PER UNA LETTURA DEI CANTI XI – XII DEL PARADISO
Prof. LIBERATI GERMANO
Nella lettura dei canti XI – XII del Paradiso dantesco, appaiono evidenti alcune caratteristiche che li accomunano: 1)- un legame come di distico; 2)- elementi e personaggi correlati e tematiche intrecciate, tali da costituire un blocco unitario; 3)- un discostarsi dalla struttura dei canti precedenti, tramite un andamento narrativo specifico, quello del “panegirico” (1); 4)- i personaggi presentati, specie gli oratori (S. Tommaso e S. Bonaventura), non parlano di se stessi, come Dante ci ha abituati, bensì fanno conoscere un “assente”, cui sono legati e che costituisce il punto di riferimento ideale e la pietra di paragone per ogni loro giudizio (2). Queste ed altre osservazioni si trovano disseminate nelle presentazioni o nelle note di commento dei principali manuali in circolazione (3).
Restano comunque annotazioni spesso frammentarie che non ci aiutano a cogliere l’intera problematica dantesca, in riferimento al particolare scarto strutturale e semiologico con cui i due canti si presentano, rispetto agli altri del Paradiso. La piena comprensione, perciò, è legata ad una lettura globale ed attenta, onde individuare la intenzionalità particolare, o, se si vuole, la ispirazione, che ha animato il poeta: intenzionalità e ispirazione che hanno reso i due canti un qualcosa di “unico”.
Affidiamoci, dunque, ad un corretto e serio esame del testo della cantica, evidenziandone la originale struttura e la ricchezza semiologica; la loro comprensione diventa più ampia e più piena, e tutte le connotazioni contestuali (storico-politiche, sociali e religiose) appaiono motivate, e non sono frutto, come spesso accade, di pregiudizi ideologici o intuizioni dovute ad un impressionismo critico che ha tutti i difetti della frammentarietà e dell’improvvisazione, oltre che il rischio di una visione antistorica, perché extratestuale.
Come è stato chiaramente precisato nel titolo, quello che vengo esponendo ha il valore di “appunti”. In questa sede non è possibile se non suggerire aspetti di valutazione, tali, tuttavia, che siano in stretta aderenza al testo dantesco e in un chiaro legame nei vari momenti di analisi. Mi soffermerò pertanto su di una individuazione della struttura dei due canti, per una ricognizione successiva dell’ambito retorico o del genere letterario in cui essi debbono essere collocati; inoltre, poiché il testo presenta una peculiarità linguistico-semiologica, sarà opportuno cogliere anche il marcato scarto, onde individuare il preciso riferimento ai protagonisti ideali. A questo punto sarà allora possibile un approfondimento critico con sottolineature di implicanze metodologiche e didattiche.
1.LA STRUTTURA
1.1. L’elogio – usiamo per ora questo termine generico – di S. Francesco e di S. Domenico e si dipana nei canti XI e XII del Paradiso, ha caratteristiche comuni, che si estendono dalla identica successione dei momenti della vita e della missione dei due santi, a blocchi più ampi che inglobano atmosfera, paesaggio e denuncia della decadenza dei due ordini religiosi da essi fondati, finanche, talora, ad identità per numero di versi e per posizione contestuale di alcune parti. Un doppio schema sinottico può aiutare nel mettere in evidenza questo enunciato;
Cadenza dei blocchi narrativi
Canto XI |
Canto XII |
Introduzione (vv.1-11) | —————————— |
Danza della corona e inizio deldiscorso (vv.12-27) | Danza delle corone e inizio deldiscorso (1-33) |
Motivazioni e finalità (vv.28-42) | Motivazioni e finalità (vv.34-45) |
Elogio di S. Francesco (vv. 43-117) | Elogio di S. Domenico (vv. 46-105) |
Trapasso (vv. 118-123) | Trapasso (vv. 106-111) |
Decadenza dell’Ordine Domenicano(vv. 124-139) | Decadenza dell’Ordine Francescano(vv. 112-126) |
——————————– | Conclusione (vv. 127-145) |
È evidente come un primo aspetto dell’intenzionalità dantesca sia quello di dare una esatta dimensione della grande realtà che ha rappresentato nella storia sociale, politica e soprattutto religiosa del Medio Evo la presenza e l’opera dei due grandi riformatori.
