LA BASILICA CATTEDRALE METROPOLITANA DI FERMO
La cattedrale è segno e storia di inculturazione e di vita culturale, memoria del passato e profezia del futuro. Cerchiamo di cogliere la vita della cattedrale: 1 – Per una storia dell’edificio; 2 – Le origini cristiane e la e il primo tempio; 3 – La basilica pre-romanica e romanica; 4 – La cattedrale gotica; 5 – La cattedrale tardo-settecentesca. Interventi recenti.
Per una storia dell’edificio
La cattedrale racconta una storia di inculturazione ed esprime la vita Fermana. E’ segno di una comunità di fedeli e di un vescovo, successore degli apostoli che ne ha sempre indicato e ne indica l’autonomia, l’unità, la struttura gerarchica.
Tentare semplicemente di delineare e documentare la storia della basilica cattedrale metropolitana di Fermo (1) significa dover fare la storia di quattro cattedrali. Occorre, infatti, prendere l’avvio da quella paleocristiana per giungere a quella neoclassica, attraverso quella romanica e la successiva gotica. Non si tratta, infatti, di descrivere soltanto aggiunte o modernizzazioni o aggiornamenti stilistico-decorativi che segnano per lo più l’evoluzione storica di tante altre chiese, bensì di recuperare (dalle fondamenta) funditus strutture, proporzioni, piante, stilemi che di volta in volta sono mutati in successive quattro ricostruzioni, tutte ex novo o quasi; esse hanno abbracciato sedici secoli di storia religiosa e civile di Fermo e si sono caratterizzate secondo necessità, stili, gusti diversificati nel tempo, in un continuo divenire cui fanno da codicillo gli ultimissimi interventi realizzati tra il secondo e terzo millennio.
Si tratta dunque non di ristrutturazioni, ma di ricostruzioni, segnate da eventi talora importanti nella storia Fermana, dal sorgere e svilupparsi della prima comunità cristiana, alle distruzioni del Barbarossa, alla rivisitazione storico-stilistica del tardo settecento. Quattro cattedrali, l’una dopo l’altra, tutte nuove, tutte diverse. Chi oggi vi entra non può non accorgersene, tali sono le sedimentazioni che dall’ipogeo si dispiegano nella facciata e nell’atrio, sino all’aula, maestosa e solenne che accoglie il fedele cristiano o il visitatore: un complesso di forme plurime e di volumi diversi che induce a pensare ad una comunità cristiana mai paga dell’esistente e sempre volta ad un dinamismo culturale di non facile riscontro, una creatività senza limiti di tempo e di gusto.
Questa cattedrale come scaturigine della fede e della civiltà cristiana testimonia l’unione del territorio, pur tra i sommovimenti della storia locale.
Le origini paleocristiane e il primo tempio
Non sono state ancora chiarite le origini e la diffusione del cristianesimo nel territorio Piceno in genere e a Fermo in particolare (2); del pari non è possibile stabilire l’epoca della prima chiesa, data la documentazione quasi del tutto assente a tal riguardo. Qualche elemento più probante ci viene dall’archeologia: un sarcofago cristiano del V secolo, oggi nella cripta della cattedrale, i reperti di altra natura collocati nell’ipogeo di essa, le iscrizioni funerarie cristiane nel lapidario della città, ma non ancora studiate, ci offrono elementi abbastanza sicuri, almeno come (data antecedente) terminus ante quem, per affermare la presenza di una comunità cristiana a Fermo tra la fine del IV sec. e l’inizio del V (3). Nel VI sec. certamente a Fermo era già costituita la diocesi insieme ad altre quattordici del Piceno (4). È dunque con ogni probabilità, da collocare alla fine del sec. IV o l’inizio del V la costruzione del primo tempio, divenuto, con adattamenti, basilica cattedrale e sede episcopale, tenendo conto che la costituzione della diocesi era conseguente al progressivo incremento della comunità e all’aumento del prestigio dell’importante municipio romano di Fermo. A questo riguardo, oltre alla documentazione archeologica, può essere addotta la prova argomentativa, cioè il fatto che essa, come vedremo, fu costruita proprio sul colle più alto della città dove avevano sede luoghi di culto pagani, un’area cimiteriale e l’anfiteatro. Se, infatti, come è noto, fino al IV sec. le chiese cristiane erano per lo più edificate ‘ai margini’ per evitare i conflitti con i culti pagani, nel V sec., sia per la grande diffusione del nuovo credo agevolato dall’editto teodosiano, sia per le distruzioni in seguito alle invasioni barbariche (5), tale zona dovette essere in decadenza o semiabbandonata e quei ruderi erano divenuti agevolmente utilizzabili per il nuovo edificio, sia come materiale di riuso, sia come eventuali sostruzioni (basamenti).
Tuttavia fino al 1934, ad eccezione del sarcofago (6) e dei reperti cui si è fatto riferimento, ben poco si conosceva del primo edificio cristiano, salvo tradizioni riportate dagli storici antichi, ma non documentate. In quell’anno si pose mano al rifacimento del pavimento dell’attuale cattedrale e alla demolizione della balaustrata e della gradinata d’accesso al presbiterio. Durante i lavori vennero alla luce strutture sottostanti e mosaici pavimentali. Si procedette ad uno scavo di natura archeologica (1934-1939) che portò a stabilire l’esistenza e a ridisegnare abbastanza fedelmente le linee essenziali di una chiesa paleocristiana su un’area di difficile individuazione e natura, ma con ogni probabilità cimiteriale.
I risultati degli scavi (7) hanno messo in luce un edificio a pianta basilicale, a tre navate divise da due file di sei colonne; la navata centrale terminante con l’abside semicircolare orientata ad est. L’edificio ha una lunghezza di m 22,60 e una larghezza di m 13,50; navata centrale m 6,43; le laterali m 3,07; l’abside ha una corda m.5,22 ed è profonda m 3,09. La struttura di un muro preesistente che parte dalla sinistra dell’abside e taglia a mezzo la navata centrale, fa supporre l’esistenza di un edificio precedente, una chiesa più piccola, poco più larga della navata sinistra, che forse doveva essere la primitiva, il primo tempio, di cui la basilica restituita dallo scavo è stato il successivo ampliamento.
