ASSISTENZA SANITARIA OSPEDALIERA E DOMICILIARE A FERMO. Tassi Emilio

LE ISTITUZIONI DELL’ASSISTENZA SANITARIA NELLA CITTA’ DI FERMO

Di TASSI Emilio In Quaderni dell’Archivio storico arcivescovile di Fermo 51

Nel 1993 è stato pubblicato un interessante volume che raccoglie gli <<Atti del XXVII Convegno di Studi Maceratesi>>, svoltosi a Treia il 23 e 24 novembre 1991, sull’argomento Assistenza e beneficenza in età moderna:le Istituzioni nella Marca.[1] Gli interventi furono introdotti da due dotte relazioni, offerte rispettivamente da Renzo Paci : Povertà e pauperismo nella prima età moderna: assistenza, controllo, repressione e da Valeria Cavalcoli: Fonti archivistiche relative all’assistenza e beneficenza nelle Marche in età moderna[2].  Nessuno dei numerosi e interessanti interventi hanno riguardato Fermo e il Fermano. Noi vorremmo ora rimediare, anche se con notevole ritardo, a questa mancanza; tuttavia intendiamo rivolgere il nostro interesse limitatamente a due istituzioni ospedaliere riservate alla cura dei malati: l’Ospedale di S. Maria dell’Umiltà e a quello di S. Giovanni Battista riservato alle donne.

Non è qui il caso attardarsi per sviluppare un discorso anche se estremamente sintetico sul problema del pauperismo e sulle analisi dedicate al complesso rapporto tra i poveri e la società che coinvolge nell’età moderna istituzioni e coscienze di fronte alla pauperizzazione di parti consistenti della popolazione urbana e rurale. Il citato saggio di Renzo Paci sviluppa in  modo approfondito l’argomento, offrendo anche ampie indicazioni bibliografiche.

Molto più semplicemente noi vogliamo, seguendo gli utili avvertimenti contenuti nel saggio di Valeria Cavalcoli la quale, con la consueta accuratezza che la distingue, enumera le possibili fonti archivistiche atte a descrivere le concrete risposte date dalle istituzioni sorte nei vari centri delle Marche ai problemi insorti con il fenomeno del pauperismo, soffermandoci specialmente sul periodo compreso tra la metà del sec. XVII e la fine del sec. XVIII. Ci limiteremo ad interessarci della città di Fermo e ad affrontare il settore specifico delle istituzioni destinate ad operare nel campo dell’assistenza sanitaria ai malati poveri, sorte per iniziativa di due Confraternite di laici: la Confraternita di S. Maria dell’Umiltà e quella di S. Giovanni Battista.

Tale limitazione non deve farci dimenticare che il problema dell’assistenza e della beneficenza non si esaurisce all’aspetto della cura della salute, ma abbraccia numerosi interventi in svariati altri settori: l’ospitalità, i Monti di pietà e frumentari, l’accoglienza degli orfani e degli esposti, le istituzioni dotali ecc.

A ben guardare su tali aspetti sono stati offerti alcuni interessanti interventi anche su questa nostra rivista e numerosi sono i saggi pubblicati sul tema delle istituzioni montizie. Ci sia consentito di precisare che questa nostra ricerca utilizzerà prevalentemente la documentazione conservata nell’Archivio diocesano e negli archivi delle confraternite. E’ noto infatti che queste istituzioni laicali venivano erette ad opera del vescovo; pertanto i verbali delle visite pastorali contengono notizie preziose sulla presenza e sulla diffusione di tali istituti nel territorio della diocesi; altrettanto importanti sono i verbali delle adunanze, gli inventari elaborati periodicamente dagli amministratori di tali istituzioni e i documenti contabili esibiti all’autorità diocesana[3].  Non si può dimenticare che la documentazione di tali antiche istituzioni è stata assoggettata ad una prima concentrazione a seguito dell’istituzione in ogni comune delle Marche, delle Congregazioni di carità[4] il cui nucleo archivistico principale è costituito dalle carte delle antiche opere pie. Ad esempio a Fermo è stato depositato presso l’Archivio di Stato un grosso fondo (400 registri registri, 278 pergamene a partire dal secolo XIII) in cui confluirono e si fusero gli archivi storici di antiche istituzioni di assistenza e beneficenza[5].

E’ infine interessante riferire quanto Renzo Paci afferma a conclusione del suo intervento sul pauperismo nella nostra regione. Egli riconosce che nelle Marche del Seicento e del Settecento non mancarono le aree di cruda miseria, soprattutto nella fascia montana e nelle campagne, ma i processi di pauperizzazione risultano nella regione meno violenti e meno devastanti. Buona parte della popolazione fu, infatti, protetta contro le crisi più acute sia dalla stabilità che il sistema mezzadrile riusciva ad assicurare, sia perché la presenza di numerosi e diffusi istituti di assistenza e beneficenza risparmiavano ai poveri delle Marche l’immane sofferenza dei reclusori e del lavoro forzato che, particolarmente nel Seicento si sperimentavano nella maggior parte delle città europee e nella stessa capitale dello Stato Pontificio per estirpare la mendicità e il vagabondaggio[6].

