LIBERATI GERMANO STUDIA LE LINEE DI SVILUPPO DELLE COMUNITà DELLA DIOCESI DI FERMO NEI SECOLI

LINEE DI STORIA DELLE COMUNITA’ DELLA DIOCESI FERMANA

Adattamento di un testo di    di GERMANO LIBERATI

Premessa.  Per affrontare l’argomento enunciato occorre tener presente una realtà storica incontrovertibile: la storia dei paesi Fermani è per gran parte storia religiosa, in quanto sono state le presenze cristiane a influenzare, dare volto e vigore alla vita civile, almeno fino alla fine del secolo XIX e, per certi aspetti di creatività vitale e per dinamismo, lo è ancor oggi. Da tali connotazioni sono caratterizzate le abbondanti fonti documentarie giacenti negli archivi ecclesiastici (delle parrocchie, delle aggregazioni religiose, l’archivio storico arcivescovile, l’archivio romano del Buon Governo, gli archivi degli ordini religiosi e altri). La conseguenza è che per render conto di tutto ciò in un quadro storico, si dovrebbe scrivere più di un ampio volume, dato l’intrecciarsi della storia civile con la storia religiosa in molti aspetti.

Dopo questa considerazione, mi è parsa scelta obbligata quella di ricondurre il discorso ad una sintesi che mettesse in rilievo le linee di sviluppo della vita religiosa, attraverso la diversificazione delle tendenze e delle forme che caratterizzano la storia del cristianesimo e della Chiesa nei secoli nel Fermano.

Mi è sembrato utile pertanto, accantonando episodi ed eventi non determinanti, proporre un quadro storico che si articolasse in significativi momenti, lungo tutto lo sviluppo storico, collegato all’insieme.

Sommario: 1. Le origini cristiane e il monachesimo. 2. L’insediamento degli ordini mendicanti. 3. I Farfensi e l’autorità vescovile; le confraternite, le opere di carità. 4. Il Concilio di Trento, le parrocchie,  ed il culto. 5. Gli sviluppi nei secoli XVII e XVIII. 6. Il Secolo XIX tra storia politica e vicende cristiane. 7. La situazione nel Regno d’Italia tra la fine dell’Ottocento e il primo Novecento.

1. Le origini e il monachesimo

La prima e interessante domanda che si pone chi elabora una storia religiosa locale è quella di quando e come il cristianesimo vi si sia diffuso. Occorre subito dire che a questa richiesta non si può dare una risposta sicura e precisa. Un orientamento per la formulazione di un’ipotesi attendibile ci viene offerto dalla contestualizzazione del problema, inquadrando cioè quel che può essere avvenuto in un paese con ciò che si stava verificando nei territori del Piceno Maceratese e Fermano. Da vari studi, da ritrovamenti archeologici[1] (ad es. i reperti e mosaici della cattedrale di Fermo)  si è propensi a pensare che il cristianesimo nelle nostre terre Picene si sia diffuso attorno al il IV secolo dopo Cristo. Testimone sicuro del cristianesimo in questi territori è il primo martire di cui si ha notizia certa è S. Marone, alla fine del primo secolo, le sui reliquie sono a Civitanova.

Da quali vie vennero nelle Marche i primi cristiani?  Ad Ancona e in altre terre marchigiane, i cristiani sarebbero arrivati via mare dall’Oriente; mentre a Fermo e nel suo antico territorio giunsero da Roma, lungo l’asse della via Salaria.

Circa l’epoca della sicura diffusione, si induce il IV secolo, sulla base di una precisa considerazione: nel 343 parteciparono al Concilio di Sardica i vescovi del Piceno, secondo la testimonianza dei Atanasio di Alessandria. (Patrologia Greca 25, col. 250).  Un altro documento di un secolo dopo è la lettera del papa Leone Magno diretta tra l’altro ai vescovi del Piceno (Patrologia Latina 54 col. 610). Nel V secolo esisteva, insieme con altre, anche la diocesi di Faleria (Lettera del papa Gelasio anno 495 ca. P. L. 59 col. 100). Le diocesi (sorvoliamo sull’origine civile del termine e sul significato posteriore) erano considerate quelle località o aree territoriali ove esistevano importanti comunità cristiane, anche se ancora minoritarie, che erano rette da un vescovo. E’ storicamente dimostrato che il centro abitativo che era creato dagli antichi Romani era situato nelle zone dei fiumi, cioè in pianura. Nei secoli successivi le costruzioni furono fatte anche in altura. Tramite i documenti altomedioevali dei monaci Farfensi, è giunto fino a noi il titulus  cioè il nome a cui era dedicata una chiesa.

Uno iato documentario si registra dal secolo VII fino al secolo IX perché mancano le fonti scritte, e neanche l’archeologia tardo-antica e medievale (quasi del tutto assente per le indagini e i risultati) ci suffraga[2]. Tuttavia, con l’aiuto di una sintetica contestualizzazione della problematica, qualche deduzione è possibile. Siamo nei secoli in cui le immigrazioni ed invasioni, soprattutto lo stabilirsi della dominazione longobarda prima e della feudalità carolingia, poi, hanno lasciato alcune tracce sicure dei loro insediamenti nella nostra terra. Alcuni toponimi[3] dell’idioma longobardo e dell’antico tedesco (sassone) e il titolo dedicatorio di alcuni edifici sacri ci riportano ai diffusi culti germanici e sassoni.

Tutto fa pensare che l’antico insediamento sparso della popolazione, fosse costituito da villae che divennero nel medioevo curtes  cioè aziende rurali curtensi, entrambe quasi autosufficienti. Come spazio o luogo destinato al culto è pensabile qualche piccola cappella. Del resto è noto come nell’alto Medioevo il cristianesimo, nei luoghi lontani da cittadine e città, si diffondesse con difficoltà e lentamente. Presso gli occupatori germanici caratteristico era il culto a San Michele arcangelo (detto spesso sant’Angelo).

