Lo STATO FERMANO dal medioevo all’età moderna Notizie di Gabriele Filoni Guerrieri e Francesco Trebbi
Con il tramonto della potenza romana, le popolazioni germaniche immigrarono e invasero i territori imperiali. La loro conversione al cristianesimo facilitò il sorgere del sistema politico del governo popolare, veramente libero, perché era basato sulla carità che è il solo e vero principio dell’uguaglianza, non, come ora, sul contrasto degli interessi e dei partiti, che separa, e disgrega. Ecco l’epoca più gloriosa per l’Italia, l’epoca delle grandi iniziative e dei fermi propositi, l’epoca delle novità nelle arti, nelle lettere, nelle scienze, l’epoca della lega lombarda e della scoperta del nuovo mondo <detto America>, insomma l’epoca dei Comuni.
LO STATUTO. Tra le prime città italiane, Fermo, ebbe a sentire il soffio della libertà cristiana, e sino dal 1199 incominciò a reggersi, con il governo libero e popolare, insieme con i suoi castelli, sotto l’alto dominio della Sede Romana. Nel secolo XIII, aveva già il suo Statuto di cui fa memoria il sunto di una rubrica sotto la data del 1284 (pergamena 238) Risulta una riforma nel 1357, in un atto notarile sul rinnovo e sulle aggiunte degli Statuti del Comune di Fermo (pergamena 147).
Nel Consiglio generale tenuto in città nel 1506 fu incaricato il concittadino Marco Martello a confrontare e riunire i codici, emendarli, e riformare le leggi del vecchio Statuto. Egli vi pose mano a Venezia dove era stato chiamato dalla serenissima Repubblica, affinché ristabilisse, armonizzasse e riformasse il Diritto Veneto. Condusse a termine l’elaborazione degli Statuta Firmanorum, che diede alle stampe a sue spese nella Calcografia di Nicola Brenta e Alessandro Bindoni, nell’anno 1507, il giorno 17 marzo. Il volume ebbe diverse ristampe e aggiunte negli anni 1589, 1688, 1691, coi torchi De Monti. Questi statuti in tutte le parti hanno l’impronta dello spirito cristiano, a cui era formata la Repubblica, e il primo libro tratta totalmente del Culto. Il Gondieri scrive che negli statuti si riassume quanto la politica e la giurisprudenza seppe dettare di santo e di giusto per l’amministrazione pubblica, per il commercio e traffico di mare e di terra, per la buona direzione delle controversie criminali e civili, e per le leggi municipali; con norme adatte alle migliori Repubbliche. Da ciò apprendiamo quale fosse il governo della Città di Fermo.
IL GOVERNO. La suprema autorità dello Stato Fermano risiedeva nei Consigli, i quali erano di tre forme: Consiglio di Cernita; Consiglio Speciale; Consiglio Generale.
Il Consiglio di Cernita era composto da nobili fermani, quattro almeno per ciascuna delle sei contrade: Castello, Pila, San Martino, Fiorenza, San Bartolomeo, Campoleggio, nelle quali era divisa la Città. V’intervenivano i Regolatori, i Priori, il Gonfaloniere di Giustizia, i Capitani delle arti, e i Confalonieri delle Contrade. La convocazione di questa Cernita spettava ai Priori e al Gonfaloniere di Giustizia, che dovevano bandirlo almeno un giorno innanzi. Esso deliberava sulle più gravi necessità della Città, discuteva intorno alle materie da proporsi ai Consigli, Speciale o Generale, a cui formulava le proposte. (Lib. II Rub. 13).
Il Consiglio Speciale doveva essere formato da non più di 150 popolani eletti dalla Cernita, cittadini di Fermo, di anni 25 almeno, aventi un estimo di libbre 50 (scudi 200) e di non più di uno per famiglia (Rub. 13). Era convocato per ordine dei Priori, del Gonfaloniere, del Podestà o del Capitano di Giustizia, dai quali doveva esser bandito un giorno innanzi, eccetto i casi di urgenza straordinaria. Suo compito era di accettare o riformare o respingere ciò che veniva proposto dalla Cernita (Rub. 12).