Altri elementi attentamente analizzati ci convincono di un’apertura al centro della navata sinistra sul lato settentrionale e di un’altra sul lato a fianco dell’abside; esse fanno supporre la presenza di uno dei due classici pastoforia (spazi per il clero), probabilmente la prostesi (posto avanti). Del pari una traccia al centro dell’abside che interrompe il mosaico pavimentale può essere interpretata come il sito della cathedra (seggio episcopale) cui farebbero da riscontro i blocchi di pietre nel semicerchio da intendere come il gradone ove erano posti i subsellia (sedili) per il clero.
Il titolo dedicatorio di questa prima chiesa ci è ignoto. Se dobbiamo pensare che successivamente essa è detta di S. Maria, si potrebbe, come la tradizione vuole, supporre che tale titolo sia stato quello iniziale; ma argomenti più probabilistici possono far pensare a S. Savino vescovo, il cui culto risulta assai diffuso nel sec. VI e ciò spiegherebbe la ininterrotta tradizione che fino ad oggi lo venera come compatrono della città (8).
Gli scavi hanno permesso di andare oltre la cattedrale paleocristiana e certi indizi lasciano intuire successivi interventi. Tra il livello del pavimento attuale, infatti, e quello paleocristiano sono stati individuati almeno altri due livelli intermedi che certamente corrispondono a fasi successive, seppur con l’immutato impianto iniziale.
Resta ora da accennare al pavimento mosaicato a quota di m -1,35 dell’attuale piano di calpestio della cattedrale.
Dei mosaici restano quello dell’abside e ampie zone delle navate laterali nei settori verso il presbiterio, mentre della navata centrale sventrata nello scavo, non si sa nulla; ma che vi fossero mosaici è testimoniato da lacerti nell’intercolumnio; se siano stati strappati e ora in qualche parte dispersi o se siano stati distrutti non v’è alcuna registrazione documentaria (9). La decorazione musiva del pavimento dell’abside ha, come norma, un soggetto iconico policromo: due pavoni affrontati con al centro un kantharos con racemi (di viti) ed una cornice in tessere bianche e nere. Nella navata sinistra invece la decorazione è costituita da una composizione ad onde con pelte, girali e fasce a motivi geometrici; nella navata destra sono presenti motivi floreali e geometrici. I mosaici, anche se qualcuno vorrebbe anticiparli alla fine del IV secolo, sono, con ogni probabilità, ascrivibili al V secolo. Questa basilica paleocristiana è nel segno della tradizione basilicale romana, i mosaici sono tipici di una tipologia bizantina, diffusasi in tutta l’area Adriatica, da Grado, ad Aquileia, a Venezia, a Ravenna. Tale inculturazione non è solo imitazione delle forme, ma anche dei significati. La fede che collega Fermo all’Oriente ed all’Adriatico in genere , testimonia rapporti e collegamenti spirituali più profondi di quanto si possa pensare.
La basilica pre-romanica e romanica
Alcune foto degli scavi del 1934 e anni successivi e alcune annotazioni accessorie rinvenute qua e là offrono la possibilità di recuperare elementi e tracce di strutture successivi alla basilica paleocristiana.
Innanzitutto tra il pavimento moderno e quello paleocristiano mosaicato si possono individuare due livelli intermedi, certamente alto medievali. Il più basso di essi (a circa m -1,25 dall’attuale) è accompagnato presso il muro della navata sinistra da lastroni di pietra che andavano a costituire una pavimentazione nuova, forse quella dell’edificio preromantico.
L’edificio che si può individuare sulla base di queste strutture è del medesimo impianto del paleocristiano, ma notevolmente allungato nell’aula verso ovest, cioè dalla parte del muro della facciata primitiva con l’abbattimento di quest’ultima e la costruzione di una nuova (facciata), di cui non si possono definire struttura e ampiezza a causa della interruzione degli scavi.
La ragione di tale allungamento non può essere altra se non quella della necessità di una maggiore ampiezza dell’aula, magari in seguito alla crescita della comunità. Se anche molteplici altri casi presentano tipi di interventi di ampliamento (si pensi a quello non lontano da Fermo, nella cattedrale di S. Ciriaco in Ancona), tuttavia, mentre negli altri si interveniva soprattutto allargando l’edificio o aggiungendo corpi di fabbrica più articolati, questo di Fermo si imponeva quasi come l’unico possibile o il meno complicato architettonicamente perché non andava a creare problemi di statica e insisteva sulla zona più solida della collina, quella verso l’ampia spianata. Si potrebbe pensare forse anche ad un ampliamento della zona presbiteriale, ma ciò resta solo una ipotesi non confermata né forse confermabile, perché la zona è stata successivamente sbancata per costruirvi l’attuale cripta.
Va aggiunto che nell’ipogeo restano in situ tuttora le basi di due colonne, scolpite agli spigoli con foglie stilizzate, forme che si adeguano a quelle in uso nel primo romanico, a cavaliere tra il primo e il secondo millennio. In questo senso si può dunque pensare che la chiesa potesse aver subito anche interventi di ristrutturazione oltre all’ampliamento predetto.
L’edificio dunque di cui si sono dati gli unici elementi ricostruttivi possibili, costituisce la “seconda cattedrale”, sovrapposta alla prima, allungata e ristrutturata in alcune parti, frutto di interventi nell’alto medioevo e nei sec. X-XI (10). In mancanza di documentazione di scavo, dobbiamo pensare che essa, salvo magari interventi occasionali e limitati, sia rimasta così fino alla fine del sec. XII.