L’istituto giuridico ecclesiastico della pieve o pievania si riallacciava alle circoscrizioni amministrative tardo-romane, come quelle del pagus (insediamento di villaggio rurale romano), perennate per tutto l’alto medioevo. Quando veniva stabilita una pievania, essa costituiva la chiesa madre collegata con eventuali cappelle. In questa tutta la popolazione sparsa nel distretto si sentiva unita; e il segno di questa unità era l’unico luogo battesimale; ed era retta dal plebanus.[4]

Le acquisizioni storiche documentarie circa la presenza, l’organizzazione e la vita cristiana nel territorio, allo stato attuale delle ricerche, non sono molte. La possibilità di cogliere vari aspetti caratterizzanti, si avvalora a partire dal secolo VII con l’arrivo dei monaci Benedettini della congregazione Farfense[5], i quali poi traslocarono il corpo della Santa martire Vittoria, da Monteleone Sabino (Trebula Mutuesca) portandolo sul colle Matenano dove avevano fondato un monastero, e vi costruirono un castello nel secolo X, donde ebbe origine l’odierno comune di Santa Vittoria in Matenano. L’arrivo e la permanenza dell’abate Pietro di Farfa, sul colle Matenano avvenne attorno all’anno 899 (vi morì nel 919). L’abate Ratfredo poi, cessata la minaccia saracena, ritornò a Farfa dove ricostruì la sua abbazia saccheggiata, mentre lasciava un priore a Santa Vittoria come vicario abbaziale e governatore in spiritualibus et temporalibus (nel governo spirituale e civile) del cosiddetto Presidato Farfense.

   La diffusione dei monaci Farfensi nei territori circonvicini Piceni, portò alla costruzione dei monasteri e delle aziende rurali. La storia religiosa e quella civile correvano di pari passo, mentre i monaci diventavano l’autorità religiosa e insieme civile che governava i castelli. E proprio in tale situazione, è possibile evidenziare alcuni aspetti religiosi che possiamo ricostruire solo a grandi linee. Dalle notizie ferfensi[6] risultano gli insediamenti curtensi in vari luoghi e molti possedimenti, frutto dei lasciti e di altre forme di acquisizione. Alcune ipotesi tendono ad affermare che le curtes (in gran parte eredi delle villae romane) erano diffuse soprattutto presso il bacino del Tenna, nella pianura e lì dunque si riscontrerebbero anche la maggior popolosità e la molteplicità delle donazioni ai monaci. I rapporti con i Farfensi erano probabilmente già precedenti alla edificazione dei centri paesani in altura. Lo stanziamento e trasferimento sui colli da parte dei monaci arrivarono per gradi, e disegnarono gradualmente i successivi insediamenti.

Un documento[7] della seconda metà del secolo XI  (anno attorno al 1067) ci offre molti elementi per la vita civile, e soprattutto entra chiaramente nella vita religiosa. L’auore Giso preposito della chiesa di sancta Maria in Georgio (poi Montegiorgio), stando sul luogo, faceva un elenco di beni usurpati ai danni di Farfa. Non ci resta che accettare le risultanze di tale documentazione.

Il territorio, in toto o in gran parte, era costituito da lasciti, possessi, acquisizioni farfensi, presenti con la polarità religiosa dei loro monasteri. Si nota, in questa situazione, una doppia ricorrenza giuridica: nessuna distinzione tra proprietà-possesso e giurisdizione e amministrazione: lo jus publicum coincideva con la proprietà privata nella quasi totalità dei casi. Di conseguenza si comprende come le chiese, con tutti gli annessi e connessi dei castra erano in riferimento al monastero, alla chiesa abbaziale farfense di S. Maria (quasi tutte le chiese abbaziali benedettine sono dedicate alla Madonna). E’ lecito forse evincere pure che l’abitato dei paesi fosse il frutto dell’ulteriore ampliamento ed amalgama della zona abbaziale, come primo nucleo di sviluppo urbano in cui la chiesa diventava il centro della vita civile e religiosa locale.

Il Presidato Farfense (così veniva chiamato il territorio sotto la loro giurisdizione) era, con un’espressione del diritto canonico nullius dioecesis, cioè non sottoposto, non facente parte, di nessuna diocesi. Si era infatti costituito intorno a Santa Vittoria un territorio in cui i Farfensi avevano chiese, monasteri, grance, benefici e possedimenti su cui esercitavano oltre ad alcuni poteri civili e ad un diritto feudale sui residenti, anche la piena giurisdizione ecclesiastica. Ne conseguiva che ad esercitare il ministero nella comunità cristiana c’erano i monaci assieme con il clero secolare scelto e facente capo al priore e vicario del monastero farfense di Santa Vittoria. A delucidare ulteriormente la questione giurisdizionale v’è una prova importante: l’assenza o comunque, fino ad ora, la non documentata presenza di pievanie nel territorio del medio Tenna, come già rilevato per il periodo precedente.[8]

L’ingrandimento e la potenza accresciuta di Fermo e del potere vescovile sulla diocesi fermana, in un amplissimo territorio, saranno nei secoli successivi motivi del ripetuto contendere, tra vescovo e abate di Farfa. E forse non è escluso che quelle che leggiamo riferito dal preposito Giso nel 1067 riguardo alle usurpazioni vescovili sia da collegarsi all’espansione dei domini della città di Fermo.

Le poche notizie verificabili sono la situazione amministrativa delle chiese, e l’erezione di qualche monastero maschile o femminile benedettino farfense nel territorio di Fermo.

 2. L’insediamento degli ordini mendicanti

   La fine del secolo XII ed il successivo secolo XIII segnano nella storia della Chiesa un moto di riforma nel capite e nelle membra (gerarchia e laicato), di grande portata che si qualifica, da un lato, con la riforma del monachesimo benedettino, per l’altro lato,  con la nascita degli ordini religiosi detti “ mendicanti”, perché fortemente legati al voto di una povertà di tipo evangelico. Tutta questa nuova linfa di spiritualità aveva naturalmente il suo riflesso anche nella vita paesana, per la capillarità della sua diffusione, anche in seguito alla crisi della presenza Farfense. Normalmente si chiamano ordini mendicanti quelli degli Agostiniani, dei Francescani, dei Domenicani. Anche per le scelte specifiche di predicazione, essi si sono attestati soprattutto nei grandi centri, come, ad es., Fermo, occupando posizioni pastoralmente strategiche e imponendosi per la loro presenza, anche architettonica, di grande rilievo: le loro antiche chiese e conventi, per  quello che resta di essi, sono il retaggio artistico più significativo dei paesi.