Il Consiglio Generale era costituito da non meno di 300 persone dimoranti stabilmente nella Città, che avessero raggiunto il 25° anno, con un estimo di libbre 25 (scudi 100), e non più di uno per famiglia (Rub.15). A questo potevano intervenire ancora i Deputati dei Castelli soggetti, quando si aveva a trattare di imposizioni, collette, annona, contribuzioni di spese, spedizione di ambasciatori fuori della Marca, ed in genere di tutto quanto potesse giovare non solo alla Città, ma anche all’intero suo Contado. Si convocava con un bando, con le stesse norme del Consiglio speciale. Questo consesso stabiliva, riformava o escludeva, quello che ad esso veniva proposto dalla Cernita (Rub. 16). Sotto varie condizioni, poteva graziare anche i condannati alla pena capitale (Rub. 90). Era di spettanza del Consiglio Generale o Speciale il deliberare sulle guerre (Rub. 3).
Così l’autorità sovrana e legislativa dello Stato Fermano risiedeva nei Consigli. Il codice delle leggi erano gli Statuti; l’esecuzione poi delle sue leggi era affidata, con distinzione: nella parte giudiziaria ad un Podestà e ad un Capitano di Giustizia; nella parte amministrativa a cinque Priori, un Gonfaloniere di Giustizia, tre Regolatori, con Cancelliere e Notai.
Il Podestà era il giudice ordinario della Città e del suo Stato, con tutta la giurisdizione del mero e misto impero, sino alla condanna a morte. Doveva mantenere per suo conto una Curia composta di due giudici per gli atti Civili e Criminali, superiori all’età di trent’anni, due Compagni letterati della medesima età, cinque esperti Notai, il primo de’ quali incaricato ai “malefici”, il secondo alle straordinarie occorrenze, e gli altri tre per il governo del Porto di Fermo, di Torre di Palme e di Marano <=Cupramarittima> che erano castelli uniti alla Città; mentre al governo degli altri castelli si mandavano i Vicari, che si rinnovavano o confermavano da sei mesi in sei mesi. Questi venivano estratti a sorte fra i Cittadini fermani riconosciuti idonei per i Castelli maggiori (Rub. 25) od anche fra gli abitanti del Contado per i castelli medi e minori (Rub.26 e 27). Il Podestà doveva avere, a sue spese, una Corte di quattro Donzelli, ventotto Berrovieri <armati>, quattro Cavalli adatti alle armi, ed un Cuoco, provenienti tutti da regioni lontane dalla Città per un raggio non minore di 40 miglia all’intorno. Durava in ufficio sei mesi (Rub. 23). L’onorario del Podestà era di lire ravennati 2720 (pari a scudi 3672), con proibizione di chiedere aumenti, di accettare qualsiasi regalo, sino all’obbligo di ricusare anche ogni convito, che non fosse quello dei Priori.
Al Capitano di Giustizia era devoluto l’appello delle cause civili criminali e miste, benché potesse anche inquisire e procedere, come il Podestà, riguardo alle criminali; ma le querele dovevano sempre esser presentate dai Vicari dei Castelli, direttamente al Podestà e sua Curia. L’onorario del Capitano, ed il numero degli ufficiali e cavalli, erano riservati al voto di un’apposita Cernita (Rub. 6).
Dentro gli ultimi quattro giorni del rispettivo esercizio, tanto il Podestà che il Capitano dovevano consegnare ai Regolatori della Città i loro libri degli atti dei processi e le scritture (Rub. 7). Scaduti d’ufficio, erano in obbligo trattenersi altri otto giorni in città, finché i Sindaci, che dovevano eleggersi dai Priori fra i cittadini fermani, avessero bandito per tutti i castelli soggetti il sindacato da farsi su questi magistrati e ogni persona che si sentisse gravata, avesse agio di esporre querela per iscritto contro di essi, querela che doveva leggersi pubblicamente entro i primi sei giorni, e nella mattina del nono giorno dovevano risultare assolti, o condannati alle debite ammende, dai predetti Sindaci (Rub.31).