E’ noto che nella seconda metà del sec. XV gli “ospitali” cominciano ad assumere un aspetto e soprattutto una funzione alquanto diversa poiché, pur non trascurando, almeno nella Marca, l’aspetto ricettivo, accentuano quello medico-sanitario, avviandosi a divenire quasi esclusivamente istituti

curativi, differenziandosi sempre più nettamente dalle istituzioni assistenziali e caritative: i brefotrofi, gli orfanotrofi, i Monti frumentari ecc.

Anima di tutto questo è prima di tutti la Chiesa cattolica, ma anche la società civile sente il bisogno di intervenire nel settore; così, accanto ad enti ecclesiastici, vediamo Comuni e corporazioni di arti e mestieri che destinano alla carità parte delle loro sostanze.  A partire dal secolo XVII si intensifica il fenomeno degli accorpamenti e di concentramenti degli enti i modo da ampliarne la recettività, migliorare l’efficienza e l’efficacia dell’assistenza sanitaria.

Con l’andare del tempo, l’evoluzione del concetto stesso di assistenza e beneficenza, il mutare di molti bisogni, il consolidamento del costume sociale e l’assunzione di molti compiti assistenziali da parte dell’ente pubblico hanno determinato la fine di molte di queste istituzioni e hanno comportato profonde trasformazioni organizzative specialmente nei secc. XIX e XX.

Tutte queste benemerite istituzioni fra l’altro ci hanno lasciato, insieme a tanti edifici molte volte monumentali e a tante opere d’arte, una ricchissima documentazione archivistica che ci illumina sulla loro attività, sulla loro organizzazione, sulla loro funzione nella società dell’epoca.[7]

Nel presente saggio intendiamo parlare degli istituti sanitari esistenti nei secc. XVII – XVIII nella città di Fermo.

Ospedale di S. Maria dell’Umiltà.

L’Ente fondatore di tale istituzione destinata ad accogliere e curare gli infermi poveri della città è la Confraternita di S. Maria dell’Umiltà, fondata nel 1373 allo scopo specifico di accogliere ed assistere gli infermi poveri di Fermo, come risulta in modo chiaro dagli Statuti[8]. Gli iniziatori della pia istituzione chiesero al Capitolo della Basilica di S. Giovanni in Laterano di Roma il permesso di poter costruire detta chiesa con annesso edificio per l’ospedale in un sito di proprietà di quel Capitolo, richiesta che venne accolta, come risulta da una bolla emanata nel 1373. I canonici si riservavano il diritto di patronato nei confronti della chiesa e dell’ospedale, il diritto di nominare sia il rettore che l’ospedaliere, di ispezionare periodicamente l’istituzione e, in segno di riconoscimento della proprietà dell’area in cui era stato costruito, la contribuzione di un censo annuo di due libbre di cera da offrire al Capitolo in occasione della Pasqua.[9] Dalle Effemeridi della città di Fermo veniamo a conoscere la notizia che nel 1378 l’edificio destinato ad ospedale era in costruzione[10].

In forza dei decreti del concilio di Trento, tendenti a semplificare il controllo sugli enti religiosi, il vescovo della città acquisì il diritto di controllarne la conduzione e l’amministrazione e di compiere la visita ispettiva. Nel 1567 infatti durante la visita pastorale alla città di Fermo eseguita dal vescovo Lorenzo Lenti, la confraternita e l’ospedale ebbero le prime costituzioni nelle quali venivano fissate le norme relative alla conduzione dell’ospedale, alla sua amministrazione e al suo ordinamento. Esse furono stampate per la prima volta per disposizione dell’arcivescovo Alessandro Borgia nel 1737.

All’inizio l’ospedale si manteneva con le sole elemosine dei fedeli e dei benefattori, ma già nel 1566 risulta che possedesse una cospicua massa di beni, tanto che lo stesso Lenti dispose che gli amministratori facessero un  dettagliato resoconto delle entrate.  Nel 1624 mons. arcivescovo Pietro Dini, a seguito di un’attenta ispezione dell’ospedale, si accorse che esso poteva contare su un’entrata di ben 300 scudi. Egli prescrisse che venissero riformate le costituzioni onde ottenere una migliore assistenza degli infermi[11].   Nel 1739 l’ospedale venne ampliato per renderlo più adatto a rispondere alle esigenze dei numerosi infermi che vi trovavano ricovero[12].   Già nel 1624 mons. Dini aveva prospettato l’ipotesi di unire all’ospedale di S. Maria dell’Umiltà quello di S. Giovanni Battista, riservato alle donne. Il progetto sembrava un’ottima soluzione al fine di aumentare le rendite dell’istituzione. Ma per allora non se ne fece nulla; esso fu attuato più di un secolo dopo, nel 1776 dall’arcivescovo card. Urbano Paracciani. Egli infatti nell’esaminare i rendiconti dei due ospedali, aveva rilevato che il dispendio era certamente maggiore di quello che era l’annuo reddito, cosicché, procedendo più oltre con tal sistema, si sarebbero dovuti intaccare i capitali ed a poco a poco distruggere quel fondamento in cui avevano la lor consistenza[13].