L’ordine degli Eremitani di sant’Agostino fu riconosciuto ufficialmente dal papa Alessandro IV con bolla del 9 aprile del 1256 con cui promuoveva la “grande unione” di tutti i gruppi religiosi che si ispiravano alla regola detta ‘agostiniana’. A farne parte confluirono anche numerosi conventi della congregazione Brittese che ne aveva ben sei nella diocesi fi Fermo. Si trattava di un istituto religioso che promuoveva la vita comune, in cui regnava la povertà come “ stile di vita essenziale, umile e penitente, in continuo contatto con la natura”. Ho voluto sottolineare alcune caratteristiche di questo ordine, perché ci istruisce sul fatto che più di un convento agostiniano ebbe sede nella zona rurale

Per la cura d’anime (oggi useremmo il termine ”parrocchia”) la chiesa aveva libri, campane, calice, turibolo, fonte battesimale, case e cimitero. Le chiese che non erano punto di riferimento per una comunità di fedeli (cioè non erano parrocchie) non avevano il fonte battesimale, che era riservato alle chiese con cura d’anime e alle cattedrali.

La giurisdizione canonica, fu esercitata dall’abate di Farfa o da un suo delegato, e in tutta la sua diocesi dal vescovo di Fermo. Il passaggio di giurisdizione dai monaci al vescovo nei territori del loro Presidato, era solo in spiritualibus, mentre il possesso, cioè la proprietà, era ancora appannaggio del monastero di Farfa che lo concede.

Non abbiamo, specie per questo primo dei secoli XIII e XIV, i documenti desiderati. Sappiamo tuttavia che i Francescani, come i domenicani e gli Agostiniani, quando erano in cura d’anime dipendevano dal vescovo di Fermo, nelle parrocchie. Certamente la loro presenza fu sempre nel ruolo di testimonianza e di servizio alla vita spirituale della comunità.[9]

Tra i religiosi Francescani, una figura di spicco, tra la fine del secolo XIII e la prima metà del successivo, è senza dubbio fra’ Ugolino Boniscambi, riconosciuto dalla critica storico-filologica come l’autore del testo latino dei Fioretti di S. Francesco.[10]

Una forte configurazione delle istituzioni religiose fa capire come nei paesi, come anche in epoca successiva, dietro la spinta di tali presenze esemplari, la fede, capillarmente diffusa e vissuta, sia rifluita in espressioni caritative come le confraternite, l’ospedale, il Monte frumentario e il Monte di Pietà. Oltre che in altri settori, la Chiesa ha dimostrato la sua originalità creativa nel settore dell’aiuto ai poveri e agli ultimi. Viene quasi voglia di dire che oggi non abbiamo inventato nulla in questo campo, se non il progressivo aggiornamento degli strumenti. Se mai, con la burocrazia, ne abbiamo mortificato lo slancio generoso e l’autentico spirito cristiano.

3. Le confraternite e le opere di carità nei secoli XV e XVI, il Concilio di Trento

Nel secolo XIII in più parti si registra una crisi dell’ordine benedettino tradizionale, tanto da essere soppiantato in molti luoghi dalla riforma cistercense. Nelle regioni dell’Italia centrale (Umbria, Marche, Toscana) si è registrata un’espansione del francescanesimo dei Frati Minori, della Clarisse e del Terz’Ordine, affiancati, in molti luoghi marchigiani, dagli Agostiniani. In alcuni luoghi di culto restavano titolari e con diritti di collazione i Farfensi, ma di fatto, essendo per lo più chiese con cura d’anime, vi officiava il clero secolare che, per disciplina canonica, dipendeva dal vescovo. Altre chiese passarono alla giurisdizione vescovile. L’unione ad personam di due parrocchie e il cumulo dei benefici fanno pensare a piccole parrocchie ed esigui benefici.[11]

Nel secolo XV oltre agli ordini maschili, si accrescevano i monasteri femminili. Con la regola data a santa Chiara da san Francesco, troviamo le Clarisse. Sorsero altre forme di vita comunitaria con l’osservanza dei voti di castità, povertà e obbedienza.

Nella diocesi Fermana, nel 1573 ci fu la Visita Apostolica. L’attuazione dei decreti  del concilio tridentino, specialmente in materia di cultura e di vita cristiana nelle varie diocesi, fu oggetto di opportune visite da parte di delegati pontifici. Nella diocesi di Fermo fu inviato nel 1573 da papa Gregorio XIII, monsignor Giovan Battista Maremonti. Egli visitò, cominciando dalla Chiesa cattedrale, tutte le parrocchie e le chiese della diocesi.

Per i conventi la documentazione competeva alla Curia dell’ordine religioso. Il diritto canonico, infatti, prevede che gli ordini religiosi di diritto pontificio siano esenti e autonomi dalla giurisdizione dei vescovi e dipendano direttamente dai loro superiori e dalla congregazione vaticana per i Religiosi. Il vescovo esercita l’autorità quando essi abbiano cura d’anime, cioè gestiscano una parrocchia o, come nei secoli passati, se vi fossero stati altari con benefici e legati di collazione vescovile o di giuspatronato.

Il diritto canonico distingue, circa gli edifici di culto, fra chiesa e oratorio. La chiesa è un edificio di culto di carattere pubblico, cui tutti possono accedere per partecipare ai sacri riti. L’oratorio invece è un edificio di culto riservato ad una categoria specifica di persone (religiosi, monache, confraternite, famiglie) e se ai riti che vi si svolgono può partecipare solo la categoria di persone cui era riservato, si considera oratorio privato; se invece possono accedere altre persone che non appartengono alla categoria cui è riservato, si considera semipubblico. In ogni caso, i riti che si svolgono negli oratori non devono intralciare quelli delle chiese, specie parrocchiali.

