CRONACHE di Alessandro BORGIA nella Chiesa Metropoli di Fermo, tradotte da Emilio TASSI, anni 1730 1731 1732 1733 1734 1735

ANNO 1730

1730.1    Benedetto XIII consente che Fabrizio Borgia venga consacrato vescovo da suo fratello l’arcivescovo Alessandro.

Mi trattenevo ancora a Velletri, nella attesa che venisse sedata la rivolta popolare, contro l’esportazione del grano, quando Benedetto XIII nominò mio fratello vescovo di Ferentino. Era consuetudine del papa che in occasione della festa del Natale del Signore venisse ordinato da lui qualche nuovo vescovo. A mio fratello avrebbe certamente fatto piacere di godere di tale privilegio; senonché, essendo il papa molto avanzato in età e seriamente ammalato, alcuni dei suoi domestici lo convinsero ad evitare quella fatica, anche perché era opportuno che (Fabrizio) fosse consacrato vescovo dal suo fratello arcivescovo. Benedetto XIII accettò subito dicendo che era lietissimo di darmi una tale soddisfazione. Diede quindi la disposizione di permettere a mio fratello di ricevere da me la consacrazione, dovunque volessi. Desiderando però il papa di tenere comunque la tradizionale ordinazione di vescovi nel giorno del Natale del Signore, dispose di poter conferire lui stesso l’ordinazione episcopale ad alcuni di coloro che erano stati preconizzati nel recente concistoro. I famigli però gli risposero che non se ne restava nessuno, infatti mio fratello sarebbe stato consacrato da me e gli altri si erano preoccupati di cercarsi un altro vescovo consacrante. Così il pontefice fu sollevato dalla grave fatica che sarebbe stata superiore alle sue forze e di cui aveva poco desiderio.

1730.2    L’arcivescovo ordina vescovo di Ferentino, suo fratello Fabrizio Borgia.

Il primo giorno di gennaio pertanto, nella festività della Circoncisione del Signore Gesù, a Velletri, nella chiesa cattedrale di san Clemente, ho consacrato mio fratello Fabrizio Borgia vescovo di Ferentino, avendo, come con-consacranti, mons. Antonio Cremona Valdina vescovo di Ermopoli e Gaetano De Paolis di Velletri vescovo titolare Caradiense e ausiliare del vescovo di Velletri, nonché arciprete della stessa chiesa cattedrale. Tale rito di consacrazione era sconosciuto nella mia città, poiché dai tempi del papa Lucio III, cioè da oltre cinque secoli, non esisteva memoria di tale evento.

1730.3    Morte di Benedetto XIII.

Benedetto XIII mi permise di restare a Velletri, fino alla quaresima. Nella domenica di sessagesima, mi recai a Roma, dove venni a sapere che il papa era in fin di vita. A Roma, a causa della siccità della precedente estate e dell’insalubrità dell’aria nell’autunno, si era diffusa un’infezione da cui derivava un pericoloso flusso di catarro, esiziale per le persone molto anziane. Benedetto, incurante dell’inclemenza del tempo, il 15 febbraio aveva celebrato, nel tempio di sant’Agostino, il rito funebre del cardinale Marco Antonio Ansidei, rito che per i cardinali residenti a Roma spetta essere celebrato dal papa. A causa di ciò, colpito da una lenta febbre, il 21 febbraio, martedì prima delle Ceneri, alle ore 16, morì, più che ottuagenario.

Se volessi descrivere ciò che accadde a Roma, per colpa degli avversari del pontefice, contro ogni legge umana e civile e di cui sono stato testimone, contro i familiari e i collaboratori del papa, dovrei ampliare eccessivamente l’ambito di questa cronaca. Tratterò tuttavia brevemente di alcuni episodi che interessavano anche la nostra storia. Nel raccontare questi eventi però nel libro della biografia di Benedetto XIII, mi sono astenuto da notizie, per non offendere la sua memoria.[1]

1730.4    Viene data la caccia ai famigliari e ai sostenitori del papa Benedetto XIII.

In quella esasperazione degli animi fu commesso un grave crimine contro la Chiesa di Roma e si offrì un pessimo esempio ai posteri. Infatti vennero gravemente insultati i famigliari e i collaboratori del pontefice, i cardinali insigniti della sacra porpora furono ricercati e vennero assaltati violentemente con le pietre e il fuoco i palazzi e le case in cui abitavano, con gli insulti, minacciati di morte e costretti alcuni a fuggire, altri a nascondersi per salvarsi. Sconvolta la città con tali manifestazioni di rivolta, i sediziosi si accanirono non solo contro i famigliari del papa, ma aizzarono il popolo anche contro le persone provenienti dalla città e dal territorio di Benevento e che dimoravano a Roma e avevano ottenuto incarichi e benefici dalla generosità del defunto pontefice. Il furore popolare si accanì anche contro di loro.[2]

1730.5    I fatti accaduti a Roma dopo la morte del papa.

A stento si trovò chi si impegnasse a frenare e sedare le manifestazioni di violenza. I cardinali del sacro collegio, erano del parere che il furore popolare sembrava sospetto, come se fosse stato incoraggiato proprio da quelli ai quali spettava il compito di evitare che nascesse quella rivolta. Sparsa la malevola notizia che da parte della autorità pubblica si dava corso immediato ai provvedimenti presi per bontà da Benedetto XIII a favore di alcuni suoi amici, approfittando del fatto che nel periodo dei solenni funerali in suffragio del papa, tutti erano impegnati a celebrare la memoria delle attività svolte dal pontefice, si prese l’iniziativa di istituire degli strani tribunali per revocare gli atti e i decreti di Benedetto XIII, costringendo determinati giudici a sospendere o annullare o ad affidare, all’arbitrio del papa futuro, l’esecuzione o la sospensione di molti degli indulti concessi dal defunto papa o dai suoi ministri. Ciò era naturalmente in dispregio di quanto era stato stabilito dalle costituzioni di Pio IV e degli altri pontefici che disponevano che nel periodo di vacanza della Sede Apostolica, neppure i cardinali potessero intervenire sulle questioni che spettassero al Romano pontefice in materia di grazia e di giustizia, dal momento che il compito di esaminare le questioni spettava esclusivamente al nuovo pontefice.

1730.6    Il presidente dell’annona di Roma rescinde il contratto di acquisto del grano.

Frattanto il presidente dell’annona di Roma, in forza di un decreto emanato dai cardinali capi dei tre ordini: dei vescovi, dei presbiteri e dei diaconi, insieme con il camerlengo, mi comunicava di restituire una parte del denaro pagato dall’annona per il grano acquistato da parte del Governo centrale dalla mia mensa arcivescovile, grano già partito dal Porto di Fermo e trasferito ad Ancona. Del frumento facessi quello che volevo. Di questo mi lamentai con lui, perché si andava contro la promessa con la quale, come presidente dell’annona, si era impegnato a far esportare il frumento e protestai con lui che, per il solo variare della situazione alla morte del papa, col passar del tempo si potessero non rispettare più gli impegni presi e stracciare i contratti regolarmente stipulati. Questo fatto stava causando a me un grave danno. Dichiarai pertanto che le leggi della giustizia non possono mutare col variare del tempo e che l’osservanza delle promesse pattuite deve restare santa e immutabile. Fu tutto inutile; e, sulla forza del diritto, prevalse l’insana passione di cancellare tutto ciò che era stato disposto dal defunto pontefice. Da Roma mi si fece notare che il prezzo del grano era fortemente diminuito.[3]

Riuscii ad ottenere comunque di non restituire il denaro richiesto, fino a quando io non avessi venduto il frumento e solo dopo che mi venisse concessa l’autorizzazione di esportare, dovunque volessi, il grano che ancora si trovava ad Ancona, poiché una disposizione di Pio IV proibiva al collegio dei cardinali di concedere alcuna licenza di esportazione durante il periodo della sede vacante. Comunque nel mio caso si era perpetrato un atto illecito <invalido>, non consentito dalla legge. Le cose che non erano da rescindere ora venivano rescisse e viceversa.  A causa di tutto ciò fui costretto a cercarmi un altro acquirente ad un prezzo molto inferiore e per aggiunta sottraendo dal ricavato, quel denaro che era stato pagato dall’annona romana per il trasferimento del grano dal Porto di Fermo a quello di Ancona. In conclusione il frumento fu venduto ad un prezzo dimezzato rispetto ai sei scudi preventivati per ogni salma (= rubbio).

1730.7    Discorso “De eligendo Summo Pontifice” pronunciato da Lanfredini – Il felice                  pontificato di Benedetto XIII.

Terminate le celebrazioni novendiali, il discorso sull’elezione del nuovo Papa fu tenuto da Giacomo Lanfredini; fu un’orazione solenne e elegante. In essa l’oratore sottolineò due punti riguardo al defunto pontefice che dovevano attirare l’attenzione dei cardinali e fu ascoltato per lo studio di entrambi.

Il primo punto si riferiva al fatto che colui che doveva essere eletto non avrebbe dovuto concedere benefici al vecchio gruppo di collaboratori, quasi che Benedetto XIII avesse dato tutti i favori soltanto ad alcuni, cosa lontana dalla realtà. Se infatti si prendevano in considerazione i cardinali che egli nominò e coloro ai quali furono assegnati uffici e benefici, la più parte di essi erano stati nominati e scelti non soltanto da Benedetto, ma specialmente dai suoi predecessori, come ad esempio i cardinali Paolucci, Corradini e Olivieri che ebbero sotto Benedetto gli stessi incarichi ed onori esercitati precedentemente.

Il secondo punto, trattato dall’oratore, più ampiamente, fu che gli affari della Sede Apostolica erano peggiorati  e aggiunse “come voi ben sapete”. Quest’ultimo inciso, però, giustamente fu cancellato nella copia data alle stampe e ben a ragione. Infatti, mai come al tempo di Benedetto XIII, la situazione della Sede Apostolica e del suo potere e dell’ intera cristianità si svolse tanto felicemente. La fede fu diffusa nel mondo, fu restituita dignità al corpo episcopale, furono eliminati molti ostacoli che da parte della curia Romana si frapponevano al governo dei vescovi, allontanando il sospetto di ogni partigianeria, fu confermata la pace tra i principi cristiani, fu recuperata la zona di Comacchio, furono diminuite le imposte nei confronti dei sudditi. Di tutto questo e di molto altro ancora ho parlato ampiamente nella biografia di papa Benedetto XIII da me scritta.

1730.8    Il pubblico erario è diminuito sotto Benedetto – Come fare ad accrescerlo senza                  aumentare le tasse.

Probabilmente le parole dell’oratore erano provocate dal fatto che le risorse dell’erario erano effettivamente diminuite, oppure il giudizio era suggerito dall’invidia per le ricchezze acquisite dai famigliari del pontefice. Sta di fatto che l’impoverimento delle risorse dell’erario è stato causato dalla diminuzione delle tasse (=entrate), non dalle spese del pontefice o dalle troppo generose elargizioni fatte da lui. Egli infatti contenne le spese quanto più poté, abolì ogni lusso nella corte e ogni splendido apparato nel palazzo, aborrendolo. All’inizio del suo pontificato attinse all’erario pubblico avendo fissato i pubblici stipendi per tutti coloro che, addetti ai pubblici uffici nella curia Romana, erano sforniti di qualsiasi stipendio e per altre giuste cause.

Si preoccupò, prudentemente, che la diminuzione dell’erario dovuta ad altre cause e alla diminuzione dei contributi dei sudditi, venisse gradualmente superata col passare del tempo. Facilmente infatti si sarebbe potuto rimpinguare l’erario, mediante la nuova imposizione dei balzelli che il Papa aveva abrogato per sollevare le condizioni della gente, oppure con l’introduzione di nuovi strumenti per diminuire le distribuzioni del danaro ai sudditi. Tuttavia egli preferì avere un erario leggero, piuttosto che togliere il danaro ai sudditi.  Sapeva infatti che il fisco è come la milza per il corpo: più diventa grande, più il corpo diminuisce. Così pure quanto più l’erario aumenta, a causa dei balzelli, tanto più la ricchezza dei sudditi e dell’insieme della società è destinata a diminuire. A nessun principe accadeva che l’aumentare dell’erario non intacchi la ricchezza dei sudditi, a meno che non si mettevano in atto per lungo tempo dei risparmi oppure non si alimentassero i commerci o non venissero incrementate le attività artigianali o agricole, oppure scoperte miniere da cui poter estrarre metalli, pietre ed altri materiali preziosi. In ogni altro caso alla ricchezza del principe e dell’erario pubblico, corrispondeva la pubblica indigenza. Se poi nel passato non si trovavano abbastanza esempi di questo fenomeno, nel tempo in cui regnò Benedetto XIII quello che avvenne, dimostrava in modo palese la verità dei fatti.

Nel nostro tempo ci si è rammaricati per il fatto che, nonostante siano aumentati i contributi dovuti all’erario pubblico e che si siano aggiunte nuove tasse, l’erario non si sia accresciuto. Sta  di fatto che le pubbliche calamità che si sono verificate e i grandi e suntuosi edifici ai quali, sotto l’aspetto di pietà o di necessità, i sommi pontefici hanno affidato la loro grandezza con il desiderio di tramandare ai posteri la loro memoria, hanno consumato ogni ricchezza, a tal punto che troveresti molti che hanno aumentato i balzelli, ma ne troveresti pochissimi che hanno consegnato ai successori un capitale più ampio di quello che essi hanno ricevuto dai predecessori, e questo sia a causa che questo principato ecclesiastico è elettivo e non ereditario, sia per qualsiasi altra ragione.

1730.9    I parenti non sono stati resi più ricchi da Benedetto XIII – Per quale ragione è lecito ai   pontefici di aiutare i familiari.

Riguardo poi alla falsa accusa rivolta contro papa Benedetto XIII, secondo la quale egli avrebbe distribuito ai propri familiari grandi ricchezze, se si considerasse l’accusa a lui rivolta con occhio equanime, si troverebbe la  giustificazione del fatto: era infatti certo che egli non aggiunse nulla a favore dei suoi consanguinei in quanto essi, appartenendo all’alta nobiltà beneventana e per questo già ben forniti di beni propri e possedendo perfino ricchi feudi, non avevano bisogno di altro.

Quanto poi fosse ingiusta l’incriminazione nei confronti dei suoi collaboratori, lo dimostrava la superficialità di coloro che l’avevano formulata, se si eccettuassero, specificamente, le accuse che si riferivano al cardinale Nicola Coscia. In ogni caso le ricchezze, di cui si parlava, non erano comparabili a quelle che, nei tempi passati, erano state ammucchiate da consanguinei, affini, ministri e parenti di altri pontefici. Di ciò restano, come testimonianza, le piazze, i templi, i palazzi costruiti a Roma con splendore regale. Questa considerazione, anche se richiederebbe una certa prudenza e moderazione, tuttavia, se la accogliessimo con attenzione, troverebbe la sua giustificazione. Infatti, essendo la dignità pontificale per lo più di breve durata, e alla fine di tale mandato, rimanevano sempre sentimenti di ostilità, mentre raramente rimaneva il ricordo del bene fatto, non sembrava che potesse essere considerato disdicevole, per un papa, il fatto di aver lasciato ai propri parenti (spesso fatti oggetto di disprezzo e di invidia da parte di molti) alcuni beni di fortuna che permettessero a loro di tornare alla condizione di prima, in modo che, alla morte del pontefice, per la fedeltà per la quale essi furono invisi dai più, e apprezzarti da pochi; essi fossero costretti o a mettersi al servizio di altri o a chiedere  favori e benefici al nuovo papa, dal quale difficilmente li avrebbero potuti ottenere. Infatti era dovere di carità e di giustizia che il pontefice provvedesse prima ai suoi congiunti che agli estranei.[4] Neppure un ottimo principe può lasciare tutti soddisfatti. E la cupidigia porterebbe molti a contendere e chiedere ciascuno (e gli altri), la stessa cosa per cui nessuna amministrazione potrebbe evitare i contrasti.

1730.10   Per quale ragione i collaboratori e gli amici di Benedetto furono oggetto di tanta   invidia.

Alla elezione a pontefice di Benedetto XIII, avendo egli trascorso la maggior parte della sua vita fuori di Roma, i più supponevano che i suoi familiari e amici non sarebbero stati chiamati nella capitale. E ciò forse sarebbe stato anche opportuno, per garantire il buon governo e per evitare le immancabili cupidigie provocate dal desiderio del potere. Tale aspettativa andò, come prevedibile, delusa e per tale ragione nacque una forte ostilità contro i collaboratori di Benedetto.