Per risanare il bilancio il card. Paracciani preliminarmente procedette alla riduzione dei legati di messe derivanti da disposizioni testamentarie. Poiché però il provvedimento non era servito a molto, procedette alla riunificazione dei due ospedali. Particolare attenzione pose a redigere nuove norme per ordinare la convivenza nello stesso stabile degli uomini e delle donne[14].  Nella visita pastorale eseguita precedentemente nel 1772 lo stato economico dell’ospedale di S. Maria dell’Umiltà e, sulla base di esso, viene esplicitato il progetto di risanamento.  Dopo aver compiuto l’ispezione alla chiesa, l’arcivescovo si reca nei locali dell’ospedale; la relazione riporta: Duodecim in eadem infirmaria extant cubilia pro infirmis, quos omnes eminentissimus dominus visitavit, peracta singulis brevi exortatione et copiosa eisdem subministrata elemosina.[15]. Il presule fa un’abbondante elemosina per le persone malate in infermeria, in dodici letti; nel visitare ciascuno fa una breve esortazione spirituale.

Concludendo l’ispezione il visitatore, dopo aver visto i magazzini, riporta il ristretto del bilancio: le entrate ammontano a scudi 694:27, le uscite risultano essere di scudi 691:40, con un avanzo di cassa di scudi 03:13. Nonostante la positività del bilancio e in considerazione della esiguità dell’attivo, ne redige i decreti finali; il cardinale osserva che la disponibilità di denaro appare assolutamente insufficiente per poter rispondere alle accresciute necessità che la situazione presenta. Pertanto, avvalendosi delle facoltà a lui concesse dalla Sede Apostolica, dopo aver ridotto gli oneri provenienti dai legati e in considerazione dell’esistenza di un secondo ospedale riservato alle donne anch’esso con esigue risorse, al fine di ridurre le spese di gestione dispone la fusione dei due ospedali e ordina che vengano redatte nuove e precise norme per il buon funzionamento della nuova istituzione. Anzi egli introduce una nuova disposizione nella quale prevede la creazione di un reparto da destinare ai malati di mente: Cumque pro excipiendis retinendisque dementibus pia institutio in civitate non adsit, idem eminentissimus dominus … illos in hac ospitali recipi et amitti eiusdemque necessaria ministrari. Mancava in città un ospizio per i malati di mente, per non abbandonarli debbono esser accolti e assistiti qui. I locali per approntare il nuovo reparto dovevano essere reperiti rivendicando alcuni locali che gli amministratori avevano concesso in affitto ai privati: Praecepit quod in posterum nulli umquam mansiones locentur et quae modo locatae existunt a respectivis conductoribus infra sex menses liberae restituantur, reprobans quemcumque contractum sive locationem absque Ordinarii licentia peractam. Si proibisce l’affitto dei locali concedendoli ai privati.  Al fine di riordinare l’amministrazione del nuovo ospedale, Paracciani dispose che venissero modificati gli statuti e le costituzioni e, nel caso se ne rilevasse la necessità, se ne redigessero di nuovi. Si preoccupò inoltre che venissero stabilite precise disposizioni per la cura e l’alimentazione dei ricoverati: Quoad numerum infirmorum et eorumdem notulam, quam diarum vocant, per priorem separate et per hospitalarium quotidie exarandam et a medico subscibendam quoad carnis, panis, vini aliorum huiusmodi oeconomicam administrationem ac distributionem opportune provideatur.  Per la revisione e la riforma dello statuto o per redigerne di nuovi l’arcivescovo incaricò l’avvocato Giovanni Antonio Leli.

Quanto all’eliminazione degli abusi esistenti il decreto del visitatore innanzitutto proibisce di concedere schedulae pro elemosina ex bonis hospitalis infirmis in propriis domibus. Note di elemosine dai beni dell’ospedale per gli infermi, concedendole nelle case proprie di infermi. Con ciò veniamo a conoscere che fino al 1772 l’ospedale assisteva i malati degenti nelle proprie case con elargizioni di denaro; è ovvio che il Paracciani vuole che si stabilisca una netta distinzione tra l’assistenza sanitaria e quella della beneficenza.    Il decreto non trascura gli aspetti secondari come il cambio della destinazione del fruttato di un appezzamento di terra, lasciato per disposizione testamentaria del medico Marco Antonio Poici nel 1548 all’aiuto dei poveri, destinandone i proventi al nuovo ospedale.

Tuttavia il provvedimento più importante fu quello della fusione dell’ospedale di S. Maria dell’Umiltà con quello di S. Giovanni Battista fino ad allora riservato alle donne e dell’unione delle due rispettive confraternite: Innanzitutto perché dall’opportuna unione dei due ospedali possono scaturire molti benefici sia sul piano di ridurre le spese sia per quel che riguarda il retto governo dell’ospedale e delle due confraternite. Per questa ragione [ il Visitatore] dispose l’unione dell’ospedale di S. Giovanni Battista e della sua confraternita, formata da 33 fratelli con l’ospedale di S. Maria dell’Umiltà e con la rispettiva confraternita e inoltre unificò tutti i beni mobili e immobili, i crediti e azioni e ordinò che d’ora in avanti costituissero un solo ospedale e un’unica confraternita con il duplice nome di S. Maria dell’Umiltà e di S. Giovanni Battista.[16]

Si presentò però il delicato problema di carattere logistico di ospitare nello stesso edificio uomini e donne; a questo fine il Cardinale propose una serie di provvedimenti tesi a tenere separati i due reparti; a soprintendere alla retta conduzione incaricò due ecclesiastici: il Priore della confraternita e il cappellano.    Nell’inventario stilato nel 1772 dai responsabili del luogo pio: Giuseppe Mora, Rocco Bartolotti e Domenico Venturini si trova la dettagliata descrizione dello stabile dell’ospedale di S. Maria dell’Umiltà, prima dell’unione disposta dall’arcivescovo.