Nei monasteri femminili il visitatore apostolico interrogò singolarmente le monache e dopo aver annotato la loro vita monastica, comunicò le particolari disposizioni del concilio tridentino in materia di monasteri di clausura e prese i particolari provvedimenti. È interessante notarli, sia pur brevemente, perché mettono in evidenza aspetti significativi della vita di un monastero nel ‘500. Innanzitutto il visitatore si occupò di una regolare e dignitosa vita monastica e ordinò ai deputati per il corretto funzionamento del monastero, di provvedere ad un cappellano stabile, che celebrasse regolarmente nella chiesa del monastero; ci fosse inoltre una conversa di fiducia che potesse uscire dal monastero per eseguire le incombenze e per fare la questua. Circa alcune ragazze che si trovavano nel monastero senza avere emesso i voti né aver vestito l’abito religioso, (forse le cosiddette educande), il visitatore raccomandava che fossero rimandate alle proprie famiglie. Inoltre egli si preoccupò che la clausura fosse rispettata, perciò ordinò che il muro di cinta del monastero fosse di altezza conveniente per tutelare la clausura. Pure la grata che separava la Chiesa dal monastero e dove si amministrava la s. Comunione, ed il sacramento della Confessione, fosse debitamente serrata. Inoltre il visitatore si prese cura delle rendite: ingiunse agli enti (luoghi pii) che erano tenuti ad erogare contributi per i poveri, di devolvere aiuti al monastero; impose censi alle confraternite che per statuto erano tenute ad opere di carità; ed esortò tutta la popolazione ad aiutare con elemosine ed elargizioni il monastero. Ordinò infine, preoccupato che le eccessive ristrettezze economiche potessero essere motivo di cattiva condotta, che in base alle rendite non venissero accolte nel monastero più di un compatibile numero di monache.[12]

La venuta degli ordini religiosi nei paesi è stata certamente una ricchezza per la vita cristiana e per l’azione caritativa, che, come è noto, accompagnava sempre quella pastorale. Non conosciamo l’organizzazione del monte di pietà che i Francescani promuovevano in ogni luogo dove erano presenti, né del monte frumentario creato per far fronte ai tempi di penuria di grano nelle annate caratterizzate da carestie. Per quanto riguarda gli Agostiniani si sa che accettavano la cura delle anime e si dedicavano alla costruzione delle loro chiese.

Qualche notizia sulle Confraternite. La vita caritativa e culturale ebbe una promozione decisiva nel secolo XV per il costituirsi di alcune confraternite di grande importanza: si ha memoria, tra altre, di qualche confraternita del Santo Spirito. Molto impegnati erano i religiosi appartenenti al Terzo Ordine Regolare di San Francesco (TOR).

Nell’oratorio officiato da talune confraternite; sull’altare ebbero a procurare uno splendido dipinto su tavola,  in vari casi attribuibile a Carlo Crivelli o a Vittore Crivelli o a Pietro Alemanno. Alla fine del secolo XIV o nei primi decenni del successivo si era costituita una confraternita per aiutare i malati, a Fermo, detta “dei Bianchi”, raffigurata in un dipinto della fine del ‘400 a Magliano di Tenna i cui confratelli appaiono vestiti di saio bianco e cappuccio bianco.

L’ospedale è da considerare come un ospizio per i poveri e i forestieri, perché le persone abbienti si facevano curare in casa. Non si deve dunque pensare ad un edificio grande e comodo, bensì ad uno relativamente piccolo e con assistenza appena sufficiente. Testimonianza preziosa su di esso è quanto si trova scritto nel resoconto della prima Visita apostolica del 1573, e precisamente nelle disposizioni impartite, secondo le quali occorreva ricavare una stanza per accogliere le donne ammalate. E si attrezzassero, inoltre, si facessero altre stanze in modo che l’ospedale potesse funzionare nel modo migliore. L’ospedale era costituito da un corpo di fabbrica talora annesso alla Chiesa o ad essa adiacente.  Spesso era piccolo, con poche stanze per cui i ricoverati si trovavano stretti e troppo vicini l’uno all’altro, come si nota dagli ordini del vescovo  Maremonti nella citata visita apostolica. Con la fondazione dell’ospedale ci troviamo a cogliere l’efficacia dello spirito di carità della Chiesa, tramite anche la vivacità spirituale del laicato cristiano, su cui si misura ancor oggi la dimensione dell’interesse per l’uomo e per la vita.

L’istituzione ospedaliera ebbe continue migliorie dei locali e dopo l’Unità d’Italia, fu requisita con la legge eversiva sulle Opere Pie, e passò alla Congregazione di Carità, ente paracomunale. Con la riforma sanitaria di alcuni decenni fa, risulta assegnata alla ASUR zonale delle Marche.

La Confraternita del SS. Corpo di Cristo, prese poi il nome del ‘SS. Sacramento’. Nel 1573 il ogni  confraternita per effetto della citata visita apostolica del Maremonti doveva tenere in regola i resoconti.

4. Le parrocchie, la vita religiosa e il culto

Il visitatore apostolico visitò tutte le istituzioni ecclesiastiche, eccetto quelle dei religiosi;  annotò la situazione della vita cristiana ed emanò disposizioni con decreti di attuazione, ove fosse necessario rimediare a carenze o inadempienze. Chi esamina questo documento di visita apostolica, sviluppa il quadro generale delle parrocchie e delle altre istituzioni religiose; con esame analitico della situazione di ogni luogo sulla base dei rilievi positivi e negativi e delle disposizioni nei decreti del visitatore; con possibile approfondimento critico di tutta la problematica. Si elencano le parrocchie e tutte le chiese ed oratori, confraternite ed ospedali.

Un’analisi delle annotazioni e delle disposizioni di sacra visita offre uno spaccato interessante sulla situazione religiosa. Riguardo allo stato delle strutture degli edifici di culto, si colgono alcune annotazioni positive dove tutto era fatto bene, insieme ad altre note per situazioni di degrado e quindi di poca cura da parte del clero e della popolazione. Si annotavano le chiese che risultavano senza problemi strutturali e ben tenute, ed anche quelle mal ridotte, dirute, in rovina; quasi abbandonate. Qualche chiesa, chiusa da gran tempo per restauri fu trovata messa male sotto tutti gli aspetti; taluna chiesa rurale minacciava di cadere da un momento all’altro; talaltra era minacciata da infiltrazioni d’acqua e smottamenti; altre era in condizioni precarie.