Fin qui le testimonianze archeologiche. Ma ad esse vanno aggiunte quelle archivistiche storiografiche che ampliano alcune nostre conoscenze, specialmente in riferimento al sec. IX. Protagonista di interventi specifici sarebbe stato il vescovo Lupo cui il Catalani (11) attribuisce l’ampliamento e l’ornato della chiesa, ma anche l’adeguamento (o la costruzione?) degli edifici annessi, l’episcopio e la casa dei canonici. È comunque certo che tali opere fossero state già realizzate all’inizio del nuovo millennio. Un prezioso codice, infatti, il liber jurium dell’episcopato e della città di Fermo che corre dal 977 al 1266, ci fornisce preziose informazioni in tal senso, dalle quali si possono ricavare alcuni fatti importanti: 1) la cattedrale dopo il mille risulta dedicata alla B. Vergine Maria; 2) numerosissime furono tra i secc. X e XI le donazioni fatte alla cattedrale (segno dei lavori in corso ?); 3) le decisioni venivano spesso prese, così come stabilito dal decreto di Eugenio IV nel concilio romano dell’826, di comune accordo tra vescovo e canonici i quali abitavano in casa comune (12).
Se a questo punto vogliamo tentare una sintesi tra la documentazione archeologica e quella archivistica, possiamo avventurarci a ‘ricostruire’ a grandi linee il complesso della cattedrale medievale intorno al 1000 – 1100. Era una chiesa sufficientemente ampia, a tre navate, sopraelevata rispetto alla paleocristiana, con copertura probabilmente a capriate sorretta da pilastri romanici. Il presbiterio era rialzato e poggiava forse su una cripta, ed era transennato con ogni probabilità da plutei di stile longobardo-carolingio. Al fondo dell’abside era posta la cattedra vescovile con postergale cuspidato, su cui era scolpita una mitria (13). La facciata, a tre spioventi, aveva un portale centrale; sulla fiancata destra si trovava un altro portale e forse anche un secondo. Dietro l’abside, congiunti alla cattedrale, si trovavano l’episcopio e la canonica. Questo complesso è da considerarsi il frutto di interventi, più o meno invasivi, succedutisi tra il sec. VIII ed il XII. A cavaliere dell’anno mille, la seconda cattedrale offre una sintesi di più culture. Le testimonianze dei ritrovamenti architettonici e decorativi ci offrono commistione sapiente di elementi di cultura nordica, come le forme romaniche o alcune basi di pilastri a foglie scanalate, le sculture di un vescovo su un rocco di colonne con un pastorale il cui riccio richiama esattamente quello d’avorio del museo e fa pensare ad una vescovo in collegamento con Roma. Parimenti plutei di fattura carolingia e capitelli a pulvino di estradizione tardoravennate. Una Fermo non provinciale, né marginata, ma immersa in una circolazione culturale ricca ed esaltante, segno di una comunità viva e aperta che trasferisce in una sintesi tutti i nuovi segni del sacro. Certamente ne sapremmo assai di più, se l’archivio della cattedrale non fosse andato quasi del tutto distrutto nell’anno 1176. Fermo era allineata nella politica anti-imperiale del papa Alessandro III e ne pagò le conseguenze devastatorie. E proprio questo anno è anche discriminante ai fini del lavoro di ricostruzione storica che stiamo compiendo.
La cattedrale gotica
Il “terzo” edificio che, per comodità, chiameremo la cattedrale gotica, è il frutto di una integrale riedificazione dopo l’incendio e la distruzione subite ad opera delle truppe di Federico Barbarossa, penetrate a Fermo il 21 settembre 1176, guidate dal cancelliere dell’Impero, lo scomunicato arcivescovo di Magonza, Cristiano. Insieme alla cattedrale andarono distrutti gli edifici annessi (episcopio e canonica) e gravi danneggiamenti subì tutta la città di Fermo (14). Negli anni successivi, i lavori per la ricostruzione e la riconferma nello status quo ante (modo antecedente) furono personalmente condotti dall’arcivescovo Alberico e poi, dal 1179 dal suo successore, Pietro II (1179-1183): la cattedrale e la città riottennero dal cancelliere imperiale la restituzione di tutti i privilegi e dal papa Alessandro III la facoltà di promuovere una colletta tra le genti della Marca per la riparazione della Cattedrale (15).
La ricostruzione fu lenta forse per le successive angherie che il comune ed il vescovo Presbitero subirono sotto Enrico VI, ad opera del legato Marcovaldo di Hannweiler che la ingloba nella Marca di Ancona. Sono questi gli anni e gli eventi che forse legano la presenza della casula di Thomas Becket alla cattedrale di Fermo; il Catalani e gli altri storici propendono a collegare l’arrivo di essa a Presbitero, futuro successore di Pietro II. Del resto, da fonti abbastanza solide possiamo ricavare anche altre informazioni di grande valore circa la promozione e la diffusione del culto di S. Tommaso Becket dopo che nel 1178 era stato proclamato santo e la costruzione della chiesa dedicata a lui e a S. Maria Maddalena che, iniziata dallo stesso Presbitero quando era ancora arcidiacono, fu portata da lui a compimento e consacrata (con solenne rito liturgico) solemni ritu, dopo esser divenuto vescovo. Si può pensare che tale Chiesa sia stata costruita anche per conservare la preziosa reliquia della casula cui Presbitero doveva essere fortemente legato e solo in seguito essa fu trasferita nella cattedrale riedificata?
È gioco forza ipotizzare che in questi primi anni successivi all’incendio, o in attesa di costruire un nuovo edificio o perché la riparazione poteva essere valutata risolutiva, si corresse ai ripari cercando, con interventi tampone, di riutilizzare l’edificio incendiato e parzialmente diruto.