L’entrata immette in un cortile ai quattro lati del quale si aprono quattro grandi stanzoni adibiti a magazzini; su un mezzanino alquanto rialzato si trovano due locali adibiti a guardaroba. Nel secondo piano due stanze sono riservate ai malati di tubercolosi, separate dal resto dell’ospedale. Sempre sul primo piano è ricavato l’appartamento riservato al cappellano formato da una cucina e da due stanze.

Sul piano superiore due stanze sono destinate alle riunioni della confraternita e una stanza per l’ospedaliere. Vi è ricavato un grande stanzone con 14 posti letto a cui è annesso un locale in cui si conserva la biancheria sia gli altri oggetti necessari. Attigua e con esso comunicante si apre una adeguata stanza adibita a cappella[17].

Le principali proprietà terriere appartenenti all’ospedale risultano essere sette site per lo più nel territorio della città, ma anche a Rapagnano e a Monterubbiano.  Altra fonte di reddito è costituita dagli affitti di case e botteghe che la confraternita possiede all’interno della città; inoltre l’ente può disporre di scudi 212,92,01. Complessivamente quindi le entrate assommano a scudi 519,16 a cui andrebbero aggiunti scudi 347,03,01 di crediti da riscuotere[18].

Le uscite invece, quali risultano dall’elenco dettagliato delle spese sostenute annualmente, appaiono essere di scudi 705,60,01; pertanto il passivo è di scudi 186,54,01[19].   Visto resoconto del bilancio e in presenza di crediti di fatto difficilmente esigibili, si comprende il perché il card. Paracciani vede la necessità di procedere alla unione dei due enti pii.   Questa opportunità appare evidente se si esaminano i nuovi statuti elaborati nell’anno 1776 e approvati dall’arcivescovo; da essi si scopre l’attenzione con cui il presule segue e controlla il governo dell’ospedale.

E’ interessante esaminare, seppur brevemente alcune norme delle regole statutarie e sottolineare le modificazioni introdotte dall’arcivescovo[20].  Il numero dei confratelli che, a seguito dell’unione, era salito a 46 viene mantenuto, ma non si potranno surrogare i soci defunti fino a che il consesso non si riduca fino al numero di 26 confratelli. I tre capi venivano eletti ogni anno e venivano estratti a sorte. Paracciani dispone che tale elezione avvenisse non per sorteggio, ma per votazione a maggioranza e che gli eletti rimanessero in carica per un intero triennio al fine di avere funzionari capaci ai quali dare un tempo abbastanza lungo per impostare il loro lavoro di organizzazione e di direzione dell’ospedale. I candidati poi dovevano essere concordati con l’arcivescovo. Il primo e il secondo capo verranno eletti a maggioranza dei voti, mentre il terzo veniva scelto tra i tre capi della precedente amministrazione.

Numerose e severe norme regolano la sorveglianza sull’andamento dell’ospedale che compete specialmente ai tre capi: se vengono amministrati regolarmente i Sacramenti ai malati; se sono sufficienti le medicine prescritte dai medici; se i malati vengono trattati con carità e sollecitudine dagli ospedalieri e dagli inservienti e finalmente se i medici e il chirurgo siano attenti e diligenti.

Naturalmente una particolare cura si doveva porre per impedire ogni contatto tra i ricoverati del reparto per i maschi e quello delle donne. A questo fine il priore aiutato dal cappellano aveva il compito di vigilare con attenzione affinché non si verificassero in nessun caso occasioni di promiscuità tra gli uomini e le donne.

Quanto ai medici gli statuti prescrivono: sarà compito dei medici quello di visitare ogni giorno gli infermi, anzi di visitarli più volte al giorno qualora lo esigessero le circostanze e la gravità del male; registreranno in un libro a parte …quelli medicamenti che giudicheranno necessari ed ordineranno il vitto ed il metodo di governo per ciascuno in particolare.[21] Spetta inoltre al medico compilare il bollettino del ricovero che è previsto solo ai veri poveri febbricitanti e che siano di questa città o territorio o per origine o per domicilio, escludendo in questa forma gli infetti di rogna, tigna o male cronico[22].

Il ministro dell’ospedale aveva il compito di economo e doveva vigilare sulla retta amministrazione dei beni dell’ospedale, in particolare dei beni stabili e controllare il rispetto dei contratti di lavoro dei contadini e dei dipendenti. Doveva amministrare i proventi derivanti dai terreni, dai censi attivi, dagli affitti e, compito molto più complicato, quello di esigere il pagamento dei crediti derivanti dai prestiti concessi dall’ente.   Una figura centrale nell’ambito del buon ordinamento dell’ospedale appare quella dell’ospedaliere. Egli deve essere eletto con votazione segreta dall’assemblea generale della confraternita, non deve avere carichi familiari, deve godere di buona salute; avrà la sua abitazione all’interno dell’ospedale.  I suoi compiti erano numerosi e gravosi: provvedere alla pulizia dei locali e della biancheria necessaria; deve essere sempre pronto a rispondere ad ogni chiamata e ad ogni esigenza dei ricoverati; è tenuto a procurare le medicine, il cibo necessario e ogni servizio agli infermi. Si tratta di un vero e proprio “manager”[23].

