MUSICA E POESIA NELLA FISIOLOGIA DEL BAGLIONI di Gisleno Leopardi
Taluno, ascoltando questa enunciazione potrebbe a buon diritto chiedersi – e chiederci- cosa c’entri la fisiologia e nella fattispecie il Baglioni con la musica e la poesia, due termini così estranea all’arte medica, per lo meno in apparenza. E se lo chiedeva anche il Garatti in un’intervista fatta al Nostro e pubblicata l’”Epoca“, il giornale romano nel luglio 1925. Il giornalista chiedeva lumi sul significato d’un suo volume uscito di recente per i tipi dello Stoch avente per titolo: “Udito e Voce : elementi fisiologici della parola e della musica”. Il Baglioni, anima sensibile d’artista, rivelatosi attratto istintivamente sin dall’infanzia verso la parola e la musica, con quel suo lavoro aveva portato non solo un prezioso contributo alla fisiologia, ma una vera e propria rivoluzione nella musica capovolgendone i valori sino allora noti. Egli non aveva difficoltà ad ammettere che attraverso esperimenti, ricerche di fisiologia, di psicologia nonché attraverso la conoscenza approfondita dei vari strumenti musicali in tutti i popoli era giunto alla conclusione che il tono della voce umana scaturisce dalle leggi dell’udito e dell’organo vocale e quindi l’importanza dell’udito sulla formazione della voce umana e la loro interdipendenza; le diverse caratteristiche della voce nel linguaggio parlato e cantato come pure le diverse proprietà dell’udito comune e dell’udito musicale.
Studiando l’altezza dei vari suoni vocali nel linguaggio parlato aveva scoperto che non vi sono solo toni o semitoni ma anche quarti di tono, variazione ed intervalli molto minori. Aveva così ideato una scala di quarti di tono riscoprendo l’enarmonia, il segreto dell’antico genere musicale greco verso cui a più riprese rivelerà tutta la sua ammirazione. Quindi una nuova-vecchia armonia che saprà diffondere in Europa affidandola all’armonium ove voce e suono si fondono in un tutto melodioso. “Sarà la musica dell’avvenire – egli dirà – simile a quella del passato lontano, completa e sublime”: una musica che farà sorgere meravigliose forme di sentimento.
Trova quindi giustificazione in questo contesto considerare in parallelo parole e musica – o Musica e Poesia – un binomio antico quanto il mondo che coinvolge da sempre la nostra emotività e la nostra partecipazione.
Esplorando l’universo artistico, così dinamico ed eccitante, enigmatico e sfuggente al tempo stesso, rivisitando il vissuto accingiamoci a rivivere attraverso il sottile, colorato filo del racconto, la filograna degli avvenimenti, il diario dei giorni importanti della bibliografia dell’arte lirica. Vi ritroveremo numerosi momenti in cui il canto, sintesi mirabile di parole e musica, riesce a farci sentire, a farci vivere valori poetici e significati reconditi di sentimenti talora opposti ma così profondamente umani quali l’amore, sublime vibrazione del più tenero degli affetti, o al contrario, quella che Fogazzaro definiva la “occulta bellezza del soffrire”.
Amore-dolore: momenti memorabili che evocano risonanze cui l’animo a stento riesce a sottrarsi, due chiavi privilegiate per penetrare il senso della vita.
E ancora parole e musica, arcano potere di un linguaggio che esula dal comune perché riesce a raggiungere i più nascosti anfratti del cuore; un universo di suoni che parla al nostro spirito pur con linguaggi diversi ma tutti ugualmente efficaci, sin dai più remoti recessi dell’antichità: il mitico Orfeo, il centauro Chirone, Apollo, Bacco, i canti degli aedi, Achille, Demodoco, lo stesso Omero sono simboli eloquenti di un passato remoto ove già vigeva questa “simbiosi”. E svolgendo all’indietro il nastro della memoria partiremo da lontano per un rapido viaggio nel tempo a rivisitare i rapporti intercorsi da sempre tra musica e poesia; dai canti provenzali dei “trovatori”, cantori dell’amore cortese o dell’amore galante o inaccessibile, la cui produzione poetico-musicale avrà larga influenza nel mondo culturale europeo. Lo stesso Dante ne sarà influenzato e darà loro spazio e voce nella Divina Commedia suddividendoli equamente nelle tre cantiche; lo stesso dicasi per il Petrarca, il Boccaccio e poi il Carducci, per non dire degli “stranieri” Haine, Rostand e più tardi il Debussy e il Fauré.