Di maggior interesse è l’altra notizia, fornitaci sempre dal Catalani, secondo cui il vescovo Presbitero insieme agli altri interventi sulla cattedrale, si preoccupò di rendere più sicuro il colle dove essa sorgeva: “si diede inizio a quei contrafforti da costruire, chiamati Zirone o Gironi (16); si tratta dunque della fortificazione del colle detto Girfalco, di cui oggi restano alcune strutture. In verità tale preoccupazione del vescovo non può non essere correlata alla tutela della cattedrale e si può pensare ad un organico progetto che contemplava anche la costruzione ex novo della Chiesa. Ma in una lastra di pietra incassata e murata tra l’attuale portale centrale e la monofora del fianco destro troviamo un’iscrizione che fa luce su questo evento. Una data e il nome di due personaggi sono annotazioni in grado di farci capire epoca e protagonisti della costruzione del nuovo edificio (17). La data è il 1227, e va certo interpretata come l’anno in cui l’opera muraria e scultorea fu conclusa; il primo nome, Bartolomeo, è da individuare, stante il titolo di “mansionario” come canonico responsabile della fabbriceria; Giorgio, della circoscrizione ecclesiastica di Como, con il titolo di “magister” fu certo il progettista e il direttore dei lavori, diremmo oggi, cioè il capomastro, responsabile di tutte le maestranze (18).
Della cattedrale gotica restano oggi notevoli e splendide strutture: la facciata con il portale, il campanile, il portale laterale sul fianco destro, il rosone, l’atrio, la cripta, quest’ultima seppur rimaneggiata. Siamo di fronte ad un lavoro durato qualche decennio, vuoi per le difficoltà economiche dopo la distruzione dell’imperatore Federico, vuoi per la nuova grandiosa concezione con un progetto che raddoppiava la superficie dell’edificio, concepito a tre grandiosi navate, con presbiterio sopraelevato e una cripta sottostante; la struttura era sorretta da pilastri polistili e da colonne, con soffitto a capriate lignee intagliate e dipinte; la scenografica facciata è asimmetrica con portale strombato e cuspidato e splendido rosone; tutta in pietra d’Istria (19).
Fu consacrata, anche se non del tutto compiuta, con ogni probabilità dal vescovo Ranaldo (Rainaldo ?) e dedicata alla Assunta, anche se per la sua posizione fu a lungo chiamata S. Maria in Castello (20).
Notizie desunte da documenti d’archivio ci permettono di affermare che i lavori nella cattedrale non finirono mai e l’edificio fu oggetto di aggiunte e modifiche fino al sec. XVIII, con stratificazione storico-stilistica di cui ancor oggi restano le vestigia. Meritano un accenno le più importanti e significative. Nel 1348, l’anno della grande pestilenza, fu messo in opera il finissimo rosone della facciata in pietra intagliata, opera dello scultore fermano Giacomo Palmieri; l’atrio di cui restano notevoli affreschi, fu un susseguirsi di interventi pittorici dal sec. XIV al sec. XVI; sul colmo del tetto in corrispondenza del presbiterio fu innalzata nel 1423 una colonna marmorea sormontata da un gallo in bronzo, emblema dell’allora signore della città, Ludovico Migliorati. Tra la fine del quattrocento e l’inizio del cinquecento fu aggiunto un corpo di fabbrica a metà della navata sinistra che costituì la cappella della confraternita del santo Nome di Gesù Cristo, forse propiziata dalla devozione promossa da S. Bernardino da Siena e dalla predicazione di S. Giacomo della Marca (21).
Nello stesso lasso di tempo la cattedrale si arricchì di splendidi tesori fra cui il monumento funebre a Giovanni Visconti d’Oleggio, opera del mastro Tura da Imola (1366) (22). La rocca sul Girfalco fu ridotta dai alcuni Signori in un fortilizio tirannesco. Il vescvo Antonio De Vetulis fece costruire il nuovo episcopio nelle parte più alta del quartiere San Martino per una vita ecclesiale indipendente e non soffocata dagli eventi politici. Nel 1446 il cardinale Domenico da Capranica assieme con il Consiglio della città e dello Stato di Fermo decisero di abbattere la ricca tirannesca. La cattedrale appariva solitaria, vero segno e testimonianza storica vitale: il mondo passa, la fede resta. I secoli successivi videro ulteriori interventi, tra cui val bene segnalare due opere insigni: il monumento al condottiero fermano Orazio Brancadoro del 1560, rimaneggiato nel 1608, in cui il Maranesi individua l’intervento dello scultore Alessandro Volta (23); l’imponente ciborio bronzeo commissionato dal capitolo dei canonici nel 1570 a Ludovico e Giuliano Lombardi-Solari (24). In quegli stessi anni fu sistemata anche quella che oggi è detta la cappella dell’Immacolata con un organo del sec. XVI. Nel frattempo l’aula fu letteralmente “invasa” da sovrastrutture. Si registrano, infatti, in epoca post-tridentina, legati, donazioni, costituzione di patronati di nobili famiglie cittadine, insediamenti di confraternite, per cui si moltiplicarono gli altari posti sia alle pareti che sui pilastri, soffocando in qualche modo lo slancio architettonico e l’eleganza delle linee. A danno della liturgia, si moltiplicarono le celebrazioni.
