MONTE RINALDO (Mons Raynaldus)
di Luciano Pallottini
Dopo l’arrivo dei Franchi e dei monaci Farfensi (anno 759), nell’entroterra fermano sorsero dei piccoli centri fortificati. Ciò vale anche per Monterinaldo (Mons Raynaldus) non solo è evidente l’influsso dei Franchi su questo nome, ma anche su quello del suo patrono San Leonardo, che fu confessore del re franco Clodoveo (1).
Questo piccolo centro fu edificato sopra una roccia tufacea con le pietre ricavate dalle costruzioni, di epoca romana, di contrada Cuma (vedi il Santuario Ellenistico del II-I secolo a.C.) e si espanse subito dopo la distruzione del vicino castello di Bucchiano, o di Vocclano (anno 1379).
Il documento più antico, in cui se ne parla, insieme a Vocclano, risale al 1029 quando Ramberga, badessa del monastero femminile di S. Maria in Leveriano (Petritoli) donò entrambi questi castelli all’abbazia di Monte Cassino (2). Notizie successive si riferiscono all’anno 1291, quando erano signori di Monterinaldo Gratiolo Gilberto e Nuctio.
I due castelli di Monterinaldo e di Bucchiano erano situati in una zona di confine tra il territorio fermano, il territorio ascolano e quello farfense. Furono pertanto teatro di varie lotte, tanto è vero che Bucchiano, dopo essere stato occupato da Fucaro, luogotenente del fermano Rinaldo da Monteverde, nel 1379 fu distrutto dai soldati di Montelparo e di S. Vittoria in Matenano, per ordine del rettore della Marca Giovanni Orsini.(3)
Di Bucchiano oggi resta un rudere ed una campana conservata a Montelparo. Secondo una tradizione popolare, a Monterinaldo, presso la chiesa del SS. Rosario , sarebbe conservato un crocifisso proveniente dalla distrutta rocca di Bucchiano (4).
Per quanto attiene ai monumenti storici, vanno evidenziati nell’attuale palazzo Giustiniani, con la sua facciata delle XVIII secolo, la chiesa parrocchiale la chiesa di Santa Maria di Montorso, che rivela caratteristiche farfensi e testimonia una continuità abitativa, prima religiosa, e successivamente laica, ma oggi risulta in stato di abbandono .
IL TEMPIO ELLENISTICO
Un discorso a parte merita il santuario ellenistico di epoca romana presso la contrada Cuma, a poche centinaia di metri dal centro abitato in direzione Aso.
Sulla riva sinistra dell’Aso, tre 1958 e il 1963, sono venuti alla luce un lungo porticato ed un tempio, oggi ancora interrato per motivi di sicurezza, risalente al II-I secolo a.C. E’ quasi certo che al suo posto sia esistito, in epoca precedente, un altro tempio, andato forse distrutto a causa di un incendio, di cui si è trovata traccia in alcune vecchie antefisse, riutilizzate nella costruzione del secondo tempio. Questo primo Tempio doveva risalire con ogni probabilità al III-II secolo a.C. A chi fosse dedicato il tempio non è ancora ben chiaro: forse a Giove, come appare da una iscrizione impressa su ceramica, forse alla dea Artemide, che appare, su di un antefissa, tra due leoni, ma forse anche ad una terza divinità.
Sono stati rinvenuti parecchi frammenti di teste di statue e di lastre con decorazioni in rilievo e con motivi vegetali vari, molti dei quali sono stati conglobati nella costruzione delle mura del secondo tempio del II-I secolo a.C. (5). L’intero santuario andò probabilmente distrutto a causa d’un movimento franoso, o forse tellurico. Esso presenta le caratteristiche architettoniche dei grandi santuari greco-orientali e si inquadra nell’età ellenistica.
Notevoli sono le somiglianze con le sculture di Pietrabbondante (Isernia) e con quella dell’Altare di Pergamo. Quest’ultimo, oggi a Berlino, fu considerato paragonabile ad una delle sette meraviglie del mondo. Ci si può fare allora un’idea della raffinatezza dei reperti di contrada Cuma di Monterinaldo. Vi sono poi analogie con altri templi della stessa epoca in aria laziale-tirrenica: Preneste, Pirgi (S. Severa), Civita Castellana (Viterbo), in aria abruzzese: Civitella di Chieti ed in aria Emiliana : Marzabotto (Bologna) (6). I rocchi delle colonne richiamano all’ordine tuscanico e la raffinatezza delle statue fittili sembra potersi ricollegare alla produzione etrusca. Questo santuario poi non può essere dissociato dalla villa romana, di epoca imperiale, rinvenuta poco lontano né dalle abitazioni di fortuna costruite nei dintorni con gli stessi laterizi del santuario. Sono tutte testimonianze della continuità della vita in questa area.
