GIUSEPPE PARINI (1729-1799)
Il Parini, nato nel 1729, svolge la sua attività poetica nella seconda metà del settecento.
La seconda metà del settecento può essere definita età del Riformismo. L’età del Riformismo fa parte di un’epoca che viene denominata “Epoca del rinnovamento europeo”. Di questa epoca sono tre le età o le fasi: illuminazione delle menti – riforma pacifica – rivoluzione violenta. Epoca del rinnovamento: possiamo farla incominciare con la seconda rivoluzione inglese del 1688, quando fu cacciato Giacomo II Stuart e fu instaurata (per la prima volta in Europa) la Monarchia Costituzionale; e possiamo farla terminare con la seconda metà dell’800, quando il movimento liberale, dopo aver subito radicali mutamenti di indirizzo, in fatto di politica internazionale (infatti da cosmopolita che era all’inizio, poi diventò nazionalista), realizzò l’indipendenza di quasi tutte le nazioni europee. Il movimento di rinnovamento include un duplice programma: distacco da un passato che si deplora: restaurazione di un ordine nuovo, che si considera sufficiente a garantire il progresso umano. Per quanto riguarda il proposito di distacco dal passato, il rinnovamento può aver avuto i suoi anticipi nei seguenti fenomeni storici:
a)- l’affermazione della libertà spirituale e il conseguente criticismo, che
svincolarono la mente umana, nel Rinascimento, dalla soggezione alla
autorità e alla fede religiosa;
b)- il distacco del Protestantesimo dalla tradizione cattolica.
c)- il distacco della filosofia rinascimentale dalla tradizione aristotelico-tomista.
d)- il distacco dalla tradizione geografica: infatti in seguito alla scoperta dell’America fu dimostrato praticamente che la terra è rotonda e non piatta; e che i continenti non sono solo tre (Europa-Asia-Africa).
e)- il distacco dalla tradizione cosmografica: infatti in seguito alla ipotesi eliocentrica di Copernico (dimostrata vera da Galilei), cadde la tesi tradizionale del geocentrismo.
f)- il distacco della scienza dalla filosofia (che nella tradizione aristotelica erano congiunte), ad opera di Bacone, il quale parla di una “Restauratio magna ab imis fundamentis” della scienza (“Novum Organum”).
g)- il distacco da tutta la tradizione filosofica per ricominciare da capo ad opera
di Cartesio.
Per quanto riguarda la restaurazione della nuova cultura e della nuova civiltà in generale, si propongono già prima del Rinnovamento, metodi ben precisi da seguire: libero esame (cioè interpretazione personale della Sacra Scrittura) o libertà di coscienza in campo religioso; metodo sperimentale in campo scientifico (metodo induttivo e deduttivo ossia sperimentale e matematico congiunti ad opera di Galilei); metodo deduttivo-matematicoo del ragionamento puro in campo filosofico ad opera di Cartesio.
Nell’epoca del Rinnovamento ritroveremo accentuate e ben coordinate fra loro, in un programma che andrà man mano evolvendosi e arricchendosi, queste due tendenze : avversione al passato -restaurazione della vita umana sulle basi della natura e della ragione.
Il passato (o tradizione) è inteso come un complesso di istituzioni (politiche, sociali, religiose o familiari) e di costumi (privati e pubblici) basati sull’assurdo, sul pregiudizio testardo. La storia non insegna nulla di positivo: può insegnare solo nel senso che, osservando gli errori passati, si intuisce meglio la via razionale da seguire in futuro.
La riforma è basata sulla natura e sulla ragione. La natura (ricordare Rousseau) è considerata come un organismo unitario, infinito, razionale e sano in tutta la sua struttura e in tutte le sue manifestazioni (come dimostrano la fisica, la chimica, l’astronomia, la medicina ecc.) La ragione è considerata come l’occhio cosciente della razionalità universale. L’uomo vero è l’uomo che basa tutta la sua vita sulle esigenze della natura e sul dettato della ragione.
La società perfetta è quella le cui istituzioni politiche, sociali, economiche., religiose, morali, si ispirano alla razionalità.
Prima fase del rinnovamento: Illuminismo.
E’ un movimento che si propone di abbattere la tradizione con tutte le sue irrazionalità e di ricostruire la vita privata e pubblica su basi di razionalità pura.
l movimento è detto Illuminismo perché si propone di diffondere i lumi della ragione per fugare le tenebre dell’irrazionalità, cioè dei costumi crudeli e superstiziosi, dei pregiudizi politici, religiosi, morali ecc.