Per farci un’idea di quel che doveva essere diventata la cattedrale alla fine del ‘500, basta rifarsi alle note della vista apostolica di Mons. Giovambattista Maremonti nel 1573 (25). Il ciborio bronzeo era stato posto sull’altare maggiore nuper, cioè poco prima, ma la Chiesa era tutta da restaurare nel pavimento, nelle pareti, negli altari e nel fonte battesimale; un deposito qualificato indecens (indecoroso) di pietre e legname era sul fianco destro del portale principale; le reliquie del corpo di S. Alessandro vescovo erano state murate “presso la sacrestia in modo piuttosto indecoroso”. Della pletora di altari, ben tredici ne elenca il Maremonti (26), la maggior parte versava in cattivo stato nelle strutture e nelle suppellettili. Questo stato di cose, salvo alcuni interventi parziali e di non grande impegno, si era protratto fino alla prima metà del secolo XVIII, quando fu eletto vescovo di Fermo Alessandro IV Borgia (vescovo dal 1724 al 1764) (27). Egli si prese cura della cattedrale con passione, sensibilità e competenza artistica. Fu da lui fatta ristrutturare e ampliare la cripta ove trovarono dignitosa e ordinata sistemazione le ss. Reliquie; provvide ad eliminare alcuni altari malridotti e ingombranti, restaurò la facciata e fece porre nella cuspide del portale la splendida scultura bronzea dell’Assunta. Vi organizzò l’archivio e lo sistemò nel miglior decoro. Tuttavia l’aula dell’edificio restò senza decisivi interventi e quindi con l’aggravarsi del degrado ne risentirono inevitabilmente le strutture stesse.
La cattedrale tardo-settecentesca
La prima idea di una ristrutturazione dalle fondamenta (funditus) dell’edificio così mal messo, fu ventilata e avanzata dal card. Urbano Paracciani, successore di Borgia e arcivescovo dal 1764 al 1777. Ne aveva anche fatto elaborare un progetto che il papa Pio VI aveva accolto ma ridimensionato, così come si legge nel decreto di approvazione: “dato che tu intendi restaurare e rifare soltanto, ma non fare di nuovo” (cum tu non de novo, sed dumtaxat reficere et restaurare intendas” (28). I lavori non ebbero comunque inizio, forse per la sopraggiunta morte del presule o, più probabilmente, per l’accendersi di opposizioni varie, così come il breve pontificio lascia intendere: opposizioni che si rinfocoleranno in seguito.
Il successore, mons. Andrea Minucci (1779-1803), infatti, riprese l’idea di una vera e propria ricostruzione e questa volta, con estrema decisione, volle condurla a termine, nonostante le polemiche, le rimostranze e i ricorsi al papa da parte del capitolo dei canonici, delle autorità cittadine e di parte della nobiltà fermana (29).
Il nuovo progetto fu affidato all’architetto pontificio Cosimo Morelli di Imola, la esecuzione dei lavori a Luigi Paglialunga di Fermo, che stava già costruendo la chiesa prepositurale di Montegiorgio, le decorazioni al sangiorgese Pio Panfili. I lavori durarono nove anni e la Chiesa fu consacrata nel 1789 e nel 1793 mons. Minucci vi celebrò il Sinodo Piceno (30). Siamo così giunti alla “quarta cattedrale”, quella che possiamo ammirare oggi.
Il progetto del Morelli è di assai maggior ampiezza della cattedrale gotica con un prolungamento della zona presbiteriale ed una dilatazione in larghezza. Del precedente edificio furono salvati la facciata, il campanile e l’atrio. L’interno si presenta imponente e con chiari stilemi neoclassici; a tre navate con archi a tutto sesto su enormi pilastri in stile composito; una trabeazione classica ed una cornice a membrature rilevate ed articolate corrono per tutto l’edificio. La monumentalità è ingentilita e arricchita da decorazioni di finte cupole, lacunari e mostre di portali ad effetto illusionistico che annullano, insieme allo splendido e scenografico stucco dell’Assunta nell’abside, la rigidezza e la fredda simmetria delle strutture.
Armonicamente e sobriamente si coniugano dunque la grandiosità neoclassica e il gusto raffinato tardo-rococò. Da allora la cattedrale non ha subito modifiche significative se non interventi di necessaria manutenzione ed un progressivo arricchimento di opere d’arte. Gli interventi su vasta scala, iniziati negli anni novanta, sono stati incrementati.
La cattedrale di Fermo, pertanto, è da annoverare tra le più grandiose, ben conservate e splendidamente restaurate della terra marchigiana e soprattutto un polo di fede che costituisce non solo giuridicamente e teologicamente, ma anche pastoralmente, il centro della comunità cristiana dell’intera vasta archidiocesi.
Si può dunque comprendere, dopo avere scorso queste note compendiarie, come la storia secolare della cattedrale e la storia altrettanto ininterrotta della comunità civile abbiano camminato in simbiosi e le vestigia dell’edificio mostrano tutti i segni dei secoli. Romano Guardini, parlando di arte cristiana ed in particolare dei luoghi di culto, li definisce: “luoghi della memoria, attualizzazione del mistero, profezia del futuro”. Questa breve cronistoria della cattedrale Fermana, segno della sua comunità episcopale, testimonia la vivacità vitale della inculturazione storica. La memoria del passato ci fa cogliere il processo dinamico di quattro cattedrali; l’attualizzazione è testimoniata dalla presente comunità cristiana ove il grande mistero viene vissuto nelle celebrazioni e nei comunitari raduni ricorrenti. La profezia è il proiettarsi continuo nel futuro, non solo escatologico di fede, ma un futuro storico ove ogni fedele della diocesi continua la percezione del segno e si immedesima nella storia in processo dinamico senza fine.
************* Dagli studi di Liberati Germano
N O T E
(1) Fermo, di origine preromana, poi municipio romano, è una cittadina del Piceno, nelle Marche meridionali, ridivenuta provincia nel 2004; conta 35.000 abitanti, sita a brevissima distanza dal mare Adriatico e posta su un colle a 319 m s.l.m. L’archidiocesi di Fermo è tra le più antiche (V secolo) del territorio, assai vasta (comprende 58 comuni) e la più popolosa delle Marche. La sua cattedrale, dedicata all’Assunta, è posta nel punto più alto del colle detto “Girifalco”. Il titolo di chiesa metropolitana le è stato conferito nel 1589 dal papa Sisto V, già cardinale e arcivescovo di Fermo(1571-1577); il presule di Fermo è a tutt’oggi metropolita con le diocesi suffraganee di Macerata, Camerino, Ascoli Piceno e Montalto-Ripatransone (oggi accorpate nella diocesi di S. Benedetto del Tronto).
