Vittorio ALFIERI dalle lezioni del prof. Mancini don Dino a Fermo. Appunti

VITTORIO ALFIERI       (1749-1803)

   Il Parini ha risvegliato negli Italiani una coscienza civile, ossia ha voluto fare di

essi cittadini onesti, laboriosi e sani.

   L’Alfieri risvegli in essi la coscienza politica, insistendo sui diritti dell’uomo e del cittadino, e anche sui doveri. Egli vive in un’epoca in cui i regimi sono ancora tutti assolutistici (salvo quello inglese), ma in cui si affermano anche le idee illuministe, circa la sovranità popolare, i diritti naturali dell’uomo, la lotta contro le varie forme di tirannide.

Pensiero politico

   Per comprendere bene il pensiero politico dell’Alfieri è necessario tener presente il suo temperamento. Nato da famiglia nobile, in uno Stato (quello piemontese) fra i più arretrati d’Italia, egli, dotato dalla natura di un temperamento orgoglioso e ribelle, sentì subito, fin da bambino il contrasto fra la sua aspirazione alla libertà e le catene del costume famigliare dei nobili e dell’ambiente politico in cui era costretto a vivere.

   Il contrasto fra il temperamento ribelle e indipendente e le varie forme di schiavitù famigliari e sociali acuì la sua aspirazione alla libertà, fino a farlo apparire una specie di anarchico, molto simile ai seguaci dello “Sturm und drang” che si affermò nello stesso tempo in Germania nell’ambiente dei giovani (sturm und grand = tempesta ed impeto), ed è un movimento sociale e letterario che ha, come programma, la distruzione totale del passato e l’affermazione totale della libertà individuale.

   Forse l’Alfieri fu influenzato anche dalla lettura del Rousseau e degli illuministi in generale leggendo il “Mattino” e il “Mezzogiorno” del Parini (divulgati nel 1763 e 1765);  egli sentì vergogna di appartenere alla classe dei “giovani signori”, e, per distinguersi da questi, assunse atteggiamenti da rivoluzionario. Rinunciò alla parte del patrimonio avuta in eredità dal padre, a vantaggio della sorella Giulia, ma si riservò il diritto di avere da lei un assegno annuo e conservò il titolo di conte: in tal modo egli credette di “svassallarsi”, cioè di uscire dal mondo dei vassalli e dei feudatari.

   Quando ebbe raggiunta la indipendenza economica si dedicò ai viaggi all’estero: Francia, Olanda, Inghilterra, Prussia (che egli definì una “caserma” e Federico II “re sergente”, Austria dove a Vienna egli vide il Metastasio, che faceva la genuflessione davanti a Maria Teresa, e che egli definisce “Musa appigionata” (che sta a pigione).

   Attraverso le letture degli autori illuministi, attraverso le esperienze acquistate in viaggi, il contatto con intellettuali europei progressisti, e soprattutto in forza del suo temperamento ribelle ad ogni coercizione, si innamorò della libertà a tal punto che divenne un feroce odiatore della tirannide.

   L’ideale della libertà in Alfieri non è  sorretto tanto da convinzioni filosofiche, quanto sul sentimento: un sentimento caldo, addirittura travolgente, che si manifesta con la più assoluta immediatezza e sincerità: sincerità che si rileva soprattutto nella “Vita di sé stesso”, ove pare che si compiaccia di mettere in evidenza i suoi difetti, quasi per riscuotere dai lettori il riconoscimento e l’applauso di questa sua dote.

   In altri termini l’ideale della libertà in Alfieri è un sentimento innato a causa del suo temperamento e rafforzato da esperienze e letture. Egli sostiene che l’educazione è autoeducazione. Si parte tutti da uno stato deplorevole, fatto di ignoranza, di vizi, di istinti selvatici: però seguendo la natura si può giungere allo stato di magnanimità. Il processo autoeducativo parte dall’impulso naturale che egli definisce “un bollore” di mente  e di cuore, per cui non si trova mai pace né requie finché non si sia diventati i migliori fra gli ottimi o nulla.  L’impulso naturale spinge ad agire, a fare esperienze indefinite. Le esperienze possono essere positive o negative: forse le negative superano quelle positive: ma in questo caso interviene “magnanima bile”, cioè lo sdegno contro sé stesso, scoperto e ritrovato in atteggiamenti indegni: sdegno accompagnato dalla brama furiosa di liberarsi da quegli atteggiamenti. La “magnanima bile” è dunque fattore di autocritica e di autosuperamento continuo. Attraverso il continuo superamento, per cui l’io migliore prende di petto, mortifica e reprime l’io inferiore, si giunge allo stato di magnanimità che è costituito dal culto di un “degno oggetto per l’intelligenza e di un degno amore per il cuore”. Un “degno oggetto per l’intelletto” furono per lui le letture.”Il degno amore per il suo cuore” fu quello per la contessa D’Albany.

   Un uomo dal temperamento ribelle e dal sentimento ardente, capace di biasimare sé stesso e gli altri. Com’era l’Alfieri non avrebbe mai potuto tollerare la schiavitù politica. Incominciò la carriera militare e subito l’abbandonò, per non diventare un sostenitore armato della tirannide; e quando andò all’estero lo fece per “spiemontizzarsi” , cioè per liberarsi dalle forme di vita schiavesche caratteristiche dello Stato sardo-piemontese, chiuso a qualsiasi riforma.

  Per conoscere il pensiero politico dell’Alfieri, e quindi per comprendere bene la maggior parte delle sue tragedie, che ad esso si ispirano, bisogna tener presente il trattatello della “Tirannide”.

   In quest’opera egli parla dell’origine della tirannide, degli appoggi di cui essa si vale, del modo con cui essa si abbatte. Anzitutto egli afferma che “il solo pensiero che la mia vita, i miei pensieri, i miei movimenti debba no dipendere dall’arbitrio di uno solo, mi fa fremere di sdegno”.