Al decoro con cui si amministrava la giustizia, corrispondeva lo splendore dei magistrati che curavano la parte amministrativa. Solenne era la cerimonia della loro elezione. In un bussolo erano i nomi degli individui eleggibili appartenenti a famiglie nobili fermane. Ai tempi del Borgia (1724-1764) erano settantadue. Il bussolo con i nomi era custodito in origine nella sacrestia del Duomo (Rub. 2), in appresso in quella di san Domenico, donde veniva recato processionalmente sotto baldacchino, e accompagnato dai primari ordini della Città nella sala priorale, e qui, dopo le consuete formalità, nel giorno 20 giugno, si estraevano i nomi dal bussolo, per ricoprire gli uffici, che erano i seguenti: Cinque Priori e il Gonfaloniere di Giustizia bimestrali – tre Regolatori a quadrimestre – sei Gonfaloniere di contrada bimestrali – due Consoli e un Notaio bimestrali – il Banchiere – i Capitani delle arti, degli Avvocati, dei Medici, dei Calzolai, dei Sarti, dei Casiolari <caseifici>e i Castellani dei Castelli.
Cinque erano i Priori, e se ne estraeva uno per ogni contrada; ma siccome queste erano sei, da quella che rimaneva scoperta si estraeva il Gonfaloniere di Giustizia. Questi magistrati dovevano risiedere nel palazzo priorale e venivano mantenuti a pubbliche spese.
Ognuno dei cinque Priori alternativamente per 10 giorni aveva il primato sugli altri, col nome di Priore de’ Priori (Rub. 3). A costui apparteneva fare le proposte, le riforme, le risposte. A lui veniva consegnato il carteggio del Comune, doveva aprire le lettere e darne lettura in presenza dei colleghi. I Priori sorvegliavano tutti gli ufficiali <addetti agli uffici> dello Stato, e curavano che non venisse dissipato il pubblico denaro. Era loro il ruolo di spedire ambasciatori entro i limiti della Marca, (fuori di questi decideva il Consiglio); proporre, deliberare, riformare ogni decisione finalizzata al pacifico e popolare stato del Comune di Fermo. Essi insieme con il Gonfaloniere, nel primo mese del regime del Podestà e Capitano, innanzi al Consiglio facevano estrarre gli elettori, Sindaci, del nuovo Podestà e del Capitano, e questi dovevano, entro un mese, procedere alla elezione.
La cerimonia con cui si consegnava il Gonfalone del Comune al Gonfaloniere di Giustizia era solenne. Il Podestà, il Capitano, i Priori e il Consiglio speciale del popolo nell’ultima domenica del bimestre del Gonfaloniere predecessore, procedevano in fila dietro questo vessillo, dal palazzo priorale, che era nel Girfalco, al palazzo comunale. Qui il nuovo eletto accettava l’ufficio e dava malleveria per l’esatto disimpegno; dopo di che tutti si incamminavano ad una chiesa ed ivi il Podestà o il Capitano consegnava al nuovo eletto il gonfalone, e da qui col medesimo corteo l’eletto lo portava al palazzo priorale, e precisamente nella sua residenza. Al Gonfaloniere, oltre agli uffici che aveva in comune con i Priori, spettava prestare braccio forte con duecento o più del popolo al Podestà e Capitano nella esecuzione delle Sentenze Criminali. (Rub. 5).
In mano dei Regolatori passavano gli ordini di pagamento fatti dai Priori. Essi, che tenevano i registi degli stipendiati, degli ambasciatori, e di altri, esaminavano se il titolo di pagamento era giusto, e trovatolo tale, lo facevano sottoscrivere dal loro Notaio, registrare nel libro, e quindi lo passavano al Banchiere. (Rub. 19).
