pertanto in questo caso lo stesso cardinale Passionei riconobbe il buon diritto dell’arcivescovo di Fermo e spedì al sacerdote nominato la bolla di collazione.

1741.2    L’arcivescovo amministra solennemente il Battesimo ad un neofita ebreo.

Il 30 gennaio, ho accolto la richiesta di Isacco di Abramo ebreo di Ancona che desiderava ricevere il Battesimo. Egli aveva venti anni ed abitava a Santa Vittoria, paese della diocesi di Fermo, dove esercitava l’attività di mercante.  Dopo aver ascoltato la predica nella prima domenica di quaresima sulla fede cristiana, lo affidai ai frati minori Conventuali affinché meditasse seriamente per qualche tempo sulla sua decisione di abbracciare la fede cristiana. Tornò poi da me ed io lo mandai presso il convento dei frati Cappuccini di questa città affinché seguisse un corso di preparazione studiando gli articoli della nostra fede per almeno quaranta giorni.

La cerimonia del Battesimo si è svolta con uno straordinario concorso di popolo; fungevano da padrini del Battesimo Giulio Porti e Artemisia Adami, mentre il padrino della Cresima è stato il marchese Decio Azzolino, tutte persone appartenenti alla nobiltà fermana. Il neo-battezzato ricevette da me, dai padrini e da molte altre persone molti doni ed offerte. Gli sono stati imposti i nomi di Giovanni Battista, Alessandro, Giulio, Giuseppe e il cognome di Porti; fu poi accolto nel paese di Montegiorgio.

1741.3    Benedetto XIV finalmente concede l’autorizzazione di poter esportare il grano per via   marittima.

Poiché da tutta la nostra provincia si moltiplicavano insistenti le richieste di poter esportare per mare i grani, Benedetto XIV  non volendo ulteriormente rimandare la questione, decise di inviare come suo delegato Giovanni Luca Nicolini, chierico della camera Apostolica, affinché verificasse ufficialmente la quantità di grano disponibile esistente nella nostra provincia e  indagasse di nascosto sulla disponibilità di olio, dato che a Roma si sentiva la penuria di questo prodotto.

Le incertezze e le procedure ritardavano però la decisione. Per tale ritardo i Dalmati, gli Illirici e coloro che abitavano la costa Adriatica di fronte alla nostra, dato che erano alla fame, si davano da fare per rifornirsi del grano proveniente dal regno di Napoli, pagandolo al ragguardevole prezzo di più di sette scudi d’argento per ogni salma (o rubbio). Per questo accadde che, allorché finalmente il sommo pontefice, il 30 marzo, diede alla nostra provincia il permesso di esportazione nella misura di ventimila salme, a stento si potettero trovare acquirenti, neanche a prezzo più basso. A me, fatta l’assegnazione della quantità tra i venditori, toccò la quantità di mille salme. Le zone che ottennero il permesso di esportare non trovarono più compratori. Ciò determinò un grave danno economico a tutta la provincia. Era infatti noto che il commercio del frumento era un’attività importante e che il ritardare di consegnare il grano a coloro che lo richiedevano e che erano disposti a comperarlo subito, rappresentava un grande rischio perché poi diventava difficile rimediare, una volta che si fosse lasciata sfuggire l’occasione della vendita. La gente infatti non era mai così stolta da rimandare l’acquisto di grano alla fine dell’anno.

1741.4    L’arcivescovo Fermano e il vescovo di Sanseverino riprendono il processo canonico e procedono  per la beatificazione del venerabile Servo di Dio, padre Antonio Grassi.

Riprendeva intanto il processo di beatificazione del venerabile servo di Dio padre Antonio Grassi della congregazione fermana dell’Oratorio di san Filippo Neri, dopo che, dal 1728, anno della morte di mons. Benedetto Bussi, vescovo di Recanati e Loreto, era rimasto sospeso. Prorogando il precedente mandato, la Sede Apostolica affidò  a me e al vescovo di San Severino, mons. Dionigi Pieragostini mio suffraganeo, l’incarico di riprendere e proseguire il processo, interrogando i testimoni sopra le virtù eroiche e la fama di santità del Servo di Dio. Era però imminente la settimana santa e il vescovo Dionigi dovette ritornare nella sua diocesi, per presiedere le celebrazioni pasquali. La prosecuzione quindi del processo è stata rinviata alla prossima estate nella speranza di completarne la procedura.

Frattanto nel mese di febbraio morì piamente nel Signore il settantenne padre Gentile Maria Bilieni di Foligno, della Compagnia di Gesù e mio teologo; l’ho sostituito con padre Francesco Recupero anche lui gesuita originario da Polignano di Puglia.

1741.5    L’arcivescovo dà alle stampe la Vita di Benedetto XIII, ridotta però e cambiata a causa  della censura operata dal Maestro del Palazzo Apostolico – Le ultime bozze del libro   vengono corrette da Pietro Antonio Borgia.

Nel dicembre dello scorso anno, avevo lasciato il libro della vita del sommo pontefice Benedetto XIII nelle mani del frate domenicano Luigi Nicola Ridolfi, maestro del sacro Palazzo Apostolico, che aveva il compito di esaminare lo scritto e il potere di permetterne la stampa nella città di Roma. Egli alla fine di febbraio, me lo aveva rimandato, con le osservazioni e le correzioni suggeritegli dalla sua esperienza e dalla sua saggezza.

Uomo pio e prudente, egli non era abbastanza versato nella lingua latina e negli studi storici; alcune cose quindi le criticava per cautela, altre per prudenza, altre ancora per paura. Temeva infatti che l’esaltazione di papa Benedetto XIII, la lode per le sue eccelse virtù e specialmente per la liberalità dimostrata nell’abrogare le pubbliche imposte e per il suo rigore nello stroncare il gioco del lotto, potessero suonare come condanna per i predecessori o per i successori.

