Valle del Chienti. Arte e storia con il Monachesimo
Liberati Germano
Chi da Civitanova si immette sulla strada per Foligno, ha la fortuna di godere di una valle trale più ampie e più belle valli delle Marche: la Valle del Chienti con il fiume omonimo, il più importante della regione. Oggi si presenta ben coltivata, ricca di vegetazione, puntinata di centri urbani e pullulante di attività industriali e commerciali. La scoperta della sua importanza non è recente: già al tempo dei Romani costituiva, attraverso il valico del Col Fiorito un’importante via di comunicazione con il Tirreno, costellata di “oppida” (centri abitati) tra cui Pausolae (presso l’odierna Corridonia), Urbs Salvia (Urbisaglia), Tolentinum e da importanti “stationes” come quella presso l’odierna Pievebovigliana. Il volto del paesaggio agricolo attuale, nella sua floridezza, trae origine dai monaci che vi si insediarono, fin dall’alto Medioevo. Sui resti delle antiche centuriazioni ed insediamenti, presso gli ‘oppida e le ‘stationes’ si stabilirono, in una natura che per abbandono stava inselvatichendo, richiamati sia da donazioni di terre, sia per la ricerca di luoghi adatti alla contemplazione ed al lavoro, taluni eremiti e molti più cenobiti. Ecco sorgere allora le abbazie con tutte le strutture annesse, fin dai secoli VII e VIII. Quei luoghi p resero a rifiorire, meta di pellegrini, oasi di ospitalità e di spiritualità, determinando la ripresa religiosa e socio economica della Valle del Chienti. Le chiese e le abbazie, quali ci sono state consegnate dalla storia, rispecchiano chiaramente, pur nella libertà creativa dei costruttori, la vita benedettina al principio del secondo millennio: una vita che, conciliando lavoro e preghiera, era a contatto con le realtà del mondo circostante. Non per nulla lungo la valle si incrociavano pellegrini e mercanti, crociati e soldataglie dei signorotti i cui castelli erano arroccati sui colli circostanti. Così i piccoli borghi collinari riprendevano vita attraverso un incremento demografico, una maggiore e razionale organizzazione del lavoro e nascevano anche le prime “fiere” come quella di San Claudio. Si stabilivano, ad opera dei saggi abati, le prime forme di rapporti giuridici con tutti coloro che si mettevano a servizio o alle dipendenze delle abbazie. In particolare, degni di nota sono i contratti agricoli, singolari e atipici per quei tempi, ma di una modernità sconcertante e rivolti innanzi tutto al rispetto della persona umana. Vale la pena di menzionare le cessioni di terre in enfiteusi a canoni simbolici, le assegnazioni a ‘novali’ (maggesi in terre da poco dissodate), a ‘partitionem’ (la spartizione del raccolto in base alla resa del terreno) o ‘pastinandum’ (da piantare in riferimento a colture specifiche come vigneti e oliveti). L’architettura che delinea e definisce le costruzioni è quella romanica che costituisce il linguaggio espressivo di tutta l’Europa a partire dal 1000. Esso è giunto nella valle del Chienti ad opera dei monaci e qui, come per ogni linguaggio, ha assunto particolari connotazioni desunte da influssi bizantini, adattamenti ad esigenze specifiche, con inflessioni proprie del territorio anche in rapporto a materiali e tecniche costruttive. Insomma una sorta di opera “aperta”, in cui stili e linguaggi si sono talora integrati e talora sovrapposti. Vi sono tuttavia caratteri comuni: struttura estremamente semplice improntata ad evidenza costruttiva; una maggiore complessità si nota nella articolazione della zona absidale con deambulatorio e absidiole minori. Luce diretta proveniente da piccole finestre laterali strombate; presenza di una cripta. Talora in alcune di queste chiese abbaziali si riscontra una divisione a due piani, una sorta di “doppia chiesa”: l’una, la inferiore a pianterreno, destinata alla celebrazione della liturgia per il popolo di Dio; l’altra, la superiore, riservata forse all’uso monastico per la celebrazione dell’opus Dei , l’ufficio divino (salterio) che nelle sue varie parti scandiva la giornata del monaco.
L’imperiale abbazia di Santa Croce, collocata presso la confluenza dell’Ete Morto nel Chienti, non lontano dalla sua foce, sulla piana della riva destra, è accessibile attraverso una carreggiata agricola, e la si trova attorniata da alcune case coloniche semiabbandonate. Della monumentale abbazia, istituita con decreto ottoniano nel secolo XI, resta la chiesa, fortemente manomessa per il successivo uso abitativo e di magazzino che se ne è fatto. Quasi intatte sono le linee e le decorazioni ad archetti pensili e le monofore delle fiancate e dell’abside del più puro stile romanico cluniacense.
Santa Maria a pie’ di Chienti, nascosta tra gli alberi, tra il fiume e la vecchia strada statale, si presenta come costruzione molto articolata in larghezza, austera nelle strutture, elegante nella linea. E’ forse una delle più antiche costruzioni (anche se ampliata e ristrutturata nei secoli successivi) e certamente la meglio conservata e restaurata. Le memorie risalenti al secolo X si trovano nella carte Farfensi ove il luogo viene denominato “monasterium”, “cella”, “curtis”: tre termini che messi insieme indicano una struttura ben definita: chiesa monastero, caseggiati adiacenti per servizi e abitazione della i coloni come testimonia un mulino ad acqua ancor oggi individuabile. Una data significativa è nell’epigrafe dell’anno 1125, forse la data di consacrazione dell’attuale chiesa; il testo suona pressappoco così: “A Cristo vincitore e alla Madre Santa, l’abate Adenolfo dedicò questa chiesa”. La facciata semplici e con rimaneggiamenti conserva una meridiana (sec. XII)ove sono scandite tramite lettere le ore monastiche diurne: T (tertia); S (sexta); N (Nona). Il bellissimo interno, a due piani, è avvolto nella penombra e l’invito al raccoglimento è d’obbligo. È a tre navate nel più lo stile lombardo, tra archi scanditi da lesene e matronei sovrapposti e slanciati, per concludersi in un soffitto a capriate. La zona absidale in stile cluniacense, è articolata con deambulatorio e cappelle raggianti. Di particolare interesse sono gli affreschi del vano superiore e il grandioso ciclo storico datato 1447 nel catino dell’abside: al centro Cristo in trono racchiuso in una mandorla e quindi le scene dell’infanzia.
Andando verso Corridonia, un suggestivo viale di cipressi conduce ad un ampio spiazzo, ove sulla destra si scorge l’Abbazia di san Claudio, forse la più antica, certamente la più originale: scavi e testimonianze hanno messo in evidenza infatti una continuità di insediamento e vita tra romanità e cristianesimo. L’abbazia sorge infatti presso l’abitato romano di Pausolae (stazione di pausa). Forse su un tempio pagano si costruì nel quinto secolo una chiesa, rimaneggiata quando, nel secolo nono, vi si stabilirono i monaci i quali, per vedetta e per difesa, innalzarono, in puro stile ravennate, le due torri cilindriche ai lati della facciata. L’attuale chiesa risale ai secolo IX – XII: la facciata è a due piani, “a parato”. La pianta quadrata e le absidiole delle fiancate richiamano gli edifici bizantino – ravennati. Le strutture sono romaniche con pilastri quadrati e campate a crociera; romanica del pari la muratura in laterizio, a faccia vista, con sagomatura “quadrata” o a “spina”. I pochi gli affreschi che restano con i santi Claudio e Rocco segnano la storia dell’edificio, dal titolare alla peste del 1460.