Sguardo panoramico sull’archeologia dei Piceni
L’attuale regione delle Marche non corrisponde a quella che gli antichi chiamavano Piceno, da considerare come ambito dell’area medio-adriatica, Picena e Abruzzese, fino al fiume Pescara (Abruzzo).
Si aggiungono due componenti di rilievo: da un lato la relazione particolarmente stretta con l’opposta sponda balcanica, verso cui la costa marchigiana si protende; dall’altro lato la maggiore contiguità con il mondo etrusco, donde interscambi e influenze più frequenti che altrove. Le vie di trasmissione dell’arte orientalizzante partono sia dall’Etruria, sia anche dall’Adriatico; e questo spiega la variegata connotazione dei prodotti, tra i quali le ambre e gli avori emergono nell’area picena con spicco particolare.
Le iscrizioni da tempo sono state distinte in due gruppi autonomi: quelle sud-picene, attestate a sud di Ancona fino all’Abruzzo incluso, e quelle nord-picene, attestate al nord è di Ancona, con una diversa varietà linguistica. Nella complessità della differenziazione e persino nella labilità ai confini, il Piceno può considerarsi come un’area culturale sufficientemente omogenea, e tale da richiedere una trattazione autonoma. Concorrono a ciò talune manifestazioni d’arte che riemergono con evidenza, oltre alle già citate ambre e gli avori, ma anche i bronzi e la scultura in pietra.
Considerando dunque il Piceno nella sua globalità, è possibile operare un’articolazione nel tempo tra due fasi: la prima, che si estende dall’VIII secolo alla metà delle VI vede il prevalere l’influenza danubiano-balcanica, piuttosto autonoma nel complesso fenomeno etrusco-greco-orientaleggiante, che abbiamo indicato come tipico di quest’area.
La seconda epoca va dalla metà delle VI secolo all’inizio del IV, caratterizzata dalla crescente influenza etrusca e anche greca. Questa seconda fase è di gran lunga più produttiva sul piano artistico perché si affermano i monumenti in pietra, i bronzi, le ambre e gli avori.
La lavorazione del bronzo, dell’ambra e dell’avorio raggiunge aspetti di spiccata originalità nell’area Picena, sì da far ritenere attendibile l’esistenza di furore le officine locali, anche se le importazioni vi furono certo in quest’area, sia dall’Oriente e dalla Grecia per la via adriatica, sia dall’Etruria per la via terrestre. Quanto ai bronzi, spiccano tra essi i grandi pendagli con le lamine di supporto decorate a rilievo e catenelle che terminano in figurine umane e animali, idoletti, zanne di cinghiale e altri elementi apotropaici. La caratteristica dei pendenti piceni è lo sviluppo prevalente dato alle catenelle e agli amuleti, che soverchiano per dimensioni ed elaborazioni le stesse lamine di supporto.
Il bronzo è lavorato anche nelle forme più diffuse dei recipienti laminati e degli scudi o dischi di corazze. Spiccano tra i recipienti le ciste a cordoni.
Pure sviluppata appare la lavorazione delle anse di bronzo, elaborate in complesse figure dove l’influenza greco-etrusca è evidente. Si distingue, in questa produzione, il centro di Belmonte, donde provengono in particolare alcune anse che recano il motivo del domatore di animali tra due cavalli, mentre due leoni lo affiancano all’altezza delle spalle; è un motivo di antica origine orientale, filtrato attraverso l’arcaismo greco. Sempre da Belmonte, proviene un collare ornato da sirene e cavalli marini. Sono esempi dello sviluppo della bronzistica nel senso degli ornamenti personali, e dunque in sostituzione di altri metalli pregiati.
Sono molto note le ambre che, documentate in più punti dell’Italia meridionale, sembrano riportarsi come centro di diffusione al Piceno. Tale impressione deriva anzitutto dai quantitativi registrati: mentre altrove le ambre sono rare, nelle necropoli picene esse compaiono in numero cospicuo, anche nelle tombe più modeste. Soprattutto, sono apprezzati i dati qualitativi; e al riguardo spicca nuovamente la necropoli di Belmonte, che ha rivelato sia nuclei non lavorati sia elaborazioni varie da cui emergono per eleganza i grani di collane a testa di donna. È verosimilmente la raffigurazione di una dea, dal volto tracciato con pochi caratteri essenziali, che reca i capelli raccolti a ciuffo sulla fronte e ritenuti fermi da un nastro o diadema. Si ritiene che il materiale grezzo dell’ambra provenisse dal Baltico e che il Piceno fosse un’area di lavorazione e d’irradiazione. Una ricca documentazione dei lavori viene dalle necropoli di Castelbellino, Numana, Belmonte e, da ultimo, Pitino. Presentano varie immagini sia umane sia animali, oltreché di esseri fantastici come in specie sfingi, leoni e cavalli alati, spesso in serie ornamentali integrate da palmette e fiori di loto.
Nell’insieme, non è probabile l’esistenza di botteghe locali di lavorazione degli avori, mentre è più sicura per le ambre. Per entrambi è certa la ricchezza delle famiglie che vollero e poterono procurarsi simili corredi funebri, rivaleggiando con le più prospere regioni dell’Italia antica. L’area Picena resta una delle più determinanti in vista degli studi a venire, i quali potranno recare contributi del più grande rilievo, sia considerata in sé, sia per la definizione dei rapporti con le aree circonvicine.
<Elaborazione dalla lettura di MOSCATI Sabatino GLI ITALICI>