Tuttavia c’è da dire che non tutti noi abbiamo le stesse virtù e come i volti degli uomini sono diversi e non si assomigliano, così avviene anche per le anime. Inoltre non è sempre bene che le stesse virtù risplendano nei governanti, ma siano rapportate alle diverse situazioni. E’ bene che in loro a volte prevalga la clemenza, a volte la severità, a volte la generosità, altre volte la parsimonia.

In realtà vivevamo in tempi in cui anche nei confronti degli scritti di uomini illustri si avanzavano aspre critiche. Nelle opere di biografia l’esposizione del vero veniva considerata come offesa nei confronti delle autorità. D’altro canto non era attraverso la censura sugli scritti che si poteva cancellare la verità dei fatti, la memoria dei popoli, la consapevolezza degli uomini, né si poteva supporre che in seguito non ci potesse essere chi potrebbe pubblicare in modo chiaro e completo quello che per paura era stato nascosto o taciuto. Di fatto, per la vergogna di rivelare il mal fatto, la nostra mente spesso era stimolata da ciò che si stimava, come dovesse nascondere la realtà con il silenzio. Per questo ero convinto che la censura sui libri e la volontà di limitare la libertà di scrivere e pubblicare la storia nella sua verità, impedivano di produrre i buoni effetti sperati sugli altri.

Comunque, da parte di molte persone oneste e dotte c’era grande l’aspettativa di leggere la vita di Benedetto XIII da me scritta. Per non deludere tali aspettative, sono stato costretto ad obbedire alla volontà del maestro del sacro Palazzo. Così, con un estenuante ed improbo lavoro e nello spazio di pochi giorni, sono riuscito a riordinare il mio lavoro. Molte cose, anche se malvolentieri, fui costretto a cancellarle, eppure sarebbero risultate importanti, alcune parti sono stato costretto ad abbreviarle per evitare eccessive lungaggini; altri eventi ho dovuto trascurarli per evitare le proteste e le critiche degli oppositori e dei nemici di Benedetto XIII. Ho però voluto difendere strenuamente la vita del pontefice da alcuni aspetti più acremente criticati, in particolare lo sperpero dell’erario pontificio, e la distribuzione dei beni ai famigliari, che di fatto furono ben pochi, se si confrontavano con quelli donati e lasciati dai precedenti pontefici ai propri parenti, agli affini e agli amici. Terminata la correzione dell’opera secondo i criteri che mi erano stati suggeriti, mi sono affrettato a rimandarla al maestro del sacro Palazzo dal quale, non senza dubbi e ritardi, la riebbi finalmente con il permesso di poterla dare alle stampe. Due soltanto furono i vescovi che approvarono e lodarono la mia opera: il primo fu un francese, mons. Giuseppe de Guyon, vescovo di Chevalier e in seguito arcivescovo di Avignone; il secondo un italiano, mons. Giovanni Andrea Tria vescovo di Larino e consultore della congregazione della santa Inquisizione a Roma, ambedue prelati insigni per dottrina e ambedue nominati ai loro uffici pastorali da Benedetto XIII.

L’edizione fu curata con molta diligenza dai tipografi Bernabò e Lazzarini di Roma, mentre mio fratello Antonio Borgia curò la correzione delle bozze. Se poi ho offeso in qualche punto gli esperti in lingua latina, sappiano questi futuri lettori che ciò non era frutto della mia mano, poiché qualche brano fu cambiato da altra persona o aggiunto, ad esempio le espressioni che si leggono alla fine del numero XLV.

Portata a termine la stampa, lo stesso mio fratello, nel mese di settembre, la offrì a papa Benedetto XIV il quale la accettò con gioia; poi fu offerta a Giacomo III Re di Inghilterra e a quei cardinali ai quali io intesi offrirla. Curai di distribuirla anche a molti presuli e ad altri illustri personaggi in particolare a coloro che avevano avuto stima ed affetto verso Benedetto XIII.

L’opera era stata accolta con gioia e letta avidamente da tutti e fu anche ben apprezzata. Essa era stata scritta senza voler recare offesa ad alcuno, in modo limpido, senza ombra di inganno e senza alcuna piaggeria; mi sembrava che presentasse anche un’accurata forma latina.

Si doveva soprattutto dare lode a Dio che mi aveva assistito e benedetto in ogni momento della mia fatica, poi a tutti quelli ai quali era gradita la memoria di Benedetto XIII, resa più evidente nella fiducia, nonostante il disprezzo degli uomini ingrati e di coloro che avevano voluto accusarlo di errori, sia nell’amministrare lo Stato sia per i successivi fatti dolorosi che di giorno in giorno hanno aumentato il suo paterno ricordo.

1741.6    Veemente terremoto.

Il 24 aprile, poco prima di mezzogiorno si è verificata una forte scossa di terremoto, così forte da far vacillare tutti gli edifici della città, della diocesi e delle campagne. Sembrava che tutto stesse per cadere. Mi trovavo in campagna, nella tenuta di San Martino, i cui edifici furono violentemente scossi. Appena terminato il sisma, uscito all’aperto e guardando la città, ebbi il timore che si fosse verificato il crollo della maggior parte degli edifici. Grazie alla divina misericordia, nessun edificio era crollato; i danni inferti dovevano essere evidenti solo nelle screpolature e nel crollo di qualche muro. Fu particolarmente danneggiato il tempio di Santo Spirito che apparteneva alla congregazione dell’Oratorio. Le chiese, in genere, erano state danneggiate più gravemente delle case; i danni ci furono in tutto il Piceno, ma particolarmente a Fabriano.