1730.11   Accuse formulate contro il cardinal  Nicola Coscia.

Contro i ministri e i familiari del papa, e in particolare contro il cardinale Coscia, venivano lanciate gravi accuse. Contro quest’ultimo, infatti, quanto più egli era nelle grazie del pontefice, tanto più diventava oggetto di invidia da parte degli altri. L’accusa era quella di aver agito con eccessiva discrezionalità, e con leggerezza e al di fuori delle norme vigenti, nel distribuire compiti ed uffici della camera Apostolica. E tutto ciò sembra che avvenisse dietro il pagamento di somme di denaro che non venivano accreditate nelle casse della camera Apostolica, ma venivano incamerate a profitto dello stesso cardinale. Orbene, pur essendo tale prassi contraria alle leggi divine ed ecclesiastiche, poiché la carica di guidare la camera Apostolica, almeno fino ad Innocenzo XII, si otteneva dietro il pagamento di ingenti somme di denaro e ciò avveniva in modo palese, non sembrava assurdo che il cardinale Coscia, se presumeva il benestare del papa, avesse trattenuto per sé parte delle somme pretese per distribuire uffici e benefici. Qualsiasi uomo intelligente infatti si accorgeva che qualcosa di simile accadeva anche nella reggia dei sovrani laici. In considerazione della fiducia che un ministro riscuoteva presso il principe e in considerazione dei meriti acquisiti dallo stesso, egli facilmente potrebbe credere che fosse a lui consentito di fare qualsiasi cosa nella convinzione che ciò che decideva era utile e che il pubblico bene dello Stato, doveva essere anteposto ad ogni interesse privato. Ora era sommamente augurabile che questo accadesse, ma raramente era lecito sperarlo. Non vivevamo, infatti, tra esseri perfetti, soprattutto se considerassimo che la mole degli interessi si riferiva non ad uno o ad un altro o a pochi distintisi per meriti acquisiti, ma riguardava un gran numero di persone. Spesso infatti si incontrava gente che parlava del bene comune, della pubblica utilità, del bene delle persone e assicuravano di garantire tutto ciò con la propria attività, mentre invece il più delle volte ciò che ricercavano era solo il proprio interesse nel trattare i pubblici negozi o quanto meno non si preoccupavano minimamente che il proprio tornaconto coincida col bene comune.[5]

1730.12    Proprio coloro che hanno sperimentato la liberalità di papa Benedetto, ora lo                     accusano  di eccessiva generosità.

Certo, caro lettore, ti meraviglierai che proprio coloro che si dicevano scandalizzati della generosità dimostrata da Benedetto verso i suoi familiari e clienti, erano proprio coloro che avevano direttamente sperimentato la sua liberalità, coloro che da lui avevano ricevuto onori e benefici o che se li sono visti restituire. Infine proprio quel popolo che Benedetto con paterna carità aveva sempre beneficato e che aveva aiutato, quando era maggiormente oppresso da gravi imposte, malediceva quell’uomo e se la prendeva con i suoi familiari. I posteri considereranno come l’odio sia prevalso sulla fedeltà mentre egli era liberale nel diminuire le entrate erariali.

1730.13    L’arcivescovo dona alla sua Chiesa vesti liturgiche e paramenti – Riunione dei vicari   – Consacrazione della chiesa di Mogliano Marche – Consacrazione di altari mobili.

Mentre A Roma accadeva tutto ciò, io,  profondamente scosso per le scelleratezze, il 21 marzo lasciai l’urbe per ritornare a Fermo e il 24 dello stesso mese ho donato alla chiesa metropolitana quattro dalmatiche e altrettante tonacelle di colore bianco in seta intessute con fili di argento, con galloni d’oro e un piviale dello stesso tipo, con un fascione aggiunto, finemente ricamato. Tutto ciò è stato da me acquistato a Roma per una spesa di 240 scudi d’oro.

Dopo aver celebrato in città le feste pasquali e dopo aver svolto la riunione dei vicari della diocesi, il giorno 11 di maggio a norma del cap. XXIX del sinodo diocesano fermano, mi sono recato all’abbazia di San Claudio per promulgare l’indulto di Benedetto XIII che consentiva di celebrare l’ufficio di San Claudio, comprotettore della nostra diocesi. Mentre mi trovavo ancora lì, il giorno 22 maggio verso le quattro del pomeriggio si è verificato un terremoto che per fortuna non provocò alcun danno.

A San Claudio ho saputo che tutti coloro che avevano partecipato alla sommossa, ed erano stati  arrestati dal commissario Apostolico a causa della rivolta avvenuta nel Porto di Fermo, il camerlengo di Santa Romana Chiesa, al quale la causa era stata demandata dal sacro collegio <dei cardinali>, li aveva fatti liberare. Io me lo ero augurato, ma avrei desiderato che ciò fosse stato motivato con più giuste ragioni. Per impedire in seguito sommosse popolari e per rendere più sicure le esportazioni di grano; è stato comunque deciso di conservare nella rocca del Porto di Fermo un presidio militare e la cosa risultò molto utile.

In seguito sono andato a Mogliano dove ho consacrato anche la chiesa della principale parrocchia dedicata alla Vergine Assunta e a san Lorenzo martire, il giorno 18 maggio, mentre il giorno 21 ho consacrato un’altra chiesa dedicata alla beata Vergine Maria, appartenente alla confraternita del Suffragio insieme all’altare maggiore e agli altri altari. Il giorno 4 giugno ho celebrato un’altra consacrazione di molti altari portatili nella chiesa metropolitana,  giorno della festa della Trinità.

1730.14   Elezione del papa Clemente XII – Egli molto deve a Benedetto XIII – Il nuovo papa non   condanna i tumulti avvenuti a Roma – Tuttavia avverte i suoi familiari dei pericoli che   essi corrono.

Nel frattempo, era ancora ritardata l’elezione del nuovo papa, più per le fazioni esistenti in seno al collegio cardinalizio, che per i contrasti tra gli Stati. Finalmente si trovò l’accordo sul nome del cardinale fiorentino Lorenzo Corsini, vescovo di Tuscolo che venne eletto il giorno 12 luglio e prese il nome di Clemente XII, nome scelto in memoria di Clemente XI Albani che lo aveva elevato alla porpora nel suo primo concistoro, mentre ricopriva la carica di tesoriere della camera Apostolica. Molti si aspettavano dal nuovo pontefice che egli condannasse le gravi sedizioni occorse a Roma e punisse gli autori colpevoli dei tumulti che erano stati organizzati contro i  famigliari e gli amici del defunto pontefice Benedetto XIII. Il nuovo papa avrebbe dovuto farlo, sia perché questo appariva come un atto di giustizia, sia per evitare che tali episodi si verificassero in seguito contro i familiari e gli amici suoi. Di fatto non si ebbe alcuna condanna, nonostante che Clemente dimostrasse un animo retto ed equanime e anche perché egli doveva essere riconoscente a Benedetto XIII, dal quale aveva ottenuto l’importante incarico di prefetto del tribunale della Segnatura e dal quale un suo nipote per parte della sorella era stato nominato vescovo di Arezzo ( in Etruria). Nessuna decisione egli prese in proposito, forse perché, come comunemente si vociferava, nell’elezione a pontefice egli si era impegnato ad istruire un’inchiesta giudiziaria nei confronti del cardinale Coscia e contro i suoi amici sulle questioni amministrative relative alla conduzione degli affari di Stato; oppure, come molti sospettavano, per ingraziarsi il favore popolare. Pertanto nulla fu deciso contro i tumulti e le violenze commesse contro la dignità e la libertà dei cardinali e contro la memoria del pontefice scomparso; ma non solo contro i cardinali, anche contro i congiunti di Benedetto e soprattutto contro lo stesso cardinale Coscia, il quale durante la rivolta aveva dovuto subire gravissime ingiurie e rischi, anzi la violenza di una ingiusta sentenza venne subita anche dal fratello vescovo  di Targe.

In seguito poi, dopo aver costituito uno strano tribunale speciale detto de nonnullis, la maggior parte dei familiari di Benedetto furono condannati a varie pene e negli anni seguenti lo stesso cardinale Coscia e il vescovo suo fratello furono rinchiusi a Castel Sant’Angelo. Non è però il caso di aggiungere altre cose. E’ tuttavia necessario fare due osservazioni su tutta questa penosa vicenda: anzitutto, nulla fu contro la santità e la integrità della persona di Benedetto XIII; la seconda è il fatto che la stessa sentenza emessa contro il cardinale Coscia, indirettamente, dimostrava quanto false fossero le accuse a lui contestate. Esse infatti si riferivano soprattutto all’ufficio di tesoriere generale della camera Apostolica che fu assunto, a suo nome da Nicola Nigroni, col patto che versasse la somma di ventimila ducati e, versata metà della somma, Nigroni differiva il versamento della somma totale. Il cardinale Coscia aveva rivendicato decisamente la consegna del denaro restante. Tale fatto fu ritenuto illegale in quanto si sarebbe contravvenuto alla costituzione di Alessandro VII intitolata de datis et acceptis in quanto vi si configurava il delitto di concussione.[6]

1730.15    Morte di Alessandro Marucelli – Francesco Durino, nominato governatore di Fermo  – Rende solenne visita di omaggio all’arcivescovo.

Torniamo a noi! Il nuovo pontefice, fiorentino, aveva chiamato a Roma Alessandro Marucelli, anch’egli di Firenze, che era stato, fino a quel momento, governatore di Fermo, e gli aveva affidato l’incarico di prelato votante della Segnatura Apostolica, incarico che egli ben presto lasciò per ritirarsi a vita privata. Al suo posto, ottenne la nomina di governatore di Fermo il milanese Carlo Francesco Durino che sempre fu deferente verso di me e infatti si affrettò a rendermi subito la sua visita ufficiale di omaggio. Io, peraltro, gli avevo fatto la visita in forma privata la sera della sua venuta a Fermo per informarmi sulle sue condizioni di salute.

1730.16   Visita alle chiese rurali nel territorio di Fermo – Simone Battirelli viene nominato  Cancelliere – Istituzione della prebenda teologale a Civitanova, ad Amandola e a  Sant’Elpidio a Mare – Consacrazione della chiesa dei santi Angeli a Fermo                    – Benedizione della piccola chiesa di san  Francesco Borgia a Moresco.

In questo anno ho compiuto la Visita a tutti quei luoghi che non avevo ancora visitato e mi sono recato nelle chiese suburbane e rurali del territorio della Città. Al posto di Giovanni Battista Gallo, nominato alla pievania di Torre San Patrizio, ho nominato mio cancelliere Simone Battirelli di Ripatransone. Egli prese possesso dell’incarico, il giorno 1 di agosto. Il 6 settembre ho istituito nella chiesa di san Paolo, collegiata di Civitanova, un canonicato con prebenda teologale e vi ho nominato Nicasio Tassoni che era stato vicario generale nella diocesi di Ferentino sotto il vescovo predecessore di mio fratello. A questo canonicato, il 7 febbraio, ho unito anche il beneficio della prebenda di San Martino esistente nella stessa cittadina. In precedenza avevo istituito altre prebende teologali nella collegiata di San Lorenzo di Amandola e in quella di Sant’Elpidio a Mare.[7]

E’ stato sempre un mio desiderio non soltanto di esortare il clero a leggere la Bibbia, ma anche, istituendo all’uopo delle prebende teologali, costringere i sacerdoti a studiare e approfondire la conoscenza delle sacre Scritture, con premi. Nei principali castelli della diocesi ho eretto altre prebende teologali con i liberi benefici riservati alla dataria Apostolica.

Il giorno 30 novembre ho consacrato la chiesa dei santi Angeli Custodi, da poco tempo fatta costruire a cura della omonima confraternita e anche l’altare maggiore.

L’8 dicembre Annibale Brancadoro canonico della Metropolitana, per delega da me concessa, benedisse una piccola chiesa in onore di san Francesco Borgia nel castello di Moresco.

1730.17   Morte di Virginio Provenzali teologo dell’arcivescovo.

Il 4 novembre morì, all’età di settanta anni, Virginio Provenzali, patrizio di Lucca e appartenente alla Compagnia di Gesù, teologo arcivescovile. Da venti anni aveva insegnato teologia morale nel collegio gesuitico di Fermo. Ammirevole per cultura e onestà di vita, aveva ottimamente formato molti giovani del clero diocesano e aveva svolto in modo lodevole l’ufficio di teologo arcivescovile anche per l’arcivescovo mons. Girolamo Mattei. Credetti opportuno darne pubblica notizia al clero, affinché quelli che lo ebbero come ottimo maestro, compissero nei suoi confronti il dovere del cristiano suffragio. Nominai nel servizio di teologo arcivescovile il gesuita Gentile Maria Bilieni di Foligno.

1730.18    La villa di San Martino nei pressi di Fermo restaurata e scelta dall’arcivescovo come   luogo di villeggiatura e di quiete.

Fin dall’inizio del mio episcopato fermano, mi ero riproposto di approntare per me un luogo di riposo, nei luoghi di proprietà della mensa episcopale. San Claudio appariva un luogo insalubre e parimenti Santa Croce e oltretutto ambedue erano molto distanti dalla città. Non c’erano locali adatti a Grottazzolina, né a Monteverde.

I miei predecessori non avevano trovato altro luogo di villeggiatura se non nel Porto di Fermo; ma esso a me non piaceva perché non era abbastanza quieto e non era possibile evitare l’eccessivo affollamento. Alla fine scelsi, come luogo di riposo, una zona di proprietà della mensa, distante un miglio dalla città, dove si vedevano ancora i resti dell’antico tempio di San Martino. Si dice che lì sorgeva anche un monastero soggetto al cenobio di Santa Croce, esistente tra il Chienti e l’Ete. I ruderi e i documenti storici attestano che il complesso degli edifici era di una certa importanza e che era adibito dagli antichi vescovi, come luogo per il loro riposo. Con l’andar del tempo, però, gli edifici che erano ancora in piedi erano stati concessi ad uso degli agricoltori della zona, i quali li avevano ridotti in rovina, come spesso accade.

Il posto mi piacque, per cui ho deciso di bonificarli, e restaurarli separando quelli per l’arcivescovado da quelli che erano necessari alle abitazioni degli agricoltori. Nell’anno corrente è stato realizzato il restauro della maggior parte dei fabbricati; nell’anno successivo l’opera venne completata e così ho potuto inaugurare il luogo destinato alla villeggiatura dell’arcivescovo.

Certamente la vicinanza della città, la salubrità dell’aria, l’ amenità del luogo, l’ampio spazio di terra che misura circa cinquanta salme, cioè circa duecento iugeri, la maggior parte occupata da alberi di ulivo, l’abbondanza dell’acqua e la vicinanza del corso del fiume Ete, rendevano il luogo molto appetibile e da me preferito.  Al fine di ricordare ai posteri l’opera realizzata ho fatto incidere una lapide posta nella parte interna dell’ingresso principale e che dice: ALESSANDRO BORGIA  \  ARCIVESCOVO e PRINCIPE di FERMO  \  GLI EDIFICI ROVINATI E FASTISCENTI  \  RESTAURO’ NELL’ANNO 1730[8]

1730.19   Trasferimento degli atti dei benefici della Curia.

In questo stesso anno ho fatto trasferire gli antichi documenti degli atti dei benefici della Curia arcivescovile dai locali più bassi, dove giacevano disordinati e trascurati, al piano superiore in uno spazio attiguo all’archivio che avevo preparato nel 1728. Li ho fatti riporre in grandi credenze lignee e li feci ordinare secondo l’ordine dei paesi della diocesi.[9] In tal modo andai incontro al desiderio dei Fermani e di tutta la popolazione della diocesi. Spesso infatti venivano avanzate lamentele che i documenti relativi ai benefici di patronato erano introvabili perché disordinati o dispersi. Da tali documenti molto importanti dipende, infatti, la dimostrazione dei diritti di patronato che appartengono a molte famiglie che hanno fondato, in tutta la diocesi, chiese e benefici ecclesiastici.