Il clima iniziale e la introduzione dei personaggi designati a interloquire sono analoghi, come pure l’elogio dei santi fondatori; si giunge così, in entrambi i canti ad un “Ma” (XI,124 e XII, 112) che introduce la svolta ed il giudizio sulla realtà presente. Si noti poi come il canto XI abbia una particolare introduzione, costituita da un’apostrofe, che non ricorre nel XII e quest’ultimo invece, ha una conclusione non presente nell’altro; questi dati di introduzione e di conclusione costituiscono gli unici elementi senza parallelismo. Nell’economia strutturale indicano chiaramente la compattezza e l’unità dei due canti. L’introduzione, tramite un’apostrofe (in XI) e la conclusione (in XII) con la presentazione delle anime della seconda corona, sono anche gli unici elementi a carattere retorico-strutturale che non presentano novità di rilievo e originalità rispetto ad altri canti del Paradiso, in cui simili stilemi ricorrono di frequente. Tali elementi hanno la funzione evidente di collegare i due canti, in sé unitari, al contesto di tutta la cantica; conclusività interna e cinghia di trasmissione con il prima ed il poi della cantica stessa.
1.2. Soffermiamoci ora più attentamente sugli elogi in particolare e troviamo al loro interno una parità strutturale evidenziata dal raffronto delle macrosequenze
Elogio di S. Francesco | Elogio di S. Domenico |
Premessa: disegno provvidenziale(vv. 28-42) | Premessa: disegno provvidenziale(vv. 34-45) |
Assisi: luogo di nascita diS. Francesco (vv.43-54) | Calaruega: luogo di nascita diS. Domenico (vv. 46-57) |
Scelta della povertà (vv. 55-84) | Scelta della fede e povertà (vv. 58-81) |
Approvazioni papali (vv. 85-99) | Approvazione papale (vv. 82-96) |
Opera di evangelizzazione (vv.100-108) | Opera di evangelizzazione (vv. 97-102) |
L’ordine e l’eredità (vv. 109-117) | L’ordine e l’eredità (vv. 103-10 |
Trapasso (vv. 118-123) | Trapasso(vv. 106-111) |
1.3. La parità strutturale sarebbe ben più visibile se provassimo a smontare le macro-sequenze dello schema proposto nelle più infinitesimali micro-sequenze da cui esse sono costituite. Valga un esempio per tutte; la macro sequenze ad il luogo di nascita dei due santi è improntata sostanzialmente a riferimenti di carattere geografico con l’interpolazione di elementi di altra natura e metafore allusive.
“Intra Turpino…………..”(caldo-freddo) | analisimeteorologica | “In quella parte ……”(Privavera e Zefiro) |
“Di questa costa …….”(monte) | analogiaoppositiva | “Non molto lunghi……..”(mare) |
“ Sorgere del sole”(oriente) | analogiaoppositiva | “ Calar del sole……”(occidente) |
Assisi(località) | definizioneultima | Calaruega nel regno di Castiglia (località) |
Questo primo accenno di analisi induce a cogliere uno degli aspetti peculiari della struttura dei canti, la corrispondenza simmetrica “nel genere e nell’individualizzazione”, che li fa perfettamente combaciare sia nell’ordine logico interno, sia nell’articolazione narrativa delle sezioni.
1.4. Ma il rapporto di corrispondenza e di parallelismo, oltre che non essere esaustivo della natura strutturale dei canti, rischia di ingenerare anche un’immagine distorta, facendo insorgere una sensazione di materiale giustapposto in un meccanismo compositivo e invece ha carattere organico, attraverso una articolazione dell’intreccio che costituisce il filo conduttore. Il rapporto delle varie parti, infatti, è stabilito attraverso un incastro di carattere chiastico che emerge con sufficiente evidenza sia nelle parti che si costituiscono una cornice contestuale, sia nei blocchi della narrazione.