Subito dopo il terremoto, con una lettera circolare indirizzata al clero e al popolo della diocesi, ho ammonito che tali flagelli ci coglievano come punizione di Dio per i nostri peccati, per la mancanza di rispetto per il tempio del Signore; era quindi necessario evitare tali peccati. Ordinai poi che in tutte le chiese si recitassero in pubblico i salmi 45 e 90 e che si chiedesse la protezione di san Francesco Borgia, per ottenere la liberazione dal flagello del terremoto. Fortunatamente fummo liberati da altre scosse, nonostante il timore di molti. Subito tutti si dedicarono a riparare i danni sofferti; da parte mia in breve ho fatto eseguire le necessarie riparazioni agli edifici di proprietà della mensa.

1741.7    Prosecuzione della terza visita pastorale – Consacrazione di monache a Loro e a                  Mogliano – Consacrazione di un altare a Petriolo.

Nel mese di maggio, mi ero preparato a riprendere la visita pastorale. Avevo visitato Mogliano, Loro, Petriolo, Monte San Pietrangeli, e Rapagnano. In particolare a Loro avevo consacrato alcune monache dell’ordine Domenicano, dette le Gavotte, così pure a Mogliano consacrai alcune religiose dell’ordine di San Benedetto con grande concorso del popolo venuto anche dai paesi vicini.

A Petriolo nella chiesa suburbana di Santa Maria delle Grazie ho consacrato l’unico altare dedicato alla beata Vergine Maria e ho inserito nella mensa le reliquie dei martiri Fausto e Teodoro.

Durante questa visita nei vari paesi, avevo sofferto a causa del dolore dei denti, per l’eccessiva umidità. Nonostante alcuni rimedi praticati,  non ne avevo avuto alcun sollievo. Pertanto, tornato a Fermo,  ho deciso per l’estrazione del dente.

1741.8    Le sacre Reliquie di san Marone – L’arcivescovo conduce l’inchiesta e emette il giudizio sull’autenticità del corpo di san Marone – Il vescovo di Sanseverino partecipa al   processo  – Benedetto XIV approva e loda la sentenza sull’autenticità del corpo di               san Marone.

Il 20 giugno mi recai a Novana (= Civitanova) per verificare l’autenticità del corpo di san Marone, martire di Cristo, che si conservava e si venerava nella cripta dell’antica chiesa a lui dedicata sita presso la riva del mare Adriatico, alla presenza del clero e del popolo.[6]

Mons. Girolamo Mattei, l’arcivescovo mio predecessore, quantunque avesse disposto la ricognizione delle reliquie, dopo aver rimosso la terra e le pietre del sepolcro, aveva abbandonato l’atto della ricognizione, facendo riporre il tutto nel luogo primitivo senza emettere nessun giudizio sull’autenticità del corpo del martire. Nella spazio di dieci giorni, eseguii la ricognizione, rispettando le regole previste dalla legge canonica. Il 28 giugno è avvenuto l’atto della ricognizione canonica delle reliquie con l’assistenza di mons. Dionigi Pieragostini, vescovo di San Severino, e alla presenza di Marco Antonio Massucci mio vicario generale, Vincenzo Montani e Lucio Guerrieri, canonici della metropolitana e Francesco Recuperi gesuita, mio teologo, dei primari del clero e delle autorità di Civitanova, con la consulenza di diversi periti nelle varie discipline.

E’ risultato chiaramente che le reliquie del santo martire erano state collocate in quel luogo e ciò risultava evidente da molteplici e seri indizi: dalle lastre marmoree che chiudevano il sepolcro, dalle sbarre di ferro che serravano la cassa lignea, ormai consumata dal tempo e dall’umidità, e anche dai frammenti dell’ampolla di vetro rosso.

Quantunque i più avessero creduto meglio di trasferire queste sacre reliquie al centro della cittadina, io ero stato del parere contrario al trasferimento delle sacre spoglie. Esse furono riposte in un’urna di piombo rivestita all’interno con un telo di seta e contenuta in un’altra urna di legno di cipresso.  Tolsi dal sacro corpo una clavicola da riporre nella nostra chiesa metropolitana; una parte della colonna vertebrale da consegnare al vescovo di San Severino, da riporre nella sua chiesa cattedrale e una spalla da collocarsi nella collegiata di San Paolo a Civitanova. Sull’antica e grande lapide furono incise le seguenti espressioni:  San Marone martire di Cristo  \  e protettore di Civitanova  \  sepolto sotto questa lapide  \  dove subì il martirio  \    l’arcivescovo e principe di Fermo  \  Alessandro Borgia  \  con solenne rito fece ricognizione  \  delle sacre reliquie  \  Il 28 giugno dell’anno del Signore 1741

Il primo di luglio ho pubblicato la sentenza della ricognizione e dell’autenticità del corpo del martire san Marone, protettore di Civitanova. In essa dichiaravo che concordavano gli atti pubblicati da Pietro De’ Natali, vescovo di Aquilino, nel suo Catalogo dei Santi al capitolo LIV e riferiti dal Surio nel tomo III delle autentiche storie dei Santi, riportate nel mese di maggio e dai bollandisti dove si parla di Marone martire, sempre nel mese di maggio, dove si dice che per la fede di Cristo fu condannato a dissodare le terre di Aureliano, come afferma anche il Surio, e fu portato al CXXX miglio della via Salaria e quindi presso la nostra provincia Picena. Anche l’antico Martirologio Geronimiano colloca il martirio di Marone in questo luogo e non in altro luogo del Piceno e qui pone il suo corpo. Del resto non si può indicare nessuna altra chiesa che per antichità, per celebrità e per il culto che vi si praticava in onore del santo martire, potesse essere eguagliata a questa. Inoltre, per quanto l’oscurità degli antichi secoli ce lo consentiva, questo e non altri è il martire Marone. Lo si legge negli atti già citati negli scritti di Pietro De’ Natali e nei Bollandisti. E’ colui che risanò dall’idropisia il procuratore di Settempeda che distava da questo luogo circa XXX miglia. Egli era lo stesso Marone compagno di Eutiche e di Vittorino, i quali venivano recensiti tutti e tre nel 15 aprile nel martirologio romano come vittime della persecuzione di Traiano.