Il Cancelliere registrava gli ordini, i decreti e le deliberazioni che erano state decise dai Priori e Gonfaloniere di Giustizia, dalla Cernita, dai Consigli Speciale e Generale; anche dai parlamenti della stessa Città. Doveva tenere tre libri: il libro grande per le riforme ed ordini dei “Concili” generali e speciali: un altro per i contratti, le promesse, le soddisfazioni ed i decreti del Comune; e un terzo per le deliberazioni delle Cernite. (Rub. 9). Il Notaio doveva coabitare con i Priori e registrare le scritture appartenenti all’ufficio di questi. (Rub. 10).
Ogni cittadino era in obbligo, secondo le sue forze, di concorrere a mantenere l’ordine pubblico, anche a mano armata. Da qui il dovere per i sei Gonfaloniere di Contrada, in caso di turbolenze, di esporre il loro piccolo vessillo innanzi alla propria abitazione e radunare intorno a questo la gente della rispettiva contrada per reprimere il tumulto, e dove la necessità lo richiedesse, portarsi alla residenza dei Priori e Gonfaloniere di Giustizia, e mettersi sotto il loro comando.
Le vertenze delle cause minori relative al commercio di terra e di mare, sino ad un certo limite, spettavano ai Consoli, che perciò erano detti Consoli dei mercanti. Questi erano due ed avevano il loro notaio. Il Podestà e Capitano dovevano prestare mano forte perché le sentenze fossero eseguite. Spettava ai Priori, al Gonfaloniere di giustizia e a due probi cittadini per ogni contrada, scegliere 18 Avvocati, 18 Mercanti e 18 Notai dalle diverse contrade della Città, e questi, di volta in volta, estraevano un Avvocato ed un Mercante, che erano i due Consoli, con il rispettivo notaio. Esauriti che fossero i nomi, si rinnovava la borsa dei nomi. (Rub. 21).
I pubblici magistrati erano tutti soggetti ad un sindacato (=verifica). Da notare che i Priori, il Gonfaloniere di Giustizia e il loro Notaio, non potevano essere processati durante il tempo del loro ufficio, ad eccezione di gravi delitti nei quali fossero incorsi.(Rub. 3). Quando venivano a cessare d’ufficio, anch’essi erano sottoposti al Sindacato, secondo gli Statuti. A tale scopo i loro successori, nel giorno stesso in cui prestavano il giuramento, dovevano eleggere sei cittadini, uno per ogni contrada, con idoneo notaio, perché istruissero un processo sulla gestione dei loro predecessori, ed entro otto giorni si pronunziava la sentenza o assolutoria o di condanna (Rub. 30).
CASTELLI. Nel secolo X , erano 140 i Castelli soggetti alla Città di Fermo, ma nel processo dei tempi, a causa di incendi, devastazioni e guerre, il numero venne diminuendo. Nella prima edizione a stampa degli Statuti del 1507 si legge che in quel tempo erano 80 ed erano distinti in Maggiori, Medi e Minori. Nella bolla di Sisto V poi si dice che erano 60. Dodici erano le Terre (=cittadine) “raccomandate” alla fedeltà e giurisdizione di Fermo; gli altri erano castelli sottomessi e assoggettati al diritto di vassallaggio.
Gli ultimi castelli sui quali la Città ha sempre esercitato <nel secolo XIX> il suo dominio, erano i 48 seguenti: – Acquaviva – Altidona – Alteta – Belmonte – Campofilone – Carassai – Cerreto – Collina – Falerone – Francavilla – Grottazzolina – Gualdo – Loro – Magliano – Marano – Massa – Massignano – Mogliano – Montappone – Montefalcone – Monte Giberto – Monte Vidon Combatte – Monte Vidon Corrado –Monte Leone – Monte Ottone – Monte Rinaldo – Monte S. Pietro Morico – Monturano – Moregnano – Moresco – Ortezzano – Pedaso – Lapedona – Petriolo – Petritoli – Ponzano – Porto S. Giorgio – Rapagnano – S. Andrea – S. Angelo in Pontano – S. Benedetto – S. Elpidio Morico – Servigliano – Smerillo – Trocchiaro – Torre di Palma – Torre S. Patrizio.