L’azione messa in atto dall’arcivescovo card. Paracciani valse a riportare una sufficiente tranquillità economica e a riorganizzare i servizi sanitari e la riorganizzazione dell’assistenza ai malati.   Rimaneva di provvedere ad una necessità sempre più urgente: la capienza e le condizioni logistiche dell’ospedale appariva assolutamente insufficiente e per molti aspetti inadeguata[24].

All’inizio dell’Ottocento nel 1808, poco tempo prima di subire la deportazione ad opera delle autorità napoleoniche, l’arcivescovo card. Cesare Brancadoro osservava che l’ospedale di S. Maria dell’Umiltà, pur efficiente e regolare sotto il profilo dell’amministrazione e dell’organizzazione, si rivelava, sotto l’aspetto della capienza e della collocazione dell’edificio, poco idoneo alla assistenza dei malati in quanto ubicato in luogo troppo rumoroso e di difficile ampliamento poiché posto al centro della città.

Nel 1838 l’arcivescovo card. Gabriele Ferretti, in occasione della sua  visita pastorale all’ospedale, notava che, a causa della ristrettezza la stessa assistenza ai malati lasciava molto a desiderare. Pertanto egli prese due decisioni: chiamò a dirigere l’ospedale i religiosi della Congregazione di S. Giovanni di Dio, detti dei Fatebenefratelli, e contemporaneamente decise di trasferirlo in un luogo più idoneo e più adatto a poter ricoverare un maggior numero di malati. Per realizzare il progetto chiese ed ottenne dall’Ordine dei Canonici regolari Lateranensi l’uso dei locali della canonica di loro residenza ormai abbandonata dai religiosi, sita presso la porta di S. Caterina.   I lavori di adeguamento e di ristrutturazione cominciarono subito, grazie ad un lascito testamentario fatto dalla nobildonna Anna Castellucci di Fermo che ammontava alla somma di scudi 13.538; in tre anni il locale fu approntato e l’ospedale vi fu trasferito[25].

Ospedale di S. Giovanni Battista

Nell’inventario di questo ospedale, compilato nel 1765 in occasione della prima visita pastorale del card. Urbano Paracciani, si accenna in modo generico alla sua origine e alle sue finalità: <<Parecchi cittadini, mossi da vera e cristiana carità, si riunirono in sentimento di sovvenire li poveri con opportuno aiuto nelle più calamitose indigenze quali sono le infermità, l’impotenza di procacciarsi o in tutto o in parte il necessario alimento, la misera condizione per fine di dover vagando pellegrinare massime nella persona di femmine, come più debole, più esposta, più pericolosa.  Onde disegnarono il perché di stabilire una Congregazione circa il 1370 per quelle congetture quali restano e nel decorso saranno dichiarate; giacche mancano documenti e scritture dei primi secoli, per trovarsi un libro solo dal 1530 al 1560>>[26].

Dal testo i possono ricavare alcuni elementi interessanti, anche se generici.    Sembra che l’iniziativa sia stata presa da un gruppo di cittadini e quindi non si tratti all’origine una vera e propria confraternita, ma una libera associazione di laici, anche se nel documento del 1765 l’intitolazione parli di venerabile confraternita.

Lo scopo primario appare essere quello di sovvenire i bisognosi di ogni specie e non soltanto i malati.

La caratteristica che lo distingue è quella di essere un’istituzione destinata ad intervenire solo a favore delle donne, considerato come l’anello più a rischio e più debole della società.

Il documento inoltre, pur parlando di cura delle donne malate, non fa alcun cenno di praticare il ricovero di esse nei locali dell’ospedale, ma fa pensare ad una sorte di cura a domicilio. Si parla invece di ricovero nei locali dell’ente di donne costrette a pellegrinare e di quelle non in grado di prevvedere alle più immediate necessità.

Quanto alla consistenza dell’edificio l’inventario ci fornisce alcune interessanti notizie: nel 1378 si decise di costruire una chiesa ad uso dell’associazione e allo scopo fu individuata un’area di proprietà del Capitolo Lateranense al quale fu inoltrata la richiesta di comodato gratuito. Dovettero passare diversi anni prima che i lavori fossero terminati. Infatti sopra la porta dell’edificio esiste ancora in una pietra la scritta <<1484>>.

Lo stesso inventario osserva che all’inizio lo spazio di cui l’ospedale disponeva era limitato, ma che col passare del tempo “è stato variato e cresciuto a misura degli avanzi di esso e del bisogno. L’antico non era più di quello che resta linearmente dietro la chiesa. Indi a poco a poco con la compra di altre cosucce si è venuto dilatando e formando qualche comodo se non in tutto, almeno un poco più proporzionato e segnatamente negli anni 1723-1739[27].”

L’arcivescovo mons. Pietro Dini nella sua prima visita pastorale osserva che l’ospedale di S. Giovanni Battista non effettuava ricoveri di malate, ma che disponeva a favore di esse le cure domiciliari. Esso peraltro destinava i propri locali per dare ricovero temporaneo ai pellegrini e che allo scopo disponeva di tre dormitori, uno per le donne, uno per gli uomini e il terzo riservato ai sacerdoti di passaggio. Il presule lamenta esplicitamente il fatto che a Fermo non esista un ospedale riservato alle donne inferme ed esprime il desiderio e suggerisce di elaborare un progetto di adattamento dei locali dell’ospedale al fine di praticare il ricovero e la cura delle donne malate e povere, non appena la situazione finanziaria lo avesse consentito[28].