Dopo solenni suppliche per la durata di tre giorni, l’omero di san Marone fu accompagnato a Fermo, dove furono celebrati solenni riti pontificali da me e dal vescovo di San Severino con la partecipazione di moltissima gente, venuta da tutta la provincia e vi furono anche solenni manifestazioni esteriori di festa.  Su tutto ciò io feci una relazione a Benedetto XIV, che ha lodato e approvato la mia iniziativa con una lettera a me inviata dal cardinale Silvio Valenti, segretario di Stato.

1741.9    L’arcivescovo Fermano e il vescovo di San Severino concludono il processo diocesano  per la beatificazione del Servo di Dio, padre Antonio Grassi.

Tornato a Fermo, insieme con il vescovo di San Severino, che era mio ospite, mi ero impegnato a concludere, con autorità apostolica, il processo per la beatificazione del venerabile Antonio Grassi. Avevamo portato avanti il processo durante la calura estiva e lo abbiamo concluso alla fine di agosto. Abbiamo inviato poi tutti gli atti a Roma alla congregazione dei Riti.

Sono venuti a stare presso di me, al fine di ricevere una buona educazione e per seguire gli studi, il giovane Stefano Borgia chierico dell’età di 10 anni e Paolo Borgia che aveva nove anni, miei nipoti, per parte di mio fratello.

1741.10    L’arcivescovo con i proventi della sua mensa istituisce una prebenda a favore di un  numero di poveri, corrispondente al numero degli anni del suo episcopato, privi di      ogni speranza e incapaci di svolgere qualsiasi lavoro.

Avvicinandosi il 12 luglio, giorno anniversario della mia consacrazione episcopale, avevo pensato di realizzare un progetto da me lungamente meditato. Per fortuna in questa nostra città si era discretamente provveduto alle necessità dei poveri; i nostri antenati infatti istituirono diversi ospedali od ospizi e altre opere di carità per i bisognosi. Negli anni passati io stesso avevo provveduto a realizzare iniziative per i fanciulli “esposti” ed abbandonati che all’età di soli cinque anni venivano espulsi dal brefotrofio e anche per le ragazze abbandonate.

Si trovavano, però, escluse da ogni assistenza molte persone che, per l’avanzata età, per essere invalide o per la malattia, non erano in grado di lavorare né potevano essere mantenute dai loro parenti e quindi soffrivano la fame. Tra di essi ne scelsi 17, tanti quanti erano gli anni del mio episcopato, numero che sarebbe cresciuto col passare degli anni.[7] A favore di tali poveri era prevista la distribuzione di una somma di denaro nelle principali feste religiose dell’anno e di ciò ho incaricato il maestro di palazzo (detto economo). Inoltre, traendo dai beni della mensa, con una determinata quantità di prodotti (detti prebenda), veniva effettuata l’assegnazione a ciascun povero di una quantità di frumento, di vino, di olio e di altri generi per la sopravvivenza, la cura di tale iniziativa doveva essere affidata ai parroci.

Ai poveri si chiedeva e si raccomandava che elevassero a Dio le loro preghiere per la mia incolumità e perché potessi governare rettamente e saggiamente la Chiesa a me affidata. Il 12 luglio di quest’anno 1741 ho emanato il decreto di istituzione della “Prebenda dei poveri”.

1741.11    L’arcivescovo fa collocare il rivestimento in pietra d’Istria nel vestibolo del suo                    palazzo.

Nello stesso anno, ho provveduto a porre mano al rivestimento del vestibolo del palazzo arcivescovile con lastre di marmo, fatte venire dall’Istria, attraverso il mare Adriatico già nel 1728 con una considerevole spesa e fatte lavorare e preparare con arte.

Mio fratello Cesare Borgia era cavaliere e milite gerosolimitano ed era stato lungamente a Malta. Per ragioni di salute era tornato in Italia e si era fermato per un po’ di tempo a Nocera Umbra per sottoporsi alla cura delle acque. Era venuto poi a Fermo per un periodo di riposo.

Le lastre di marmo già pronte per il vestibolo del palazzo, ora,  dovevano essere sollevate e collocate. Però di gente esperta per compiere tale lavoro, pochi o meglio nessuno c’era nella nostra città. Così mio fratello si prese il compito di organizzare il lavoro; del resto egli, sia a Malta, sia nei frequenti viaggi per mare, aveva imparato la tecnica per sollevare grandi pesi con il sapiente uso di carrucole e di verricelli.

1741.12    Viene imposta una tassa sui certificati richiesti per gli atti legali.

Mentre mi dedicavo a queste cose, il papa fin dall’inizio del suo pontificato aveva sperato di poter rimpinguare le casse dell’erario ormai esauste, ma si era riproposto nello stesso tempo di alleggerire le imposte. Era riuscito certamente a rimpinguare le finanze dell’erario, ma per quanto riguardava il secondo proposito aveva deciso di rimandare qualsiasi iniziativa per ridurre le imposte a tempi migliori. In realtà, per provvedere a riempire le casse dello Stato, aveva deciso di imporre nuovi tributi in tutto lo Stato della Chiesa, nonostante che gli abitanti fossero già gravati oltre le loro possibilità. In effetti, ormai, non c’era quasi più nulla che fosse esente da tassazione e quindi non sembrava proprio opportuno che si introducesse un nuovo balzello che andava a colpire tutti i certificati che venivano rilasciati dai parroci, come necessari per espletare gli atti legali.