(2) Le ipotesi più ricorrenti sono due e gli storici propendono o per l’una o per l’altra con argomenti apprezzabili ma non del tutto probanti. La prima di esse fa riferimento alla situazione amministrativa di Fermo, importante municipio romano, e che indurrebbe a pensare ad un asse privilegiato Roma-Fermo, attraverso il quale, insieme ad eserciti e mercanti, sarebbero giunti anche i primi evangelizzatori. All’opposto, altri storici privilegiano la via del mare, facendo riferimento agli intensi scambi commerciali con l’oriente e da cui sembra quasi certa provenire la evangelizzazione delle città della costa e soprattutto di Ancona. <Possono essere state entrambe>
(3) Per la verità storici antichi (Catalani, Porti, Trebbi-Filoni, De Minicis) riportano un’antica tradizione non documentata, secondo cui i primi due vescovi di Fermo sarebbero stati Alessandro e Filippo, martirizzati sotto Decio il primo (249 ca.), sotto Gallo il secondo (251-253). Qualche studioso più recente ha messo in evidenza la presunta infondatezza di tale tradizione (S. Prete, I santi martiri Alessandro il Filippo nella Chiesa Fermana, contributo alla storia delle origini, in, Studi di Antichità Cristiane, XVI, Roma 1941;R. Di Mattia, L’archidiocesi di Fermo, Fermo, 1995, pp. 11-15. Una sintesi di tutta la problematica si trova in E. Tassi, Gli arcivescovi di Fermo nei secoli XIX e XX, Fermo 2006, pp.19-28. Vero evangelizzatore del Piceno è stato S. Marone il cui santuario con la tomba si trova Civitanova Marche, città dell’archidiocesi di Fermo; il suo martirio andrebbe collocato, secondo studi recenti, sotto Diocleziano, tra la fine del sec. III e l’inizio del IV (S. Prete, Pagine di storia fermana, in, Fonti e studi, IV, Fano 1984, pp. 18-19.
(4) Nel secolo VI la ecclesìa (diocesi) Firmana è ampiamente documentata sia nei suoi confini, sia per aver assorbito diocesi minori come Potentia, Faleria, Pausolae (S. Prete, pagg.ne cit., p. 5). Ci sono sicure testimonianze esplicite nelle lettere di papa San Gregorio Magno ( M. G. H. tomo II, Epist, IX, 52, p. 77, 58, p. 81,71, p. 90: idem, epist. XIII, 18, p. 385).
(5) Documenti archivistici più volte editi e menzionati da tutti gli storici di Fermo mettono in evidenza i drammatici eventi dei secoli V e VI; le devastazioni dei Visigoti (Alarico nel 410, Ataulfo nel 413), l’assedio del 545 dell’ostrogoto Totila, fino al saccheggio delle milizie di Autari nel 584.
(6) Si tratta di un sarcofago paleo-cristiano di cui si ignorano luogo e data di rinvenimento, fatto collocare dall’arcivescovo Borgia, nella prima metà del sec XVIII, nella cripta da lui ristrutturata, dove si trova tuttora ed è accreditato dalla tradizione come il sepolcro del secondo vescovo di Fermo, San Filippo martire.
(7) Degli scavi purtroppo restano solo notizie frammentarie, qualche schizzo, alcune fotografie e notizie interpretative “a caldo” poco verificabili. Non esiste un giornale di scavo, non si conoscono i rinvenimenti stratigrafici né gli esami, non si conoscono i reperti effettivi ad eccezione di alcuni (forse i meno importanti), attualmente depositati nell’ipogeo. La soprintendenza archeologica delle Marche non ha mai curato un inventario né chiarito la dispersione. Tutto il materiale documentario esistente disperso in più sedi e parte forse in archivi e raccolte private. A tutto ciò, va aggiunta la pessima conduzione dello scavo; risarcimenti in cemento, completamenti in muratura hanno minato la effettiva consistenza in natura delle strutture originarie; i mosaici pavimentali sono stati malamente consolidati e restaurati. Chi volesse affrontare il problema, può documentarsi con quel poco esistente che qui di seguito viene elencato. G. Breccia, Fermo. Rinvenimenti archeologici sotto la Chiesa Metropolitana, in, Il Palladio, 1939, n.3, pp. 85-86; G. Cicconi, La Metropolitana di Fermo e recenti rinvenimenti archeologici sotto il pavimento, Fermo 1940; F. Maranesi, La cattedrale di Fermo, Fermo 1941; G. Graciotti, La basilica paleocristiana sotto la chiesa metropolitana di Fermo, in, Felix Ravenna, Ravenna 1963, serie 3, n. 87, pp. 108-131; F. Cocchini, La Basilica paleocristiana di Fermo, in Atti del VI Convegno nazionale di Archeologia Cristiana, Pesaro 1983, pp. 19-23. Una recente tesi di laurea (1994) di S. Cesarini discussa presso l’Università Cattolica di Milano tenta di mettere ordine alla problematica, ma non raggiungere se non lo scopo di un’aggiunta alla documentazione e una serie di nuovi interrogativi.