ANNO 1731

1731.1    Si tenta di cancellare ed abolire tutte le decisioni di papa Benedetto XIII.

La curia Romana fu presa dalla strana smania di abolire tutto ciò che Benedetto XIII e i suoi collaboratori avevano deciso o avevano concesso. Spesso accadeva (specialmente allorché la mole delle decisioni prese era grande) che molte di esse fossero soggette a critiche e ad avversione per il fatto che fossero state stabilite o concesse senza matura riflessione, tuttavia la maggior parte di esse erano utili e giustificate. Comunque, venivano tutte messe in discussione e con estrema superficialità moltissime di esse venivano disapprovate, revocate, annullate o ridotte. Tra tutti questi provvedimenti, molti a Roma tentavano di abolire decisioni prese da me o concesse da papa Benedetto XIII, riguardanti la nostra diocesi. Costoro pensavano, di essere autorizzati a fare tutto ciò, a causa della tristezza dei tempi.[10] Faccio alcuni esempi. Il trasferimento di una parrocchia da Montolmo al villaggio di Colbuccaro, da me stabilito nella visita pastorale, come ho avuto l’occasione di ricordare in questa cronaca alla fine dell’anno 1725; la creazione di un nuovo canonicato nella collegiata di Morrovalle, con l’obbligo di coadiuvare nell’attività pastorale il parroco della stessa collegiata, nell’anno 1726; le decisioni prese da papa Benedetto a favore di Civitanova al fine di provvedere alla tenuità delle prebende canonicali della collegiata di San Paolo, come io stesso ho accennato sopra all’anno 1728; tutte le controversie sostenute con ingenti spese, affinché nulla fosse abolito dalla curia Romana delle decisioni precedentemente prese. In questi tempi e specialmente in questi ultimi anni di tutto ciò si è ampiamente discusso, ma in sostanza tutto è rimasto immutato.

1731.2    I Tesorieri del Piceno di nuovo impugnano il diritto dell’esportazione dei grani                 – Clemente XII permette l’estrazione in un primo tempo dietro un tenue pagamento di  una tassa, in seguito gratuitamente – Vengono attaccati i beni della mensa arcivescovile.

Poiché si era sparsa tra il popolo la diceria che la curia Romana era decisa a contrastare i diritti dei vescovi, non si può neppure immaginare quanto ardire presero coloro che volevano favorire i propri interessi ai danni dei beni ecclesiastici. Contro i diritti della mensa arcivescovile, molti a Roma dedicavano tutti i loro sforzi. I tesorieri della provincia Picena cercarono di riprendere la controversia, già perduta, sull’affare della esportazione del frumento. Il tentativo fortunatamente è stato sventato per l’intervento dell’uditore del papa, avvenuto il 26 aprile. La mensa episcopale, in ogni caso, poté esportare una modica quantità di grano, dal momento che papa Clemente XII non volle concedere che l’esportazione del frumento potesse essere fatta gratuitamente, come avevano fatto i suoi predecessori nei confronti della nostra mensa arcivescovile. Fu versato un modico prezzo a Roma, a cura dell’agente dei nostri interessi presso l’amministrazione di Roma. Il 16 aprile tuttavia abbiamo avanzato ricorso contro l’insolito versamento. Poco tempo dopo, il papa Clemente cambiò opinione e non soltanto consentì a me e a tutti coloro che nel passato avevano goduto di tale privilegio, la facoltà di esportare in seguito il frumento; lo estese anche a coloro che non avevano mai avuto alcuna esenzione, specialmente dopo che furono riconosciute l’immunità e la libertà al porto di Ancona. Il papa riconobbe allora la necessità di consentire a tutti la possibilità del libero commercio del grano, dopo aver considerato la grande utilità che ne sarebbe derivata per tutta la provincia.

Ma i tesorieri e la comunità di Montolmo <= Corridonia> cercavano di ostacolare l’attività del mulino della mensa a San Claudio. Domenico Mezzoprete, originario dell’Abruzzo, inoltre, tentava di usurpare tutti i beni della mensa esistenti nel castello fermano di Francavilla. Altri poi, desiderosi di appropriarsi dei possedimenti della Chiesa Fermana, trovavano benevolo ascolto e appoggio presso la curia Romana, mentre erano da respingere. Delle controversie contro di tutti costoro tratteremo in seguito a suo luogo.

1731.3    Viene suscitata la controversia sul diritto di cattedratico[11] – Parere e proventi derivanti  da tale diritto.

Insorse nei miei confronti una lunga e molto fastidiosa controversia sul diritto di “cattedratico”; infatti dopo che adottai nel Concilio provinciale di Fermo la disposizione contenuta nel Concilio romano, tutte le chiese e i benefici ecclesiastici della diocesi di Fermo erano stati tassati conformemente a ciò che era previsto in quello Romano. La misura del tributo peraltro era stata fissata con grande moderazione e larghezza e non sulla base dell’effettivo valore dei proventi, piuttosto secondo quanto fissato a discrezione degli stessi beneficiati.

Secondo il vecchio uso, alcune chiese  e benefici versavano come cattedratico all’arcivescovo una somma superiore a quella fissata dal Concilio romano, altre calcolando in modo errato il valore della antica moneta, pagavano una cifra inferiore, la maggior parte però non versava alcuna somma. In modo particolare esistevano chiese e benefici la cui concessione apparteneva per diritto generale al capitolo della chiesa metropolitana, come dicevano, e che dipendevano dallo stesso capitolo in forza dell’annessione anticamente fatta dell’abbazia di San Savino o del priorato di San Pietro vecchio e di quello di Santa Maria a Mare alla mensa capitolare o comunque appartenenti al capitolo.

Esistendo tutte queste diverse situazioni, fu riesumata l’antica controversia e fu eletta anche a Roma un’apposita Congregazione di cardinali al fine di decidere sul diritto di cattedratico. Essa aveva deciso che si dovevano rispettare le vecchie tasse come erano state fissate per tutte le chiese e i benefici secondo i vecchi criteri. Per tutti gli altri si doveva pagare la tassa fissata nel Concilio romano. Si discusse anche delle pie associazioni che furono considerate esenti dal cattedratico a meno che non avessero la natura di sodalizi ecclesiastici, o possedessero una propria chiesa regolarmente officiata. Si considerò anche il caso in cui nell’atto della istituzione del sodalizio ci fosse stata la riserva di un censo. Le cappellanie laicali inoltre venivano considerate stranamente immuni da questa tassa, in quanto molti o si sottraevano al pagamento con la scusa che erano cappellanie laicali e non benefici ecclesiastici oppure invocavano un privilegio di esenzione personale o adducevano il fatto della scarsa consistenza del beneficio. Ebbene tutti trovavano facile ascolto presso la curia Romana. Conseguentemente, usando tali criteri, una volta soppressa l’apposita congregazione di cardinali, la questione fu devoluta alla congregazione cardinalizia degli interpreti del Concilio Tridentino. Per alcuni anni la decisione però tardava ad essere adottata.

Finalmente, non essendo possibile annullare il diritto di cattedratico, esistente anticamente e sancito dai due Concili provinciali, uno Romano e uno Fermano, esso fu confermato. Tuttavia, a causa dei gravi ritardi, non fu possibile riscuotere tutta la somma che si era sperata. Del resto io stesso, per la delicatezza del problema, nulla rivendicai da quelle chiese e benefici assegnate come beneficio ad alcuni cardinali, ai familiari del papa e ad altri verso i quali avevo un debito di riconoscenza, né volli richiedere il  cattedratico ai morosi o a coloro che riluttavano a pagare. Pertanto a fronte di cinquecento scudi che si sarebbero potuti raccogliere ogni anno, se tutti avessero pagato, ne raccolsi poco più di trecentocinquanta.

1731.4    Istituzione della congregazione di san Filippo Neri a Sant’Elpidio a Mare.

Il giorno 17 marzo 1731 ho pubblicato il decreto di erezione della congregazione dell’Oratorio di san Filippo Neri nella città di Sant’Elpidio a Mare sulla base di una dote attribuita a questo scopo e donata dai fratelli Giovanni Battista e Nicola Sapiti. Da tale istituzione religiosa il paese stesso poté trarre un grande beneficio spirituale.[12]

1731.5   Invio di predicatori a Santa Vittoria da parte degli agenti dell’abate Farfense e scuse   presentate all’arcivescovo – Usurpazione della supremazia episcopale da parte del  visitatore Lateranense e scuse presentate all’ordinario.

Grave fu la scorrettezza usata, durante le feste pasquali, nel paese di Santa Vittoria in Matenano, da fra’ Giacomo Antonio da Ascoli dell’ordine dei Minori di san Francesco, detti dell’Osservanza. Dovendosi nominare un predicatore per la quaresima, pagato dal comune e in parte dalle confraternite, il capitolo della chiesa collegiata, soggetta alla giurisdizione dell’abate Farfense, elesse per quell’anno il predicatore per svolgere il suo ufficio nella chiesa collegiata. Aveva omesso però il dovere, così come vuole la consuetudine, di comunicarmelo. Per questo nominai all’inizio della quaresima un altro predicatore, per svolgere il suo compito in un’altra comoda chiesa. Nonostante ciò il predetto frate fu inviato nella zona dell’ascolano dal vicario Farfense e venne a Santa Vittoria, senza aver chiesta a me la facoltà e senza aver chiesto la mia benedizione e osò salire sul pulpito della chiesa collegiata, predicando con scarsa capacità, nonostante fosse stato ammonito a non iniziare la predicazione.

Per tale abuso ho espresso le mie rimostranze al cardinale Francesco Barberini abate Farfense. Egli, quantunque fosse strenuo difensore dei diritti della propria giurisdizione, ha ordinato al predetto frate Giacomo Antonio di recarsi da me per presentare le sue scuse. Si presentò da me alla fine del mese di settembre ed io lo ricevetti con gentilezza.

Con la stessa audacia e in più con l’ignoranza del diritto, un sacerdote della congregazione dell’Oratorio di san Filippo Neri, inviato dal capitolo Lateranense, per eseguire la visita alle chiese che per ragione del “suolo” o per altro motivo, si consideravano soggette alla giurisdizione lateranense, si arrogò il potere di compiere molti gesti che erano riservati alla dignità episcopale. Fu accolto con il canto “Ecco il grande sacerdote” e con l’altro “Sacerdote e pontefice”; assunse inoltre i paramenti sacri all’altare per celebrare la Messa ed altri simili gesti. Osò perfino di non osservare alcuni miei decreti. Di tutto ciò mi lamentai con il capitolo della Chiesa Lateranense dal quale il sacerdote visitatore fu ammonito; questi poi non solo mi chiese scusa, ma si dimise dall’ufficio.

1731.6    Riunione dei Vicari – Inizio e calendario della seconda visita pastorale.

Dopo le feste di Pasqua, il 17 di aprile, ho riunito presso di me l’assemblea dei vicari foranei di tutta la diocesi. Subito dopo ho iniziato la seconda visita pastorale, recandomi in primo luogo, nella chiesa metropolitana; tralasciai però il resto della città. L’11 maggio mi sono recato a Montegiorgio dove ho condotto l’ispezione al conservatorio delle monache che vivono sotto la regola di sant’Agostino e che non hanno ancora la chiesa. A loro concessi il privilegio dell’oratorio pubblico. Durante lo svolgimento della prima visita, avevo ispezionato tutte le chiese e istituzioni, anche le meno importanti; in questa seconda mi riproponevoo di recarmi solo presso gli enti maggiori o in quelli che richiedevano la trattazione di particolari questioni; gli altri luoghi ed enti li ho affidati ai con-visitatori per ridurre le spese e per svolgere più facilmente e celermente la visita a tutta la diocesi. Per questo ho mandato nei castelli limitrofi Francesco Maria Morroni, arciprete della metropolitana e il canonico Annibale Brancadoro. Il primo ha eseguito la visita a Monte Vidon Corrado, Massa, Montappone e Gualdo. Il secondo ha visitato Magliano, Cerreto, Alteta e Francavilla. Nel frattempo io mi sono recato a Montegiorgio, e a Monteverde, che è un castello soggetto all’arcivescovo anche nell’amministrazione civile, in seguito a Falerone e subito dopo a Sant’Angelo in Pontano. Il 7 di giugno sono tornato a Fermo.

1731.7    Vengono assegnati al seminario i beni patrimoniali di Romolo Spezioli, ottenuti                  precedentemente da altri.

Il fermano Romolo Spezioli, già medico archiatra del pontefice Alessandro VIII e della regina Cristina di Svezia, fra gli altri lasciti pii, aveva istituito dieci sacri patrimoni a favore di altrettanti chierici poveri promovendi agli sacri ordini, al fine che seguissero gli studi nella casa della congregazione della Missione (Lazzaristi) fino a che non fossero giunti al presbiterato. La scelta dei soggetti spettava all’arcivescovo, il quale però doveva tener conto, per la scelta dei soggetti, delle indicazioni date dal testatore per il luogo di provenienza. Tuttavia poteva verificarsi il caso che i chierici prescelti o per l’età o per la progressione negli studi non potevano essere subito promossi al sacerdozio e quindi era gravosa la frequenza presso la casa della Missione.[13] Per questo i preti della stessa congregazione della Missione trovavano difficoltà di accogliere nella propria casa coloro che ancora dovevano compiere gli studi di grammatica e di dialettica. Per questo la sacra congregazione dei cardinali preposti alla interpretazione del Concilio Tridentino, concesse che da allora in poi tali chierici potevano essere accolti nel seminario arcivescovile, fino a che non fossero stati dichiarati idonei a ricevere i sacri ordini. Soltanto dopo, essi sarebbero stati accolti nella casa della Missione, per dedicarsi allo studio della teologia. Questa decisione si rivelò molto utile sia per i giovani chierici, sia per il seminario.

1731.8    L’Accademia Albriziana a Fermo.

Ermolao Albrizi, tipografo veneziano, e fondatore a Venezia di una Accademia letteraria a cui aveva dato il proprio nome, giunse a Fermo  per propagandare l’iniziativa al fine, di  istituirvi poi una colonia letteraria Albriziana.  A Fermo riuscì ad associare molte persone, tra le quali anche me. La prima riunione si tenne nel palazzo arcivescovile nel mese di settembre.

1731.9    La torre della chiesa metropolitana e le mura del tempio vengono restaurate                 – L’arcivescovo vende il grano della sua mensa per acquistare in Istria i marmi                  necessari ad eseguire i restauri.

Dopo il mio ritorno in città, ho dato inizio seriamente al restauro della chiesa cattedrale. In antico essa, dopo la distruzione provocata dalle truppe dell’imperatore Federico I, fu restaurata, per iniziativa del sommo pontefice, con importanti e suntuosi lavori nel corso del sec. XIII. Sisto V nella Bolla con cui ha elevato la cattedrale Fermana in metropolitana, affermava: “costruita con pietre squadrate di marmo e posta nel mezzo del colle della città, essa è visibile, nella sua splendida e straordinaria mole, agli occhi di coloro che la guardano da molte miglia di distanza”.

Le connessioni però delle pietre di marmo con le quali erano coperte esternamente le mura del tempio, a poco a poco, per l’inclemenza del tempo e per l’antichità, stavano dissolvendosi con il pericolo di staccarsi. In particolare il rivestimento della torre era pericolante nella sommità rivolta  verso settentrione. Anche le altre mura, nonostante che fossero state in parte riparate, presentavano numerose fessure. Pertanto, al fine di evitare l’errore di riparare solo alcune parti della torre e del tempio e provocare altri danni alla parte restante, ho fatto arrivare dall’Istria attraverso l’Adriatico, una grande quantità di marmo, come si diceva che anticamente erano state trasportate.

Con le mezze annate provenienti dai benefici ecclesiastici di prima nomina, che Benedetto XIII aveva destinato al restauro delle chiese cattedrali e collegiate, non si poteva sperare di raggiungere la somma necessaria a compire un’opera così costosa. Per questo ho deciso di offrire e utilizzare una parte del grano della mensa per acquistare dall’Istria la quantità di pietre di marmo necessaria per portare a compimento i lavori, aggiungendo altro denaro necessario. Nel corrente anno quindi ho potuto inaugurare la torre, riportata perfettamente all’antica forma. Negli anni successivi sono stati eseguiti alcuni lavori di restauro delle mura esterne del tempio.[14]

1731.10    L’arcivescovo concede lo spazio per aprire una porta pubblica al Porto di Fermo.

Non ho voluto far mancare il mio aiuto e l’interessamento a favore del Porto di Fermo, dove nell’anno 1729 sono stati causati danni in occasione della sommossa popolare. Il castello, che anticamente si chiamava San Giorgio, nella zona principale detta di San Giovanni, non disponeva di una pubblica porta. Essa non poteva essere aperta perché la zona era occupata dagli edifici appartenenti alla mensa arcivescovile. Il 21 novembre ho deciso di donare alla comunità una sufficiente superfice necessaria per compiere l’opera, alla condizione però di non recare pregiudizio alla mensa.