Cornice contestuale
Introduzione al canto XI | (assenza di introduzione nel canto XII) |
(assenza di conclusione nel canto XI) | Conclusione (i componenti della seconda corona nel canto XII) |
Blocchi narrativi
– Prima corona con S. Tommaso ↢↣ Seconda corona con S. Bonaventura
– S. Tommaso\il domenicano X S. Francesco\il francescano
– Elogio di S. Francesco (S. Tommaso) ↢↣ Elogio di S. Domenico (S.Bonaventura)
– Decadenza dell’ordine X Decadenza dell’ordine
domenicano ↢↦ francescano
In questo modo i canti, oltre alla simmetria, mostrano una unità sorprendente che ne determina la compattezza, superando così la affermazione – non estranea anche a critici di valore – che il secondo dei due canti sia niente altro che la ripetizione del primo non soltanto sul piano strutturale, o, peggio ancora, che il secondo sia artisticamente un’immagine sbiadita dello splendido affresco di S. Francesco: due opinioni che potrebbero essere evitate se si analizzassero i testi sul piano strutturale, evidenziandone il dinamismo di un processo sempre in atto.
2. il Genere letterario
2.1. Una volta chiarito e compreso lo svolgersi intenzionale narrativo dei canti, è criticamente giustificato chiedersi a quale genere letterario o, se si vuole, esemplarità retorica, Dante abbia voluto rifarsi. Ponendo tale quesito, ho inteso il genere letterario non come una specie di etichetta che si appiccica ad un’opera d’arte per poterla classificare, né tanto meno un parametro per avallare un giudizio critico. Il genere letterario rappresenta nella comprensione di un testo il recupero di un entroterra che fa parte del codice dello scrivere e quindi diventa un’analisi di metalinguaggio (in ordine retorico) nel momento in cui conduce a definire l’esatta collocazione storica e il senso esatto della intenzionalità dello scrittore.
2.2 I grammatici latini del III e IV secolo (4) avevano individuato in rapporto alla ‘commemorazione’ di una persona defunta, tre generi diversi, corrispondenti a circostanze, valore della persona in questione e rapporti affettivi intercorrenti tra il morto ed i vivi promotori di tale atto commemorativo o destinatari di esso.
Innanzitutto l’”encomion”: era una sorta di discorso celebrativo in onore talora di un vivo, più spesso di un defunto. Si effettuava nel corso di particolari celebrazioni, che normalmente comprendevano il banchetto funebre e comunque una festa, come si evince dal termine ‘komos’ che lo compone(festa, celebrazione).
In secondo luogo è da considerare l’”eulogion”: ha il carattere celebrativo come l’encomion, ma non è legato ad alcuna festa rituale né assume carattere sacrale; l’”eulogion” poteva essere tenuto nelle occasioni più disparate. Nella struttura, rispetto al precedente, è normalmente più ampio e con ambizione di tessere un quadro del personaggio, in forma più compiuta, articolata ed esaustiva. L’etimo stesso riflette questo carattere: eu-logos = discorso positivo, di esaltazione, in favore di qualcuno.
In fine il “logos paramythetikòs” che è soprattutto una rievocazione di un personaggio illustre a fini ben diversi. Infatti, mentre si celebra l’uomo, la sua vita, le sue azioni, parallelamente si cerca di trarre spunto per sottolineature e considerazioni a carattere etico e consolatorio. Il personaggio diventa insomma modello e la sua perdita viene compensata dalla natura imperitura della sua eredità morale. Non a caso, infatti, nel termine greco è inglobato il riferimento al “mythos” nel suo valore etico-religioso. Modelli letterari di tale genere sono stati usati anche presso i latini, i quali, proprio per accentuare l’intima valenza semantica, li hanno chiamati “consolationes”, rifuggendo, contrariamente ai primi due, da un calco immediatamente fonico. Celebre, ad esempio, sono i testi di Seneca Ad Polibium e Ad Helviam matrem; nella letteratura latina cristiana si riscontrano notevoli esempi in S. Cipriano, S. Girolamo e soprattutto in S. Ambrogio (Teodosio, Valentiniano ecc.). Lo schema di massima si presenta costituito da due elementi principali: un riferimento al passato che consiste nella rievocazione delle gesta o le virtù più significative qualificanti del personaggio; una lettura del presente che riceve luce dalle indicazioni dagli esempi dell’”eroe”, da cui trarre stimoli all’azione motivi di speranza.