(8) Stranamente nessuno storico si è occupato della questione e tutti concordemente ripetono che la cattedrale era dedicata alla B. Vergine Maria, riportando il titolo medievale ricorrente ” Santa Maria in Castello”, aggiungendo poi – e questo a ragione – che tale titolo sotto Sisto V fu precisato, o forse meglio esplicitato, in Santa Maria Assunta. Ma secondo noi, non sembra del tutto improbabile invece che questo primo tempio fosse dedicato a S. Savino vescovo. Non si spiegherebbero infatti, il culto ininterrotto per questo Santo e le chiare testimonianze che attestano un culto assai sentito nell’antichità. Come viene ricordato nella lettera dell’anno 598 (M. G. H., tomo II, Epist. IX, 58, p. 81) di papa Gregorio Magno al vescovo della città, Passivo, a Fermo era stato dedicato un oratorio a S. Savino, fatto erigere nel fondo Vissiano da un notaio di nome Valeriano (Valerianus notarius in fundo Visiano , un podere nella zona che ancor oggi si chiama colle Vissiano). S. Savino non era un santo locale, ma vescovo di Spoleto (B. H. L. 7451-7453) il cui culto o per traslazione di reliquie o per cause che ci sfuggono, si era diffuso a Fermo. Se così fosse, prenderebbe maggior corpo la tesi secondo cui il cristianesimo si sia diffuso nel fermano attraverso l’asse Roma-Adriatico che passava proprio per Spoleto.
(9) Per una descrizione ed un’analisi più dettagliata dei mosaici rinvenuti nello scavo e tuttora conservati, si faccia riferimento alla bibliografia della precedente nota 7, in special modo agli scritti di Gracetti, Cocchini e Cesarini cit. Ma il parato musivo del pavimento della navata centrale di cui i cronisti contemporanei allo scavo (Breccia e Cicconi citt.) non fanno menzione, costituisce un vero e proprio “giallo”. Esso c’era senz’ombra di dubbio, come testimoniano i lacerti degli intercolumni. Che cosa è successo? Il fatto che le relazioni contemporanee non ne parlino, suggerisce diverse ipotesi. Gli addetti allo scavo per imperizia lo hanno malamente distrutto e fatto scomparire prima che se ne avesse notizia? Per proseguire nello scavo degli strati sottostanti gli addetti lo hanno rimosso senza alcun resoconto e trasferito in qualche parte inaccessibile? Ciò potrebbe essere una delle ragioni della scomparsa o della mancanza di un giornale di scavo. Sarebbe interessante a questo riguardo (sapere) se la notifica di un tal rinvenimento è stata taciuta dagli addetti ai lavori o anche, perché in qualche modo coinvolti, dai relatori.
(10) Nell’ipogeo della cattedrale si conservano numerosi frammenti dei secc. VIII – XI; resti di decorazioni, parti di cornici, la vasca battesimale, la cuspide della cattedra vescovile, una colonna con scultura di vescovo, una porzione dei plutei longobardo-carolingi che costituivano con ogni probabilità la transenna del presbiterio. Ora in parte sono esposti nel Museo Diocesano.
(11) La forma ipotetica (“sarebbe stato)” è stata usata per il fatto che questo vescovo, Lupo, viene espunto dalla cronotassi dei presuli fermani dal Tassi (Gli arcivescovi cit. p. 35) come anche dall’indicazione di U. Cameli, Note di storia Fermana. Il vescovo Lupo presente al sinodo romano dell’826, in Studia Picena, 12, 1936, p. 169 e ss. La sua presenza si basa infatti, solo sulla firma apposta ai decreti del Sinodo, ma il Cameli anziché leggervi come i Catalani, Lupus episcopus firmensis, vorrebbe leggervi Lupus episcopus furconiensis. Va aggiunto che le ulteriori notizie su Lupo riportate da Catalani erano riprese dal Trebbi-Filoni e dal Maranesi, non sono correlate di alcun riferimento documentario.
(12) Liber Jurium dell’episcopato e della città di Fermo: codice 1030 dell’archivio storico comunale di Fermo, a cura di D. Pacini, G. Avarucci, U. Paoli, voll. 3, Ancona, 1996. Si consultino in particolare i documenti : anno 995 p. 229: donazione nella chiesa della Vergine Maria santa Madre di Dio che è dell’episcopato Fermano dentro la città di Fermo; anno 1022, p. 47: donazione a Santa Maria chiesa che è del vescovo e costruita dentro la città di Fermo; anno 1054 p. 69: donazione al vescovo di Fermo, Ermanno, nella chiesa di Santa Maria; anno 1059 p. 153: donazione alla chiesa di Santa Maria Vergine Madre di Dio che è dell’episcopato di Fermo dentro il territorio della città; anno 1060 p. 89: donazione nella chiesa della Beata Maria Madre di Dio, sempre Vergine, che sta dentro la città di Fermo; anno 1063 p. 125: Donazione al vescovo della Chiesa Fermana Ulderico, con i canonici; anno 1166 p. 427: consenso dei canonici al vescovo di Fermo.
(13) Cfr. nota 10.
(14) Con questa drammatica notizia comincia la più antica cronaca fermana. “Nel nome di Dio onnipotente e della beatissima Vergine Maria. Questa è la memoria di tutte e singole le notizie, le novità e di moltissime cose avvenute nei tempi qui scritti; sono state annotate e scritte da me Antonio Nicolai (di Nicolò) di Fermo, pubblico notaio. Cioè, anzitutto nell’anno 1176, nella festa di san Matteo, del mese di settembre la città Fermana fu invasa, occupata e distrutta da Cristiano, arcivescovo di Magonza, detto anche cancelliere” (Cronaca della città di Fermo di Antonio di Nicolò pubblicata per la prima volta con annotazioni e giunte dal Cav. Gaetano De Minicis, Firenze 1870, p. 3).