1731.11    I monaci della congregazione Silvestrina cercano invano di erigere un proprio                     monastero a Montefiore.

La comunità di Montefiore, che per disposizione di fondazione e per privilegio concesso da Sisto V amministrava i beni della chiesa di Santa Maria e dell’Ospedale dei poveri, aveva trattato con i monaci Silvestrini di trasferire alla congregazione tali beni, per poter erigere una loro casa nel detto luogo. Poiché tutto ciò era stato stabilito senza consultare, né me, né la Sede Apostolica, era necessario chiedere e ottenere l’assoluzione dalle censure incorse. L’iniziativa fu bloccata perché i cittadini non erano concordi e, da parte loro, i monaci, preso atto della tenuità dei beni e per di più soggetti a diversi oneri, abbandonarono il progetto.

ANNO 1732

1732.1   Gioco d’ azzardo reintrodotto da Clemente XII.

Tra le molte disgrazie che affliggevano i tempi, si aggiunse quella del gioco d’azzardo. Benedetto XIII opportunamente lo aveva abolito, Clemente XII invece lo ha reintrodotto per venire incontro alle urgenti necessità dell’erario pontificio e anche perché egli era persuaso che la sfrenata passione della gente per il gioco era tale che, se fosse stato proibito, la maggior parte delle entrate dell’erario sarebbe andato nelle casse pubbliche delle altre città estere, nelle quali il gioco d’azzardo era consentito. Pertanto, siccome nella curia Romana non esisteva più alcun rispetto per le decisioni prese al tempo di Benedetto, fu abrogata anche la legge che impediva di praticare il gioco d’azzardo.

Consideravo tali giochi, per la mia diocesi, come una disgrazia, per cui,  prima di ogni altra cosa, mi sono preoccupato che presso di noi non arrivassero dei promotori che potessero spingere la gente a praticare tali giochi; cercai quindi che la gente non fosse spinta fuori modo e non rischiasse di sperperare inutilmente il denaro. Avevo infatti l’impressione che, a Roma, ciò fosse stato permesso per evitare un male economico maggiore, mentre da noi si aveva il bisogno di rimediare al danno. Infatti dopo la proibizione introdotta da papa Benedetto, il vizio del gioco era scomparso; per questo ero del parere che esso non dovesse essere rimesso in uso, in modo che le persone ignoranti non fossero spinte a sciupare il denaro a causa di simile abitudine.  Tutto questo però fu inutile.

Immediatamente vennero anche da noi gli organizzatori, furono messe a disposizione le bettole per scialacquare il denaro con il gioco. La gente, spinta dalla vana speranza di fare facili guadagni, fu stimolata al gioco, causando gravi dissesti economici e dissensi nelle famiglie. Privatamente ammonii i singoli fedeli, e pubblicamente avvertii ed esortai ad astenersi da tale vizio e inutilmente cercai dei far intendere che la speranza di vincere era alimentata da un errore della mente, quello cioè di credere che esistesse un metodo cabalistico per poter conoscere la sorte legata a ciò che si estraeva dal bussolo. Per questo nelle omelie, che tenevo durante le festività natalizie, chiaramente ho dimostrato che non era concessa ai mortali la conoscenza degli eventi futuri. In effetti dall’introduzioni di simili giochi fu possibile far affluire nell’erario pontificio una gran quantità di denaro. Al papa Clemente XII interessava di usare il denaro per costruire edifici pubblici molto grandi; e non se ne servì per cose private.

1732.2    Il cardinale Lambertini consiglia all’arcivescovo la continuazione dell’opera dello  Chacon (Ciacconio) – Le biografie dei papi e dei cardinali scritte dall’arcivescovo.

Dopo aver dato alle stampe il mio libro della Storia della Chiesa e della città di Velletri, mentre nel 1724 ero a Roma, il cardinal Prospero Lambertini, allora segretario della congregazione del Concilio Tridentino, e promotore della fede, avendo letto la mia opera, mi propose e mi convinse a continuare l’opera di Alfonso Chacon[15], cioè a scrivere le biografie dei papi e dei cardinali a partire da Clemente X. Egli affermava, infatti, che molti attendevano una simile opera, e che essa sarebbe stata di somma utilità per la Chiesa e che lo stesso auspicio aveva espresso il dotto cardinale  Sebastiano Tanari. Pensavo, anch’io che una tale opera sarebbe stata opportuna e, per nulla impaurito dalle difficoltà del lavoro e dai molteplici e gravi impegni, derivanti dal pieno governo dell’arcidiocesi, avevo posto mano al lavoro.

Avevo disposto la trascrizione degli atti concistoriali che si riferivano all’oggetto, affidando l’impegno della ricerca al mio fratello Pietro Antonio Borgia residente a Roma. Molte altre notizie poi avevo tratte da pubblicazioni di altri e da alcune note manoscritte su tali argomenti, per cui iniziai a scrivere le biografie, completandone purtroppo poche, e precisamente quella di Clemente X e di Benedetto XIII. Non mi bastavano le notizie dei romani pontefici e di alcuni cardinali: Giovanni Francesco Ginetti, mio concittadino e di Baldassarre Cenci ambedue miei predecessori in questa sede metropolitana. Mi era stato difficile scrivere di costoro la cui memoria, in questi luoghi è viva. Era difficilissimo scrivere di altri a causa della mia lontananza da Roma, per il fatto di non poter disporre di notizie sulle loro abitudini e sulle loro opere.

Frattanto mi consigliarono di chiedere la collaborazione dei dotti Contuccio de’ Contucci, che era professore di retorica nel collegio Romano e dei suoi colleghi i quali non soltanto si interessavano di tale provincia, ma che avevano già scritto su ciò. Per questo lo stesso Contuccio e gli altri mi pregavano di consegnare a loro i risultati delle mie ricerche al fine di completare l’opera. Consapevole che tali eruditissimi uomini, residenti a Roma e per nulla impediti da altri impegni sarebbero stati in grado di terminare l’opera, consegnai il frutto delle mie ricerche a loro e durante il mese di febbraio feci loro avere non soltanto i documenti provenienti dagli atti concistoriali in mio possesso, ma anche quanto avevo scritto sulla biografia di Clemente X e di Benedetto XIII nonché le notizie redatte sui cardinali Ginnetti e Cenci. Avevo scritto l’elogio funebre del cardinale Giovanni Battista Bussi e molte altre notizie sull’opera da lui compiuta; aggiunsi anche alcune osservazioni metodologiche per la redazione del libro, in modo che, accanto ai loro nomi, figurasse anche il mio, nel volume.

1732.3    Seconda visita pastorale alla diocesi – Vengono assolti dalle censure i cittadini di Sant’Elpidio a Mare – Consacrazione della chiesa di Montecosaro.

Nel mese di aprile, dopo le feste di pasqua, ho deciso di proseguire la visita pastorale alla diocesi e mi sono recato dapprima nella città di Sant’Elpidio a Mare, dove il giorno 27 aprile, in forza dell’indulto apostolico, ho pubblicato l’assoluzione generale da tutte le censure e le pene ecclesiastiche in cui gli abitanti attuali e quelle antecedenti fossero incorsi per dolo o per ignoranza. Chiesero questa assoluzione, spinti dal flagello grave della grandine che ogni anno devastava i loro campi, come ho già scritto in  questa cronaca nell’anno 1728. Ma non riconoscevano i mali causati alla mensa episcopale.

Da Sant’Elpidio a Mare mi sono recato a Civitanova, dove si era lavorato intensamente sul progetto di costruire una nuova chiesa per il collegio dei canonici e per accogliere l’aumentato numero dei fedeli, dato che l’antica chiesa era gravemente fatiscente, poco decente e angusta. Ho inviato nel frattempo Pietro Bonaventura Savini, mio vicario generale, a compiere la visita al paese di Montecosaro, dove l’ho raggiunto appena compiuta la visita a Civitanova e dove il giorno 18 di maggio ho consacrato solennemente la chiesa della pievania di Santa Maria e di San Lorenzo martire, elegantemente ricostruita dal pievano Nicola Pallenteri.

In essa il giorno 9 di giugno, dopo aver ottenuto il beneplacito Apostolico, ho istituito due nuove cappellanie a favore di due ecclesiastici, ad nutum (= a volontà) amovibili, con l’obbligo di partecipare alla recita delle ore canoniche, insieme con i cappellani del beneficio Laureati, ivi trasferiti, affinché si dedicassero al servizio liturgico, come ho già scritto. Compiuta la consacrazione della chiesa, sono andato a Monte Santo per compiervi la visita.

1732.4    L’arcivescovo presiede il capitolo generale dei monaci Silvestrini – Rizzardo Isolani   nominato Governatore di Fermo.

Il cardinale Fabio Olivieri, protettore dei monaci Sivestrini, mi aveva incaricato di presiedere in sua vece il capitolo generale di questi monaci; e aveva compiuto già tre volte questo incarico. Appena esaurita la visita a Monte Santo, all’inizio del mese di giugno mi sono recato a Fabriano; Nel cenobio, le riunioni del capitolo monastico si svolsero pacificamente ed in modo ordinato.

Dopo di ciò ritornai a Fermo. Il governatore Carlo Francesco Durini era stato trasferito da Fermo, per andare alla provincia della Marittima e della Campagna. Il 14 di luglio, venne come successore, il bolognese Rizzardo Isolani. Costui non eseguì nei miei confronti i doveri ai quali era obbligato, preferì invece chiedere spiegazioni a Roma presso la congregazione Fermana. Questa comunicò a me e a lui che, nel rispetto della autorità reciproca,  fossero mantenuti i diritti consueti. L’Isolani però non si convinse e poco dopo fece fermare un mio rappresentante e i suoi aiutanti, fortunatamente però subito li rilasciò; riferita a Roma la cosa, fu deciso che la vicenda fosse sottoposta alla curia ecclesiastica.

1732.5    Un’icona di Santa Maria poco distante da Santa Vittoria manifesta segni prodigiosi.

Dio misericordioso permise che in una chiesina campestre una  sacra icona della Vergine Maria regina degli Angeli, nei pressi di Santa Vittoria in Matenano, manifestasse segni prodigiosi. Incaricai alcune persone idonee di annotare i fatti prodigiosi e di vigilare sulle offerta donate dai devoti del luogo e dai devoti che venivano da fuori. Con le offerte raccolte è stata ampliata la piccola cappella e si è ottenuto l’incremento della devozione verso la Madonna.

1732.6    La Congregazione delle Convittrici del Bambin Gesù edificano la loro chiesa e ampliano  il loro convento – Ampliamento dei monasteri delle monache di San Giuliano a Fermo e a Monte Santo – Viene aggiunta l’abside alla chiesa di Santa Maria del Pianto.

Da diversi anni a questa parte, le monache Convittrici del Bambino Gesù, chiamate a Fermo dal mio predecessore Girolamo Mattei, erano impegnate nella ricostruzione della loro chiesa e all’ampliamento della loro casa religiosa.[16] I lavori durarono per molti anni. Mi toccò di comporre una controversia che le monache avevano con il conte Gigliucci, poiché i beni lasciati ad esse erano ancora indivisi dall’asse ereditario. La composizione avvenne dopo aver disposto la divisione dei beni in oggetto, approvata dalla Santa Sede.

Le monache di San Giuliano di Fermo e quelle di Monte Santo iniziarono ad ampliare le loro case religiose. La confraternita di Santa Maria detta del Pianto a Fermo aggiunge l’abside alla propria chiesa.

1732.7    L’arcivescovo edifica uno stabile a Monteverde presso il capo di Gera.

Nella proprietà, senza casa, della mensa a Monteverde, presso il capo di Gera, dove era un terreno completamente incolto, ho fatto costruire un edificio in cui, in seguito, ho messo ad abitare alcuni coloni. Per la produzione del vino ho riscattato il terreno tenuto in enfiteusi dal signor Giuseppe Antonio Sartori, vi feci piantare degli alberi con viti e lo assegnai ad alcuni coloni.

1732.8    Inaugurazione della chiesa metropolitana.

Cercavo di stringere i tempi per l’inaugurazione della chiesa metropolitana per il cui restauro molto lavoro è stato compiuto nel corso di questo anno; infatti sono stati completati i lavori della torre e sulla parete del lato meridionale dell’edificio che si trovava accanto alla cisterna pubblica. Sopra la porta inoltre ho fatto apporre una lapide marmorea, con lo stemma arcivescovile, quello del capitolo e quello della città di Fermo. In essa ho fatto incidere la seguente iscrizione:

A Dio Ottimo Massimo / Alessandro Borgia Arcivescovo e Principe di Fermo / fece restaurare / a spese proprie e della Chiesa Fermana / con lastre di marmo provenienti dall’Istria / la torre  e le mura della chiesa metropolitana / logorate da 400 anni/ con un’opera, incominciata nell’anno 1731, anno VII del suo episcopato che avanzò sin qui nel 1732. /  a cura di Ippolito Graziani arcidiacono –– Francesco Maria Morroni arciprete – Vincenzo Montani canonico.–– Valentino Paccaroni canonico – Alberto Rosati – Agostino Ruffo operai posero l’epigrafe.

1732.9    Visita alla Sede Apostolica – Non vengano impediti i dovuti resoconti che devono essere mandati all’arcivescovo da tutti gli enti a meno che essi non siano esentati da un     rescritto  pontificio debitamente firmato dal papa.

Stava per scadere il 49° triennio dalla pubblicazione della costituzione di Sisto V che obbligava i vescovi a compiere la visita alla Sede Apostolica e siccome non avevo intenzione di recarmi nella capitale, poiché ivi ancora era vivo il desiderio di agire contro quanto era stato fatto da Benedetto XIII, dai suoi familiari e dai suoi sostenitori; affidai l’incarico di consegnare la relazione diretta alla congregazione del Concilio a Marco Bettei, arciprete della collegiata di Civitanova il quale allora si trovava a Roma per rivendicare l’unione dei beni della confraternita della Misericordia al capitolo di quella collegiata, su decreto di Benedetto XIII. A lui affidai il documento nel quale descrivevo la situazione della diocesi. Nel documento in particolare sottolineavo come gli amministratori dei Luoghi pii, si rifiutavano di presentare all’arcivescovo le relazioni che riguardavano i loro benefici stabiliti in “suolo Lateranense”, quantunque fosse stato stabilito diversamente, cioè che tali enti, pur essendo soggetti alla giurisdizione ordinaria della basilica Lateranense, erano di fatto sottoposti alla giurisdizione delegata dell’arcivescovo di Fermo, a norma del Concilio Tridentino.

Tra tutti gli altri enti, si dimostrò il più contumace la confraternita della Misericordia di Sant’Elpidio a Mare poiché nell’ultima visita aveva eluso la mia autorità, e non aveva un resoconto, sulla base di un monitorio emanato dalla curia dell’uditore di Camera di Roma in cui si dichiarava che la confraternita non aveva l’obbligo di rendere conto al vescovo dell’amministrazione dei suoi beni. Nella mia relazione aggiungevo che il loro modo di amministrare, dava adito a molti sospetti e certamente i proventi di tale confraternita, che annualmente assommavano a più di trecento scudi di moneta romana, venivano distolti da alcuni officiali al punto che le spese e le entrate non venivano neppure annotate nei libri contabili. Ciò dovrebbe essere punito con una grave censura Apostolica. La congregazione rispose a tali mie osservazioni il giorno 11 luglio 1733 e mi autorizzava a costringere gli officiali della confraternita a dare conto a me delle entrate e delle spese e mi autorizzava a servirmi di tutti gli strumenti che il diritto mi offriva, nonostante qualsiasi inibizione, a meno che esso non fosse stato firmato direttamente dal  Romano pontefice.[17]

1732.10     Origine di Santa Maria a Mare; si trasferisce la festa civile – Raffaele Fabretti            Crolla, dopo qualche tempo, il ponte costruito a spese della chiesa di Santa Maria               a Mare.