   La tirannide nasce quando un uomo ambizioso, di forte volontà, spregiudicato si propone di imporsi a tutta una società, favorito dalla ignoranza e dalla fiacchezza morale di coloro ai quali egli vuole imporsi: “l’ignoranza e il vizio di un popolo sono il terreno migliore per il tristo seme della tirannide”. Nel suo proposito di imporsi a tutto un popolo il tiranno è favorito ed appoggiato:

a)- dagli aristocratici ai quali egli concede onori e privilegi;

b)- dai militari che, invece di mettere le armi a servizio del popolo, preferiscono 

      metterle al servizio del tiranno contro il popolo perché da lui avranno alte

      paghe e onori.

c)- dai sacerdoti che, invece di educare il popolo al culto dei grandi ideali, fra cui

      quello della libertà, lo educano al servilismo nei confronti del tiranno., da cui

     essi ricevono  privilegi e onori.

      Nelle tragedie in cui il poeta svolge il motivo della lotta fra il tiranno e l’eroe,

      il tiranno ha sempre, come alleati, i nobili, i militari e i sacerdoti (per

     quest’ultimi fa accezione la tragedia “Saul”).

Come si rimedia alla tirannide ?

Non con le congiure, perché questa falliscono quasi sempre, a causa di un traditore.

D’altra parte, dice l’Alfieri, il tiranno sa instaurare un regime di terrore tale da scoraggiare qualsiasi tentativo di rivolta. L’unico rimedio è l’iniziativa di uno solo che si chiama “eroe”, che definisce così: “un animo sdegnoso e fiero che schifito dalle prepotenze del tiranno decide di rimediare ai mali suoi e a quelli di tutti, da solo e col ferro”.  

   Anche l’eroe, come il tiranno,  è mosso da un particolare impulso naturale; ma mentre il tiranno da questo è spinto ad imporsi a tutti per soddisfare la sua ambizione, l’eroe dal medesimo impulso a spinto a rivendicare la dignità ed i diritti dei suoi simili.

Quali doti ha l’eroe ?

   Il tiranno è egoista, sfrenato, ambizioso, crudele, capace di interferire perfino nei segreti più intimi dei suoi sudditi, rapitore di fanciulle, simulatore di religiosità ed empio nel suo intimo; l’eroe è altruista, generoso, onesto, umano, rispettoso della dignità altrui e intransigente rivendicatore della propria. Insomma il tiranno è il pessimo fra gli uomini, l’eroe l’ottimo.

Come si divide la società ?

  In tre classi: i pessimi (il tiranno e i suoi alleati); gli ignavi o vivi o egoisti, che sono la maggioranza, che vivendo nell’ignoranza e nel vizio, permettono ai pessimi di spadroneggiare; i buoni, che sono pochi, ma che posseggono una forza tale da sconvolgere il regno dei pessimi, qualora uno dia il segnale della rivolta: quella forza è l’amore alla libertà basata su un forte senso dei propri diritti e dei propri doveri.

   Chi ha la coscienza dei propri diritti, ma non ha quella dei propri doveri, è un tiranno in potenza: infatti il tiranno conosce solo sé stesso e crede che gli altri siano stati creati solo per servire lui. Il segnale della rivolta verrà dato dall’eroe: allora i buoni si uniranno a lui e la loro forza morale sarà sufficiente a battere il nemico, anche se questo è materialmente più forte.

   L’Alfieri inneggiò allo scoppio della rivoluzione francese con l’ode “Parigi sbastigliata”, perché quello era stato l’inizio della lotta contro la tirannide di uno solo; a quella di uno solo egli considera pari quella dei pochi (oligarchia).

   Quando nel 1792, alla metà del ’93, assiste in Parigi alle esplosioni bestiali della violenza popolare, e rischiò egli stesso di rimanerne vittima, allora capì che esiste anche una tirannide dei “troppi” (demagogia). Quest’ultima forma di tiranni apparve all’Alfieri pari, se non addirittura più grave, di quella di uno solo: infatti dal tiranno unico ci si può guardare, evitandolo, ritirandosi sdegnosamente a vivere per conto proprio, rifiutando ogni collaborazione; mentre dal popolaccio e dai tiranni popolari possono essere uccisi anche i buoni, solo per sospetto, per invidia o per vendetta.

   Per questo motivo, cioè per evitare che, caduta la tirannide di uno solo, si affermi la tirannia dei troppi, l’Alfieri nel trattato “Del principe e delle lettere” sostiene che per abbattere la tirannide non è sufficiente l’opera dell’eroe, se al suo fianco non ci sono altri eroi, che sono gli scrittori, che egli definisce così: “Arditi e veraci scrittori sono dunque gli onorati, naturali e sublimi tribuni del popolo non libero” (tribuno in antico era il difensore dei diritti della plebe contro la tirannide dei patrizi).

   In che senso gli scrittori arditi e veraci sono tribuni dei popoli non liberi, cioè difensori delle virtù politiche che, come egli stesso dice, si riassumono nella parola libertà?

“Nel senso che gli scrittori in forza del natural loro impulso, sotto mille forme diverse, ma tutte calde e convincenti ed energiche, scolpiscono nel cuore dei popoli l’amore del vero, del grande, dell’utile, del retto e della libertà che da tutti questi necessariamente deriva”.

Siamo dunque sulla scia degli illuministi che considerano lo scrittore come protagonista delle idee utili al progresso umano. Perciò l’Alfieri critica gli scrittori osceni e antireligiosi (ha di mira Voltaire), perché essi ha contribuito a diffondere il vizio e la spregiudicatezza stolta in mezzo al popolo, che sono i presupposti per l’affermarsi della tirannide.