Eppure venne introdotto l’obbligo che per ogni attestato pubblico, rilasciato per usi legali, fosse versata una imposta che andava versata al pubblico erario; la cifra variava a seconda della tipologia del certificato richiesto. Due erano gli aspetti che maggiormente irritavano le persone: il primo fu che l’inizio della tassazione era fissata al 1 di maggio, il giorno in cui cadeva l’anniversario della solenne presa di possesso del papa della Basilica di S. Giovanni in Laterano e quindi l’inizio ufficiale del suo pontificato, proprio nel giorno cioè in cui i precedenti pontefici erano soliti abolire qualcuno dei balzelli esistenti, per acquistarsi la simpatia dei sudditi o anche forse per dare un certo sollievo alla gente, nelle ristrettezze dei tempi. Questa tassa del resto, se confrontata con quelle preesistenti, appariva pesantissima in quanto colpiva tutte le regioni e tutte le persone della Stato della Chiesa. Il nuovo tributo irritava in particolare i sacerdoti perché con esso veniva introdotto qualcosa di venale che si riferiva in qualche modo ai sacramenti, di fatto riguardava i registri che contenevano gli atti di Battesimo, di Cresima, degli Ordini sacri e del Matrimonio dai quali si estraevano i certificati relativi alla vita cristiana dei richiedenti.[8]

1741.13   Si raggiunge la composizione delle controversie relative all’immunità ecclesiastica con il regno di Napoli.

Benedetto XIV pose mano ad appianare le controversie esistenti tra la Chiesa e il regno di Napoli. Di tale problema si era occupato anche Clemente XII; tuttavia non era stato allora possibile raggiungere alcun accordo. Finalmente ora si era giunti ad un compromesso e ad un accordo. Il cardinale Silvio Valenti aveva sottoscritto il protocollo d’intesa per conto della Sede Apostolica, mentre il cardinale Traiano Acquaviva lo aveva firmato, a nome del re di Napoli. Il 2 giugno fu reso noto il testo e da esso apparve chiaramente che risultò assai ridotta la libertà degli uomini di chiesa e  limitata l’immunità dei beni ecclesiastici.

Questa situazione interessava anche la nostra diocesi, per il fatto che della nostra metropolia provinciale, facevano parte anche alcune località dipendenti dal regno di Napoli, come il castello di Colonnella della diocesi di Ripatransone, Faraone e Sant’Egidio alla Vibrata, dipendenti dalla diocesi di Montalto. Molti erano convinti che proprio il cardinale Acquaviva avesse convinto papa Benedetto XIV a ratificare l’accordo, dal momento che il papa gli doveva una qualche gratitudine per il fatto che detto cardinale era stato uno dei principali artefici della sua elezione al sommo pontificato. Invece io ero convinto che Benedetto XIV avesse sottoscritto quell’accordo spontaneamente, essendo convinto che il privilegio dell’immunità fosse divenuta una prassi sorpassata. Del resto egli non era disponibile a lottare continuamente contro la cupidigia del re.

1741.14    Le nuove norme cerimoniali da osservarsi dall’arcivescovo e dal governatore – Non  deve essere limitato l’uso della croce arcivescovile.

Benedetto XIV pose mano ad eliminare le discussioni e le difficoltà che mettevano in campo i presidi delle province, i governatori (che venivano chiamati prelati) e i vice-legati i quali sostenevano che verso i vescovi e gli arcivescovi dello Stato della Chiesa essi non fossero obbligati a rendere il dovuto ossequio, né a partecipare alle loro solenni celebrazioni. A me invero sembrava che sarebbe stato strano che i vescovi, ordinati appunto per il ministero di uomini, ma resi padri e maestri da Cristo le cui veci essi fanno sulla terra, non dovessero essere riveriti e onorati dalle autorità amministrative. In particolare sarebbe stato inspiegabile ed intollerabile che nelle terre della Chiesa, soggette al governo del Romano pontefice che era il primo nell’ordine episcopale, gli altri vescovi fossero considerati inferiori alle autorità o ad una categoria di uomini che in realtà erano soltanto prelati, comparsi solo in tempi recenti e cresciuti nella considerazione pubblica, in disprezzo della divina istituzione episcopale, solo perché avevano avuto il privilegio di indossare il camice corto e le vesti paonazze. E’ pertanto ingiusto che costoro osassero considerarsi uguali o addirittura superiori ai vescovi.[9]