Si dice che il movimento inizia nel 1688, perché il Locke prendendo spunto dalla rivoluzione di quell’anno, scrisse il “Trattato del governo dello Stato”, in cui gettò le basi di quei principi politici sui quali l’Illuminismo fondò la sua polemica contro la tirannide: sovranità popolare, delega della sovranità al governo da parte del popolo, il governo al servizio del popolo, giustificata la rivoluzione qualora il governo non eserciti bene il mandato popolare.
Al problema politico si aggiunsero ben presto tutti i problemi più importanti della vita umana: quello giuridico, che costituisce la base di quello politico; quello religioso, quello morale, quello economico, quello letterario.
Lo Hume, traendo le estreme conseguenze dell’empirismo, dichiara vana ogni ricerca metafisica e insiste sulla necessità di aderire al dato di fatto, al dettato della scienza.
Lo Smith elabora la teoria de fiosiocratismo, secondo la quale l’economia segue le leggi della natura e quindi non può essere forzata da leggi dello Stato.
In Francia le idee illuministiche furono rielaborate, ampliate, approfondite ed organicamente sistemate dal Rousseau, dal Montesquieau, dal Diderot, dal Voltaire ecc. Spetta ai francesi il merito di aver divulgato in tutta Europa le idee illuministiche in forma chiara, brillante ed accessibile a tutti. La lingua e la cultura francese si affermano in mezzo alla classe colta di tutte le nazioni dell’Europa ed anche in America. Attraverso questa illuminazione generale si prepara la via alle riforme, e, ove queste no n siano attuabili con la ragione, si pongono le premesse della rivoluzione.
Vediamo brevemente quali sono le critiche che si fanno al passato, nei vari settori, e le nuove proposte di ricostruzione razionale in ciascuno di essi.
Campo Giuridico: nel passatosi era pensato che i diritti dei cittadini fossero una benigna concessione da parte del sovrano. Gli illuministi affermano che gli individui ricevono dalla natura stessa il diritto a vivere, a possedere, a pensare liberamente, a professare liberamente il proprio pensiero, ad associarsi, a professare la religione che meglio risponde all’esigenza della coscienza, ad esercitare l’attività economica che vogliono (questa teoria che fa derivare dalla natura i diritti accennati si chiama Giusnaturalismo).
Se i diritti sono stabiliti dalla natura, la legge dello Stato non deve fare altro che ispirarsi ad essi, rispettarli e farli rispettare da tutti. Siccome i diritti naturali sono eguali per tutti, anche la legge statale e positiva, che da essi deriva, è uguale per tutti; se la legge è uguale per tutti sono aboliti i privilegi; se sono aboliti i privilegi, per distinguere un cittadino dall’altro, non resta che il merito personale acquistato facendo del bene in qualche modo alla società.
(Il privilegio consiste nell’immunità da un onere a cui sono sottoposti gli altri; oppure nel godimento di un diritto che non è concesso agli altri).
Campo politico: la sovranità è nel popolo – il popolo la delega al governo – il governo è al servizio del popolo – è lecita la rivoluzione contro il governo che non esercita il mandato popolare a vantaggio del popolo – la migliore forma di organizzazione statale è quella in cui i tre poteri dello Stato (legislativo, esecutivo, giudiziario) sono divisi fra te organi distinti (parlamento per il potere legislativo – consiglio dei ministri per quello esecutivo – magistratura indipendente per quello giudiziario). La monarchia costituzionale, secondo gli illuministi, è un regime accettabile perché attua la divisione dei poteri.
Campo economico: l’illuminismo propugna la libertà di iniziativa nell’industria o nel commercio: la libertà d’iniziativa consiste nel diritto, che ogni uomo ha da natura, di dedicarsi alle attività commerciali o industriali che più gli aggradano, senza dover subire impacci da parte di alcuno. A quei tempi erano in vigore i monopoli dello Stato e quelli delle corporazioni (cioè alcune attività industriali e commerciali erano riservate allo Stato o alle corporazioni di arti e mestieri). I commerci tra Stato e Stato, nell’ambito della stessa nazione, erano impacciati dai dazi e dalle dogane e dalla diversità delle unità di misura.
Campo religioso: l’illuminismo ammette soltanto l’esistenza di Dio; la ragione esige che esista una causa prima del moto dell’universo. Però si tratta di una divinità che, non si occupa del mondo e degli uomini (deismo); le religioni rivelate vengono definite superstizioni.
La religione positiva viene rifiutata perché presuppone un intervento divino nella storia umana e perché è basata sui miracoli, che sono considerati assurdi, perché contrari alle leggi della natura. Di qui la lotta degli illuministi contro il cristianesimo, alcuni di essi furono addirittura atei ad esempio Voltaire che dal Parini è severamente criticato nel “Giorno”).