Era religioso l’Alfieri ? Non era certo cristiano: forse come tutti i deisti del periodo illuministico, credeva in una causa prima che ha mosso l’universo; ma non andava oltre questa credenza. Forse negli ultimi anni della sua vita ha capito che l’Impulso naturale dell’uomo più dotato, nonostante le presunzioni che lo accompagnano, specie nell’età giovanile e matura, alla fine, sconfitto dalle esperienze della vita, deve soggiacere ad uno sforzo che gli sfugge, comunque esso di chiami o Dio o destino: è evidente questa sensazione della limitatezza umane nel “Saul”, che certamente riproduce molte delle esperienze psicologiche di Alfieri.  Fra le satire che egli ha scritto (sono sette di cui una sull’educazione) ce n’è una intitolata “L’anti-religioneria”, cioè la lotta alla religione fatta in  modo stupido e volgare.

   Quanto al Cristianesimo egli è convinto che si tratta di una religione ormai morta, per cui non vale la pena neanche di attaccarla.

Le tragedie dell’Alfieri.

    L’Alfieri ha scritto 19 tragedie – 4 commedie (“Uno” – “I pochi”- “I troppi” – L’antidoto”) – 7 satire – la “Vita di sé stesso” – 2 preziosissimi trattatelli della tirannide – “Del Principe e delle lettere”, che sono fondamentali per capire il pensiero politico e letterario dell’Alfieri- “Il Misogallo”.

   La sua fama però è legata soprattutto alle tragedie. La nostra tragedia ha inizio del ‘500: si delineano due indirizzi in quel secolo: quello classicheggiante alla greca, di cui è esponente Pietro Aretino, autore dell’”Orazia” – quello classicheggiante senechiano (caratterizzato da azione fortemente tragica e da scene orride) di cui è esponente Giovan Battista Giral di Cintio. Una ne scrisse anche il Tasso: “Il torrismondo”.

   Nel ‘600, nonostante il cattivo gusto del secolo, abbiamo due buone tragedie di Della Valle: “La Giuditta” e “La regina di Scotia”.

   All’Alfieri spetta il merito di aver fatto della tragedia uno strumento di formazione civile-politica. Il tema di quasi tutte le sue tragedie è il contrasto fra il tiranno e l’eroe; il primo con il seguito dei suoi appoggi; il secondo appoggiato segretamente dai buoni.

   Perché l’Alfieri ha scelto il teatro per diffondere l’ideale della libertà ? Perché il teatro usa il metodo intuitivo, cioè le idee le fa vedere in atto attraverso una vicenda, il dialogo, le scene. Forse influì nella scelta anche il fatto che nel 1776 (anno in cui egli si convertì alla attività letteraria), avendo scritto, mentre vegliava una donna malata che egli amava, una tragedia intitolata “Cleopatra” e avendo ottenuto un discreto successo, si sentì incoraggiato a proseguire lungo quella strada. Abbiamo detto che il tema dominante delle tragedie dell’Alfieri è quello politico, ma la ripetizione dello stesso tema e per di più con la stessa impostazione (il tiranno pessimo coadiuvato dai pessimi – l’eroe ottimo coadiuvato dagli ottimi) rende la tragedia piuttosto monotona: con la sua abituale sincerità l’Alfieri stesso dice che “letta una, sono lette tutte le sue tragedie”. Tuttavia ci sono 3 tragedie che sfuggono allo schema solito, e nelle quali il poeta si impegna ad interpretare psicologie più complesse, più varie, più ricche di umanità: sono le tragedie “Saul” – “Mirra” – “Agamennone”.

Caratteristiche stilistiche della tragedia dell’Alfieri.

   In ogni opera si riflette il carattere dell’autore, e siccome l’Alfieri aveva un carattere impulsivo, forte, sprezzante di tutto ciò che è eleganza, artificioso e superfluo, si è proposto di creare una tragedia che fosse tragica e concentrata il più possibile, essenziale il più possibile. Perché fosse tragica egli preferì temi forti, cioè quelli in cui i contrasti tra il protagonista e antagonista fossero violenti; e i caratteri dei personaggi fossero carichi di passione in sommo grado. I caratteri non si sviluppano durante l’azione tragica, ma sono già definiti in precedenza; il tiranno sarà pessimo fin dall’inizio, l’eroe ottimo fin dall’inizio. Quindi l’azione tragica si ridurrà ad uno scontro tra protagonista e antagonista , che si concluderà con la morte di uno dei due.

   Il genere il poeta fa morire l’eroe affinché resti nel pubblico più vivo l’odio contro il tiranno e il desiderio di vendicare l’eroe.

   Quella dell’Alfieri non è la tragedia di Shakespeare, che si vale dell’azione tragica, per rappresentare l’evoluzione di un carattere sotto la spinta degli avvenimenti. I personaggi dell’Alfieri sono tutti di un pezzo, dall’inizio alla fine; sono, come si dice, psicologia concentrata perché risultino più forti.

   Per rendere la tragedia più tragica e più forte, egli la rende anche rapida, togliendo via le parti narrative e liriche , che per tradizione classica dovevano far parte della tragedia (le narrazioni erano affidate ai messi che narravano cose avvenute fuori della scena, o dai confidenti, che confidandosi con una persona cara, rievocano episodi passati. La parte lirica era affidata  o al coro, un personaggio collettivo che seguiva l’azione tragica e la commentava nei suoi passi più salienti, o ad un personaggio principale, che in un momento di alta tensione lirica, si sfogava in un discorso carico di emozione), così la tragedia scorre rapida verso la conclusione.

   In genere nel primo atto si presenta il tiranno che manifesta ai suoi amici le sue preoccupazioni per il comportamento dell’eroe, nel secondo atto si presenta l’eroe che manifesta le sue intenzioni; nel terzo atto il primo incontro fra i due; nel quarto atto incomincia lo scontro; nel quinto c’è la catastrofe.