Per impedire ciò, Benedetto XIV il 15 maggio promulgò alcune norme cerimoniali che imponevano ai presidi, ai governatori e ai vice-legati, l’obbligo di rendere il dovuto omaggio ai vescovi e agli arcivescovi. Queste disposizioni, nonostante non prescrivessero in modo esauriente (come era naturale) tutto quello che sarebbe stato necessario prestare alla dignità episcopale, visti i tempi che correvano e lo stravolgimento dei rapporti, furono tuttavia considerate sufficientemente eque. In realtà, tuttavia, le norme che si riferivano agli arcivescovi e a quei vescovi che usufruivano di particolari privilegi, non sembravano adeguate. Ad essi, infatti, non veniva riconosciuto il diritto, allorché si recavano a far visita di omaggio ai cosiddetti prelati (presidi, governatori e vice-legati), di farsi precedere dalla Croce. Con simile prassi, nel caso di Fermo, si ledeva l’antico privilegio della Chiesa Fermana, confermato dal papa san Gregorio VII, in forza del quale i vescovi di Fermo e ancora più gli arcivescovi, nelle circostanze dette sopra e in altre occasioni indossavano il camice corto (o rocchetto) e la veste paonazza; in tali casi essi si dovevano far precedere dalla Croce e tale uso nel passato era stato sempre rispettato. Del resto se esso veniva rispettato quando si trattava della visita ad un principe, perché mai non sarebbe dovrebbe avvenire quando si trattava dei governatori dello Stato della Chiesa? Sappiamo, da san Carlo Borromeo, che il vescovo di Torino fu rimproverato per il fatto che, recandosi in visita dal duca della Savoia, non si era fatto precedere dalla Croce.

Anche per un altro aspetto la norma era contraria alla antica usanza del mio arcivescovato, perché stabiliva che, all’arrivo di un nuovo governatore, la visita di saluto doveva essere fatta dal vescovo in maniera privata o anche di notte. L’antica nostra tradizione invece prevedeva che tale gesto non dovesse essere compiuto necessariamente dal vescovo, ma potesse essere espletato a suo nome anche da un suo nobile familiare. In ogni caso, sia per rispettare la disposizione papale, sia per evitare di compromettere la concordia, non mi opposi alle dette norme cerimoniali, dettate da Benedetto XIV, nella convinzione che, visti i tempi che correvano, ogni contestazione sarebbe stata inopportuna.[10]

1741.15    Carlo Gonzaga governatore di Fermo – Il governatore e il magistrato propongono  discutere del posto loro assegnato nella chiesa metropolitana – Viene assegnato loro  un nuovo posto nella chiesa cattedrale.

All’inizio dell’anno, il governatore di Fermo, Angelo Locatelli Martorelli Orsini, fu trasferito ad Ancona; lo sostituì a Fermo Carlo Gonzaga, già notaio del duca di Mantova. Gli feci visita in privato, ma egli non rispettò il suo dovere di rendermi pubblica visita di omaggio; e ciò non solo era contrario all’antica consuetudine, ma era in chiaro contrasto con le nuove norme cerimoniali. Era evidente che le nuove norme non erano gradite né al nuovo governatore e neppure agli altri prelati del suo grado. Per tale motivo, egli suscitò immediatamente la questione del seggio che era riservato a sé e al magistrato nella chiesa metropolitana. Aveva rifiutato, infatti, il vecchio sito, perché esso era stato collocato sui vecchi banchi fissati al muro, dal lato dell’Epistola, dietro al presbiterio. Sia dal governatore che dal magistrato invece si richiedeva che tale sede loro riservata fosse collocata o a destra o a sinistra del “soglio pontificale”, all’interno del presbiterio. La proposta non era per nulla conveniente; innanzitutto perché il presbiterio non era un luogo destinato ai laici e poi perché le dignità, i canonici e gli altri ministri ecclesiastici non potevano essere sistemati lontano dal vescovo celebrante.

La disputa andava per le lunghe tanto che, in occasione della festa dell’Assunta, accadde che né il governatore né il magistrato furono presenti alle solenni celebrazioni, nonostante che lo Statuto della città avesse disposto che le autorità civili fossero obbligate a parteciparvi. Per questo ho presentato al papa le mie lamentele; egli ordinò a me e alle altre autorità di fissare di comune accordo un sito più idoneo che però fosse fuori dal presbiterio. A questo punto sia il governatore che il magistrato accettarono il posto che avevo loro offerto precedentemente, con la mediazione del vescovo di San Severino. La sede del governatore veniva fissata a fronte alla colonna che era di fronte al soglio pontificale; quella del magistrato era in uno scanno collocato accanto all’altare del Crocifisso, cioè verso il lato dell’epistola dell’altare maggiore, e avanti a questo era collocato l’abaco. I sacerdoti più notabili che avevano la loro sede in quel luogo, furono trasferiti nel lato del vangelo dell’altare maggiore, appresso i prebendati che reggevano il messale, la candela e il pastorale.

Stabilite così le cose e avuta l’approvazione di Roma, il 13 settembre, festa della dedicazione della nostra chiesa cattedrale, durante le celebrazioni pontificali, il magistrato e il governatore furono presenti e occuparono le sedi che erano state loro assegnate. In tale circostanza il magistrato mi presentò le sue scuse per non aver presenziato alle celebrazioni nella festa dell’Assunta.

1741.16    Discussione sulla questione se i canonici con-visitatori per la sacra visita avessero il  diritto a percepire le distribuzioni quotidiane derivanti dalla partecipazione al coro.

       Giovanni Morroni, canonico della metropolitana, nel 1732, aveva ottenuto dalla congregazione dei cardinali interpreti dei decreti del Concilio Tridentino, un rescritto in forza del quale ai canonici con-visitatori, ossia a coloro che aiutavano il vescovo nel compiere la visita pastorale alla diocesi, non era riconosciuto il diritto di percepire le quotidiane distribuzioni corali. Il rescritto era stato concesso il forza di una sentenza emessa nella causa di Genova.

Poiché ciò era contrario all’antichissimo uso in vigore nella nostra Chiesa, e essendo a conoscenza, da una lettera del vescovo di Genova, che i canonici assenti al coro, perché impegnati nell’ufficio di con-visitatori, avevano il diritto di percepire tali distribuzioni, credetti opportuno che non si dovesse abbandonare il tradizionale uso, in vigore nel passato. Nonostante ciò, il canonico Morroni insistette nella difesa della sua opinione e la congregazione accolse la sua richiesta.