Il concilio di Trento aveva fatto della parrocchia la cellula fondamentale della comunità cristiana; c’era stato un preciso indirizzo nell’esigere parrocchie ben organizzate, con la presenza del sacerdote, e la sacra liturgia celebrata con dignità. Inoltre nella prassi applicativa si badò molto che le parrocchie tenessero bene i registri parrocchiali ed in ordine. Si dovevano sopprimere o accorpare quelle troppo piccole o che non avessero un reddito per mantenere il sacerdote titolare. Altro aspetto perciò che risulta interessante dalla sacra visita è quello dell’estinzione delle parrocchie e le proposte di riorganizzazione. Indirettamente, da ciò si può avere qualche indicazione sulla consistenza demografica di ogni paese. Nelle parrocchie più estese con grande numero di famiglie, il visitatore ingiungeva al parroco di assumere i cappellani approvati dal vescovo affinché lo coadiuvassero nella cura delle anime. Nelle chiese rurali l’ingiunzione del visitatore fu di celebrarvi la Messa poche volte all’anno. Accadeva che in una chiesa il visitatore non trovava il sacerdote e non riusciva a verificare quanto riferivano alcune persone, se la chiesa fosse parrocchiale; comunque le famiglie sembrerebbero essere in numero esiguo.

Il termine “fuoco” nel senso di famiglia, va considerato, perché contiene il concetto di famiglia patriarcale, numerosa, in cui c’erano più famiglie, cioè coppie matrimoniali con figli,  tutti parenti stretti o insidenti su uno stesso podere,  che vivevano sotto lo stesso tetto. Circa la distribuzione della popolazione nelle varie parrocchie i verbali della visita non offrono individuazioni sicure perché non conosciamo gli esatti confini delle singole, ma un rilevamento si può fare per i comuni e le zone che vi risultano più o meno popolate.

Secondo il visitatore era importante considerare la condizione giuridica delle singole chiese, cioè se dovesse canonicamente considerarsi chiesa parrocchiale o no. Nel primo caso infatti, gli oneri del sacerdote sarebbero stati ben diversi rispetto alla chiese non parrocchiali. Permanendo il dubbio, Maremonti prendeva la decisione più sicura giuridicamente e più saggia ed utile sul piano pratico. Per lo studioso che si interessa al numero dei parrocchiani è utile raccoglierne i dati, con un’analisi delle fonti archivistiche, e così giungerà ad un’accurata e precisa ricostruzione della situazione demografica nei secoli XVIII e XIX.

Va notato che la parrocchia gentilizia era quella costituita da famiglie di una o più gens, cioè ceppo familiare. Generalmente questa aveva la chiesa parrocchiale costruita dalle famiglie stesse nel luogo dove risiedevano raggruppate. Tali famiglie avevano ottenuto un sacerdote che fosse il loro parroco e che queste mantenevano a loro spese. Quando poi nello scorrere degli anni, per vari comiti come matrimoni, lavoro, divisioni patrimoniali, e altro, alcune di esse, seppur costrette, spostavano la loro residenza, mantenevano tuttavia l’appartenenza alla loro parrocchia gentilizia. In genere nelle parrocchie gentilizie vigeva il cosiddetto ius patronatus che consisteva nel poter scegliere il parroco, presentando una terna di sacerdoti al vescovo, che nominava uno di essi. Lo jus patronatus era un diritto acquisito che si trasmetteva in famiglia per discendenza in linea diretta maschile.

Si nota la parcellizzazione dell’animato in varie parrocchie, alcune delle quali erano di origine gentilizia e per ciò stesso di poche famiglie che eventualmente avevano il patronato,  nel contempo altre parrocchie erano senza un adeguato beneficio che consentisse il mantenimento del parroco, né una cura adeguata della chiesa e di far fronte alle necessità di culto – come risulta dalle disposizioni del visitatore apostolico circa paramenti, suppellettili decoro dell’edificio. Per necessità è stato il visitatore stesso a proporre un accorpamento delle parrocchie: nel caso di due chiese fatiscenti, sia sistemata una delle due dopo essere stata una restaurata e l’altra finiva demolita. La chiesa parrocchiale con reddito poverissimo e di poche anime, è stimata non doversi tenere come parrocchia e non dovervi tenere i sacramenti ecclesiali. Qualora risultasse parrocchia, veniva accorpata ad un’altra, spesso alla prepositura alla quale, in seguito sarà annessa anche qualche altra il cui animato fosse molto ridotto.  Le parrocchie di due contrade venivano unite per ragioni di comodità al paese più vicino, non come enti, ma ad personam, cioè nella persona di un unico parroco.

Attenzione particolare viene posta dal visitatore apostolico a quanto riguarda il culto e la liturgia e a tutto l’apparato del decoro e delle modalità connesse. Il concilio di Trento aveva ribadito norme per i sacramenti ed in special modo per l’Eucaristia. Dalle disposizioni dei decreti di sacra visita si ha un quadro generale non molto positivo a tal proposito; vengono rilevati mancanti gli arredi dignitosi per le celebrazioni; in chiese parrocchiali mancavano il fonte battesimale e il tabernacolo per la conservazione dell’Eucaristia, talora si ordinava di comperare messali nuovi. In una chiesa non si celebrava la s. Messa, né le suppellettili erano in buono stato. In alcune chiese il visitatore faceva rilievi marginali, o dichiarava che tutto è stata trovato bene.

Il visitatore non si preoccupava soltanto delle chiese e della cura dei fedeli, ma anche delle situazioni sociali difficili, particolarmente nei luoghi dove le persone rischiavano di essere abbandonate a se stesse. Visitando, infatti, un ospedale, gestito da una confraternita egli detta alcune disposizioni per un miglior alloggiamento degli ammalati e anche per assicurare l’attenzione alla riservatezza, quel che oggi si direbbe “privacy”. La visita trova compimento con il recarsi del Maremonti alle carceri cittadine. La visita alle carceri è connessa al potere che la Chiesa rivendica di intervenire per un trattamento umano dei detenuti.

Nello Stato pontificio ciò avveniva con interventi diretti dell’autorità ecclesiastica su quella civile; negli altri Stati tramite i religiosi cappellani e le confraternite a ciò deputate. Spesso ha trovato una situazione doppiamente degradata: nelle strutture e nel trattamento dei reclusi, constatando che la comunità paesana non si interessava minimamente dei carcerati. Per ovviare a tutto ciò, ordina che si intervenga immediatamente rifacendo i pavimenti e provvedendo con letti di tavole, provvisti di “pagliericci”. In seguito il carcere dovrà essere per necessità ricostruito. Quanto all’assistenza dei carcerati dava mandato alla confraternita del SS. Sacramento di andare incontro sia ai bisogni spirituali che materiali dei detenuti, organizzando tra la popolazione questue e raccolte.