Sopra di questi Fermo ha sempre esercitato il MERO E MISTO IMPERO. L’origine di questo diritto, nel quale si compendiava ogni giurisdizione civile e criminale, si può documentare con il privilegio che Gregorio IX, concesse alla nostra Città nel 1241, Dato nel Laterano 27 maggio dell’anno quindicesimo del pontificato. Nel 1242 venne confermato da Roberto di Castiglione, Vicario Generale della Marca per l’imperatore Federico II, come dal suo privilegio, Dato presso il fiume Tenna.
Il 17 luglio 1251 Innocenzo IV concedeva alla Città di Fermo la conferma delle “ libertà, immunità e privilegi concessi dai sommi Pontifici e dai Legati della sede apostolica, all’Università e al Comune di Fermo. Dato a Milano nell’anno nono del pontificato.
Nel 1253 il medesimo Pontefice comandava al Rettore della Marca che conservi, e faccia conservare integri i privilegi et i diritti della Città Fermana. Dato nel Laterano il giorno 11 dicembre dell’anno undicesimo del pontificato.
Nel 1255 Alessandro IV, con lettere apostoliche, date da Anagni il 21 giugno, confermava ed approvava a Fermo, ” i diritti e le consuetudini”, che le erano stati concessi da Innocenzo IV per mezzo del card. Rainerio, allora Vicario della Marca. Bonifacio VIII li riconosceva nella bolla che incomincia In supremae; e Bonifacio IX, li confermava nel 1392.
Tutte queste amplissime concessioni e conferme, non garantivano la Città nostra dalle violenze degli usurpatori, che di tanto in tanto sorgevano per manomettere il suo governo libero e popolare. A premunirsi contro ulteriori incursioni e prepotenze, cacciati gli Sforzeschi, al grido “ VIVA LA CHIESA E LA LIBERTA’ “ (24 novembre 1445) la Città giunse alla determinazione di sottomettersi alla Sede Romana con diversi patti e convenzioni, che pienamente le garantivano la libertà del governo. Questi furono approvati tutti dal card. Ludovico Scarampi, camerlengo della Chiesa, ed autenticati dal pontefice Eugenio IV, colla celebre bolla 24 marzo 1446, riportata al principio degli Statuti Fermani, nella quale si legge: “ La comunità Fermana, e gli Officiali, i Rettori di questa Città ABBIANO E DEBBANO AVERE Il MERO E MISTO IMPERO, e la libera potestà di conoscere e di punire ogni qualsiasi eccesso e delitto commesso e da commettere in questa Città, nel Contado e forti e distretto, comunque siano questi eccessi et delitti. I successori Giulio II, Leone X, Adriano VI, Clemente VII, Paolo III, confermarono tutti questi privilegi.
Con tali amplissime concessioni, l’autorità praticata sulla Citta dal Romano pontefice si riduceva ad una semplice tutela, perché rimaneva in pieno possesso del libero e sovrano governo del suo Stato. La consideravano come sovrana gli stessi Pontefici, parecchi dei quali giunsero, come si suole fare con i sovrani, a dar notizia alla medesima del loro innalzamento al soglio papale. Così praticarono Sisto IV col Breve Dato nel Laterano il 25 agosto 1471 nell’anno primo; Innocenzo VIII, col Breve Dato a Roma il 12 settembre 1484 e Leone X. Simbolo del mero e misto impero è il braccio con in pugno la palla o globo, che sovrasta lo stemma della nostra Città.