Contro di essa, tuttavia, si opponevano non soltanto famosi e seri canonisti, ma anche la funzione propria dei canonici; ad essi infatti si era soliti attribuire il compito di “senato” del vescovo. Ora sarebbe stata inutile tale qualifica, se essi non fossero adibiti a prestare al proprio vescovo la loro collaborazione nell’espletamento di un gravoso dovere quale appunto era la realizzazione della visita pastorale. Se quindi i canonici compivano tale servizio in forza del loro ufficio, non potevano essere penalizzati sottraendo loro le distribuzioni corali quotidiane, se non altro perché nell’espletamento della collaborazione, resa al vescovo, non ricevevano alcun compenso. Comunque, anche se non credevo che la mia opinione rappresentasse una posizione di disprezzo delle decisioni della congregazione e d’altro canto non volendo andare contro il tradizionale uso della Chiesa fermana, decisi di non servirmi più dell’opera dei canonici nel compiere la visita pastorale.

1741.17    Non è consentito concedere la dignità canonicale se non a soggetti idonei per età e per preparazione culturale.

Al presente, dovevamo assistere ad un deplorevole esempio che ci veniva dalla curia Romana. Dionigi Spaccasassi aveva dato le dimissioni dal canonicato di cui era titolare. Immediatamente, senza informarmi e senza avermi rivolto alcuna richiesta di informazione o di assenso, da Roma venne investito di quel beneficio il nipote di Dionigi, che era  Giovanni Antonio ma non aveva la prescritta età canonica, né la necessaria preparazione culturale.

Pertanto inviai una lettera di protesta al cardinale Aldrovandi pro-datario, il quale fruiva di una strana e ampia libertà in materia di nomine ai benefici ecclesiastici. Nella lettera facevo osservare che inutilmente i vescovi si preoccupavano della preparazione culturale del clero e della necessità per i chierici di applicarsi agli studi letterari, se da Roma venivano concessi con tale leggerezza gli incarichi ecclesiastici. Le ottime leggi della Chiesa e gli sforzi dei vescovi non potevano portare alcun frutto se, a causa della leggerezza della curia Romana, gli onori dei benefici ecclesiastici erano accessibili indifferentemente a soggetti capaci e a quelli non idonei. Ciò poteva essere indizio che per Roma sarebbe più importante incassare una pensione di trenta scudi annessa ad un canonicato, che non provvedere la Chiesa di idonei ministri.

1741.18    L’arcivescovo conferisce solennemente il battesimo ad un neofita ebreo.

Trascorse le ferie autunnali, presso la tenuta di San Martino, il 5 del mese ho accolto in duomo, Sabbato Vita, ebreo di Senigallia, venuto per ricevere il battesimo e la cresima. Antecedentemente egli era venuto da me accompagnato dal primicerio Nicola Calvucci, mio vicario generale. In un colloquio con lui, lo confermai nel proposito e nel desiderio di abbracciare la fede cristiana. Lo inviai, quindi, nel convento dei frati Cappuccini, dove ricevette una idonea e accurata preparazione. Padrini del suo battesimo furono lo stesso Calvucci e Cecilia moglie del conte Lorenzo Adami e ricevette i nomi di Claudio, Serafino e Alessandro; padrino della cresima fu Marino Girolamo Catalani.

1741.19    Nuove regole fissate per il collegio Marziale.

Il collegio Marziale, detto della Sapienza, fu istituito a Fermo grazie ad un legato testamentario di Censorio Marziale, cittadino fermano e canonico. Era destinato ad accogliere studenti forestieri per seguire gli studi presso la nostra università.  A causa della indisciplina dei giovani studenti, negli anni passati si erano spesso verificati turbamenti e anche gravi scandali a Fermo. Quest’anno, avevo deciso di riformarne le regole: ai giovani non era più permesso di uscire dal collegio a loro piacimento e da soli, ma soltanto insieme e accompagnati da un prefetto di disciplina. I precettori e gli assistenti, poi, dovevano dimorare nel collegio, si dovevano impegnare a far rispettare un preciso orario e la porta dell’edificio doveva essere sorvegliata e custodita da un portinaio.

1741.20    Vengono sospese le autorizzazioni delle esportazioni marittime dei frumenti, ma quasi  subito vengono ripristinate.

Precedentemente, il papa aveva consentito la libera esportazione dei grani. Nel mese di dicembre però, di fronte al pericolo di un’imminente invasione delle truppe spagnole, sono state sospese le autorizzazioni di esportare i grani per via di mare. Ciò aveva provocato gravi danni per tutta la provincia. Con animo costernato, la popolazione e specialmente i negozianti pubblicamente si era lamentati che era venuta meno la pubblica fiducia nelle transazioni commerciali. Io, che avevo già venduto 500 salme di grano e altre trecento le avevo già consegnate, poiché non potevo più vendere il resto a causa della sospensione di esportare, ero preoccupatissimo.

Sulla vicenda scrissi una lettera al commissario della Camera Apostolica pregandolo di prendere gli opportuni provvedimenti per me e per l’intera provincia. Poco tempo dopo da Roma arrivò un rescritto con il quale dalla sospensione venivano esclusi i contratti già sottoscritti e dopo poco tempo venne abrogata anche la sospensione generale.

1741.21    Il governatore Carlo Gonzaga rende solenne visita di omaggio all’arcivescovo.

Carlo Gonzaga aveva rinviato la prescritta visita di omaggio all’arcivescovo. Finalmente, in questi giorni, ha compiuto il suo dovere in occasione delle imminenti feste natalizie; egli compì la visita solenne a norma delle nuove norme cerimoniali.