L’attuazione del lodevole progetto di mons. Dini fu possibile attuarlo durante il primo decennio dell’episcopato de mons. Alessandro Borgia nel 1739. Egli aveva chiesto agli amministratori un dettagliato rendiconto dello stato economico e finanziario dell’ente, avendo scoperto che le entrate erano molto elevate rispetto alle spese. Di conseguenza giudicò che fosse giunto il momento di procedere all’attuazione del progetto elaborato da mons. Dini. Chiese quindi che i locali dell’ospedale fossero adattati e messi a disposizione per il ricovero delle donne malate povere e bisognose di cure.   La richiesta di mons. Borgia scatenò una vertenza con l’amministrazione dell’ospedale; i capi si opposero alla richiesta dell’arcivescovo adducendo come motivazione il fatto che l’ospedale era stato costruito <<in solo Lateranensi>> e che quindi era soggetto alla giurisdizione dei canonici di quel Capitolo ed esente da quella del vescovo. Inoltre obiettarono che gli statuti non consentivano di ospitare le donne inferme dal momento che l’ente aveva soltanto lo scopo di ospitare i pellegrini. L’arcivescovo sottopose la controversia alla sacra Congregazione del Concilio che diede ragione al Borgia e sentenziò che l’ordinario fermano aveva piena giurisdizione sull’ospedale in quanto nei suoi atti egli era da considerarsi come <<delegato apostolico>> in forza dei decreti emanati dal Concilio di Trento e sentenzio che le donne inferme fossero accolte nell’ospedale di S. Giovanni [29]

Nel 1762, proprio negli ultimi anni dell’episcopato di Borgia, la confraternita ricevette un sostanzioso contributo da parte della Confraternita dell’Immacolata Concezione che aveva la sua sede nel tempio di S. Francesco che fu utilizzato per costruire un nuovo locale da destinarsi al ricovero delle inferme. E’ chiaro pertanto che fino a quella data l’ospedale di S. Giovanni Battista non prevedeva la possibilità di ricovero delle donne inferme.   I beni terrieri posseduti dall’ente consistevano in tre terreni per un totale di moggi 84 e canne 58 tutti d<ti in enfiteusi il cui reddito era di scudi 72 all’anno; possedeva inoltre quattro botteghe e due cantine che garantiva un fruttato di scudi 11.

A consolidare il reddito bisogna aggiungere i frutti dei censi attivi che ammontavano a scudi 215,64,21 per un totale di scudi 298,64,21 ogni anno. Bisogna inoltre tener conto che l’ospedale vantava crediti per interessi arretrati sui censi per una somma di scudi 220,29,26.   Le spese sostenute ammontavano a scudi 184,00, per cui l’avanzo di bilancio, vista la difficile esigibilità dei censi arretrati, era di scudi 114,64,21.  Come già detto sopra, nel 1776, per disposizione dell’arcivescovo card. Paracciani, l’ospedale di S. Giovanni Battista fu unito a quello di S. Maria dell’Umiltà che sarà formato da due reparti nettamente separati e venne disposto che esso non avesse più alcuna incombenza di praticare l’ospitalità dei pellegrini o degli invalidi e nessuna altro carico di beneficenza.[30] La disposizione sinodale trovò esecuzione con un decreto successivo del 1 aprile 1776, pubblicato in appendice nel testo degli statuti dell’ospedale  di S. Maria dell’Umiltà[31].

Conclusione.

Nel presente intervento abbiamo voluto affrontare soltanto l’importante soggetto delle istituzioni sanitarie operanti a Fermo tra la metà del secolo XVII – XVIII, senza affrontare l’argomento più generale dell’assistenza e della beneficenza.

Introducendo il tema, si è osservato che, per comprendere tali argomenti in tutto il loro significato e valenza, è necessario studiare a fondo il complesso problema del pauperismo.    Gli studi che ne trattano sono cresciuti solo in anni recenti per numero, qualità, né sono frequenti le analisi dedicate al complesso rapporto tra i poveri e la società che coinvolge in età moderna istituzioni e coscienze individuali via via che la pauperizzazione di parti consistenti della popolazione urbana e rurale pone problemi nuovi e difficili all’azione politica, alle strutture economiche e alla sensibilità morale.

Se i poveri sono visibili soprattutto in città, il loro flusso è alimentato dalle campagne. In occasione delle ricorrenti carestie la fame spinge entro le mura cittadine intere famiglie che sperano di sopravvivere con l’aiuto della carità pubblica e privata e che molto difficilmente ritornano al lavoro dei campi.[32] Molti di questi immigrati non trovano più la strada del ritorno ed incrementano le schiere dxei disoccupati, degli accattoni che assilla il povero padre di famiglia <<esperto di povertà famelica>>, come afferma il medico fermano Giuseppe Amico Casagrande nel Dialogo di un povero padre di famiglia affamato e l’autore del fisico trattato della fame.[33]

Lo studioso Stuart Woolf ha calcolato che nella maggior parte delle città europee tra il XVI e il XVIII secolo i poveri <<strutturali>> rappresentano dal 4% all’8% degli abitanti contro un 20% almeno di poveri <<congiunturali>>. Nei momenti di crisi tra il 50% e il 70% delle famiglie di artigiani, piccoli commercianti e funzionari minori potevano trovarsi per periodi più o meno lunghi al di sotto del livello di sussistenza;[34] ancora più difficile è misurare è misurare la povertà rurale, della quale le burocrazie urbane non pongono attenzione fin quando questi poveri restano in campagna nell’ambito  delle strutture agrarie e comunali, parrocchiali e familiari, ma che destano allarme e preoccupazione allorché migrano nel contesto urbano.