2.3. Non è difficile avvertire come la rievocazione di S. Francesco e S. Domenico abbia gli elementi e lo spirito stesso del “logos paramythetikòs”, proprio per lo schema strutturale e la funzionalità stessa della lode. I due santi, in vita e in morte, hanno realizzato un disegno provvidenziale; la loro memoria sarà perenne perché le loro gesta e le loro virtù sono state eroiche. D’altra parte, la scelta stessa di alcuni momenti della loro vita, opportunamente messi in evidenza, è in funzione di una lettura di un giudizio sulla realtà presente, che appare degradata.
Alcune sottolineature: l’insistenza sulla pratica dei consigli evangelici <umiltà, povertà, castità, obbedienza> è in netta contrapposizione con alcuni aspetti di mondanizzazione della Chiesa; la esplicita richiesta dell’approvazione ecclesiale per le regole dell’ordine, per contro, indica il profondo senso della Chiesa che Dante possiede con estrema chiarezza ed introduce i seri dubbi sui tentativi di riforma (gli spirituali, le sette ereticali ecc.) compiuti fuori o contro l’autorità spirituale della Chiesa. Ed in fine, la constatazione della decadenza degli ordini religiosi nasce come conseguenza di un’analisi non delle singole posizioni teologiche o morali, ma in raffronto alle indicazioni delle Regole: decadimento per aver cercato “nuova vivanda”; mentre l’adesione alla propria Regola, approvata dall’autorità ecclesiastica, è l’unico modo possibile per una autentica ed efficace riforma. Gli esempi potrebbero continuare, ma, ritenendolo specimen sufficiente, anche se non esaustivo, siamo ora in grado di capire il perché Dante abbia scelto un tale schema retorico, insolito nella letteratura medievale, ma pregnante ed adeguato alla sua visione cristiana e al suo messaggio specifico.
3. Qualche spunto di analisi semiologica
3.1. È ormai acquisito tra gli studiosi di linguistica e di analisi testuale, come alla base di ogni ricerca letteraria di tale genere sia la fedeltà al principio incontrovertibile, per cui, oltre alla struttura di un testo, sia necessario cogliere i “segni” come significanti carichi di significati. Difatti se analizziamo tali elementi che costituiscono la specifica ed individualizzata trasmissione del testo, nella concreta fattispecie dei canti XI e XII, troviamo una grande pregnanza semantica del segno oltre che uno scarto notevole rispetto al linguaggio semplicemente comunicativo, per cui i segni appaiono pieni di multiple implicanze e connotazioni. Alcune esemplificazioni.
a)- La situazione della Chiesa: nel canto XI ricorrono termini come “diletto”, “sposa”, “disposò”; nel XII invece “esercito di Cristo”, “riarmar”, “imperator”, “milizia”, ecc. La situazione pur sostanzialmente identica, è qualificata nel canto XI come tradimento: tradimento di un rapporto coniugale quali è quello della Chiesa nei confronti dello “sposo” Cristo; nel secondo caso invece, viene evidenziata come mancanza di disciplina o, se si vuole, disordine e disimpegno; termini e significati nel gergo militare indicano, di volta in volta, ribellione, ammutinamento, pusillanimità.
b)- I luoghi di nascita dei due santi: troviamo ricorrente, ma con intensa allusività, il termine “sole” (oriente/occidente); con una metafora sponsale, ricorre l’appropriata citazione di un contemplativo (il ‘Beato Ubaldo’) nel canto XI, mentre evidenti richiami all’ordine, alla disciplina sono i riferimenti araldici al re di Castiglia del canto XII che ben si addicono a S. Domenico.