Si andò così avanti per circa un altro secolo, quando i fermani nella Cernita 4 dicembre 1549 consultando sulla pubblica ed evidente unità del Comune e contro la tirannica malvagità, deliberarono di chiedere al sacro Collegio dei cardinali, allora in conclave per la morte di Paolo III, che il futuro pontefice, e i successori nel tempo, da allora in poi, avessero eletto il Podestà di Fermo, che si cominciò a chiamare Governatore, scegliendone la persona di uno della loro famiglia. La domanda non tardò ad essere accolta e per 125 anni, i Fermani ebbero come governatori i nipoti dei Romani pontefici, stando immediatamente soggetti al papa, e indipendenti dal Rettore della Marca. Questi governatori, peraltro, non risiedevano personalmente nella nostra città, ma la governavano per mezzo d’un loro rappresentante che aveva il titolo di Vice Governatore. In tal modo si ebbe un essenziale cambiamento nel governo di Fermo, poiché il mero e misto impero fu trasferito ai Governatori, e più tardi alla Congregazione Fermana, che fu poi creata a loro posto. Innocenzo XI, con bolla del 18 novembre 1676, sostituì ai governatori, nipoti dei regnanti pontefici, la detta
CONGREGAZIONE FERMANA con la stessa autorità tenne il governo della Città sino all’invasione francese, tranne il breve intervallo del regno di Alessandro VIII, che ci spedì il card. Ottoboni, suo pronipote.
Questa Congregazione talora era composta di prelati, ai quali erano affidate altre incombenze e talora erano nuovi nell’amministrare il nostro Stato con grave intralcio degli interessi. Assunto al pontificato Benedetto XIV, la Città a lui si rivolse perché si degnasse assegnare alla Congregazione Fermana dei prelati fissi, al modo di quelle di Loreto e di Avignone, come prescriveva la bolla di Innocenzo XI.
Il gran Pontefice accolse la domanda e con il Breve del 20 settembre 1740 decretò la composizione con il card. Segretario di Stato, Prefetto – l’Uditore del Papa -un Uditore di Rota – un Chierico di Camera – un Votante di segnatura come Segretario – il Fiscale di Roma – ed un Relatore criminale. Né solo a questo si limitò l’impegno di questo Pontefice, giacché chiarì le competenze della Congregazione, non solo sul governo politico e criminale, anche sull’economico, con sua Costituzione dato a Roma il 6 settembre1746. A vantaggio della Città, decise che “ il governo politico, e quello economico della Città e dei Castelli di Fermo spettano privativamente alla Congregazione Fermana. “ Questo stato di cose si mantenne sino all’invasione Francese. Fermo, non esercitava solamente la propria autorità sui castelli, ma la estendeva ancora sopra i
RELITTI DEL MARE ADRIATICO. Fra i molti privilegi dei quali la Città di Fermo fu arricchita, uno insigne le fu concesso da Ottone IV, della piena giurisdizione sui lidi del mare fra i due fiumi Tronto e Potenza per un tratto di mille passi in larghezza, e di circa 30 miglia in lunghezza. In forza di questo dominio a nessuno era lecito fabbricarvi o abitazioni o fortilizi, senza esserne stato autorizzato dalla Città. Il documento è Dato nell’ anno 1211 regnante Ottone IV, imperatore, al tempo di papa Innocenzo (pergamena 234). Il successore Federico II, con il suo Vicario Roberto di Castiglione confermò quel dominio con un suo diploma “ Dato presso il fiume Tenna nell’anno 1247 “ (pergamena 1103).
Sembra che gareggiassero Imperatori e Pontefici nel nobilitare con privilegi la patria nostra, ed ecco che Raniero, cardinale di S. Maria in Cosmedin, Vicegerente di Innocenzo IV, nel 1248 riconosceva e confermava, quanto era stato accordato dagli imperatori, con il suo diploma “ Dato presso Iesi nell’anno 1248 giorno 28 Settembre “ (pergamena 1101). Forti del loro diritto i Fermani, fino dal 6 ottobre 1238, spedirono alla città di Ascoli il giudice Magliapane di Reggio quale ambasciatore del Podestà e Comune di Fermo, con un monitorio allo scopo che nessuno ascolano tentasse acquistare, impetrare o perpetrare cosa nuova nella riva del mare dal Tronto al Potenza, che potesse recare gravami o lesione del diritto che vi avevano i Fermani, i quali non avrebbero sopportato né pazientato chiunque ardisse agire contro ai loro diritti. Gli Ascolani dichiararono di non voler agire contro i diritti Fermani, ma di agire in accordo con la volontà del Comune di Fermo. La giurisdizione della nostra città, nella vertenza sul litorale marittimo si estendeva oltre il fiume Tronto (Firmana littorum maris pro Illma, Civitate Firmi, Romae 1772. Documento N. 8). Gli Ascolani furono in seguito puniti per l’invadenza loro presso San Benedetto del Tronto.