In età moderna nasce anche contro mendicanti e vagabondi una vera e propria pubblicistica che dà corpo alle diffidenze, alle paure alle repulsione dei ricchi; passa anche di qui la metamorfosi dei poveri da <<uomini di Dio>> a <<flagelli di dio>>.[35] Soltanto più tardi, a partire dalla metà del sec. XVII, verrà dimensionata la paura proprio mediante la istituzioni di enti di beneficenza promossi soprattutto dagli Ordini religiosi, dalle parrocchie e dalle Confraternite; antecedentemente si era ricorso, ad arginare la paura, a sistemi repressivi.[36] Accanto alle istituzioni di assistenza sanitaria sorsero precedentemente molteplici iniziative benefiche tese a sollevare la condizione dei poveri e vorremmo sottolineare quelle istituzioni che si dedicavano ad accogliere bambini, ragazzi e giovani che potremmo definire <<di strada>> allo scopo di assisterli e specialmente ad avviarli ad un qualche mestiere.   A tracciare una storia sociale di Fermo e del Fermano è assolutamente necessario che venga seriamente affrontato questo importante argomento.


[1]Centro di Studi Storici Maceratesi, Macerata 1993, pp. 1-437.

[2] Cfr. il volume degli Atti rispettivamente pp. 1-32 e pp. 33-42.

[3] Poiché queste compagnie erano spesso istituite nelle parrocchie, spesso le carte relative sono conservate negli archivi parrocchiali. Per quanto riguarda la città di Fermo già da qualche anno sono stati trasferiti e riuniti nell’Archivio diocesano tutti i documenti degli archivi parrocchiali e quelli delle Confraternite del capoluogo.

[4] Con decreto del Regio Commissario straordinario Lorenzo Valerio n. 142 del 24.10.1860. Il successivo decreto Reale n. 252 del 9.10.1871 dichiarava  esecutiva la legge sabauda del 20.11.1859. Tale situazione venne confermata dalla legge dello Stato Unitario sulle Opere Pie n. 753 del 3.8.1862, con la quale si creava una amministrazione apposita e uniforme pedr tutti i pii istituti.

[5] Cfr. Guida generale degli Archivi di Stato italiani, I, p. 423. Le successive soppressioni e ricostituzioni dei comuni hanno reso caotica la conservazione dei materiali.

[6] L’unico esperimento di reclusorio nelle Marche fu quello attivato a Treia sullo scorcio del Settecento perché, come scrive il Benigni nel 1782: <<vedrebbesi purgato lo Stato di tante migliaia di poveri inoperosi e si toglierebbe gran parte di gente dalla bassa via dei delitti, della mendicità, della morte.>>. Cfr. A. NAVAZIO, Le case di lavoro e di correzione di Treia, in <<Studi storici Maceratesi>>, 12, 1978, pp. 284-295.

[7] V. CAVALCOLI, Fonti archivistiche relative all’assistenza de beneficenza nelle Marche in età moderna, <<Atti …>> cit. pp. 33-52.

[8] Capitoli della Confraternita di S. Maria dell’Umiltà dell’illustrissima città di Fermo, Fermo 1737, pp. 3-4: <<Dappoiché piacque all’eterna bontà di Dio spirar tanto del suo divino favore nelle menti di alcuni nostri padri antecessori che a laude della sua divina maestà a sussidio dei poveri ed a salute delle anime proprie, fondassero in questa nostra città di Fermo l’anno corrente del Signore 1373 una chiesa con un ospedale sotto il titolo di S. Maria dell’Umiltà …, formarono ancora  un corpo di Compagnia o di Confraternita di 24 persone3, quali con ogni diligenza dovessero prender cura e carico di mantenere la detta chiesa ben officiata e detto ospedale ben custodito …>>.

[9] La bolla capitolare è riportata in copia manoscritta nell’Inventario della confraternita conservato nell’Archivio storico arcivescovile di Fermo, Cfr. ASAF, Inventario di tutti li beni mobili e stabili del ven. Ospedale di S. Maria dell’Umiltà della città di Fermo, 10 ottobre 1771, serie Inventari, b. Fermo II, fasc. proprio cc. 2v-5v.

[10] R. PAPALIN I, Effemeridi della Città di Fermo, Fermo 1846, p. 76.

[11] Cfr. ASAF, Visita pastorale mons. P. Dini, Città di Fermo, cc. 3-6.

[12] << Valetudinarium sanctae Mariae Humilitatis novis constructionibus ampliatur …>>, ASAF, A. BORGIA, Chronica sanctae Firmanae Ecclesiae, anno 1739, arm III.