Dai canti tardo-mediovali e rinascimentali espressi dai “madrigali”, canti e ballate che risuonavano spesso a Firenze alla corte di Lorenzo il Magnifico composti su testi del Petrarca, del Tasso e dell’Ariosto; dalle prime forme di “melodramma”, punto culminante tra poesia e musica con le favole in musica incentrata sulla mitologia classica ed in particolare sul mito di Orfeo; alla poesia del dolore nel “Lied” tedesco, un dolore misto a nostalgia di impronta tipicamente romantica ove si allineerà tutta l’aristocrazia della poesia e della musica di lingua germanica: da Goethe a Mozart, da Schiller a Rilke, a Beethoven a Schubert, da Heine e Listz, da Sturm a Wolf, non senza il contributo determinante di “stranieri” come Scott e Byron; per giungere poi dai canti dei neri americani: gli “spirituals” e i “blues”, canti del dolore e della nostalgia, del sogno e dell’amore, sorti nei campi di piantagioni di cotone, esaltazione del potere liberatorio della musica e del canto nei confronti del dolore e della nostalgia – qui si impone un accostamento col “coro dei Lombardi” di verdiana memoria – per giungere infine ai cantori dei giorni nostri, intesi nella loro più totale accezione.
Ma il rapporto che intercorre tra parole e musica non è sempre stato dei più sereni; anzi è stato oggetto nel corso dei secoli di dispute talora accanite circa la supremazia dell’una sull’altra, dispute nelle quali le posizioni personali erano spesso condizionate da motivazioni d’indole filosofica, etica o estetica.
Diceva Wagner: “là dove si arresta il potere delle parole, comincia la musica “ ma anche Rilke, ispirato poeta di versi sublimi, quindi senza ombra di parzialità, sosteneva il potere superiore della musica e con lui Mozart; Goethe invece si poneva su di una posizione più equilibrata e pur riconoscendo il ruolo eccelso della musica ammetteva che questa, priva di parole perdesse molto del suo valore “solo il canto – asseriva -può elevarsi come un genio fino al cielo”. Cluck, riformatore dell’opera lirica, concepiva la musica al servizio della poesia; Schopenhauer, osservatore acuto di tali rapporti, pur riconoscendo entrambe “espressioni diverse della stessa intima essenza del mondo sosteneva la musica non doversi piegare al significato delle parole in quanto nella sua “astrattezza” essa riesce a porsi al di sopra e al di là dei mezzi di comunicazione del pensiero. Un concetto questo che sarà condiviso dal Manzoni quando affermava che “la musica non esprime alcuna idea anche se ne fa nascere a migliaia”.
Nel panorama di questi rapporti forse le posizioni si equivalgono; inutile cercare a forza una supremazia; sarebbe un esercizio accademico di nessun valore.
Musica e poesia quindi non antitetiche; nessuna supremazia né sudditanza tra loro, ma entrambe unite per rendere migliore il quotidiano, per dare gioia, piacere, dolcezza agli umani. Scriveva Lutero in una lettera datata 1530 “la musica e il canto sono meravigliosi doni divini; …. chi sa cantare scaccia gli affanni con le canzoni”, una giusta sottolineatura della loro influenza positiva in quanto educativa e catartica.
Musica e poesia quindi sono un tutt’uno e, come dicevano Rousseau e gli enciclopedici, costituiscono il linguaggio proprio dell’uomo, e il primo strumento musicale è stato certamente la voce dell’uomo.
Baglioni fisiologo insigne, colto umanista ed artista sensibile, sapeva tutte queste cose, non solo per sua dottrina scientifica ma perché ben conosceva la musicalità dell’arte lirica dei poeti e non fa meraviglia il suo stupirsi se un poeta come Leopardi, nei cui canti i versi le parole rivelano eccelsi pregi melodici e ritmici, e come tali degni di essere ornati di veste musicale, non avesse trovato soverchia considerazione da parte dei compositori musicisti, alla stregua di quanto avvenuto con altri poeti, soprattutto stranieri. Eppure il lirismo poetico leopardiano sapeva toccare vette sublimi !
In una orazione tenuta nel 1937 in occasione della celebrazione del 1° centenario la morte del “Recanatese”, il Baglioni sottolineava la passione del Leopardi per la musica” come dovrebbe esserlo in tutte le anime capaci di entusiasmo” – sono parole del poeta in una lettera inviata da Recanati a Carlo Brighenti nel 1820 – ed altre affermazioni poco dissimili appaiono in un’altra lettera inviata da Roma tre anni dopo al fratello Carlo dopo aver ascoltato all’Argentina un’opera lirica che non aveva incontrato i suoi gusti musicali: “Mediocri le voci, mediocre la musica, fra l’altro mal copiata da Rossini” di cui era fervente ammiratore.
Ed anche lui spezzerà una lancia in favore del necessario rapporto fra musica e poesia quando concluderà mestamente: “Ma comunque sia, la più bella voce applicata ad una melodia insignificante, non può far grande effetto”. E si ripeterà nello Zibaldone quando sostiene: “La più grande scienza musicale è inutile per dilettare col canto senza una buona voce. Questa può supplire al difetto o scarsezza di quella, ma non già viceversa ”e ancora “ la funesta separazione della musica dalla poesia e della persona di musico da quella di poeta, attribuiti anticamente, e secondo la primitiva natura di tali atti, indivisi, e indivisibili”.