Da tutto il quadro delineato emerge una realtà in cui ancora ci si doveva ancora adeguare ai decreti del concilio di Trento e il clero secolare era impreparato ad una visione più attenta e precisa delle attività liturgiche e pastorali. Talora il vescovo Maremonti notava l’abbandono da parte dei frati di qualche chiesa rurale e ordina che venga restaurata e riattivato il culto. D’altro canto i documenti interni propri dei visitatori di ogni ordine religioso ed altra varia documentazione, annotano una vita conventuale con lacune, per cui vengono emanate precise disposizioni e in modo tassativo, come custodire il Santissimo Sacramento in un luogo pulito e decoroso con un tabernacolo sull’altare maggiore; e di non tralasciare la recita del divino ufficio. Il superiore visitatore fa seguire una serie di ingiunzioni sui comportamenti di vita, sulla retta condotta dei novizi, sulla moralità, sull’amministrazione delle proprietà del convento. Da queste annotazioni, si può capire come quel Concilio fu veramente un momento forte della riforma cattolica e una novità di marcia nella vita della Chiesa, del clero e del laicato.

Nel secolo XVI va notata la novità dei Cappuccini.[13] Quest’ordine, germogliò nell’ambito del moto di riforma del francescanesimo, all’inizio del ‘500; e proprio nelle Marche, in quel di Camerino: il luogo di Renacavata, fu la culla del movimento dei Cappuccini, con riforma del primo ordine francescano, con approvazione concessa nel 1528 da Clemente VII. Grande diffusione ebbe nelle Marche, tanto che si creò una specifica provincia nel 1535. La richiesta per la loro dislocazione nei paesi di un loro convento era espressa dalla municipalità e dalla popolazione con lettera al provinciale di tale ordine. L’analisi del periodo post-tridentino ci ha offerto la “fotografia” delle istituzioni cristiane.

5. Gli sviluppi nei secoli XVII e XVIII

Affrontiamo ora i due secoli che seguirono, in una visione globale, annotando quei fenomeni evolutivi che di volta in volta mutarono le situazioni, senza tuttavia entrare in un cumulo di dettagli che porterebbero alla perdita delle linee guida del nostro studio.

Il tempo che decorre dalla riforma tridentina al flagello della guerra napoleonica – in pratica i secoli XVII  e XVIII – è caratterizzato da una situazione che potremmo definire di stabilità e anche di progressivo fervore e di partecipazione. Tre aspetti possono sintetizzarsi: 1) il progressivo organizzarsi delle parrocchie con una più precisa definizione della territorialità in ordine alla cura d’anime, comprendendovi le demolizioni, le ristrutturazioni e decoro per gli edifici di culto. 2) la presenza più incisiva degli ordini religiosi con la promozione di nuove esperienze monastiche femminili; 3) un incremento cospicuo delle aggregazioni laicali, con iniziative devozionali, ed anche caritative, di grande rilievo, alcune delle quali permangono significative ancor oggi.

E’ possibile ricostruire tutto questo seguendo la documentazione degli archivi parrocchiali e delle confraternite. Grandi sintesi si trovano negli inventari e nei decreti delle Sacre Visite dell’Archivio Storico Arcivescovile. Tutto ciò è supportato dai registri parrocchiali, autentica miniera per una costante fotografia del paese.

Circa la sistemazione delle parrocchie e dei luoghi di culto, ci proiettiamo dalla fine del Seicento al quadro successivo, attraverso le visite pastorali di monsignor Paolucci (1694) e del cardinal Baldassarre Cenci (1698). Dalle annotazioni di queste sacre visite, a distanza di quattro anni l’una dall’altra, e complementari, si registrano alquante variazioni circa i luoghi di culto. Agli edifici di culto preesistenti, che potremmo chiamare “storici”, si sono aggiunti nel Seicento e nel Settecento alcuni nuovi: essi sono in genere oratori di confraternite quindi costruiti in seguito alla creazione di queste. Forse il materiale delle chiese demolite fu usato “ a vantaggio della nuova chiesa della parrocchia: i fedeli, le associazioni laicali, la comunità e in particolare la confraternita del SS. Sacramento si impegnarono con debiti per la costruzione di una nuova grande chiesa. Per recuperare altro materiale edilizio, era stata demolite le chiese rurali.

Alcuni paesi ebbero la loro chiesa Collegiata. Questo istituto giuridico del diritto canonico, consisteva, come indica l’etimologia della parola (colligere = raccogliere), nel raggruppare il clero in un unico collegio, cioè comunità di preghiera e di servizio, in un’unica chiesa, con l’obbligo di recita comune dell’ufficio divino, mentre il servizio religioso distribuito a ciascuno, era coordinato da riunioni dei canonici componenti. L’insieme era detto Capitolo e le riunioni Capitolari dove alcuni avevano particolari incarichi.

Nel secolo XVIII , gli edifici di culto subivano varie vicende, ed altri se ne aggiungono, in genere oratori e soprattutto cappelle devozionali di proprietà spesso privata, comunque sempre eretti per autorizzazione dell’ordinario diocesano (vescovo o vicario generale). In luoghi meno serviti dal parroco, viene istituita una cappellania laicale, con messa quotidiana. Parallelamente allo sviluppo dell’edilizia di culto, fioriscono, come s’è detto, le comunità religiose e le confraternite.

Per le comunità religiose femminili del secolo XVIII si hanno abbondanti ragguagli negli inventari e soprattutto nella rispettiva bolla dell’autorizzazione papale, dettagliata nel definire gli impegni. Si potrebbero fare tante considerazioni sull’erezione di nuovi monasteri; l’unica verità che vorremmo sapere è se potesse eventualmente essere stato un escamotage per adempiere alla prassi del maggiorascato.

Nell’ambito della scelta della vita ascetica occorre far menzione anche di forme diverse da quelle comunitarie degli ordini religiosi. Nelle visite pastorali si fa menzione di “romitori”, cioè di luoghi per persone che avevano scelto la vita eremitica. Esistevano dentro qualche paese le pinzoche, cioè donne che avevano scelto la vita ascetica, probabilmente con voti semplici e temporanei e vivevano presumibilmente in casa, forse indossando un particolare abito, da cui erano riconoscibili.