[13] Cfr., Statuti e regole del ven. ospedale di S. Maria dell’Umiltà e di S. Giovanni Battista, Fermo 1776, pp. 36-38; ovviamente l’unificazione dei due ospedali avvenne proprio in quell’anno.

[14] Ibidem, pp. 3-6.

[15] ASAF, Visitatio civitatis card. Paracciani, arm. II, cc. non numerate.

[16] Ibidem, Visita Paracciani: Decreti, città di Fermo.

[17] ASAF, Serie Inventari, IVs-3, Fermo, fasc. <<Inventario dell’Ospedale di S. Maria Dell’Umiltà>>, cc. 7-8.

[18] Ibidem, cc. 22-25.

[19] Mette conto di far conoscere la distinta delle spese che l’ospedale sostiene annualmente: pane per uso infermi, sc.70; pane per elemosina ai poveri sc. 26; cottura sc. 6; bollette macinato sc. 11,50; medicinali sc. 88; tasse camerali 41; cappellano e priore sc. 53; cera 25; agente agricolo sc. 20; custode infermi; sc. 40;  notaio sc. 3; sacerdote celebrante sc. 8; uffici messe sc. 3; chirurgo sc. 12; medico sc. 12; biancheria sc. 20; legna sc. 54; fascine sc. 6; olio sc. 25; carbone sc. 3,20; regalie capi sc. 4,71; lavanderia sc.16; doti a zitelle sc. 10; cera al Laterano sc. 0,6; spese straordinarie sc. 30; spesa media giornaliera malati sc. 108,79,01. Cfr. Ibidem, cc. 33v-35v. la cifra di sc. 108,79,01 rispondente alla voce per spese quotidiane per uso dei malati è la risultante della media calcolata nel decennio 1761-1771.

[20] ASAF, Statuti e regole del ven. ospedale di S. Maria dell’Umiltà e S. Giovanni Battista, Fermo 1776, pp. 6-13.

[21] Ibidem, p. 17.

[22] E’ evidente che con queste disposizioni statutarie vengono posti precisi limiti concernenti il ricovero dei malati: innanzitutto sono ammessi i poveri, con esclusione dei malati cronici; poi vengono esclusi i malati residenti fuori della città e del suo territorio, infine i malati infettivi con l’eccezione dei colpiti da tubercolosi.

[23] Circa l’economo e l’ospedaliere le norme sono contenute nel libro degli Statuti e regole pp. 18-25. Le norme che regolano la vita e l’attività della confraternita sono contenute nei capitoli XIX-XIX del detto volume.

[24] L’ospedale alla fine del sec. XVIII era sito nei pressi e di fronte alla chiesa di S. Domenico in pieno centro della città.

[25] Cfr. ASAF, Prima Visita Pastorale di mons. Gabriele Ferretti,l tomo XVI, pp. 31-38.

[26] ASAF, Serie Inventari, Fatto informativo per la ven. Confraternita di S. Giovanni Battista e S. Francesco di Assisi, o sia ospedale in Fermo, steso il 1765, busta Fermo II, fasc. 35.

[27] Se ne trova alcuni cenni nella Chronica S. Ecclesiae Firmanae, ms. vol. I agli anni suddetti.

[28] F. TREBBI – G. FILONI, Erezione della Cattedrale di Fermo a Metropolitana, Fermo 1890, p. 196.

[29] Grazie a questo decreto è stato possibile provvedere alla cura delle donne malate e povere. Doveva pertanto cessare ogni lite e ogni opposizione da parte degli amministratori dell’ente ed essi, d’ora in poi erano obbligati a rendere conto dell’amministrazione a me e avrebbero dovuto procedere ad approntare quanto era necessario per accogliere le donne inferme e povere, cosicché nella nostra città si fosse in grado di provvedere al debito di carità verso i malati dei due sessi. Cfr. ASAF, Chronica S. Ecclesiae Firmanae, cit.,  ms. vol. I, anno 1739, n, 9.

[30] Un decreto pubblicato nel sinodo diocesano del 1773 così recita: Ne paulatim utriusque sortes maximo cum egenorum civium incomodo dissipentur, id espresse demandamus demandamus ut hospitale mulierum et virorum hospitale, seiuncta utique mansione, transferatur; quo quidem modo longe minores erunt utriusque sumptus et rectius ambo poterunt faciliusque consistere. Cfr. Synodus Dioecesana, Fermo 1773, lib. IV, cap. IV, par. VI.

[31] Statuti e regole dell’Ospedale di S. Maria dell’Umiltà, Fermo 1766, appendice n. I, pp. 36-38.

[32] B. GEREMEK, Mendicanti e miserabili nell’Europa moderna 1350-1600, Bari 1989, p. 121.

[33] G.A. CASAGRANDE in Manuale di carità e di pratiche istruzioni ai poveri famelici, Verona 1816, p. 11.

[34] S.J. WOOLF, Porca miseria. Poveri e assistenza nell’età moderna, Bari 1988, pp. 6-8.

[35] P. CAMPORESI, Il libro dei vagabondi, Torino 1973, p. LXXXVI.

[36] R. PACI, Povertà e pauperismo nella prima età moderna: assistenza, controllo e repressione, in <<Assistenza e beneficenza in età moderna: le istituzioni nella Marca>>, Studi Maceratesi n. 27 (1993), pp. 11-19.

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