   Anche il linguaggio è concentrato ed essenziale proprio per garantire la forza della tragedia: un linguaggio senza ornamenti, fatto di battute brevissime (talvolta addirittura di monosillabi; un linguaggio come di dice “metallico” , che rende piuttosto dura ed aspra la tragedia dell’Alfieri.

   Tutto quello che abbiamo detto vale per le tragedie di argomento politico in generale, ma si possono dire le stesse cose per il “Saul” – “Mirra” – “Agamennone”.

   Nel primo momento egli inventa la trama generale della tragedia, nel secondo momento scrive la tragedia intera mettendovi dentro tutto quello che viene in mente, nel terzo momento rivede la tragedia, toglie le parti che ritiene inopportune e le mette in versi.

Caratteristiche della lingua usata dall’Alfieri.

   L’Alfieri i n gioventù aveva studiato molto poco e male. Quando nel 1776 decise di darsi all’arte drammatica, sentì quanto fossero limitati i suoi mezzi espressivi. Sentì allora il bisogno di studiare il latino, imparandone la grammatica e la sintassi (“mi immersi nel vortice grammatichevole”), e traducendo svariati autori per costringersi ad usare un linguaggio preciso. Riuscì ad acquistare un certo patrimonio di vocaboli, sufficienti per il suo stile concentrato ed efficace; ma quando tale patrimonio non gli era sufficiente, secondo il consiglio di Cesarotti, inventava vocaboli nuovi (“disvassallarsi” – “spiemontizzarsi” – “grammatichevole”).

L’Alfieri scrittore tragico.

   A 27 anni l’Alfieri aveva già fatto svariate esperienze; e attraverso queste era venuto superando le forme inferiori della vita ed era venuto avvicinandosi allo stato di magnanimità. L’impulso naturale, cioè il “bollore” di mente e di cuore che lo spingeva a fare, come nel passato, quando egli era ancora spiritualmente grezzo, l’aveva spinto all’avventura mediocre e inconcludente, così allora,  essendosi ormai il suo spirito purificato, lo spingeva all’attività utile e nobile E così nel 1775 egli decide di dare sfogo alle sue energie irrequiete e veementi, nell’esercizio della sublime attività di scrittore.

   Nelle sue esperienze egli ha conosciuto  tiranni e servi; ed ha sentito disprezzo per gli uni e per gli altri. Ha conosciuto anche persone rette e magnanime che attendono un rinnovamento della società sulla base della libertà, della rettitudine, del dovere, della giustizia, della magnanimità.  L’Alfieri si sente in dovere e soprattutto sente il bisogno intimo di denunciare al disprezzo dell’umanità i tiranni ed i vili; e di far coraggio ai pochi buoni che ancora esistono nella società.

Perché dunque si dedica all’attività letteraria ?

a)- per dare sfogo alla potente necessità interiore, per incanalare l’impulso naturale in una attività degna.

b)- per annientare moralmente gli esseri che più provocano il suo sdegno e ai quali egli, uomo libero per natura, fatalmente si sente avverso.

c)- per esprimere la sua adesione e la sua simpatia ai buoni.

Perché fra i generi letterari ha scelto il teatro ?

a)- perché il teatro a differenza di tutti gli altri generi letterari ha un pubblico di appassionati straordinariamente vasto: non così, infatti, è per il poema, per la lirica, per il trattato ecc. Frequentano il teatro tanto le persone colte, tanto le incolte; e assistere ad una rappresentazione non è affatto pesante, ma è affatto piacevole.

b)- perché il teatro adotta il metodo intuitivo, cioè fa vedere un ideale  attraverso uno scenario reale ( cioè non descritto). Il metodo intuitivo fa sì che le menti meno evolute possano capire. “Tra la tante miserie della nostra Italia, che ella sì bene annovera, abbiamo anche questa di non avere teatro. Fatale cosa è, che per farlo nascere si abbisogni di un principe. Questa stessa cagione porta nella base un impedimento necessario al vero progresso di quest’arte sublime. Io credo fermamente che gli uomini debbano imparare in teatro ad esser liberi, forti, generosi, trasportati per la vera virtù, insofferenti di ogni violenza, amanti della patria, veri conoscitori dei propri diritti, e in tutte le passioni loro ardenti, retti e magnanimi. Tale era il teatro in Atene; e tale non può essere mai un teatro cresciuto all’ombra di un principe qualsivoglia. Io scrivo con la sola lusinga che, forse rinascendo degli italiani, si reciteranno un giorno queste mie tragedie; non ci sarò allora: sicché egli è un buon mero piacere ideale per parte mia. Del resto, anche ammettendo che  i principi potessero far nascere un teatro, se non ottimo, buono, e parlante esclusivamente d’amore, non vedo aurora di tal giorno in Italia.

L’aver teatro nelle nazioni moderne, come nelle antiche, suppone da prima l’esser veramente nazione, e non di dieci popoletti divisi, che messi  insieme non si troverebbero simili in nessuna cosa; poi suppone educazione privata e pubblica, costumi., cultura, eserciti, commercio, armate, guerra, fermento, belle arti, vita”. Ecco cosa pensava l’Alfieri della funzione educativa del teatro.

Perché nel genere del teatro egli sceglie proprio la tragedia ?

a)- perché la sua spiritualità forte lo portava a preferire l’azione tragica piuttosto

     che l’azione comica.

b)- perché egli concepisce lo scrittore e quindi sé stesso come tribuno del 

      popolo: e al tribuno non si addice il discorso che desta il riso bensì quello

      che fa fremere.

c)- perché per educare al sensi della libertà e della rettitudine era necessario

     scuotere le anime intorpidite e avvilite con visioni impressionanti, quali sono

     appunto le visioni tragiche.