Nei secoli precedenti avevamo notato alcune confraternite che in seguito ritroviamo impegnate nei loro compiti, e ad esse altre se ne aggiungono, frutto certo dello slancio creato dal concilio di Trento anche nel laicato cattolico.  In breve accenniamo a queste: SS. Sacramento; Della Morte; Del Suffragio; Del Rosario; Della Via Crucis.

La Confraternita del SS. Sacramento si diffuse in particolare per effetto del Concilio di Trento (1546-1564)  e celebrava le sue funzioni in una determinata domenica di ogni mese.

La Confraternita della Morte, risale al secolo XVI con l’attività caritativa conforme all’opera di misericordia: “seppellire i morti”, in quanto garantiva il trasporto e la sepoltura dei defunti, senza distinzione di ceto.

    Altra antica Confraternita era quella di San Rocco, probabilmente con lo scopo del servizio fraterno durante le pestilenze; eretta nel sec. XVI.

Nel secolo XVII si diffondeva la Confraternita del Suffragio, o “ Società sotto l’invocazione del Santo Suffragio delle Anime Purganti ” aggregata all’Arciconfraternita omonima di Roma per compartecipare delle indulgenze.

Dalla fine del secolo XVI (battaglia di Lepanto 1571) fu eretta la Confraternita del Rosario che aveva una celebrazione mensile nella propria parrocchia.

Per quanto ci è dato sapere, la Confraternita della Via Crucis, detta anche del Cristo Morto, celebrava la Via Crucis nei venerdì di Quaresima o almeno il venerdì della settimana santa prima della Pasqua (c’era, e persiste la pratica della composizione del Calvario il venerdì santo).

Gli ultimi decenni del secolo XVIII registrano il primo processo di risistemazione delle parrocchie e dell’animato, determinato dalla demaniazione delle chiese.[14] Grande fu lo sconvolgimento portato a fine secolo dalla conquista militare di Napoleone.

6. Il secolo XIX

Prima che nel 1809 tornasse l’invasione francese ad attuare le soppressioni ecclesiastiche dei decreti napoleonici, nei paesi dell’arcidiocesi Fermana continuò la sistemazione istituzionale nell’ambito del piano operativo del cardinale Cesare Brancadoro che ben conosceva la situazione: parcellizzazione eccessiva dell’animato, sacerdoti che non coordinavano il lavoro o piuttosto si trovavano a difendere antichi diritti e privilegi ormai di nessuna utilità pastorale con aumento del contenzioso; sperpero del denaro, e mancata utilizzazione dei benefici e redditi per la vita della comunità. Vista l’abbondanza del clero, – parroci, beneficiati, rettori di cappellaie, cappellani di confraternite – , il cardinale, dopo la visita pastorale del 1804-5, decise di sopprimere qualche  parrocchia.

Questa nuova strutturazione era appena avviata, quando arrivò la ventata anticlericale dell’invasione francese che determinò gravi scompensi con il forzoso sequestro per il demanio di edifici sacri e conventi e requisizioni coatte di suppellettili sacre e di preziose opere d’arte, ora perdute per sempre. La documentazione esiste per cui riteniamo di dover andare oltre. Una radiografia del nuovo stato di cose post-napoleonico nel Fermano ci è offerto dai resoconti puntuali, ed ordinati della visita pastorale dell’arcivescovo cardinale Francesco Annibale Ferretti del 1838. E’ possibile ricavarne un chiaro intero quadro delle parrocchie, delle chiese non parrocchiali e deli oratori semipubblici delle confraternite o privati.

Molte famiglie ricche o nobili avevano nel loro palazzo o in terre di loro proprietà, dove magari erano solite soggiornare per qualche tempo dell’anno, una chiesina o cappella privata. Queste, per lo più, erano officiate dal prete di famiglia, che poteva essere un membro della famiglia stessa o un altro sacerdote che viveva in casa.

Delle Confraternite che rigogliosamente erano sorte dopo il concilio di Trento, ne restavano alcune; altre erano state spazzate via o per requisizione delle loro chiese e dei loro beni o finite per estinzione.

I monasteri femminili furono soppressi e chiusi dai Francesi e le suore disperse. In seguito, dopo finito l’impero napoleonico,  alcuni si ricostituirono.   I “luoghi pii” ricostruiti di tre tipi: Ospedale, Monte di Pietà (monte di prestito su pegno) e Monte Frumentario (prestito di grano).

Si sono notati questi dettagli (ne abbiamo tralasciati molti altri) per sottolineare con quanta sollecitudine la Chiesa – tramite i Pastori – si prendeva cura della vita religiosa della gente, ed anche per far capire come queste istituzioni di confraternite, luoghi pii, monasteri, ospedali, rispondessero esattamente alle esigenze della comunità. Tutto ciò diventa evidente di fronte al sommo degrado della situazione post-unitaria, quando tali istituzioni furono abolite e i loro beni forzosamente requisiti.

7. La situazione tra la fine dell’800 ed il primo ‘900

Gli anni successivi al Regno d’Italia, fino alla prima guerra mondiale (1861-1914), hanno registrato un vero e proprio accanimento contro “l’asse ecclesiastico”. Furono sequestrati per il demanio conventi e chiese non parrocchiali, furono requisiti tutti o quasi i beni dei monasteri, dei conventi, delle confraternite e di molti Luoghi Pii, fino alle leggi novecentesche sulle Opere Pie. Ideologicamente sul piano operativo se ne risentì in una forma che sembra il peggioramento di quanto era già stato fatto, agli inizi del secolo, dal governo francese del Regno Italico. Una dettagliata disamina farebbe rabbrividire.

I monasteri delle Clarisse che nel frattempo con encomiabile azione sociale, si erano aperti alle necessità paesane realizzando attività formative nel cosiddetto “educatorio” per ragazze che volessero imparare mestieri femminili (anche canto e disegno) furono chiusi ed espropriati, e in seguito assegnati ai Comuni.  Più di una chiesa fu sconsacrata.  Sarebbe utile conoscere, tra l’altro, quali forme e comportamenti violenti furono usati dagli incaricati del Comune per impossessarsi dei registri delle parrocchie per fare l’anagrafe comunale: basti comunque averne conservato testimonianze documentarie negli archivi.