Nei secoli seguenti Fermo decideva di concedere, a chi l’avesse richiesto, il sito per fabbricarvi, dietro retribuzione, che nel secolo XVII era di paoli sedici e mezzo per ciascuna canna di terreno. Di più ritraeva un tributo di scudi 13 annui da ogni barca peschereccia della nostra marina, e il 4 per cento del pesce che si portava vendere in Città.
Sorta una questione, poi, da parte di alcuni castelli, contro il diritto della città sulla spiaggia, fu risoluta a favore di questa con parecchie sentenze del 16 marzo 1742 e 7 agosto 1744 del tesoriere della R. C. A., e massime da Benedetto XIV, che con il chirografo del 12 febbraio 1751, non solo a conferma degli antichi diritti, ma concesse anche, qualora vi fosse stato bisogno, una investitura nuova dei relitti passati, presenti e futuri. Nel 1776 il 9 febbraio, si ottenne altra sentenza favorevole, e, sotto Pio VI, la città concedette i relitti in enfiteusi.
Questi diritti vennero sempre regolati secondo gli ordinamenti e le consuetudini di mare delle città di Trani, e di Ancona, ordinamenti e consuetudini, che furono inseriti per esteso in appendice al nostro Statuto, e ne formavano parte. L’altra prerogativa, della quale godeva la Città nostra, era quella della
ZECCA. Il Muratori afferma che il privilegio della zecca era assai raro; ed anche di questo la nostra Città fu decorata. La data, sulla quale non può cader dubbio, è fissata dal privilegio dell’Imperatore Ottone IV Dato presso l’ospedale di Sant’Angelo di Subterra, il primo dicembre 1211 in cui si legge: Noi abbiamo dato ai cittadini della Città Fermana e ai diletti fedeli nostri, la piena licenza e potestà di coniare e fare i denari “ (pergamena n. 88).
Seguirono due conferme: la prima di Aldovrandino marchese d’Este, signore della Marca, Dato nella Marca presso Polverigi solennemente nell’anno 1214 (pergamena n. 895); la seconda del pontefice Onorio III con breve Dato nel Laterano il 7 dicembre, nell’anno quinto del pontificato, riportato dall’Erioni nella sia Difesa della bolla di Eugenio IV al N. 2 del Compendio.
Nell’esercizio della nostra zecca, abbiamo monete con mistura, sotto Bonifacio IX (1380); il mezzo grosso sotto Martino V (1417); monete d’argento sotto Ludovico Migliorati (1425); mezzo grosso sotto Eugenio IV (1431); bolognini, quattrini e piccioli sotto Francesco Sforza (1443); mezzo grosso sotto Niccolò V (1447). Sotto i papi Sisto IV, Innocenzo VIII, Alessandro VI, Pio III, e Giulio II, la Zecca rimase chiusa. Assunto al trono Leone X i Fermani lo supplicarono, fra le altre grazie, di poter riaprire la Zecca, interponendo la mediazione del vescovo di Fermo, card. Francesco Remolini, e l‘ottennero, per i quattrini e piccioli, con il Breve Dato a Roma il 4 luglio 1513 nell’anno primo del pontificato (pergamena n. 745). I tipi di tutte queste monete si possono vedere in calce alla eruditissima opera del nostro Catalani: Memorie della Zecca Fermana. Dopo cinque anni fu chiusa e non più riaperta che nel 1796 in forza d’un chirografo di Pio VI.
<Digitazione di Vesprini Albino>