Come possiamo definire la tragedia dell’Alfieri ?

   Così egli esprime il suo pensiero circa la sua tragedia: “ho tentato di fare la tragedia in cinque atti, pieni, per quanto il soggetto dà, del solo soggetto; dialogizzata dai soli personaggi attori e non consultori o spettatori; la tragedia ordita di un sol filo  (sono tre caratteristiche della essenzialità); rapida per quanto si può servendo alle passioni, che tutte più o meno vogliono pur dilungarsi; semplice per quanto uso d’arte comporti; tetra e feroce per quanto la natura lo soffra; calda quanto lo era in me” (caratteristiche della tragedia concentrata).

La tragedia dell’Alfieri si può definire dunque:

a)- Tragedia essenziale, ossia che svolge l’azione attraverso scene essenziali, evitando scene o battute di abbellimento o di compiacimento sentimentale, estetico, ideologico, cioè scene nelle quali lo scrittore elabora con cura certi sentimenti per commuovere il pubblico, anche se tale commozione non è richiesta ai fini dell’azione, ma solo per lasciarsi sfuggire una battuta emozionante; ovvero fa esprimere a qualche personaggio  certe sue convinzioni politiche, religiose, morali; ovvero fa descrivere a qualche personaggio in modo bello e particolareggiato qualche episodio passato o avvenuto lontano dalla scena).

   Sono tolti i dialoghi tra i personaggi necessari all’azione e i loro confidenti: dialoghi destinati nella tragedia francese e greca a mettere in evidenza la psicologia del protagonista, ovvero richiamare parti precedenti all’azione svolta. Sono abolite le scene nelle quali la vecchia tragedia faceva parlare i messi per esporre in forme descrittive smaglianti fatti avvenuti fuori dalla scena. Insomma la vecchi tragedia si preoccupava di inserire nell’azione questi motivi lirici, descrittivi, narrativi, sentenziosi: l’Alfieri considera questi motivi come estranei all’azione tragica che di per sé mè soltanto costituita di contrasti forti ed impetuosi.

Perché preferisce la tragedia essenziale ?

Anzitutto per la sua indole incline alla essenzialità, in secondo luogo per garantire maggiore forza alla tragedia.

b)- Tragedia concentrata, ossia tragedia in cui la psicologia dei personaggi, le situazioni vengono saturate al massimo grado della passionalità e di contrasto(cioè di logicità). Per saturare la psicologia e le situazioni l’Alfieri accoglie solo motivi forti, sublimi, feroci, tetri. Motivi forti : cioè psicologie dotate di straordinaria vigoria di impulso e di volontà (può essere sia la psicologia dell’eroe che  quella del tiranno); motivi sublimi, cioè slancio appassionato  del magnanimo verso la luce e la libertà di una vita vissuta idealmente (psicologia dell’eroe e dei buoni); motivi feroci: come forte è il carattere dell’eroe così forte è il carattere del tiranno: le potenti energie del primo sono a servizio dell’ideale, le potenti e malefiche energie del secondo sono a servizio del suo egoismo.

Ferocia è da intendersi come fierezza, in senso latino, cioè senso della propria personalità e reazione decisa contro chiunque lo provochi (sia il tiranno che l’eroe); motivi tetri: ossia stati d’animo e situazioni che destano orrore.

c)- Tragedia rapida: cioè tragedia la cui azione corre spedita verso la conclusione: è una conseguenza della essenzialità e della concentratezza.

Perché l’Alfieri ha strutturato la sua tragedia in modo tale che risultasse essenziale, concentrata, forte, sublime, tetra e rapida ?

   Perché il pubblico fosse scosso più facilmente. Egli, infatti, si rivolgeva al pubblico italiano del ‘700, addormentato nella schiavitù a causa dell’ignoranza, del vizio e della paura.  “A così fatti popoli per farlo a pena, a pena sentire invece che parlare è necessario tuonare. Per aizzare la tigre ed il leone basta poco, ma per inferocire il ,placido e aggiogato bue nessun pungolo è mai abbastanza acuto. Quindi ogni libro debole di pensieri e di stile riuscirà tra noi di nessunissimo effetto; ed ogni libro forte di piccolissimo effetto riuscirà”.

   E per tuonare l’Alfieri ha scelto la tragedia forte: “gli uomini, specie i più schiavi, come siamo noi, peccano nel poco sentire: in essi bisogna suscitare impressione calda, forte, vivissima”.

Atteggiamento dell’Alfieri nei confronti delle unità drammatiche.

   L’unità d’azione è sempre rispettata perché “quando uno narra o fa vedere un fatto, chi ascolta non vuole vedere né udire cosa che lo disturbi da quello”: nell’azione si accoglie solo ciò che riguarda strettamente il fatto. Anche l’unità di tempo e di luogo quasi sempre rispettate.

   Perché l’Alfieri accoglie le tre unità ? Perché esse contribuiscono alla essenzialità, alla concentratezza, e quindi alla forza, in quanto legano meglio le varie parti  ed esigono, (specie quella di tempo) che le passioni siano saturate al massimo, altrimenti non esplodono in breve giro di tempo. Indipendente come era di indole, egli accettò queste tre regole: ma lo fece non per tradizionalismo, bensì perché vedeva in esse ottime garanzie per la riuscita della tragedia forte.

Modo con cui l’Alfieri componeva.