Nell’anno trascorso, il capitolo metropolitano aveva stabilito di celebrare il centenario dei celesti prodigi che furono visti nella chiesina di Santa Maria a Mare, posta alla foce del fiume Ete e nel territorio del priorato di Santa Maria a Mare, anticamente appartenente ai canonici regolari di San Frediano, di fronte alla spiaggia del mare Adriatico. Questa chiesa era stata unita da Leone X alla mensa capitolare. A causa di tali prodigi, un numeroso popolo vi accorreva e con le numerose offerte, donate dai pellegrini, si diede inizio alla costruzione di una nuova ed elegante chiesa.

Su tali prodigi, Giacomo Raccamadoro, canonico fermano, diede alle stampe un libretto. I canonici Annibale Brancadoro e Filippo Spinucci, incaricati dal capitolo nell’anno precedente, lo fecero ristampare per i tipi di Domenico Bolis, e me lo dedicarono in occasione appunto della celebrazione centenaria. Tuttavia il canonico Giovanni Morroni, per il fatto di non essere stato consultato nella distribuzione degli incarichi per la celebrazione della festa, avendo fatto ricorso alla curia Romana, facilmente ottenne il trasferimento, sul luogo, dei festeggiamenti. Ciò mi dispiacque non poco; sapevo infatti benissimo che se la festa non si fosse celebrata a Fermo (il che non piaceva a Roma) ma nella zona di campagna dove sorge la chiesa, per la moltitudine di gente e la confusione, il fatto sarebbe stato causa di pericolo e di scandalo piuttosto che di utilità spirituale.

< Gratie dispensate dall’imagine della santis. Vergine Maria a Mare da  Giacomo Raccamadori da Fermo canonico theologo e preposto annuale delle metropoli all’eminentis., e reverendiss. Sig. il Sig Carlo Gualterio arcivescovo e prencipe di Fermo. Fermo 1667. [Raccamadori Giacomo canonico] Breve raccolta di alcune grazie dispensate da Dio per intercessione della santissima Vergine la cui di sacra immagine si venera nella chiesa di S. Maria a mare fatta di nuovo dare alle stampe dal reverendissimo capitolo della metropoli di Fermo.  Fermo, A. Bolis, 1731>

In realtà Raffaele Fabretti, che era stato mandato da Clemente XII, come commissario Apostolico nel Piceno, per fare la manutenzione alla strada Adriatica che dal confine del regno di Napoli conduceva a Loreto, aveva deciso di destinare il denaro proveniente dalle rendite della chiesa, che il capitolo aveva riservato alla celebrazione delle feste centenarie, affinché fosse utilizzato per la costruzione del ponte di legno sul fiume Ete che sorgeva nei pressi della stessa chiesa.

Da tempo il capitolo aveva stabilito di non usare per i propri bisogni le offerte date alla chiesa dai fedeli né i proventi dei legati pii, ma di destinare il tutto per le necessità e gli usi della chiesa di Santa Maria a Mare. Proprio per questa decisione le rendite erano velocemente aumentate a tal punto che, grazie ad esse, si potevano stipendiare tre cappellani e un sacrista e ne avanzava una consistente quantità. Il Fabretti aveva calunniato lo stato dell’amministrazione del capitolo di fronte alla curia Romana, ottenendo di poter controllare con me i conti e di poter utilizzare opportunamente l’avanzo per la progettata costruzione del ponte, dedotte le spese per la chiesa. Successivamente chiese di poter disporre di seicento scudi per la costruzione del ponte.

Il capitolo, per quanto gli fu possibile, pregò, protestò e cercò di ritardare la decisione. Io stesso intervenni presso il card. Bancherio, segretario della congregazione del Buon Governo, facendo osservare che la cosa avrebbe provocato un grave scandalo, poiché era una delle poche chiese ben amministrate, e veniva gravata a tal punto da non poter utilizzare il denaro per scopi spirituali. Oltretutto ogni storno di denaro era stato vietato da norme contenute nei sacri canoni, a motivo del rispetto dell’immunità ecclesiastica: capitoli “Non minus”, e “Adversus”. Riguardo ad altre chiese, peraltro, generalmente o unite, o concesse in commenda, i beni e i proventi venivano depredati dai commendatari, senza tener presenti le esigenze del culto.

Ma fu tutto vano; a stento sì riuscì ad ottenere una riduzione della somma da impegnare per il ponte, riducendola fino a quattrocento scudi. Con tale somma Fabretti costruì il ponte nello stesso luogo in cui erano stati costruiti i precedenti, che erano crollati; per questo era facile prevedere che esso non sarebbe durato a lungo. Alla fine dell’anno infatti, a causa di una rovinosa inondazione, le travi di quel ponte, nella maggior parte, miseramente, crollarono; e furono trascinate fino al mare. In tale modo, era testimoniato dal giudizio di Dio, e confermato il fatto che non era lecito usare il denaro destinato al sacro culto, stornandolo per la realizzazione di opere pubbliche.

Fabretti si impegnò molto per sistemare e riparare gran parte della strada che dai confini dell’Abruzzo conduceva a Loreto; ma il suo tentativo fu vano. La maggior parte della sua opera ben presto andò in rovina, sia perché era stata realizzata con imperizia, sia perché, una volta portato a termine il lavoro con ingenti spese, nessuno si occupò della manutenzione. Nei territori sottomessi alla Chiesa Romana, dopo le grandi spese fatte per le costruzioni, non c’era attenzione per le opere pubbliche, perché mancava la manutenzione, dato che nessuno era responsabile al fine di conservarle. I pontefici Romani successori spesso si preoccuparono di iniziare altre nuove costruzioni per dare lustro al nome loro e delle proprie famiglie, piuttosto che essere vigilanti nel mantenere le opere precedentemente costruite.

1732.11    Francesco Maria Alberici, vicario generale di Alessandro Borgia durante il suo    episcopato Nocerino, viene prima nominato vescovo di Città della Pieve poi                     di Foligno.

Nel corso del presente anno, Clemente XII ha nominato vescovo di Città della Pieve Francesco Maria Alberici di Nocera che durante il mio episcopato Nocerino era stato mio vicario generale. Poi  il papa lo trasferì nel 1735 a Foligno per ragioni di salute. Egli resse quella diocesi per sei anni. Morì nel 1742 nel mese di agosto nella casa paterna a Nocera. Era un uomo onesto, ospitale e di grande tenacia; durante gli ultimi anni soffrì, quasi sempre, di cagionevole di salute.

1732.12    Lite suscitata da Domenico Mezzoprete contro la mensa arcivescovile e tentativi  fatti per appropriarsi dei beni della detta mensa esistenti in Francavilla.

Nell’anno presente Domenico Mezzoprete (di cui si è accennato in questa cronaca all’anno 1731), mise in atto il forte tentativo di appropriarsi di alcune beni della mensa arcivescovile, prendendo a pretesto il fatto che la congregazione del Concilio gli aveva riconosciuto il diritto di percepire i frutti della cappellania di Santa Maria della Misericordia. Tali beni erano stati donati per la fondazione da Giovanni Antonio de Alma, già arciprete della metropolitana e vicario generale di Fermo, e la dote della detta cappellania era stata unita alla mensa arcivescovile. In passato essa era stata affidata ai suoi nipoti maschi. La mensa ne era venuta in possesso nel 1697 e ne aveva mantenuto i proventi  pacificamente, fino al presente. Il 1 settembre 1731 la sacra congregazione aveva emanato un rescritto con il quale la concordia tra i contendenti sul possesso di tale cappellania, cioè la mensa arcivescovile e il Mezzoprete, veniva  affidata al cardinal prefetto. Non essendo seguito l’atto di concordia, ed essendo scaduta la clausola che prevedeva come il predetto Domenico fosse da annoverarsi tra gli interessati alla cappellania, nominati nel testamento, il prefetto diede questa risposta: “Negative” cioè che i proventi non spettavano più a lui. Ciò accadeva il 12 gennaio 1732. Tuttavia il 27 settembre la causa era stata riproposta. Con oscuri maneggi e documenti falsi, alterati dallo stesso Domenico per favorire gli interessi privati della sua famiglia, egli fece pressioni presso il prefetto della congregazione e ottenne un rescritto opposto al precedente in esso si affermava: essere revocata la precedente decisione; e che per la concordia la faccenda viene rimessa alla decisione dell’em.° Prefetto e inoltre che la causa per l’avvenire non venisse più riproposta.

Le modalità fissate nella successiva concordia erano che l’annuo canone di 30 scudi della mensa episcopale dovesse essere dato a Domenico vita natural durante. Naturalmente io non fui soddisfatto poiché l’inciso “revocata la precedente decisione” si prestava a permettere nel futuro altre vessazioni nei confronti della mensa arcivescovile. Essendo stato richiesto quale dovesse essere l’interpretazione dell’inciso, la congregazione, il 6 dicembre, così rispose: “ l’annuo censo di scudi 30 che deve essere versato a Domenico sulla base della decisione della congregazione, si intenda che valga e che si debba  dare soltanto fino alla sua morte. Dopo di che il canone venga utilizzato secondo le disposizioni emanate dall’uditore del papa”. Il 9 febbraio 1733 il cardinale prefetto obbligò Lorenzo Origlia, che in mio nome aveva seguito la causa con diligenza (per quanto era possibile fare in tempi così difficili), a promuovere la definitiva concordia in sua presenza a nome della mensa arcivescovile, servendosi di Girolamo Sercamillo in qualità di notaio della curia Capitolina, questi poi avrebbe dovuto redigere un apposito istrumento.[18]  Affinché da tale documento non nascesse un ulteriore danno alla mensa, ho depositato una mia  dichiarazione di protesta contro tale atto presso i signori arcidiacono e arciprete della metropolitana di Fermo, presenti anche Gentile Maria Bilieni, prete gesuita e mio teologo, e Tommaso Guerrieri docente di diritto presso il Ginnasio fermano. La mia intenzione non era quella di negare l’annua retribuzione a Domenico, anche se non dovuta a norma di diritto, ma di dichiarare pubblicamente che gliela assegnavo come gesto di generosità e di pietà.

ANNO 1733

1733.1    Regole per la celebrazione di Messe solenni.

Mi è sembrato importante e opportuno dare precise regole per la celebrazione del culto divino e in particolare per le Messe solenni. Per questo mi sono premurato di far compilare, dai sacerdoti della congregazione della Missione, una precisa istruzione che poi sarà pubblicata all’inizio dell’anno, per mia autorità e a mie spese. Essa sarà distribuita gratuitamente e raccomandata a tutti i sacerdoti, alle parrocchie e a tutte le altre chiese dove serva da guida per la celebrazione delle messe solenni. Ho anche disposto che tale regolamento venisse consegnato a tutti quei chierici che ogni anno, nella casa della Missione, si preparano a ricevere gli ordini sacri e specialmente il presbiterato, allo scopo che imparino con esattezza il rito della celebrazione della Messa, dalla prassi di questa casa e dal nostro  documento. <Cerimonie della Messa solenne cavate dalla rubriche, sagri cerimoniali, e dalla più esatta pratica delle basiliche di Roma, stampate per ordine di mons. Alessandro Borgia arcivescovo e principe di Fermo per commodo di tutta la sua diocesi. Venezia, A. Bartoli, 1745>

1733.2    Non si deve moltiplicare l’istituzione delle università nel Piceno – Gli Ascolani chiedono   al papa di istituire una università nella loro città.

Nel frattempo, incombeva un non lieve rischio e pericolo sulla nostra università degli studi che Bonifacio VIII nel 1303  istituì a Fermo, poco tempo prima di fondare uno Studio generale a Roma. In seguito papa Calisto III la confermò e Sisto V la riformò e ampliò: tutti questi pontefici la sottoposero all’autorità e alla sorveglianza dei vescovi fermani con il titolo di università.[19]

Successivamente la nostra epoca, caratterizzata dalla comparsa di parecchie innovazioni, vide il sorgere di altre istituzioni universitarie, una a Macerata, istituita da Paolo III e la terza,  a Camerino nell’ambito della provincia Picena. Gli Ascolani, per la parte loro, ora ne avevano chiesta un’altra a Clemente XII nella loro città e ciò avrebbe costituito un evento esiziale per Fermo, dove affluivano numerosi giovani dalla zona ascolana e dall’Abruzzo nonché da altre zone del Regno di Napoli.

Mi ero quindi sentito in obbligo di inviare una lettera alla sacra congregazione del Concilio in cui mi dichiaravo contrario a questa richiesta e sulla improponibilità di realizzare tale progetto, esponendo diverse argomentazioni che sconsigliavano di moltiplicare gli istituti universitari nell’ambito di una stessa provincia. Ciò infatti non avrebbe contribuito alla diffusione della cultura, ma al contrario avrebbe rappresentato un motivo di crisi per le altre università esistenti; non sarebbe infatti stato facile reperire idonei docenti e un sufficiente numero di studenti. Lo stesso imperatore Giustiniano nel proemio del Digesto aveva espresso il parere che il diritto fosse insegnato soltanto nelle città regie affinché le sacre leggi non subissero corruzioni e false interpretazioni a causa della scarsa competenza dei docenti. A seguito di queste e altre mie argomentazioni la cosa non ebbe seguito e la nostra città fu liberata dal rischio di un simile evento esiziale.

1733.3    Benedetto XIII e Clemente XII donano al Conservatorio degli esposti una modica quantità di frumento.

A causa della precedente scarsa raccolta di grano, il prezzo del frumento era aumentato, raggiungendo il massimo. Infatti arrivò alla cifra di 48 giuli di argento per ogni salma (che chiamano rubbio). Nei primi anni della mia permanenza a Fermo, esso veniva venduto ad un prezzo molto inferiore, cioè a meno di 3 o 4 scudi e nel 1728 ancora a meno, a due scudi.

Per questa ragione l’ospizio dei bambini “proietti” (abbandonati), era in grave difficoltà domestiche. Clemente XII, imitando il suo predecessore Benedetto XIII che aveva destinato a favore dell’ospedale un contributo di 500 scudi, donò al detto ospedale la stessa somma ricavata dalla tassa sul gioco dei dadi e nell’anno successivo elargì la stessa somma alle religiose del Bambin Gesù che stavano completando la fabbrica della loro nuova chiesa.

1733.4    Tempeste di vento – Danni provocati dalla esondazione dei fiumi.

Ai disagi preesistenti, si aggiunse una violenta tempesta di vento che provocò la caduta della pesante croce di ferro della torre campanaria della Metropolitana ed era riuscita a scoperchiare quasi tutti i tetti delle case nella città e nell’intera diocesi; i danni furono tanto gravi da richiedere una serie di immediati interventi di restauro. Furono, inoltre, provocati gravi danni a causa delle esondazioni dell’acqua dei fiumi; vennero infatti inondati a Fermo i campi della tenuta di Paduli, appartenenti alla mensa vescovile, nonché le terre della tenuta di San Claudio. Sono stato, quindi, costretto a prendere gli opportuni provvedimenti, negli anni passati e nei successivi, con scarso successo. In questo stesso anno dovetti riparare i danni provocati dalle acque del fiume Ete (Morta) che aveva rotto gli argini e aveva prodotto danni alle case coloniche e alla stessa chiesa abbaziale di Santa Croce. Cercai di rafforzare gli argini del fiume, alzando delle palizzate di legno che il popolo chiama cavalli; il tentativo però non sortì l’effetto voluto. Infatti nel dicembre dei 1734 la forza delle acque travolse ogni cosa.[20]

1733.5    Seconda visita pastorale della diocesi.

Passate le feste pasquali e svolta l’assemblea dei vicari foranei, il 2 maggio ho dato inizio alla seconda visita pastorale della diocesi, accompagnato dall’arciprete e vicario generale e dal canonico della metropolitana, Marco Antonio Francolini. Sono stato prima di tutto a Montegranaro, mentre ho mandato a Monte Urano il vicario generale. Da Montegranaro sono passato a <Monte> San Giusto e subito dopo a Montolmo <= Corridonia>; alla fine di maggio sono rientrato a Fermo.

Nel mese di settembre, dopo aver reso visita di devozione alla santa Casa di Loreto, ho ripreso, con urgenza, la visita e mi sono recato a Penna San Giovanni, insieme con il vicario generale e il canonico Lucio Guerrieri. In questa località si stava completando la fabbrica della nuova chiesa matrice. Subito dopo sono passato ad Amandola, poi a Monte San Martino, poi a Monte Fortino e con l’aiuto di Marco Antonio Nardi, pievano della pievania di Sant’Angelo in Montespino di Montefortino, ho visitato tutte le località della zona che soggiace alla giurisdizione dell’arcivescovo di Fermo.