[1]  Si ebbe notizia di un tumulto dei carcerati a Castel Sant’Angelo. Non si sa se qui il Borgia si riferisca a tumulti di Trastevere.

[2] Il presente breve paragrafo delle cronache dell’arcivescovo Borgia è di estrema importanza per sottolineare un grande merito da lui acquisito sul piano storiografico, storico e culturale. Procurò una copia manoscritta del codice conservato nell’Archivio Storico di Fermo: Liber diversarum copiarum bullarum, privilegiorum et instrumentorum civitatis et episcopatus Firmi, ms. membranaceo n. 1030, del sec. XIV che era una copia semplice di 442 documenti (a.a. 977-1266 circa). La sua importanza per la storiografia è evidente, infatti lo storico fermano Michele Catalani, nel 1783 lo  aveva posto a fondamento della sua opera che trattava della storia della Chiesa Fermana dal sec. III al sec. XVIII.

[3] L’arcivescovo conosce il registro che raccoglie i più antichi documenti, ma osserva che esso non è facilmente leggibile par la qualità della scrittura, e anche per le condizioni degradate del manoscritto. Riconoscendone l’importanza, prende la  decisione di farne fare una copia che rendesse meglio leggibili i documenti. Così il Catalani si esprimeva, circa trenta anni dopo fatta questa copia:” Fortunatamente l’arcivescovo Borgia, degnissimo di essere ricordato anche per questo, dispose che il Regesto venisse trascritto in modo accurato, rendendosi benemerito per questo della Chiesa Fermana”. Il Catalani stesso dedica a questa importante raccolta di documenti l’intero primo prolegomeno della sua opera: Il Regesto episcopale e altri documenti di cui mi sono servito nella presente opera, in “De Ecclesia Firmana …, trad. E. Tassi,   Fermo 2012, pp. 77-89.

[4] L’intenzione del Borgia di salvaguardare importanti e antichi documenti della memoria storica di Fermo e della Chiesa Fermana, era utile anche per poter disporre di documenti certi e decisivi nel difendere i privilegi e i diritti dell’episcopato Fermano nelle frequenti controversie che aveva dovuto affrontare durante i 39 anni del suo governo dell’arcidiocesi. Per questo ha voluto la trascrizione autenticata con dichiarazione pubblica notarile. La segnatura archivista di questa preziosa copia del Regesto è III-C-2. Si deve peraltro segnalare che nell’archivio arcivescovile esiste un’altra copia manoscritta dello stesso codice,  più antica di circa un secolo, che però era in parte  mutila: segnatura III-C-1. Ricchissima è la bibliografia dedicata a questo codice Fermano. In proposito si veda: M. CATALANI, De Ecclesia Firmana: i vescovi e gli arcivescovi della Chiesa Fermana: commentario secc. III-XVIII, (trad. e note di E. TASSI) Fermo 2012, p. 77, nota 1; D. PACINI, Liber iurium dell’Episcopato e della Città di Fermo (977-1266), vol. I, Introduzione – Documenti 1-144; in particolare pp. XIX-LXXIV.

[5] Alessandro Borgia aveva giudicato di non poter pubblicare la biografia di Benedetto XII durante il pontificato di Clemente XII. Ora è pronto ad accettare con fiducia le discussioni critiche sui fatti del pontificato di Benedetto XIII, senza il rischio di mettere in cattiva luce il papa successore.

[6] Il Catalani nella sua storia della Chiesa Fermana, parlando di San Marone come santo martire del Piceno, lo dice il primo evangelizzatore delle nostre zone. Appoggia la sua tesi appellandosi alla Passio sanctorum Eutychetis, Victorini et Maronis e al Martirologio Geronimiano, dove è riportato al giorno 15 aprile il testo di diciture varie secondo i manoscritti dei codici anturpiense e corbejense:  (Martirio) nel Piceno nell’aureo Monte, di Marone, di Messore, di Proclina (Proclive) di Mosite e di Giocondo. Cfr. “Bibliotheca Hagiographica Latina” dei Bollandisti, Bruxelles 1898-1901 n. 2789, 6058-6067; Acta sanctorum Maii III, Parigi, 1866 pp. 4-16. La tradizione venne esaminata dal Marangoni nella sua opera Delle memorie sagre e civili dell’antica città di Novana, oggi Civitanova nella provincia del Piceno, Roma 1743 pp. 52-57. Secondo questa tradizione Marone sarebbe arrivato qui, mandatovi in esilio a lavorare nei possedimenti di Aureliano al CXXX miliare da Roma. Marone diffuse il vangelo in tutta la zona e vi subì il martirio. Il Lanzoni lo ha definito martire autentico del Piceno. A san Marone Giuseppe Santarelli ha dedicato un intero capitolo nel suo volume Le origini del Cristianesimo nelle Marche. Loreto 2009, pp. 35-56.

[7] Gli atti relativi a questa benefica istituzione sono conservati nell’archivio diocesano con la segnatura archivistica III-F-16: Erezioni di prebende dei poveri fatta a vita sua dall’arcivescovo Borgia secondo gli anni del suo arcivescovado. Nel 1854 la benemerita iniziativa diventerà una stabile istituzione chiamata Asilo dei vecchi poveri.

[8] Sotto questo aspetto sacramentale,  il balzello diventava fastidioso perché rendeva i parroci dei veri e propri esattori di tasse.

[9]  Il tentativo del Borgia di ricondurre il concetto della superiorità della funzione episcopale ad una dimensione religiosa e spirituale, prescinde dall’aspetto umano funzionale.

[10] Il Borgia presta attenzione alle formalità.

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