(15) Sono custoditi nella sezione dell’Archivio di Stato di Fermo (A. S. Fe.) tre rescritti a firma di Cristiani Mogontine (sic) sedis Archiepiscopi legati domini Imperatoris datati tutti 1177 (A. S. Fe., sezione diplomatica, pergamene 501,2 117,853). Per brevità, rimandando alla consultazione diretta, citiamo il rescritto n. 217 nel regesto di M. Hubart, ms. del 1624, quando era notaio e cancelliere del Comune di Fermo: “Copia, fatta da Bartolomeo di Pietro, del privilegio dato presso Assisi nell’anno del Signore 1177 da Cristiano arcivescovo di Magonza che conferma tutti i diritti, le ragioni, le giustizie, le terre, i poderi, i campi, le vigne, della città di Fermo e riconsegna a questa città, nel suo nome, ogni libertà che aveva l’anno prima che fosse distrutta, inoltre allevia quelli o quella città da ogni “esazione” o “dativa” di qualsiasi tipo, che fosse esatta da qualsiasi persona, per i prossimi cinque anni (tassazione)”. A fianco di questa restituzione di privilegi da parte del cancelliere imperiale va collocato l’intervento del papa Alessandro III che, con lettera data da Venezia nel 1177 esorta la popolazione della Marca “affinché generosamente diano l’apporto in beneficio di carità per la riparazione della Chiesa Fermana, con i loro beni” ( ut bonis suis pro reparatione Ecclesiae Firmanae liberaliter conferant beneficia charitatis Trebbi-Filoni, op. cit., p. 44). Per le annotazioni sui vescovi di Alberico e Pietro II cfr. Liber Jurium cit. passim, indice.
(16) Sul vescovo presbitero oltre al Liber Jurium cit., si veda M. Catalani, De Ecclesia Firmana eiusque Episcopi et Archiepiscopis commentarius, Firmi 1783, p. 147 e ss. e l’appendice.
(17) Ecco il testo dell’iscrizione: A. D. MCCXXVII BARTO/LOMEUS MANSIONARI HOC/OPUS FIERI FECIT.
P(er) MA/NUS: MAGISTRI GEORGEI DE (…….) EPISCOPATU COM(acensi).
(18) Su maestro Giorgio si veda F. Maranesi, La cattedrale cit., pp. 9-11.
(19) Non deve meravigliare la scelta di questo materiale perché gli stretti e importanti rapporti commerciali fra le due sponde dell’Adriatico, la Repubblica Veneta e Fermo sono noti e ampiamente documentati.
(20) Una facciata romanica a ridosso di un edificio gotico costruito ex novo, può creare qualche problema interpretativo. Le ragioni di questa apparente disarmonia vanno ricercate nell’epoca della costruzione. Come è ormai assodato, lo stile gotico nato nella regione dell’Ile de France verso la metà del sec. XII, raggiunge l’apogeo nel sec. XIII. In Italia vi giunge nel sec. XIII, appunto, portato dai monaci cistercensi, ma stenta, all’inizio, l’affermarsi al di fuori di tali abbazie. La tradizione romanica è forte e ben consolidata; inoltre sopravvivono stilemi della tradizione bizantina e paleocristiana. In questo quadro, la cattedrale di Fermo, compiuta nel 1227, può essere annoverata tra le prime espressioni del nuovo stile (Fossanova 1206, Casamari 1217, S. Galgano nel 1227, come Fermo). Forse l’esempio più calzante la chiesa di Sant’Andrea a Vercelli, iniziata nel 1189 e conclusa anch’essa nel 1227: romanica la facciata, seppur in stile francese, e gotico l’interno.
(21) Per annotazioni più dettagliate sulla stratificazione successivi si veda Maranesi, op. cit., pp.12-21.
(22) Maranesi, ibidem, pp. 23-27.
(23) Maranesi, ibidem, pp. 29-32.
(24) Maranesi, ibidem, pp. 36-38. Il ciborio originariamente collocato sull’altare maggiore, fu spostato all’epoca della ricostruzione della cattedrale da mons. Minucci all’altare del SS. Sacramento (1789 ca.); nel 2004 è stato restaurato e trasferito nel Museo Diocesano, a lato della stessa cattedrale.
(25) Archivio storico arcivescovile di Fermo (A. S. A. F.), Sacre Visite, visita di Mons. Giovambattista Maremonti, ms, ff. 1-2. Tutte le citazioni latine sono desunte dal testo.
(26) Nella relazione del Maremonti e relativi decreti troviamo accurate annotazioni su ciascuno di essi. Qui ci limitiamo ad un semplice elenco: Altare maggiore dedicato ai SS. Filippo ed Aurelio martiri; altare dei SS. Giovanni Battista e Pietro; altare di S. Giuseppe; altare dei SS. Tommaso, Antonio e Giacomo; altare di S. Ruffino; altare di S. Leopardo e S. Maria; altare di S. Elisabetta; altare di S. Lucia; altare di S. Anna; altare di S. Giovanni evangelista; altare di S. Biagio; altare del SS. Crocifisso; altare dei ss. Ignazio e Nicola.
(27) Una dettagliata descrizione dei restauri del Borgia in Trebbi-Filoni, op. cit. pp. 46-48.
(28) A. S. A. F. , Motu proprio di Pio VI, 7 aprile 1781.
(29) A. S. A. F. Supplica della città di Fermo ad alcuni Em. mi Sigg. Cardinali sulle presenti vertenze con Mons. Minucci intorno alla Chiesa Metropolitana e Collegio Marziale, Villafranca 1782, passim.
(30) Maranesi, op.cit., pp. 27-50 passim.
I lavori di fine secolo XX ed inizio del XXI, fatti iniziare dall’arcivescovo mons. Cleto Bellucci e proseguiti dal successore mons. Gennaro Franceschetti hanno costituito un adeguamento liturgico del presbiterio e dell’aula ed un’opera di restauro degli oggetti artistici. In breve: rifacimento del tetto, consolidamento statico delle strutture, pulizia della facciata, nuovo pavimento con il relativo impianto di riscaldamento e altri impianti, ripresa della sacrestia, della cappella del Santissimo, restauro di due preziosi organi musicali, dei dipinti dell’atrio, del monumento di Visconti d’Oleggio (1366), delle pitture nella cappella laterale dell’Eucaristia, nella cripta; risistemazione della cattedra, dell’altare centrale e dell’ambone.
********************** Trascrizione digitalizzata da Albino Vesprini.
Con ringraziamenti alla Parrocchia di Montegiorgio ed alle sorelle di don Germano.