1733.6   Ricostruzione del castello di Capradosso distrutto – L’arcivescovo di Fermo sceglie il  luogo dove ricostruire il castello distrutto e si prende cura della costruzione degli edifici.

In una zona non appartenente alla giurisdizione ecclesiastica della diocesi di Fermo, ma soggetta alla giurisdizione di Ascoli, esisteva un castello che si chiamava Capradosso che prendeva il nome, credo, dalla parola capra, abitato da circa sessanta famiglie di contadini, parte abitanti dentro la cerchia delle mura e parte nelle zone di campagna che si protendeva verso i monti per circa tremila iugeri, o salme 763. Cinque anni or sono esso era stato devastato; le mura erano state abbattute e le case crollate rase al suolo a causa dell’impeto delle acque violentemente precipitate dai monti. Le acque avevano scavato profondi canali e, travolgendo il paese, lo avevano distrutto.

Clemente XII, pontefice dall’animo grande, aveva deciso di farlo ricostruire ma, dopo aver ascoltato il parere di molti architetti e ispettori, si rese conto che esisteva una notevole discordanza nello scegliere il sito dove effettuare la ricostruzione. Affidato il problema alla sacra congregazione del Buon Governo, i padri che la componevano hanno affidato a me il problema della scelta del sito più adatto e mi fu chiesto di recarmi in loco, affinché indicassi il posto destinato alla ricostruzione del paese.

Completata la visita pastorale a Monte San Martino, il 14 di ottobre sono giunto a Capradosso, accompagnato da Lucio Bonomi, nobile architetto ripano e di fra’ Domenico Lenti, minore Conventuale perito agrimensore, che mi furono di grande aiuto nell’espletare l’incarico ricevuto. L’aspetto del luogo era squallido e le voragini  immense che si erano create nel territorio a prima vista, mi atterrirono. Si discusse molto su un sito detto Pian di Mare, comunemente chiamato Pianto amaro, che unanimemente era stato approvato dalla gente e che era stato accettato dal precedente architetto. La solidità del terreno lo avrebbe consigliato, ma lo escludeva la posizione geografica. Infatti la zona prescelta si estendeva sulla fascia settentrionale e le colline che si ergevano a meridione e a occidente impedivano che la luce del sole vi penetrasse. Perciò il sito sembrò a me  adatto ad essere abitato più dagli animali selvatici che dalle persone. Infatti gli uomini che si trovavano vicino alle montagne, dove il freddo era pungente e le nevi abbondanti, preferivano insediarsi in zone assolate e non in quelle boreali.

Dopo aver diligentemente esaminato le singole zone del territorio che presentavano tutte diverse e gravi difficoltà, finalmente giunsi al parere di collocare il nuovo castello tra il piano detto Martino e le valli al centro di tutta la zona esposta a oriente e a mezzogiorno, non lontano dalla strada, che dal presidato di Montalto, conduce verso Ascoli. Ordinai quindi al Bonomi di delineare la pianta del nuovo castello che doveva misurare trecento palmi in lunghezza e duecentocinquanta in larghezza. Scrissi alla congregazione del Buon Governo una dettagliata relazione su tutta la vicenda ed essa approvò il mio progetto, e poiché si desiderava che proprio io soprintendessi alla realizzazione del progetto, chiesi che ne fossi dispensato a causa della distanza da Fermo dal luogo fissato e per le difficoltà viarie, mentre la mia presenza era richiesta dalle incombenze per il governo della diocesi. Nonostante tutte le mie obiezioni, la sacra congregazione, negli anni successivi, volle che mi interessassi di molte cose, in particolare della ricostituzione della nuova chiesa parrocchiale, della costruzione della casa del parroco e di molti edifici.[21]

1733.7    I preti della Missione mettono in atto vari artifici perché non venga ridotta la pensione che la mensa vescovile era solita assegnare alla loro comunità.

In occasione della prima visita pastorale, compiuta a Monte San Martino nel 1725, mi ero accorto che l’arcivescovo di Fermo era stato nominato protettore, direttore e superiore del sacro Monte di Carità, ivi istituito da mons. Armindo Ricci sotto- datario di Clemente IX, escludendo ogni altro organismo della Santa Sede. Detto Monte era provvisto di molte rendite e i proventi, per volontà del testatore, dovevano essere spesi per fare celebrare delle Messe in suffragio delle Anime del Purgatorio più dimenticate.

Spinto dalle richieste dei preti della Missione della casa di Fermo, ho stabilito che celebrassero due messe al giorno, rilevando dalla dote del Monte la somma di 120 scudi per ogni anno. In ciò seguivo l’esempio del mio antecessore cardinal Baldassarre Cenci che aveva destinato la stessa somma a favore dei frati Agostiniani scalzi che avevano il loro convento a Monte San Martino.

Durante il pontificato di Benedetto XIII, a causa di alcune difficoltà, la concessione ai preti della Missione venne a cessare. Durante il pontificato di Clemente XII per interessamento di Giacomo Lanfredini, segretario della sacra congregazione del Concilio, essendo molto legato alla congregazione dei preti della Missione, la concessione fu ripresa.

Antecedentemente per richiesta del cardinale Cenci, arcivescovo fermano,  Clemente XI aveva attribuito alla casa della Missione di Fermo, una dote di scudi trecento l’anno da prendersi dalle rendite della mensa arcivescovile, con la condizione che nel caso che quei religiosi avessero acquisito qualche altra somma anche se proveniente  dagli oneri di Messe, la somma a carico della mensa doveva essere proporzionalmente diminuita. In effetti ciò accadde al tempo dell’arcivescovo Mattei, e il contributo proveniente dalla mensa fu ridotto a centocinquanta scudi annui. In seguito, al presente, essa era stata diminuita a trenta scudi, l’anno. L’intenzione dei preti della Missione era chiara. Senza tener conto della misura ridotta del mio contributo e chiedendo a Roma il ritorno integrale alla iniziale somma, desideravano ancora godere del beneficio, non come se fosse stato concesso da me, ma in qualità di concessione della congregazione del Concilio, presso la quale si sono adoperati. In tal maniera tentarono di cancellare l’espressa condizione posta da Clemente XI, di diminuire cioè proporzionalmente, la detta pensione, in presenza dell’acquisizione di ulteriori proventi. Non potendo e non volendo resistere alla congregazione del Concilio, ritirai la concessione e restituii loro la pensione nella somma di 140 scudi, cioè soltanto 10 scudi in meno, a causa di altri proventi nel frattempo da loro acquisiti che di fatto ammontavano a una somma molto maggiore. Però non potevo giustificare che i preti della Missione per una loro macchinazione o per merito di coloro che a Roma li appoggiavano o li favorivano, potessero godere di tali frutti. La nuova concessione della congregazione del Concilio era tanto difficoltosa da restare quasi senza effetto.

1733.8    Dai Maceratesi prima e in seguito dai cittadini di Montolmo viene rivendicato il mulino  di San Claudio – Contro di essi ho impostato una vertenza.

L’arcivescovo Cenci conosceva bene le critiche di coloro che inveivano contro i preti della Casa di Fermo della Congregazione della Missione, che peraltro erano molto utili per la formazione ecclesiastica dei chierici. Queste persone criticavano il fatto che l’arcivescovo spendeva i denari per loro, con una somma che arrivava a circa 7000 scudi, tratti dalla mensa arcivescovile. Per di più si lamentavano che presso Grottazzolina era stata tagliata una selva per coprire il pagamento delle spese, ma specialmente dissentivano perché questi preti godevano di una ulteriore annua pensione di scudi 300 che gravavano sulla mensa episcopale. L’arcivescovo Cenci era solito rispondere a questi critici che la mensa arcivescovile era stata arricchita dalla costruzione di un mulino frumentario presso San Claudio, realizzata da alcuni della famiglia De Natalie. L’arcivescovo, che era il padrone del fondo, riceveva la metà dei redditi di tale mulino, e  l’altra metà andava alla famiglia De Natali costruttori del mulino. E senza dubbio all’inizio, la mensa ricavava, dalla molitura, tanto denaro quanto ne bastava a versare ai preti della Congregazione della Missione gran parte della pensione stabilita in loro favore. Tuttavia per le calamità di quel periodo, le rendite erano diminuite sensibilmente. Infatti dopo la morte di Cenci, al tempo della sede vacante della diocesi di Fermo, i Maceratesi ottennero da papa Clemente che i cittadini abitanti nella zona di Macerata si recassero a macinare ad un mulino della propria città che sorgeva presso il fiume Potenza, dove  dovevano portare il frumento, né agli abitanti della zona sarebbe stato lecito recarsi altrove per macinare. Questi Maceratesi furono aiutati nell’impresa da Prospero Marefoschi, cittadino di Monte Santo della diocesi Fermana, il quale era uditore presso Clemente XI e desiderava trasferire la sua famiglia a Macerata per poterla aggregare al patriziato di quella città.

Tutto ciò stava accadendo a danno del mulino di san Claudio, in chiaro dispregio della libertà ecclesiastica. Per colpa di persone della nostra diocesi e della nostra provincia, i Maceratesi volevano costringere la gente a non servirsi del mulino del proprio arcivescovo. Qualcuno lo avrebbe voluto usare, come di fatto lo volevano fare le persone che abitavano lungo il fiume Chienti, visto che il mulino che si trovava presso il fiume Potenza era distante e difficile da raggiungersi. Il mugnaio dei Maceratesi, per di più, cercava di attirare i clienti con il denaro o concedendo una maggiore quantità di grano.

Mons. Giosafat Battistelli, vescovo di Ripatransone, quando era soprintendente apostolico della diocesi di Fermo, nel periodo della vacanza della Sede Fermana, propose ricorso contro questa situazione in modo però blando, e senza ricavarne alcunché. La faccenda del resto non riguardava lui, ma la mensa arcivescovile di Fermo vacante e indifesa nei confronti della camera Apostolica. Perciò le entrate del mulino di San Claudio si erano ridotte quasi della metà. Per di più durante l’episcopato di mons. Mattei, la comunità di Montolmo <= Corridonia>, notando che i Maceratesi avevano realizzato grandi guadagni, insorse contro il mulino di San Claudio e, ottenuto un favorevole monitorio dalla curia Romana, impediva all’arcivescovo di Fermo di poter utilizzare l’acqua del fiume Chienti che è di tutti e, secondo la consuetudine, deve essere a disposizione di chiunque.

L’arcivescovo Mattei cercò di bloccare tale pretesa fondandosi sulla sua autorità, senza intentare un regolare processo. Quando giunsi come arcivescovo a Fermo, quei cittadini di Montolmo ripresero lo stesso tentativo, ma durante il pontificato di Benedetto XIII, non sortirono alcun risultato. In tale periodo infatti, la curia Romana non osava sminuire i diritti dei vescovi.

Invece Clemente XII, pressato dalle insistenti richieste del cardinale Giuseppe Imperiali, prefetto della congregazione del Buon Governo, aveva emanato una costituzione Apostolica con la quale affidò alla competenza della congregazione del Buon Governo, tutte le questioni che riguardavano, in qualunque modo, le comunità locali e quindi la giurisdizione civile dei luoghi, anche nei casi nei quali le proprietà si riferivano contemporaneamente alla giurisdizione ecclesiastica. Con tale costituzione si spianava la strada a ledere la libertà e l’immunità ecclesiastica, e si dava un  esempio alle autorità laiche che erano spinte ad ingerirsi nelle questioni ecclesiastiche, parimenti come in quelle civili. Nella congregazione del Buon Governo infatti si badava esclusivamente a tutelare gli interessi delle comunità civili. Dopo la emanazione di questa costituzione, la vertenza si prolungava nella congregazione del Buon Governo e veniva giudicata sulla base di false attestazioni di cittadini dissipatori di Montolmo.

Anche se io avevo dalla mia parte il buon diritto e anche se ero disposto a sostenere le spese del processo, giudicai opportuno, a causa della tristezza dei tempi che facevano correre un grave pericolo di perdite al mulino di San Claudio, di andare incontro alle esigenza dei cittadini di Montolmo per trovare un giusto compromesso. Furono stipulati dei patti, in base ai quali, io consentivo a quella comunità di acquistare dalla famiglia dei Natali il diritto, che tale famiglia aveva in forza della costruzione da loro fatta del mulino di San Claudio, con la riserva comunque del diritto di dominio e della giurisdizione dell’arcivescovo su detto mulino e dell’annuo canone di diciotto salme di grano (dette rubbi), di dieci scudi con l’aggiunta di due giuli d’argento. Tale canone poi sarebbe aumentato nel caso e nella misura in cui la Chiesa Fermana avesse ricuperato il diritto di libero esercizio del mulino nei confronti dei cittadini di Macerata e di Montelupone che rivendicavano le stesse pretese dei Maceratesi. I patti furono approvati dalla congregazione dell’Immunità e da quella del Buon Governo e il giorno 26 novembre di quest’anno, fu solennemente stipulata. Tuttavia la causa rimane in piedi fino ad oggi, nella speranza di poter avere ragione nell’attesa di tempi migliori.

1733.9    I tesorieri della Marca intentano una causa sulle esportazioni marittime del frumento: esiti della lite – Lorenzo Origlia nostro agente difende strenuamente le cause civili   iscritte a Roma.

Non meno molesti si dimostrarono i tesorieri della Marca che si opponevano acremente alle esportazioni marittime del frumento. Quantunque, come abbiamo indicato sopra nell’anno 1731, le loro richieste fossero state respinte dall’uditore del Romano Pontefice, essi pretendevano che le sentenze precedenti, pronunciate dai tesorieri generali della camera Apostolica nel 1727 e nel 1728, la prima volta sull’aspetto possessorio e la seconda volta in tema di causa di vizio di nullità, fossero annullate con il pretesto che la competenza spettava alla congregazione dell’Immunità alla quale già Giannotto Gualtieri si era rivolto. Erano stati i tesorieri provinciali a portare la vertenza di fronte al tesoriere generale. Ottennero che la vertenza fosse trattata di fronte alla congregazione dell’Immunità, senza peraltro rifondermi le spese già sostenute; tanto grande era infatti il desiderio da parte della curia Romana di revocare le decisioni prese durante il pontificato di Benedetto XIII. Pertanto l’intera causa fu ripresa e trattata di nuovo dalla congregazione, essa fu difesa dal nostro agente forense, Lorenzo Origlia in maniera lodevole ed esemplare per la mensa arcivescovile.

Il 15 settembre si addivenne alla seguente decisione: “La mensa episcopale non è tenuta a richiedere alla tesoreria della Marca il bollettino di autorizzazione per l’esportazione del grano, per via mare”.  Il 24 novembre, dietro insistente richiesta della tesoreria provinciale, la congregazione concesse ad essa un qualche riconoscimento, in quanto le consentì di emanare il bollettino di esportazione marittima dei grani, ma la mensa vescovile nulle doveva pagare per tale atto concessivo. Tale decisione non mi soddisfece affatto; per questo, affinché non potessero essere messi in dubbio i diritti della mia mensa, il 6 aprile proposi ricorso presso la congregazione Romana, la quale si pronunciò a favore delle nostre ragioni.

Il cardinale Giorgio Spinola, prefetto della congregazione dell’Immunità, con sua lettera mi diede ogni assicurazione e mi pregò di restare soddisfatto. Infatti con tale decisione finale, non veniva messo in pericolo alcun diritto della mensa episcopale. La decisione infatti non tendeva a limitare la nostra libertà, ma solo a consentire al tesoriere di prendere conoscenza della quantità di frumento esportato al fine di prevenire ogni possibile imbroglio.

Felice Passerini, chierico della camera Apostolica, che fu il ponente della causa presso la congregazione delle Immunità, ebbe sempre presente i diritti della mensa arcivescovile e di ciò riconosciamo i meriti sia a lui che al cardinale Giorgio Spinola. In momenti difficili abbiamo riaffermato i nostri diritti. Venne decretato che la mensa episcopale riceveva gratuitamente il bollettino per le esportazioni marittime, senza alcun pagamento, eccettuando quanto riguardava le esportazioni soltanto per vie terresti. Così ai tesorieri provinciali vengono presentate le lettere patenti di esportazioni marittime che furono date dal Camerlengo Romano. Si fanno vedere ai tesorieri con valore di bollettini. Il tesoriere della provincia aveva solo in compito di prendere visione della quantità di frumento esportato, senza pretendere alcun pagamento.