Risulta che in ogni paese, chi più, chi meno, si manifestasse l’aria anticlericale -massonica e con forte componente anarchica.  I parroci, si mostravano animati da spirito di pace e nel miglior modo la mantenevano in mezzo al popolo, nella missione di tutelare i diritti della verità e della giustizia. Facevano  anche conoscere a tutti che era una vera turlupinatura il dare a credere che per essere patrioti, occorra essere anticlericali. L’opera paziente di dialogo nel rapporto con la gente portò i frutti sperati.  In questo clima si andava verso la prima guerra mondiale, preceduta, nel Fermano, dal fenomeno politico che portò all’elezione di don Romolo Murri a deputato.

La processione celebrata all’aperto in ogni parrocchia era quella del Corpus Domini nel mese di giugno. Durante la prima guerra mondiale, accadeva che il parroco, confidente e prezioso consigliere di molti nel paese, fungesse da segretario del popolo e si recava ad aiutare i poveri e i bisognosi, soprattutto i familiari dei soldati al fronte. Si preoccupava dei loro problemi e scriveva lettere per conto dei familiari, spesso analfabeti, e rispondeva a quelle dei soldati lontani.

Durante e dopo la guerra in molte parrocchie furono fatte ridipingere le chiese. Furono anche approntati dei locali per le riunioni parrocchiali. Talora si sistemò un teatrino parrocchiale per dare avvio alla filodrammatica. Più di un parroco, adeguandosi poi ai tempi e intuendo l’importanza del cinema, si attrezzò per le proiezioni di film. Era curati anche i locali delle aule di catechismo e di svago. Con le suore furono organizzate le scuole-laboratori per ragazze e il “Circolo Giovanile” parrocchiale come luogo di educazione per la gioventù.

Alcuni facinorosi fascisti, dopo il concordato tra Stato e Chiesa e dopo il 1931, praticarono contro queste attività di formazione ed istruzione dei giovani, ogni sorta di vessazioni fino alla violenza fisica perpetrata sui giovani frequentatori dei “Circoli” cattolici. Crollato il regime, dal 1946 è subentrata la Repubblica. Ne affidiamo la cronaca agli storici futuri.

 


[1] Sull’origine del cristianesimo nel Piceno Fermano  è fondamentale la sintesi di tutta la problematica in G. SANTARELLI, Le origini del cristianesimo nelle Marche, Loreto 2007, e 2009.

[2] L’archeologia del tardo-antico (secondo la denominazione delle Rielg) e alto-medievale non ha sortito risultati significativi.

[3]  Curtis   nel secolo X era un gruppo di case di lavoratori agricoli dipendenti con contratti per lo più ad precaria, ad pastinandum, ad meliorandum  o enfiteusi.

[4]  Rationes Decimarum Italiae. Marchia a cura di P. SELLA, Città del Vaticano 1950. Nel secolo XIII nella diocesi fermana sono nominate quindici pievanie e nessuna di queste nella media valle del Tenna.

[5] Una bibliografia per l’approfondimento dell’argomento deve partire dai testi classici come I. SCHUSTER, L’Imperiale Abbazia di Farfa, Roma 1921 e dalle raccolte di documenti di GREGORIO DA CATINO, Regesto di Farfa, voll. 5 Roma 1879-1914 (in seguito, Reg. Far.) e Chronicon Farfense. voll. 2 Roma 1903 (in seguito, Chron.Far.).  G. LIBERATI, I possedimenti farfensi nel Fermano, in “Economia e governi a Fermo nel primo ‘300”, tesi di laurea  1970. Nelle valli e nei crinali dei fiumi Tenna ed Ete, fino all’Aso i monaci fin dal secolo VIII avevano acquisito benefici, terre, villae, curtes, frutto di donazioni che si incrementarono con altre acquisizioni durante la loro permanenza. La prima donazione che si conosca è quella del monastero di S. Ippolito in territorio fermano, come attesta un diploma di Desiderio del 17 dicembre 762 (Reg. Far. II, p. 55). L’abate dimissionario Guandelberto venne nel Fermano presso i monasteri sant’Ippolito e San Giovanni in Selva (Reg. Far. II, p. 48) circa l’anno 760.

[6] Documenti in G. DA CATINO, Regesto Farfense, cit. all’indice.

[7] DA CATINO, Regesto cit. vol. V, pp. 269-270 documento lettere q-t.

[8] La pieve o  pievania era una circoscrizione territoriale di un centro abitato insieme alle villae rurali circostanti, sotto la giurisdizione in spiritualibus di un plebanus, un sacerdote con beneficio e decime, alle dipendenze del vescovo diocesano.

[9] L’autore di questo testo (d. Germano) a contatto abituale con i documenti del passato, si rende conto  che la storia cristiana sia in gran parte storia di solidarietà, di fraternità e di carità.

[10]  G. PAGNANI, I fioretti di san Francesco. Roma 1952, introduzione.

[11] Sono interessati quattro istituti giuridici, la vacatio, lo ius patronati, la procuratio, la collatio, e ciascuno con specifica normativa definita.

[12]  Converse erano dette le monache che per mancanza di preparazione, specie nella liturgia, per il latino e il canto corale, erano nel monastero incaricate dell’andamento della casa come normali massaie di famiglia, senza tuttavia tralasciare la preghiera e gli atti comuni.

[13]  Sul movimento cappuccino e la fondazione dei conventi locali cfr. C. URBANELLI,  Storia dei Cappuccini delle Marche, dal ms. Ancona, Arch. Prov. Cappuccini.

[14] Si dice ”demaniazione” l’atto con cui le autorità francesi requisirono chiese, conventi, monasteri, luoghi pii, e ospedali, imponendo (in modo violento ed eversivo) nello Stato pontificio, i decreti della rivoluzione francese e della legislazione napoleonica, conseguenti la Costituzione Civile del Clero. (Una drammatica rievocazione è  nell’episodio ripreso nella celebre opera teatrale di George Bernanos, I dialoghi delle Carmelitane, pubblicato postumo nel 1949). I beni ecclesiastici, mobili e immobili, furono sequestrati per il pubblico demanio e divenivano proprietà dello Stato che poi li concedeva ai comuni, e ad istituzioni pubbliche come scuole, tribunali, prigioni,  o li vendeva ad acquirenti privati. Tale sistema fu adottato, di nuovo, come vedremo, dai governi italiani del Re di Savoia in epoca postunitaria.

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