“Per intelligenza del lettore mi conviene spiegare queste mie parole di cui mi vo servendo così spesso, ideare, stendere e verseggiare. Questi tre respiri, con cui ho dato sempre l’essere alle mie tragedie, mi hanno per lo più procurato il beneficio del tempo, così necessario a ben ponderare un componimento di quella importanza; il quale se mai nasce male, difficilmente poi si raddrizza. Ideare io dunque chiamo il distribuire il soggetto in atti e scene, stabilire e fissare il numero dei personaggi, in due paginucce di prosaccia farne quasi l’estratto scena, per scena di quel che faranno e diranno. Chiamo poi stendere, qualora ripigliando quel primo foglio, a norma della traccia accennata ne riempio le scene dialogizzando in prosa come viene la tragedia intera, senza rifiutare un pensiero, qualunque ei siasi e scrivendo con impeto quanto ne posso avere, senza punto badare al come. Verseggiare finalmente chiamo non solamente porre in versi quella prosa, ma col riposato intelletto assai tempo dopo scernere tra quelle lungaggini del primo getto i migliori pensieri, ridurli a poesia e leggibili. Segue poi come di ogni altro componimento il dover successivamente limare, levare, mutare; ma se la tragedia non v’è nell’idearla e distenderla, non si trova certo mai più con le fatiche posteriori”.

Concetti circa il verso e lo stile. 

   “Resta, amatissimo amico, che io le risponda circa allo stile; e questo farò, se ella me lo concede, allungandomi alquanto di più. Delle di lei osservazioni sopra i passi citati, mi risulta che le parti dello stile che a lei dispiacciono, siano le due che spettano all’armonia, e alla chiarezza: e di queste discorrerò.

   L’armonia dei versi tragici italiani dee pur essere diversa da quella di tutte le altre nostre poesie, per quanto la stessa misura di verso il comporti, poiché altra sventuratamente non ne abbiamo.

   Ma però questa armonia tragica aver dee la nobiltà e magniloquenza dell’epica, senza averne il canto continuato; e avere di tempo in tempo dei fiori lirici, ma con giudizio sparsi, e sempre (siccome non v’è rima) disposti con giacitura diversa, che non sarebbero nel sonetto, madrigale, ottava e canzone.  Così ho sentito io; e dalla sola natura delle cose ho ricavato queste semplici osservazioni. Ho ecceduto nei pronomi principalmente, nelle trasposizioni, e nelle collocazioni di parole; perché quando si imprende una cosa, il timore d’un difetto, finché non ci si vede ben chiaro, facilmente fa incorrere nell’altro. Così in me la paura di essere fiacco, che mi pare il vero delitto capitale dell’autore tragico, mi ha reso alle volte più duro del dovere.

   Resta a parlarsi della oscurità, altra parte dello stile rimproveratami. E di questa me ne sbrigo col dire…. che a voler essere brevissimo, cosa indispensabile nella tragedia, e che solo genera l’energia,  non si può esserlo che usando modi contratti, che oscuri non sono a chi sa le proprietà di questa divina lingua, ma possono ben parerlo alla letteratura per chi non le sa.

   Qual rimprovero meritatamente ci fanno ad una voce gli stranieri ? Di non aver teatro; e le poche nostre recite, che tal nome si usurpano di essere sdolcinate, cantate, snervate, insipide, lunghe, noiose insoffribili. A dire il vero, mi pare tale l’indole della lingua nostra da non mai tener in lei la durezza, bensì, molto la fluidità troppa per cui le parole sdrucciolano di penna a chi scrive, di bocca a chi recita e, con la stessa facilità dagli orecchi di chi ascolta.

   Di tutte le parole pregiatissime, che ella nella sua onorevole lettera mi dice, la sola che io non ricevo, è: negletto lo stile; perché l’assicuro anzi che moltissimo l’ho lavorato, e troppo;  poiché i difetti rimproveratimi ed in parte da me riconosciuti gli ho trovati con fatica e studio; da altro non provenendo, che dall’aver sempre avuto di mira di sfuggire la cantilena e la trivialità”.

Argomenti preferiti dall’Alfieri.

  Sono preferiti argomenti antichi e per di più mitologici, perché la realtà storica, specie recente, impicciolisce i fatti e le passioni; mentre le vicende sono remote nel tempo e appartengono al mondo della leggenda, è più facile al poeta idealizzare i personaggi saturandone al massimo le idealità e le passioni.

   L’Alfieri, come si vede, è ancora fermo al concetto (tra poco avversato dai Romantici) che la potenza dell’arte consiste nella idealizzazione, e che questa è possibile tanto più, quanto più il soggetto è remoto nello spazio e nel tempo: ciò che si conosce direttamente è sempre più meschino di ciò che si vede nel mondo della pura fantasia.

   E’ un pregiudizio: in tal caso infatti non si potrebbe far poesia della storia contemporanea. La verità è che l’essenza dell’arte non è l’idealizzazione, bensì l’interpretazione della vita intima del soggetto  sia questo leggendario o storico.

   Nuoce alla potenza tragica “la troppa modernità del fatto, per cui questi Carli e Filippi n on sono ancora consecrati nei fasti delle eroiche scelleratezze; e che, per non essere consecrati ancora dal tempo, costoro suonano essere meno maestà negli orecchi, che gli Oresti, gli Atrei, e gli Edippi; e quindi paiono aver sempre presa in accatto la grandiloquenza. Se il luogo della scena della tragedia, invece di essere la moderna Pisa, fosse l’antica Tebe, Micene, Persepoli o Roma, il fatto (del don Garzia) verrebbe riputato tragico in primo grado……  Ma per lo regno di Firenze  di Pisa, non si può mai tanto innalzare un eroe che a chi lo ascolta egli venga a parere veramente sublime” (Alfieri).

Sono argomenti originali quelli trattati dall’Alfieri ?

   Gli argomenti originali sono appena sei su diaciannove tragedi (Congiura dei Pazzi, Don Garzia, Maria Stuarda, Rosmunda, Saul e Mirra).