Studioso dell’estetica dell’arte musicale, formatosi pressoché autodidatta lo studio delle opere greche e sulle molte osservazioni personali, instancabile nel penetrare gli elementi filosofici e linguistici delle varie opere letterarie in prosa e in poesia giunte alla sua conoscenza sin dalla giovane età, tale si rivelerà ancora in alcuni pensieri dello Zibaldone in cui evidenzierà tutta la sua ammirazione per l’antica Grecia che riconosce la patria della vera arte musicale – e qui troverà pieno consenso nel Baglioni – sottolineando i mirabili effetti che si leggono aver prodotto la musica le melodie greche nei popoli dove sono state tramandate.
Pur mancante di una vera conoscenza della tecnica e dei fondamenti di quella parte che egli chiama “ teoria musicale”, come pure del canto, degli strumenti e della lettura delle note- “ le mie rozze orecchie” dirà di se stesso- egli tuttavia sapeva ben distinguere ed apprezzare il canto dalla musica strumentale, così come sapeva prediligere la musica vocale, tenue, non certo chiassosa. E scriverà: “ho conosciuto una persona che amava molto e provava tutti gli effetti della musica solo quando udiva suoni forti, di gran voce, strumenti arditi, orchestre numerose e strepitose. Questa era dunque una particolare disposizione dei suoi organi, ovvero una rozzezza o poca delicatezza, bisognosa dei suoni forti per essere smossa”.
Egli soprattutto amava la melodia nota, orecchiabile, che soleva definire “popolare” (alla Rossini) per questo il Rossini sarà sempre al centro della sua ammirazione, una melodia per “i non intendenti” che sapranno sempre apprezzare ” perché a quella successione di toni hanno assuefatto l’orecchio e udendone il principio ne indovinano il mezzo, il fine e tutto l’andamento”.
Un concetto peraltro ampiamente condiviso perché è il più noto – e Corneo ce lo ribadisce – che “ musica e poesia al primo impatto non potranno mai essere sufficientemente apprezzate; occorre riascoltare o rileggere più volte per capirle veramente ed essere conquistati dal loro effetto emotivo ed intellettuale. È necessario cioè, per apprezzarle appieno, conoscerle già, in modo quasi da “anticiparne” inconsciamente i temi e le frasi, poetiche o musicali che siano, che man mano si vanno presentando i nostri sensi”. E lo ribadirà anche Proust nella sua tormentosa ”Ricerca del tempo perduto” – ove in realtà non cercava nient’altro che l’eterno nell’effimero – e ci parlerà infinite volte del fascino incantatore di una “Sonata di Vinteuil” che altro non sarà che la “Suonata in la maggiore per violino e pianoforte” di Frank da lui amatissima; una suonata che quando la udì la prima volta non riuscì a capirla, poi ascoltandola più volte, sin quasi ad impararla a memoria, solo allora fu in grado di comprenderla e di sentirla veramente; perché quel che difetta la prima volta – egli dirà – e ciò vale per tutta la musica e la poesia – non è la comprensione ma la memoria”.
Ma tornando al Baglioni, in quella sua orazione leopardiana egli ci fa dono di una rivisitazione delle tante mirabili poesie del “Recanatese”, bellissime nella forma e nel contenuto, create su ispirazione di esemplari greci, ricche di motivi musicali, sottolineandone i notevoli effetti che inducono nell’animo umano.
Nella rilettura li ascoltiamo quasi nel rapimento di una estasi. Ogni poesia è una miniera di accenni musicali, ricordi melodici, motivi delicati squisiti così profondi e vari, tali da assumere in alcune strofe gli accenti di un concerto o di una sinfonia. Baglioni fisiologo ci conduce per mano verso una dimensione diversa, con il sottofondo di una nuova melodia fatta di misticismo e di assonanze e ci ripropone un Leopardi apparentemente inedito, ove ogni suo canto è degno di essere rivestito di note musicali quasi che la sua produzione letteraria fosse tutta una poesia da suonare, ove la musica si propone pietra d’angolo di un meraviglioso edificio poetico.
Qui si conclude la mia partecipazione “in parole”; l’appendice musicale su di uno spartito d’eccezione ci rappresenterà il prof. Mario Santoro. <Esecuzione avvenuta a Fermo>.
———- ******* (trascritto da Albino Vesprini)
Per gentile concessione dello Studio Firmano per la storia dell’arte medica e della scienza. Copyright diritti riservati allo “Studio Firmano”.In “Atti della 24. Tornata dello Studio Firmano per la storia dell’arte medica e della scienza / per cura di Mario Santoro : [s. n.] 1990 “ Fisiologia da Galeno all’opera di Silvestro Baglioni, fisiologo dell’Università di Roma e storico della medicina nostro insigne conterraneo” pp. 151-155. Con vivi ringraziamenti all’autore ed allo stesso Studio Firmano.