c)- Le scelte di vita dei due santi sono, in entrambi i casi, sono scelte volte ad opporsi al lassismo della Chiesa: un matrimonio fedele ed indissolubile con madonna povertà in S. Francesco; con la fede, pur senza trascurare la povertà, in S. Domenico. La povertà è rappresentata come una donna (metafora forse più che allegoria o simbolo) ed il legame espresso, sottolineato in termini coniugali sia nel santo di Assisi (“l’amò più forte”) che nei suoi frati (“ dietro allo sposo/ sì la sposa piace”). La fede è invece adombrata in San Domenico da visioni e sogni, etimologie e termini quali “santo atleta”, “messo”, “familiar” che riconducono all’”esercito di Cristo” iniziale.
d)- La natura della riforma e dell’opera dei due fondatori è anch’essa qualificata in modo semiologicamente diverso. “La gente poverella”, “maestro”, “umile capestro”, sono i termini che connotano il francescanesimo in rapporto specifico all’umiltà e alla povertà evangeliche. “Gran dottor”, “dottrina”, “quasi torrente”, “sterpi eretici”, “impeto suo”, “diversi rivi” si riferiscono allo specifico dei domenicani, dottori di teologia e grandi predicatori: l’accento, in questo caso, batte sulla formazione alla fede cristiana e alla sua ortodossia. Paradigmaticità metaforica e di equivalenza semantica invece, caratterizzano il lavoro di entrambi nella chiesa; “orto, “vigna”, “agricola”, “vignaio”, e stanno lì a testimoniare una identità di impegno ed una finalità comune.
3.2 Ma lo scarto semantico della lingua e la opposizione o equivalenza metaforica appaiono in tutta la loro pregnanza, se, oltre alla classificazione interna, si opera una azione di raffronto contestuale. Soffermiamoci un attimo a considerare il rapporto esistente tra San Francisco de “I fioretti”, quello dipinto da Giotto nella basilica superiore di Assisi e questo narrato da Dante nella Commedia.
I “Fioretti” ci presentano un S. Francesco, per così dire, “popolare” o meglio, evidenziando la bellezza e la luminosità dell’animo del santo, dove fantasia, spontaneità, ingenuità (in senso etimologico), capacità di incantarsi con gli occhi puri di un fanciullo, fanno tutt’uno con la bontà del suo cuore.
Il S. Francesco degli affreschi assisiati rappresenta la figura del santo quale scaturisce dalla riflessione operata successivamente dal francescanesimo organizzato ad opera dei conventuali; donde la presentazione giottesca, nell’economia generale, il patriarca “alter Christus”, con miracoli, visioni e profezie oltre che nell’opera di riforma e la vita in povertà evangelica (5).
Il S. Francesco di Dante invece, si stacca, e risulta come l’innamorato di Cristo, tramite l’intermediaria madonna povertà: una passione forte, travolgente che lo conduce a riproporre all’amore della Chiesa intera, traviata ed adultera, lo “sposo” tradito. Donde emergono ancora una volta l’assoluta originalità di Dante e le felici intuizioni della sua poesia.
4. Annotazioni critiche conclusive
4.1. Una domanda sorge assai giustificata, a questo punto del nostro discorso: i due canti sono veramente quel che si suol chiamare l’elogio di S. Francesco di S. Domenico o qualcos’altro? Il fatto che nella sezione centrale e più ampia di ciascuno di essi, S. Tommaso e S. Bonaventura parlino dell’altrui fondatore può giustificare tale luogo comune ? Non si tratta, come può apparire a taluno, un quesito privo di valore né tanto meno peregrino. Infatti, se teniamo presente le piste qui proposte nell’analisi, ci accorgiamo che i canti non sono una semplice ‘esaltazione’ <elogio> dei due “campioni”, ma una riproposta dei loro ideali che ha la funzione di mettere in evidenza un contesto ben diverso.
La rievocazione di S. Francesco e delle sue scelte operose, quella di S. Domenico e delle sue battaglie, offre la dimensione di quanto in Dante tutto ciò sia in funzione di una lettura della società; lettura che, in generale, si può fare solo nell’aldilà, cioè ove le cose appaiono per quello che sono in sé, oltre le dimensioni mortificate dai limiti della visione terrena (Auerbach).