1733.10    La confraternita della Carità al Porto di Fermo.

Quando, nel 1731, i preti della Missione, il cui superiore era Domenico Antonio Blasi, predicarono una solenne missione al popolo nel Porto di Fermo, a conclusione di questa, fondarono una confraternita detta della Carità con lo scopo di venire incontro alle necessità degli infermi poveri. Tale istituzione adottava lo stesso metodo di quella che era stata creata dal beato Vincenzo de Paolis in Francia. Quella del Porto di Fermo fu la prima in Italia ad essere aggregata all’altra sorta in Francia. Tuttavia le regole dettate dal sapiente fondatore riguardavano le abilità delle donne che in Francia erano state dichiarate idonee a questo servizio assistenziale o per vocazione o per libera disponibilità. Questo metodo però non si confaceva con la tradizione dell’Italia, dove le incombenze nell’amministrare le principali cose di questa confraternita, erano riservate agli uomini.

Per questo i preti della Missione riformarono alcune regole date dal beato Vincenzo, per cui furono distinti i ruoli riservati agli uomini da quelli svolti dalle donne. Il 7 luglio del presente anno ho istituito, con un mio apposito decreto, non solo questa pia istituzione nella diocesi, ma mi sono dedicato a promuoverne la diffusione anche in Italia, facendolo stampare e divulgare.

ANNO 1734

1734.1     Prodigi e segni operati da san Luigi Gonzaga nella città e nella diocesi di Fermo.

All’inizio del precedente anno, nel collegio fermano, che era  tenuto dalle nobili donne consacrate appartenenti della congregazione detta del Bambino Gesù, si verificò un episodio miracoloso, per la divina clemenza, ad intercessione di san Luigi Gonzaga, e cioè la moltiplicazione dell’olio nella dispensa dello stesso collegio. Di conseguenza nella città e in tutta la diocesi crebbe una grande devozione verso quel celeste patrono, il che non restò senza frutto e ricompensa. Molti segni e prodigi infatti si manifestarono per intercessione di san Luigi e giunsero a mia conoscenza. Pertanto diedi al canonico Ippolito Graziani, arcidiacono della metropolitana, l’incarico di ricercare, in tutta la nostra provincia ecclesiastica, tali fatti e di farne precisa relazione a norma delle disposizioni del concilio Tridentino intitolate “Invocazione, venerazione delle reliquie dei santi”, dopo che avesse ascoltato fidati testimoni, teologi ed altre dotte e pie persone sugli episodi verificatisi e significativi come inspiegabili, così da sembrare veri episodi miracolosi operati da Dio per intercessione di san Luigi. Letta la relazione, ho emanato la sentenza il 12 giugno, vigilia di Pentecoste, e pubblicai alla fine del presente anno che “constava in modo chiaro dei fatti riferiti”. Dallo stesso arcidiacono il documento fu sottoscritto e presentato alle città di Fermo e a Macerata. Del resto non posso tacere il fatto straordinario accaduto nella mia famiglia. Il giovane Pietro Paolo Leonardi di Amelia, figlio di una mia sorella, che per motivo di studio si trovava presso di me, malato gravemente di pleurite e in pericolo di vita, dopo aver invocato l’intercessione di san Luigi, ricuperò la salute.[22]

1734.2    Mons. Rizzardo Isolani viene nominato vescovo di Senigallia.

Rizzardo Isolani, governatore di Fermo, da Clemente XII fu designato vescovo di Senigallia. Egli venne subito da me per comunicarmi la notizia. Fino a quel giorno egli non era venuto da me in visita, né in modo privato, né ufficialmente ed in pubblico. Da quel momento ci trattammo frequentemente  in maniera amichevole, non solo fino al momento che si recò a Roma per la consacrazione episcopale, ma anche per tutto il periodo del suo episcopato.

1734.3   Prosecuzione della seconda visita pastorale – Consacrazione della nuova chiesa in Torre  San Patrizio – Visita a Rapagnano, a Loro e a Montecosaro – La parrocchia di San Crisogono di nuovo istituita nel territorio di Mogliano deve essere ricollocata               in campagna.

Il 2 di maggio, ho ripreso la visita pastorale e sono stato nei paesi di Torre San Patrizio, Rapagnano, Monte San Pietrangeli, Petriolo, Mogliano, Loro e Morrovalle. Alcuni di questi paesi li ho visitati personalmente, altri li ho affidati al mio vicario generale. In particolare il 3 di maggio a Torre San Patrizio, ho dedicato solennemente la chiesa della pievania, ricostruita dalle fondamenta dal pievano Giovanni Battista Galli, precedentemente mio cancelliere, e l’altare maggiore al nome del nostro Salvatore. A Rapagnano, il 9 maggio, ho dedicato la chiesa parrocchiale alla beata Vergine Maria. Il 19 maggio mi sono recato a Loro e vi ho visitato la chiesa di San Giorgio e il giorno 23 ho dedicato la chiesa di Sant’Agostino di Montecosaro che apparteneva ai frati Agostiniani; vi sono arrivato dopo essere stato a Loro e prima di recarmi a Morrovalle. A Mogliano, già nella prima sacra visita avevo deciso che il parroco di san Crisogono, che abitava all’interno del paese ed esercitava il suo ministero pastorale nell’oratorio di san Crisogono (che serviva da chiesa anche alle monache, non senza provocare il dispiacere delle suore) si trasferisse in campagna presso l’antica chiesa parrocchiale rurale di san Crisogono semi-diruta. Per questo, dopo aver venduto degli edifici all’interno del paese, appartenenti alla stessa parrocchia, ho disposto la costruzione di alcuni locali  come abitazione per il parroco. In questa seconda visita ho emanato i decreti per la ricostruzione della chiesa rurale capace di accogliere il popolo e che fosse idonea per lo svolgimento delle funzioni parrocchiali. Consegnai a tale scopo la somma di trecento scudi, offerti dalle monache come riscatto dei diritti goduti dal parroco sull’oratorio di san Crisogano all’interno del paese di Mogliano che dalla parrocchia passavano in completa proprietà delle religiose per le pratiche devote del loro monastero. In effetti, nei primi secoli anche nelle campagne esistevano chiese parrocchiali, ma a seguito di guerre e conflitti locali scoppiati nelle zone, i parroci si erano rifugiati nelle cittadine o paesi e nei castelli. In seguito, tornata la pace, le zone di campagna ricominciarono a ripopolarsi per cui era molto scomodo che la cura pastorale si svolgesse all’interno dei paesi e non nelle zone rurali. Per questo mi sono convinto di operare con tutte le forze perché in tutto il Piceno venissero ricostituite le parrocchie nelle sedi rurali.[23]

1734.4    Filippo Nicola Spinelli innova molte cose – Visita pubblica ed ufficiale dovuta dal governatore all’arcivescovo.

All’inizio di giugno, ero rientrato a Fermo, e, dopo giorni dopo, era giunto in città, come nuovo governatore, Filippo Nicola Spinelli, napoletano dei principi di Scalea, uomo molto astuto, nel complesso retto e onesto, pieno di susseguo per la nobiltà e per la grandezza del suo casato e per la parentela che lo legava al card. Carafa e al card. Firrao, segretario di Stato. Tutto ciò lo rendeva facilmente sprezzante nei confronti degli altri. Innanzitutto egli si rifiutò di compiere un suo consueto dovere nei miei confronti, di rendermi pubblicamente una visita di omaggio. Recentemente poi, in occasione della festa del Corpus Domini, dopo aver partecipato alla funzione di adorazione del SS.Sacramento, al ritorno della processione nella metropolitana, subito dopo la benedizione data da me con l’ostensorio, senza aspettare la pubblicazione dell’indulgenza e ancor prima che le sacre Specie fossero riposte nel tabernacolo, abbandonò la cattedrale, tirandosi dietro anche il magistrato della città, e suscitando turbamento e scandalo in tutta la gente, nonostante che il cerimoniere avesse ammonito tutti i presenti a non uscire dalla chiesa fino a quando la celebrazione non fosse terminata. In tale occasione non ho mancato di manifestare il mio disappunto allo stesso confessore del governatore e contemporaneamente ho comunicato l’accaduto al card. Carafa suo zio, pregandolo di richiamarlo a tenere un comportamento più appropriato. Il card. Firrao, da me informato, mi ho scritto, di suo pugno, una lettera con la quale mi consigliava di fare a suo nipote una visita privata per ricordargli i doveri che lo legavano all’arcivescovo, in forza della sua carica di governatore e di ottemperare all’obbligo di rendergli pubblica ed ufficiale visita di omaggio.

Seguii il suo consiglio, ma nel contempo gli ho mandato una nuova lettera in cui ribadivo che non è consentito mutare l’antica tradizione, secondo la quale il governatore, all’arrivo nella sua sede doveva subito rendere la sua visita di omaggio all’arcivescovo, nella sua qualifica di padre della città e anche per significare e riconoscere che spetta alla Chiesa concedere il potere civile, e che non era consentito di rimandare troppo a lungo il compimento di tale impegno, e che il dovere di rendere visita di omaggio all’arcivescovo, appena preso possesso della carica, non poteva essere confuso o cumulato col dovere di cortesia di far visita all’arcivescovo in occasione della scambio degli auguri nella circostanza delle festività natalizie. L’arcivescovo rendeva a sua volta la visita all’altro. Del resto la giustezza della mia opinione era dimostrata dal solenne decreto del concilio Tridentino al cap. 17, sess. 25 “Sulla riforma” dove si affermava che i vescovi in qualsiasi sede, erano da considerarsi come padri e pastori, e che ogni altra autorità doveva dimostrare nei loro confronti onore e riverenza. La non osservanza di tale norma sarebbe da considerare come esplicito rifiuto di prestare fedeltà alla Chiesa Romana. Per cui ogni omissione relativa all’onore dovuto all’arcivescovo e principe di Fermo si risolverebbe in una offesa al papa, a cui compete la tutela della dignità di tutti i vescovi. E se ciò accadesse nei confronti dell’arcivescovo e principe fermano, cosa accadrebbe nei confronti dei semplici vescovi di diocesi più piccole e meno importanti da parte di altri governanti?  Tutto inutile.

Le lettere scritte da me e dal card. Firrao, segretario di Stato, non sortirono alcun effetto; tuttavia il governatore Spinelli registrò negli atti della sua curia la mia visita privata a lui fatta e la sua privata visita a me, da lui restituita. Egli in seguito evitò di fare a me la prevista visita pubblica di omaggio in occasione dello scambio degli auguri nelle feste natalizie, rendendosi assente dalla città. Era vero, peraltro, che prima della partenza si era proposto di rendermi visita pubblica di omaggio, ma mi fece sapere di non gradire che, nell’andare io al palazzo, indossassi le mie insegne e che fossi preceduto dalla croce arcivescovile, secondo la tradizione fino ad allora vigente. In conseguenza stimai opportuno di rifiutare di ricevere la sua visita di omaggio, in conseguenza della sua ingiusta pretesa.[24]

1734.5    L’arcivescovo dà alle stampe le sue omelie Nocerine – Ne fa dedica al cardinale                  Giovanni Antonio Guadagni – Papa Clemente XII approva e loda tale iniziativa.

Queste vicende incresciose che, per la tristezza dei tempi e l’arroganza degli uomini, recavano danno all’immagine della Chiesa, erano da sorvolare. Nutrivo, allora, nel mio animo, il forte desiderio di liberare i vescovi italiani dall’accusa lanciata loro dai vescovi francesi, di avere trascurato il principale obbligo del servizio episcopale, quello cioè della predicazione della parola di Dio per istruire i fedeli. Personalmente mi ero sempre sforzato di imitare l’esempio di Clemente XI che mi aveva affidato l’episcopato Nocerino. Egli infatti sempre nelle Messe pontificali tenne omelie, pregevoli nello stile e profonde nel contenuto. Per quanto me lo consentivano le capacità, anche io tenni sempre l’omelia tutte le volte che celebravo le pubbliche funzioni a Nocera e, in seguito, ho sempre mantenuto questo impegno anche quando fui trasferito come arcivescovo a Fermo. Non usavo normalmente la lingua latina, se non nei sermoni pronunciati nel sinodo e negli elogi funebri. Nelle altre occasioni ho sempre usato la lingua italiana per farmi capire dagli ascoltatori.

Ho inoltre preso l’iniziativa di dare alle stampe, prima di tutto, le omelie Nocerine e successivamente quelle tenute a Fermo. Feci tutto ciò, non soltanto per stimolare i vescovi negligenti, se mai ci fossero nelle nostre zone vescovi che disattendano il dovere principale di predicare, ma anche per consentire al mio clero e al popolo la possibilità di ricordare i miei insegnamenti. Era compito, infatti, dei vescovi non soltanto di istruire  nella legge di Dio i fedeli che intervenivano alle funzioni e alle prediche, ma di far conoscere le istruzioni di vescovo ai fedeli che non potevano intervenire personalmente. Questo non sarebbe stato possibile, se non pubblicando a stampa il testo delle omelie dette a voce. Così del resto facevano gli antichi Padri, anche se in quegli antichi tempi non esistevano le tipografie. Pertanto quanto più dovremmo essere diligenti ai nostri tempi e impegnarci oggi che non avremmo la necessità di utilizzare il lavoro di numerosi amanuensi da pagare, ma sono disponibili strumenti più facili e veloci. Perciò proprio in quest’anno avevo deciso di dare alle stampe a mie spese le omelie pronunciate a Nocera Umbra, presso la tipografia Gabrielli di Camerino, dando l’incarico di correggere le bozze di stampa a Francesco Savini camerte, uomo altrettanto nobile quanto erudito, fratello del mio vicario generale. Ho dedicato l’opera a fra’ Giovanni Antonio Guadagni, nipote di Clemente XII, che Benedetto XIII, allorché mi trasferì all’arcivescovato di Fermo, nominò vescovo di Arezzo, quando ancora era monaco professo nell’Ordine Carmelitano riformato. Successivamente, Clemente XII suo zio, lo creò cardinale, destinandolo come suo delegato a reggere il vicariato della città di Roma, abdicando da Arezzo. Pensai che fosse opportuno dedicare l’opera proprio a lui, sia perché era stato professo di quel santissimo ordine, che mio fratello fra’ Felice di santa Caterina aveva conosciuto e stimato, sia perché fu vicario di Roma, anche nel periodo del pontificato di Benedetto XIII, nell’ordine episcopale.

Una copia del libro delle mie omelie fu consegnata anche al papa da mio fratello Pietro Antonio Borgia; egli lodò molto la mia iniziativa della stampa delle omelie e volle che gli venissero lette alcune di esse, poiché era ormai diventato quasi cieco. Espresse poi l’auspicio che anche altri vescovi facessero altrettanto, per cui ho distribuito il volume a molte persone, sia a Nocera che a Fermo, ai miei antichi discepoli e ad altri.[25]

1734.6    Cesare Borgia viene accolto tra i Cavalieri dell’Ordine militare Gerosolimitano.

Nel frattempo, mio fratello Cesare Borgia fu ascritto tra i Cavalieri dell’Ordina di San Giovanni Gerosolimitano. Per ottenere questo, non solo dovetti sborsare una ragguardevole somma di denaro, ma scrissi anche un’istruzione e alcuni ammonimenti per accompagnarlo nel momento in cui egli intraprendeva il cammino in questa nuova condizione militare. Trascorsi cinque anni di tirocinio e di noviziato, fu accolto come militare prima nelle triremi e in seguito fu aggregato come milite nelle navi destinate a combattere contro gli infedeli.

1734.7    Prosecuzione della seconda sacra visita – Inaugurazione della chiesa di santa Lucia a   Montefiore – Ordinanza con cui viene disposto che non è più consentito di seppellire imorti nelle chiese, ma è necessario approntare dei cimiteri per la sepoltura        dei cadaveri.

Nel mese di settembre, ho ripreso la visita pastorale; l’ho eseguita di persona a Montefiore e a Campofilone, mentre ho delegato il mio vicario generale a compierla a Guardia (Carassai), Rocca di Monte Varmine, Massignano e Pedaso. A Montefiore ho ammirato con gioia la chiesa matrice di Santa Lucia, in cui era eretto un capitolo di canonici. La chiesa era stata restaurata in modo molto soddisfacente. Ho espresso il mio desiderio di vederla liberata dalle sepolture. Era stata, infatti, demolita la vecchia abside ed era stato ricavato uno spazio destinato a diventare un cimitero; ordinai quindi che ivi si seppellissero i cadaveri, dopo aver celebrati i riti esequiali.