   Riguardo a questa originalità vediamo come pensa lui stesso:   “Se la parola invenzione in tragedia si restringe al trattare soltanto i soggetti non prima trattati, nessun autore ha inventato meno di me… Se poi la parola invenzione si estende fino a far cosa nuova di cosa già fatta, io sono costretto a credere che nessun autore abbia inventato più di me; poiché nei soggetti appunto i più trattati….., io credo di avere in ogni cosa tenuto metodo, e adoperato mezzi, e ideati caratteri, in tutto diversi dagli altri”.

Pregi della tragedia Alfieriana.

1)- La forza: l’Alfieri si è proposto di scuotere dall’avvilimento politico il popolo italiano addormentato:

– dalla esclusione assoluta dalla vita politica (dal tempo delle Signorie in qua, circa 4 secoli).

– dall’ignoranza assoluta dei diritti e dei doveri.

– dall’esempio deplorevole della nobiltà viziosa e vile.

– dal terrore incusso dai Principi con una disciplina di ferro.

– dalla impossibilità di pensare, di parlare, di scrivere, di associarsi liberamente; 

 e quindi dalla impossibilità di  criticare  l’operato  del governo, e dalla necessità 

 di  approvare qualsiasi decisione di esso.

  Per scuotere il popolo italiano addormentato l’Alfieri crea la tragedia forte. Per

  creare la tragedia forte:

– sceglie argomenti in cui i contrasti siano forti e si aggirino sempre intorno al 

  motivo della schiavitù e della libertà politica.

– sceglie argomenti di fatti non vicini nel tempo, lontani dal controllo diretto

  Degli ascoltatori, affinché possano essere maggiormente idealizzati, cioè le

  passioni dei personaggi che in essi agiscono, possono essere ingrandite al

  massimo.

– elimina le battute liriche, descrittive e narrative, e procede per scene  

  essenziali.

– crea caratteri vigorosi, indomiti, fieri e tempestosi.

– crea situazioni di contrasti irriducibili e  per così dire spietati.

– la psicologia dei personaggi che coltivano l’ideale è presentata in forma 

  sublime, cioè energica al massimo ed elevata.

– procede con la massima rapidità.

2)- La sublimità: cioè il tono intensamente ideale, lo slancio costante della psicologia dei buoni verso i grandi ideali di libertà, giustizia, uguaglianza.

3)- La organicità saldamente unitaria: nell’azione e nella psicologia: forte e rapida l’azione: forti e veementi le passioni.

4)- La moralità elevata e severa: dice egli stesso: “se uno scrittore tragico vuole trattare il motivo dell’amore, deve farlo solo per mettere in evidenza quanto rovinosa sia la passione dell’amore se non viene contenuta”.

Difetti della tragedia Alfieriana.

1)- Nel contenuto:  

  a)- eccessiva prevalenza del motivo del contrasto politico, per cui è riservato pochissimo  posto a tutti gli altri motivi tragici che pur si notano nella vita umana e che sono svariati e numerosi. Difetto collegato   con la intenzione quasi esclusivamente politica dell’Alfieri, con il concetto che egli ha dello scrittore quale “tribuno dei popoli non liberi.

   b)- psicologie troppo caricate e unilaterali; eroi troppo eroi, e soltanto eroi;

        tiranni troppo tiranni e soltanto tiranni.

2)- Nella forma.

  a)- L’uniformità, nel senso che nella maggior parte delle tragedie si ritrova lo

       stesso schema generale: contrasto fra tiranno ed eroe, e presso a poco lo

       stesso schema particolare , cioè il succedersi dei momenti dell’azione

       strutturato quasi sempre allo stesso modo. Dice egli stesso, parlando del

       difetto della uniformità: “chi ha osservato l’ossatura di una, le ha quasiché

       tutte osservate. Il primo atto, brevissimo; il protagonista, per lo più non

       messo in palco se non al secondo; nessun incidente mai; molto dialogo; 

        pochi quattr’atti;  dei vuoti qua e là quant’all’azione, i quali l’autore crede di

       aver riempiti o nascosti con una certa passione di dialogo; i quinti atti

       strabrevi, rapidissimi, e per lo più tutt’azione e spettacolo, i morenti

        brevissimi favellatori; ecco l’andamento similissimo di tutte queste tragedie.

       Altri osserverà poi (che lungamente e meglio il potrà far dell’autore) se

       questa costante uniformità di economia nel poema vi venga costantemente  

      compensata dalla varietà dei soggetti, dei caratteri, e delle catastrofi”.

   Il primo atto, in genere, serve a preparare l’apparizione del protagonista che quasi sempre avviene nel secondo atto; nel terzo atto il primo incontro tra i protagonisti; il quarto è l’atto delle risoluzioni con cui i due avversari intendono risolvere il contrasto; nel quinto si attua la risoluzione: in genere muore l’eroe:

–         perché l’eroe è il personaggio più simpatico agli spettatori, e chi lo uccide diventa per questo estremamente odioso; e proprio quest’odio contro il tiranno vuole suscitare l’Alfieri nel pubblico.

–         perché con la morte dell’eroe accende nel pubblico il desiderio della vendetta.

–         perché la psicologia sublime dell’eroe non può trovar quiete nella atmosfera meschina della terra e la morte è per lui una liberazione, l’ultimo gesto ideale di una vita ideale.

b)- La mancanza di sviluppo psicologico e la riduzione della tragedia a puro contrasto esterno di psicologie già definite in antecedenza e che restano costantemente le  stesse. Il contrasto, il travaglio psicologico che rende così ricca la tragedia di  Shakespeare, raramente si ritrova nella tragedia  alfieriana. Ciò dipende da questi fatti:

– dal bisogno di non perder tempo: tempo che verrebbe richiesto dallo sviluppo di travagli interiori.

– dal metodo di idealizzazione tratto dallo stile classico: un carattere idealizzato viene presentato in blocco fin dal principio e resta sempre lo stesso.