S. Francesco e S. Domenico sono stati protagonisti di un momento della storia umana, nell’ambito di un disegno provvidenziale, per cui rimeditare non ha altro scopo se non quello di poter dedurre un metro di giudizio sul presente. Del resto non ci sfugga che è proprio il presente ad inquadrare i canti con l’apertura esclamativa:
“O insensata cura dei mortali,
quanto son difettivi sillogismi
quel che ti fanno in basso batter l’ali” (XI, 1-3)
a tale spaccato sul presente fa da correlativo la scelta di vita di S. Francesco, introdotta da un medesimo stilema: “Oh ignota ricchezza, oh ben ferace !” (XI,82)
E dal raffronto scaturisce il metro di giudizio sul presente:
“……… vedrai la pianta onde si scheggia
e vedra’ il corregger che argomenta
‘U’ ben s’impingua, se non si vaneggia” (XI, 137-139)
una rievocazione dunque, quella dei due riformatori, affinché il presente (Chiesa, ordini religiosi, società civile) si confronti, possa giudicarsi e riesca a cogliere linee direttrici di rettifica.
4.2. A questo scopo, le categorie etico-cristiane sono ben individuate da Dante e volutamente isolate, pur nel contesto di una vita – quella dei santi – certamente più ricca e più complessa; si tratta di una schematizzazione che, non tradendo l’insieme, evidenzia i bisogni e le necessità del presente.
In S. Francesco la scelta della povertà è fondamentale; ma tale scelta diventa possibile perché innanzitutto è scelta d’amore; Francesco sceglie perché è innamorato di “madonna povertà”; i frati ne intraprendono la sequela “sì la sposa piace”. E nella Chiesa, l’opera di S. Francisco è tutta volta a ricucire tale rapporto sponsale. L’eredità stessa che i frati ricevono alla sua morte non può essere se non quella della sposa, con la raccomandazione che “l’amassero a fede”. Donde chiaro è il tradimento dell’ordine al presente “che quel dinanzi a quel di retro gitta” (XII,117).
In S. Domenico, invece, la scelta preminente è quella della fede (sempre con i consigli evangelici). Anche la fede implica amore: medesima è la metafora che per S. Francesco (“l’amoroso drudo”, “le sposalizie”); è però manifesto che per Dante essa poggia sulla luce della verità rivelata (“cherubica luce”) e non è scelta a caso la presenza della parola di S. Tommaso d’Aquino, il massimo teologo medievale.
Una fede, quella di S. Domenico, testimoniata e predicata nella Chiesa e non a non-cristiani, in una Chiesa che la vive fiaccamente e talora addirittura in modo distorto. Occorre il riarmare “l’esercito di Cristo” e invogliarlo a seguire “l’insegna”, come d’altra parte è necessario percuotere con impeto “gli sterpi eretici”. Fede e povertà sono i capisaldi del cristianesimo. Nella storia più di una volta sono state malamente intese. Ecco allora la ragione della necessaria approvazione papale: quella di S. Francesco richiesta da un povero a testa alta; l’altra, da un dotto che non cerca onori e benefici, ma solo richiede “licenza” di predicare il Vangelo.
In fine, per entrambi la Chiesa è il campo del loro lavoro; e qui le metafore sono opportunamente mutuate dal Vangelo, dalle parabole e dalle allegorie del “regno”: vite, tralci, vigna, campo, agricola……..
4.3. S. Francesco e S. Domenico costituiscono dunque, per Dante, un “passato” per leggere il “presente”. Si tratta ovviamente di una lettura teologica della storia (come già al canto VI), al fine di capire difetti, colpe e deviazioni. Il “poeta viator” si presenta, dunque, come “profeta” e “missionario”, il cui compito preciso sarà a tutti chiaro, nel successivo canto XVII e, anche in quel caso, dopo un raffronto con il passato (canti XV e XVI); missione profetica che appare in tutta la sua pienezza, se si fa riferimento a quanto è stato posto in evidenza nell’individuare il genere letterario dei due canti, per il doppio “logos paramythetikos”, inteso nella sua accezione più esaustiva.