Per la verità la prassi di seppellire i morti nelle chiese era contraria all’antico uso e provocava molti danni ai luoghi di culto, anche per il cattivo odore che vi si formava. Inoltre nelle chiese si seppellivano i cadaveri perfino di individui che appartenevano all’infima plebe, mentre nel passato per questi si costruivano cimiteri collocati all’esterno dei templi. Di solito si seppellivano nella chiesa i vescovi e uomini illustri. In realtà notiamo che, il più delle volte,  principi e uomini illustri venivano sepolti negli atri delle chiese, nei chiostri dei monasteri o in parti nascoste della chiesa, ma mai, specialmente nel caso di persone comuni, all’interno dei luoghi di culto e mai assolutamente nei pressi degli altari. L’uso contrario rappresentava una grave mancanza di rispetto per le cose sacre e sarebbe stato motivo di disturbo per coloro che frequentavano le funzioni religiose. Inoltre tale prassi sarebbe in disprezzo delle norme contenute nel rituale romano in cui è esplicitamente detto che un tale abuso era severamente condannato e intollerabile. Per questo attualmente tale abuso non doveva essere consentito in nessuna delle nostre chiese e i cadaveri dovevano tutti essere portati nei cimiteri.

Frequentemente però la norma venne contraddetta a causa di una interpretazione lassista delle parole usate nei testi. Al presente, per cimiteri si intendevano non quei luoghi in cui venissero sepolti i cadaveri subito dopo il decesso e le esequie, ma venivano individuati ancora all’interno delle chiese e non come cimiteri esterni. Questi realmente sarebbero i luoghi nei quali trasferire i resti mortali, cioè le ossa e la polvere, allorché venivano evacuate le tombe poste all’interno delle chiese, dopo fatto lo spurgo.

1734.8    La cappellina di san Martino e gli annessi edifici che sono nei pressi di Fermo vengono  illustrati con iscrizioni in versi.

Tornato a Fermo, nel mese di ottobre, mi sono recato a villeggiare e riposare presso la località di San Martino, nei pressi della Città, ma non sono stato in ozio. La piccola cappella, unica parte restata dell’antica chiesa di San Martino, ormai quasi totalmente crollata, l’ho fatta adornare con un’iscrizione da me composta a lode del santo vescovo Martino. Alla stessa maniera ho fatto apporre negli edifici annessi dei versi, tratti dalle opere di antichi poeti nei quali sono dettate indicazioni utili al vivere onestamente in pubblico e in privato. Stimai opportuno di aggiungere iscrizioni tratte dai santi Padri e dai detti di Seneca, facendole collocare nelle pareti a partire dall’ingresso e via via nell’atrio coperto, lungo la scala e nella prima sala. Sono testi composti in stile vario, atti a dilettare gli occhi, a stimolare l’animo e accendere il desiderio delle virtù.

Il padre gesuita Nicola Bardi, che villeggiava insieme con me, compose un breve epigramma destinato alla sala grande per esprimere il mio sentimento:

Affinché il predio coltivato a San Martino non mancasse di una degna sede  \  Alessandro Borgia restaurò l’edificio ormai cadente  \  ma più che la salubrità dell’aria piacque la cultura dell’anima  \  In questo luogo con occhio scrutatore potrai leggerne i frutti.

1734.9    L’arcivescovo si prende cura dei fanciulli abbandonati e di orfane ed orfani.

Il grande ospizio che esisteva nella nostra Città per accogliere i bambini abbandonati, nel quale venivano accettati anche molti bambini provenienti da altre zone, aveva, come norma principale, che i fanciulli maschi venissero dimessi non appena compiuti i cinque anni di età. Ora se essi non trovavano qualche benevola persona che si prendesse cura di loro, accadeva che, privi di ogni risorsa, senza alcuna speranza per il futuro, seminudi, gironzolavano per le vie della Città e, privi di una casa, andavano di casa in casa a chiedere l’elemosina, a mendicare un pezzo di pane, non si dedicavano ad apprendere un qualche mestiere e si avviavano a compiere azioni disoneste, raramente frequentavano le chiese e crescevano in strada nell’abbandono e nella sporcizia.

Ho dedicato tutto l’anno a provvedere sia a loro che ad altri ragazzi diventati poveri orfani per la cattiveria degli avari genitori. Ho provveduto infatti che, a cura dell’arcidiacono della metropolitana, tali ragazzi venissero raccolti, vestiti e nutriti a mie spese e affidati ad esperti artigiani per apprendere un mestiere, affinché ciascun ragazzo, sulla base delle proprie tendenze e delle attitudini, fosse accolto nelle botteghe degli artigiani da loro  preferite e in tal modo, tolti dalla condizione di mendicità, potessero apprendere un mestiere, venissero istruiti nella dottrina cristiana dai propri parroci ed educati nei buoni costumi. Nel corso dell’anno erano stati raccolti tredici ragazzi e spererei siano molti di più nei prossimi anni.[26]

1734.10   Viene decretata e introdotta la clausura nel collegio delle orfane.

Nel mese di novembre, ho fatto la visita al conservatorio delle orfane esistente nella città di Fermo; in esso potevano entrare liberamente gli uomini e le donne; ho pertanto disposto e fatto sistemare a mie spese la clausura al fine di impedire il libero ingresso degli uomini.



[1] Nel leggere la ricostruzione dei fatti proposta da mons. Alessandro Borgia, bisogna tener presente i sentimenti di venerazione, di amicizia, di affetto e di riconoscenza che egli nutriva per Benedetto XIII. Tali condizioni di spirito non gli consentivano di dare pesa ad alcune situazioni oggettive, poco lodevoli, che si erano venute a creare specialmente negli ultimi anni del pontificato di Benedetto, in particolare per gli stretti rapporti e l’atteggiamento che ebbe nei confronti del cardinale Coscia e per il comportamento di qualche prelato venuto a Roma da Benevento.

[2] Una ricostruzione moderata e oggettiva dei fatti viene offerta da Pastor il quale esprime anche un sommario giudizio del pontificato di Benedetto XIII, sottolineandone gli aspetti positivi e riconoscendo alcuni punti deboli del suo comportamento nel governo della curia Romana. Dalla ricostruzione dei fatti proposta dal Pastor si coglie che i gravi disordini verificatisi contro i cardinali, i famigliari del papa e i suoi più stretti collaboratori, siano da addebitare a funzionari di curia  Romana, particolarmente infastiditi dai favori concessi al cardinale Coscia e ad altri personaggi che avevano seguito papa Benedetto da Benevento e dei quali egli si era ciecamente fidato. Cfr. L. von PASTOR, Storia dei Papi, vol. XV, pp. 634-643.

[3] E’ evidente l’intenzione del Borgia di dare una sua interpretazione del fatto della revoca degli impegni presi dalla camera Apostolica, in relazione al pagamento del frumento acquistato, venduto dalla mensa arcivescovile di Fermo. Secondo l’interpretazione data dall’arcivescovo: si trattava di una ritorsione per punire il suo stretto legame sempre manifestato verso Benedetto XIII e per la magnanimità che il pontefice gli aveva sempre riservato.

[4] Qui il Borgia giustifica la generosità usata da papa Benedetto XIII verso i propri congiunti con un ragionamento alquanto complesso. Il suo argomentare fa capire che anche il Borgia riconosce l’atteggiamento compiacente del pontefice verso i suoi parenti ed amici. Nel tentativo di giustificarlo si aggrappa su scusanti. Riconosce tuttavia che bisogna ammettere un’eccezione allorché si considera il caso del cardinale Coscia, personaggio, a dir poco, alquanto fosco.

[5] Alessandro Borgia nel tentativo di difendere Benedetto, cerca di giustificare i comportamenti del cardinale Coscia, pur riconoscendo che questi rasentavano gravi pratiche simoniache. Adduce, come scusante, che tutto ciò era normale nelle cancellerie dei prìncipi laici e le dichiara, se non giuste, almeno comprensibili con la scusa di procurare il bene comune dello Stato. Il ragionamento dell’arcivescovo è, in effetti, molto debole. Ben diverso è il giudizio che danno gli storici e in particolare il Pastor allorché parla della morte di papa Benedetto: La debolezza del suo carattere, la sua credulità e dabbenaggine vennero sfruttate con sfrontatezza inaudita dal Coscia e dai compagni di lui. I gravi abusi che ne derivarono non danneggiarono soltanto le condizioni finanziarie della santa Sede, ma anche i suoi interessi e il suo prestigio…, cfr. L. von PASTOR. Storia dei Papi, Roma 1962, vol. XV, p.638.

[6] Tutta la vicenda del processo è narrato  dal Pastor, Ibidem, vol. XV, pp. 670-675, con interessanti note di commento.

[7] Le prebende teologali non debbono essere considerate benefici “sine cura” (senza impegni), un modo cioè per concedere prebende, ma incarichi molto importanti, utili e delicati. Il canonico teologo infatti ha l’ufficio di spiegare teologia e Bibbia al clero della collegiata e di tenere le catechesi al popolo.

[8] Alessandro Borgia aveva veramente la “frenesia del mattone”. In questa Cronaca fermana innumerevoli e continui risultanoi gli interventi d’edilizia in costruzioni ex novo, restauri radicali e ciò sia nella città che nelle campagne.

[9] Si tratta di tutto il carteggio documentario relativo ai benefici cosiddetti “de jure patronatus” cioè di tutta la documentazione in cui c’erano le prove che su un beneficio una famiglia aveva il diritto di segnalare al vescovo il nominativo a cui assegnasse un determinato beneficio. Il Borgia giustamente ne valorizzava l’importanza e l’interesse.

[10] A. Borgia manifesta un profondo sentimento di delusione per quello che stava succedendo nell’ambito della curia Romana. Egli aveva la netta impressione che, in tale contesto, l’arcidiocesi di Fermo avrebbe corso grossi rischi in materia di privilegi, esenzioni e immunità, ottenute nel corso dei secoli precedenti. L’impegno dell’arcivescovo a difendere i diritti della Chiesa fermana mostrava che la politica messa in atto dalla curia Romana era autolesionista.

[11] Il “cattedratico” è un tributo in denaro che era dovuto da ogni parrocchia, chiesa, cappella, beneficio ecclesiastico non laicale, e  da confraternite che possedevano la chiesa propria, come riconoscimento dato al vescovo per il suo servizio episcopale nella diocesi. Il reddito di tale tassa era a completa disposizione del vescovo.

[12] La congregazione dell’Oratorio di S. Filippo Neri fu introdotta a Fermo il 16 aprile 1582 ad opera di padre Turchetti  Pensabene. Un vivacissimo gruppo di religiosi Oratoriania Fermo,  si dedicavano prevalentemente all’educazione cristiana dei giovani, inoltre si interessavano anche della predicazione al popolo e della formazione del clero. La loro attività nell’archivio diocesano è testimoniata da una varia documentazione che costituisce un fondo archivistico a parte intitolato “archivio della chiesa di san Matteo, dei Filippini”. Cfr. A. CISTELLINI, Oratoire Philippin, in “Dictionnaire de spiritualité”, Paris 1983, IX, pp. 868-873.

[13] Nel 1704, chiamati dall’arcivescovo di Fermo, cardinal Baldassarre Cenci, erano venuti a Fermo, i padri della congregazione della Missione, fondata nel 1632 da san Vincenzo de Paoli, detti Lazzaristi. Questi religiosi ebbero dal cardinale arcivescovo il compito di seguire e curare la formazione dei giovani che manifestavano la propensione verso la vita ecclesiastica e in particolare di curare la preparazione teologica, biblica e spirituale dei chierici dichiarati idonei e prossimi a ricevere gli ordini sacri, specialmente di coloro che attendevano di essere ordinati sacerdoti. Il cardinale Cenci aveva dettato precise norme per attuare gli scopi prefissati. I religiosi si dedicavano anche alla predicazione delle sacre missioni al popolo e alla formazione dei missionari “ad gentes”. Cfr. E. TASSI, Teodorico Pedrini, missionario fermano alla Corte imperiale cinese, in “Quaderni dell’ASAF”, n. 39 (2005), pp. 9-28.

[14] C. TOMASSINI, Il Duomo di Fermo nella Cronaca di mons. Alessandro Borgia, in “Quaderni dell’ASAF” , n. 5 (1988), pp. 5-12.

[15] Alfonso Chacon, religioso domenicano spagnolo nacque a Granada nel 1540 e morì a Roma nel 1599. Scrisse tra le altre opere, Vitae et res gestae Summorum Pontificum a Cristo Domino usque ad Clementem VIII, nec non S. R. E. Cardinalium, pubblicata postuma a Roma nel 1601 (La vita e le opere dei sommi pontefici da Cristo Signore a Clemente VIII e vite dei cardinali della santa Romana Chiesa). Il card. Lambertini proponeva al Borgia di continuarne l’opera. Tale proposta rivelava che il futuro Benedetto XIV conosceva e stimava le doti e le capacità di Alessandro. Quanto egli scrive in questo paragrafo ci svela le sue effettive attitudine di ricercatore e di biografo.

[16] M. TEMPERINI, Origini della Congregazione del SS. Bambino Gesù di Fermo (1710-1733), in “Quaderni dell’Archivio Storico Arcivescovile di Fermo”, n. 32 (2001), pp. 57-75. Caterina Azzolino, vedova Gigliucci, con testamento rogato nel 1639 dispose la fondazione di una congregazione femminile.L’Arcivescovo Girolamo Mattei a questo scopo chiamò da Ascoli due suore che vivevano nel convento delle Convittrici. Esse diedero origine alla casa di Fermo, effettivamente nel 1717. Fu assegnata a loro la chiesa di Santa Croce dei Canneti che venne restaurata nel 1727. Cfr. Archivio Storico Arcivescovile di Fermo, Erectio novi Monasterii Convictricium, 20 februarii 1714, posizione  IV-Z-17.

[17] Anche nell’Archivio storico arcivescovile esistono inventari di varie confraternite, oltre che delle parrocchie.

[18] In questa vicenda A. Borgia manifestava la puntigliosità, il rigore, la sottigliezza giuridica e anche qualche generosità.

[19] M. CROCI – F. DE ANGELIS,  et al., Sisto V e lo Studio Generale di Fermo, in “Quaderni dell’Archivio Storico di Fermo” n. 3 (1987) pp. 54-89. Il documento di fondazione nell’archivio del comune Fermano è di Bonifacio IX.

[20] Nella Cronaca moltissimi sono gli interventi dell’arcivescovo nell’ambito della difesa dei territori delle proprietà della mensa arcivescovile. E’ questa una abilità del Borgia, specialmente riguardo ai corsi d’ acqua. Frequenti furono le costruzioni di argini con solide palizzate e piantagioni di pioppi.

[21] I porporati della congregazione del Buon Governo e i funzionari apprezzavano l’esperienza edilizia e la competenza di mons. Alessandro Borgia.

[22] Di questi e di altri episodi prodigiosi accaduti nel corso di quegli anni per intercessione di san Luigi Gonzaga si conserva un processo canonico nell’archivio diocesano alla segnatura IV-T-8.

[23] Tra le varie iniziative pastorali, l’arcivescovo Borgia, attento alle esigenze della vita cristiana delle popolazioni rurali, nelle visite pastorali spesso prendeva l’iniziativa di istituire nuove parrocchie rurali e, laddove esistevano antiche parrocchie di campagna, ordinava, come qui notiamo, di restaurare chiese diroccate e di costruire la casa canonica, dove il parroco  risiedesse.

[24] La lunga esposizione di questo caso di etichetta farebbe oggi sorridere come tratto discutibile della personalità del Borgia e anche della mentalità del tempo. Forse è da considerare che il quei tempi le questioni dell’etichetta erano considerate questioni di sostanza.

[25] Sullo stile della lingua latina dei sermones del Borgia si ha una valida analisi: O. PASQUALETTI,  Breve critica letteraria su alcuni documenti di sacra eloquenza reperiti nell’Archivio diocesano di Fermo: scritti e discorsi di mons. A. Borgia, in “Quaderni dell’ASAF, n, 5 a.1988, pp. 5-12.

[26] E. TASSI, Le Istituzioni benefiche di carattere assistenziale-educativo nella città di Fermo, in “Quaderni dell’ASAF”, n. 52  a. 2011, pp. 5-22. Cfr. in ASAF La Scuola Pia per le fanciulle, fascicoli manoscritti, alla posizione archivistica IV-Z-31/34.

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