    – dal bisogno di presentare tipi eccezionali e i tipi eccezionali sono tutti di un pezzo, e tipi di questo genere non ammettono crisi interiori.

     – dalla sua preferenza per indoli senza crisi, assolute e sublimi, che armonizzavano con  la sua indole.

     La tragedia alfieriana è chiamata anche tragedia metallica perché l’azione si svolge per cozzi esteriori delle passioni, non per contrasti interiori.

c)- Abbondanza di soliloqui: cioè il poeta fa parlare troppo spesso i personaggi con sé  stessi, perché ha bisogno di far conoscere la loro psicologia attraverso le loro riflessioni più intime e più sincere. Il colloquio spesso è destinato a  sostituire messi e  confidenti. “Ecco che fra i difetti della sceneggiatura risultanti da questa maniera di  inventare e di condurre la parola, già vedo dai più annoverar come il primo,  e  capitalissimo la frequenza dei soliloqui. E questa frequenza certamente è difetto; ma  non vien riputato  uno dei maggiori per altra ragione, fuorché per esser questo uno dei difetti più facili  ad esser rilevati da chiunque. Né io voglio affatto difenderlo, né  interamente condannarlo coi più”.

3)- Nel linguaggio:  per essere forte l’Alfieri è diventato troppo duro e talvolta conciso fino alla oscurità.

a)- Durezza: “Qual rimprovero meritatamente ci fanno ad una voce gli stranieri ? Di non aver teatro; e le nostre poche recite, che tal nome si usurpano, d’essere sdolcinate, cantate, snervate, insipide, lunghe, noiose, insoffribili. A dire il vero, mi pare tale l’indole della lingua nostra da non mai tener in lei la durezza, bensì molto la fluidità troppa per cui le parole sdrucciolano di penna a chi scrive, di bocca a chi recita, e, con la stessa facilità, dagli orecchi di chi ascolta”.

b)- Oscurità:  “Resta a parlarsi della oscurità, altra parte dello stile rimproveratami. E di questa me ne sbrigo col dire….. che a voler essere brevissimo, cosa indispensabile nella tragedia, e che solo genera l’energia, non si può esserlo che usando modi contratti, che oscuri non sono a chi sa le proprietà di questa divina lingua, ma possono ben parerlo alla lettura per chi non le sa”.

Quali sono le migliori tragedie dell’Alfieri ?

   Sono quelle in cui l’autore evade dal solito schema del contrasto fra il tiranno e l’eroe e accoglie svariati altri motivi della vita, e dà più sviluppo al contrasto psicologico.

   Se il difetto fondamentale della tragedia alfieriana è l’essenzialità esagerata, l’asciuttezza quasi scheletrica che non permettono alla vita di circolare con pienezza nel corpo dell’azione tragica, belle saranno quelle tragedie nelle quali la psicologia umana si presenta ricca e varia, pur senza nuocere alla forza, alla rapidità, all’unità dell’azione.

   Tali sono le tragedie “Saul” (in cui la psicologia del protagonista si sviluppa attraverso contrasti intimi e vengono accolti i motivi della amicizia, dell’amore filiale, della religione); “Mirra”: tragedia tutta interiore, fatta di contrasti psicologici; “Filippo II” (in cui al motivo del contrasto fra tiranno ed eroe si aggiunge il motivo della passione amorosa): “Agamennone”.

L’Alfieri fu romantico o classico ?

   Per rispondere a questa domanda dobbiamo definire le caratteristiche dello stile classico e di quello romantico.

a)- Caratteristiche dello stile classico: idealizzazione dei personaggi, delle situazioni, dei paesaggi – compiacimento e indugio su particolari decorativi –  (compiacenza della  decorazione estetica) – la precisione, l’armonia, la nitidezza delle figurazioni – la compostezza e la signorilità del tono –  la preferenza per le immagini, i procedimenti compositivi, le forme linguistiche che sono in uso nel mondo della letteratura tradizionale avviata dai Greci e dai Romani.

b)- Caratteristiche dello stile romantico:

– la tendenza ad esprimere lo stato d’animo conservando ad esso il più possibile il calore nativo, ossia l’immediatezza.

– il tono veemente ed impetuoso

– il compiacimento per gli sfoghi sentimentali – la cura dell’originalità nella

  ispirazione, nella forma e nel linguaggio

– una certa compiacenza  del confuso e del disarmonico, quasi ad ostentazione i mentalità e di costume libero e spregiudicato.

Nell’Alfieri di classico vi è soltanto:

   a)- l’idealizzazione dei personaggi secondo il criterio plutarchiano della magnanimità, della forza di carattere, della attività intelligente e irrefrenabile;

  b)- la organicità e la unità della composizione.

Lasciò da parte le compiacenze estetiche perché ritardavano lo sviluppo dell’azione, che egli voleva rapida, e perché la sua indole, sdegnosa ed essenziale, non si adattava ad abbellire con grazia e con gusto da esteta.

Nell’Alfieri romantico vi è:

   a)-  l’immediatezza e la veemenza delle battute del dialogo;

   b)- la vigoria delle passioni;

   c)- lo slancio verso il sublime;

   d)- una certa indipendenza nel trattare motivi già trattati e nel creare forme linguistiche nuove;

   e)- l’ammirazione per le forme di vita rivoluzionarie.

Insomma l’Alfieri si propose di curare la tragedia forte e utilizzò per questo la idealizzazione e la organicità classica da una parte, in quanto la prima gli facilitava la figurazione di personaggi eccezionali e magnanimi, e la seconda gli serrava saldamente lo sviluppo dell’azione; la vigoria, la immediatezza, la veemenza dei romantici dall’altra, perché tali doti contribuivano a dare il tono sublime ed aggressivo alla sua tragedia forte.

Quindi l’Alfieri è classico e romantico nello stesso tempo.

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