4.4. Dante è anche un mistico. La rappresentazione dei due santi non è dunque solo un excursus agiografico e un parametro di giudizio; è piuttosto la visione mistica della loro beatitudine e della loro grandezza; le metafore sponsali o quelle militari, le immagini bibliche e quelle della “ruota”, della gromma-muffa costituiscono lo splendido risultato di una struttura che si fa poesia, mediante una rappresentazione di grande evidenza plastica, in termini di mistica visione, di una realtà altrimenti sfuggente ed inafferrabile.
Va pertanto superato contro una oggettiva interpretazione – crediamo – e l’atteggiamento di chi, isolando i canti o estraendone versi o passi, suppone scorgere la poesia in questi, premurandosi magari di manifestare il senso di fastidio per una ripetitività strutturale e semiologica che appare come “ridondanza” semantica.
Si tratta di una ridondanza che non è mai vuota retorica surrettizia di contenuti sfuggenti, bensì sublimazione, ove appunto, la visione del vero è sostanziata da un sentimento forte e traboccante, e, di volta in volta, l’esclamazione, l’insistenza, la forma analitica in cui le metafore si dispiegano nei singoli dettagli, sono generate non solo dalla riflessione intellettuale, ma anche e soprattutto dall’aver “visto” e sperimentato; il che è proprio del mistico. ***
Prof. Germano Liberati, Docente di Italiano e Storia dell’Arte al Liceo Paolo VI Fermo. Cfr. il volume: “Liceo Paolo VI. 30 anni di storia” Fermo, Terzo millennio, 2000 pp. 101-107.
NOTE
1 – Il termine che più ricorre è “panegirico”, insieme con quello di “elogio”, nei noti commenti post-crociani, dato che impostati su una lettura che tende ad individuare “struttura” e “poesia”; talora per farne emergere la oppositività del binomio, talora, come in un Russo e ancor più in Sapegno, per evidenziare la stretta unità (sia pur in senso dialettico) e la genesi e natura poetica della struttura stessa.
2 – E’ bene richiamarsi a quanto ha, in modo profondo e originale, individuato l’Auerbach (E. Auerbach, Studi su Dante, Varese 1967), nella sua proposta di interpretazione “figurale”, ove l’antitipo della realtà ultraterrena diventa quella vera e profonda, mentre il mondo terreno con i suoi avvenimenti reali diventa anticipo e adombramento, allusione e immagine, tipo della verità assoluta. E proprio nelle pagine dedicate al “S. Francesco della Commedia” leggiamo: “… l’interpretazione figurale crea fra due fatti che appartengono entrambi alla storia, un nesso in cui uno dei due non significa soltanto se stesso ma significa anche l’altro, mentre quest’ultimo comprende e adempie il primo” (p. 234).
3 – Valga qui citare, tra i commenti scolastici più attenti a tali problematiche, quello di Bosco-Reggio, ed Le Monnier. Fa tuttavia meraviglia come commenti successivi (cfr. Mariani-Gnerre, ed. Loecher, 1996) si risolvano in una analisi storico-filologica di stampo quasi neo positivistico accompagnata da una parallela attenzione per una pretesa assimilazione di informazioni di linguistica diacronica.
4 –Su encomio, elogio, rievocazione, il necessario e imprescindibile riferimento è costituito da alcuni studi fondamentali sulla struttura e i caratteri del genere letterario in oggetto, esaminato nell’uso del mondo antico e nella letteratura patristica: C. Martha, Les consolations dans l’antiquité, Paris, 1896; F. Rozinsckj, Die Leichenreden des hl. Ambrosius (i discorsi funebri di S. Ambrogio), Breslau 1910: testi non tradotti, reperibili in biblioteche di alta specializzazione.
5 – In merito ai raffronti possibili tra Dante e Giotto, resta come pietra miliare il Convegno di studi promosso dalla Casa di Dante in Roma e dalla Società Dante Alighieri, svoltosi a Roma il 9 e 10 novembre 1967, il cui “Atti” sono stati pubblicati nei “Quaderni del Veltro”, n.7, 1968. Si veda in particolare la relazione di R. Assunto, “Dante, Giotto e l’arte figurativa nel pensiero medievale” e la comunicazione di F. Mollia, “Il francescanesimo in Dante e Giotto”. <digitazione di Albino Vesprini>