Non va poi sottovalutata la presenza di un pozzo tra il portico ed il tempio.
Il Santuario potrebbe essere stato del tipo extra-urbano, cioè lontano da città piceno-romane, sua analogia di altri santuari italici della stessa epoca. La sua funzione potrebbe essere stata quella di luogo di incontro tra diverse comunità, alcune provenienti dalla costa adriatica ed altre dall’alta valle dell’Aso, in un luogo situato lungo l’antica arteria Ascoli-Fermo e non lontano da Novana.
Si può pensare poi anche alla presenza di qualche comunità etrusca, non solo per la somiglianza con l’arte di questo popolo, ma anche perché nella vicina Montelparo, intorno al 1873, furono rinvenute numerose tombe dalle caratteristiche piceno-etrusche.
Con la costruzione di questo santuario, lungo un itinerario battuto fin dai tempi più remoti, Roma andava incontro alle tradizioni picene, evitando a queste comunità di trovare motivi di ribellione (7).
Secondo E. Catani, il toponimo Cuma, lungi dall’evocare contatti con la Sibilla Cumana, farebbe riferimento unicamente al terreno in pendio.
Secondo tale studioso la compresenza di un’oronimo (Monte S. Lucia) e di un idronomo (Fosso di S. Lucia) ricorre spesso in presenza di acque curative e di antichi culti ad esse connessi. Non a caso la cartografia IGM registra in questo sito la presenza di acque sotterranee, che forse provocarono una frana che distrusse il santuario.
Secondo G. Susini, questo tempio, come altre realtà medio-adriatiche, deve essere sorto su di un luogo di culto pre-romano, forse di tipo salutare, legato alla dea Cupra o Bona Mater.
Veniamo ad una descrizione, seppure sommaria. Il muro di temenos è costituito da blocchi di arenaria, che delimitano l’aria sacra, e, al suo interno, vi sono i resti del tempio. Dal porticato, addossato al muro di temenos e lungo, in origine forse 66 metri, sono state realizzate quattro colonne interne con capitello di tipo ionico italico e sette colonne esterne con capitello dorico, più basse delle prime e tutte in arenaria. All’estremo ovest del porticato si distingue un piccolo ambiente rettangolare, forse un sacello, che presenta tre colonne ioniche, tra due paraste laterali di pietra arenaria (9).
Luciano Pallottini
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(1) B. Egidi, Le Tracce di Bucchiano a Monterinaldo come Contributo alla Geografia delle Sedi Scomparse nel Fermano, Quaderni dell’Archivio storico arcivescovile di Fermo nn. 17-18, pag. 182. S. Anselmi (1982, pag.21), Cenni biografici su San Leonardo in AA.VV. (1980).
(2) Liber Jurum dell’Episcopato della città di Fermo (977-1266), Codice 1030 dell’Archivio Storico Comunale di Fermo, a cura della Deputazione Storia Patria delle Marche e della fondazione Cassa di Risparmio Fermo, Ancona 1966, Vol.I, Documento n. 70 a cura di Delio Pacini, pag.150. D. Erasmo Gattola, Accessiones ad Historiam Abbatiae Cassinensis, Venezia 1734, Parte I, pag.29, documento del 1032.
(3) B. Egidi, Vedi Nota n.1, ibidem, pag. 177.
(4) G. Strafforello, Geografia dell’Italia. Provincie di Ancona, Ascoli Piceno, Macerata, Pesaro Urbino, Unione Tipografica Editrice, Torino 1898, pag.222.
(5) G. Annibaldi, Monterinaldo, in “Enciclopedia Arte Antica” , Supplemento, Roma 1973, pag. 502.
(6) E. Catani, Il Santuario Ellenistico Romano presso Monterinaldo: Un’emergenza archeologica e monumentale dell’Ascolano in “Il Piceno in età romana dalla sottomissione a Roma alla fine del mondo antico”, Atti del 3° Seminario di Studi per personale direttivo e docente della scuola (Cupra Marittima, 1991), Cupra marittima 1992, pagg. 47-58.
(7) Vedi Nota n.6.
(8) G. Susini, Coloni Romani dal Piceno al Po, “Studia Picena” 33-34, 1966, pagg. 1-66. G. Susini, art. cit., pag. 31; idem in “Epigraphica”, XXX (1970), pag. 164. S.M. Marengo, Bibliografia Epigrafica delle Marche (1970-75), in ”Annali della facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Macerata” XIX (1986), pag. 562, n. 205.
(9) Vedi Nota n.6, ibidem, pag. 54.