Campo dei rapporti internazionali: gli uomini sono tutti eguali a qualsiasi razza appartengano, perché tutti sono forniti di ragione. Il genere umano costituisce una unica patria (cosmopolitismo e il filantropismo e umanitarismo deve impegnare le nazioni più evolute ad aiutare quelle che sono rimaste indietro nella civiltà, degne anche esse di attenzione, perché, sotto certi aspetti, sono più sane di noi, in quanto vivono secondo natura (rivalutazione dello stato primitivo inteso come stato di natura).
Campo morale: si accettano soltanto i principi etici dettati dalla ragione:nessuna etica religiosa.
Campo letterario: per gli illuministi l’unica facoltà che può e deve essere utilizzata nella vita, è la ragione: quindi vengono svalutate le facoltà del sentimento, della fantasia e del gusto. Perciò la poesia, la quale è il prodotto soprattutto della fantasia, del sentimento e del gusto, fine decisamente bandita. La letteratura può continuare a vivere a fianco della filosofia e della scienza (le due attività che sono espressione genuina della ragione) a patto che si metta a servizio di esse. Al poeta e al letterato puro si sostituisce ora il pensatore o ideologo; e se il pensatore sa anche parlare e scrivere, è in grado di fare propaganda delle sue idee. Perciò l’illuminismo non bandisce la letteratura, ma la coltiva come mezzo di propaganda dei lumi della ragione: solo esclude la letteratura narrativa e quella lirica, cioè la letteratura che manca di contenuto razionale.
La critica illuministica sostiene che la letteratura deve essere:
a)- interessante e utile nel contenuto;
b)- spigliata, chiara e piacevole nella forma;
c)- moderna e agile nel linguaggio.
L’illuminismo in Italia.
L’Italia nel corso del secolo XVIII, è sotto l’influsso della cultura francese, e quindi anche dell’illuminismo. Tuttavia le nuove idee nel nostro paese furono accolte con moderazione e conciliate saggiamente con la nostra tradizione culturale.
1)- Anzitutto l’illuminismo italiano attenua il contrasto fra la tradizione e il razionalismo radicale propugnato dai francesi. Pur aspirando ad un rinnovamento generale della cultura e del costume civile su basi di concretezza, di naturalezza, di giustizia e di umanità, noi italiani evitiamo la pretesa assurda di ridurre l’uomo ad uno schema razionale e di eliminare dalla vita la funzione del sentimento, della fantasia e dell’arte. Gli italiani si contentano di procedere col “buon senso” e di infondere uno spirito più moderno e più dinamico nella loro tradizione culturale, che costituisce un patrimonio, non solo da ammirare e da conservare, ma anche da arricchire e da rinnovare di continuo.
La storia continua ad essere per noi, non solo una fonte di gloriosi ricordi, ma lo specchio delle nostre possibilità, dei nostri pregi e difetti. Proprio quando l’illuminismo antistoricistico si affermava in Francia, presso di noi il Vico affermava il valore della storia come incarnazione degli attributi e dei modi dello spirito umano nei “corsi e ricorsi”. Secondo il Vico lo sviluppo della storia segue norme ben precise e quindi può essere sistemato in leggi (tale sistemazione razionale e scientifica della storia in leggi era proprio negata dall’illuminismo). All’antistoricismo illuministico in Italia fanno da moderatori il rispetto per la grandezza della nostra tradizione culturale, artistica e politica, e il senso della organicità dello sviluppo storico.
2)- L’illuminismo italiano non assunse mai atteggiamenti antireligiosi. La polemica di certi nostri scrittori (come il Giannone, autore della “Storia civile del reame di Napoli”) contro i privilegi ecclesiastici non decadde mai nell’antireligione del Voltaire e di certi enciclopedisti francesi.
3)- L’illuminismo italiano non rinnegò mai il valore della patria in nome del cosmopolitismo predicato dai francesi. Per tutti i nostri scrittori individuare i difetti della nostra nazione e propugnare riforme sul modello di altri Stati non significava umiliare la patria, ma renderla degna di competere con i popoli più progrediti.
4)- L’illuminismo italiano non riduce la letteratura alla semplice funzione di far propaganda delle nuove idee politiche, sociali, economiche, morali, religiose, ispirandosi al puro dettato della ragione.
I nostri critici si contentano di esigere che la letteratura sia utile, cioè dica cose sostanziose, e soprattutto che riesca a persuadere. Qualunque argomento, anche se non è strettamente razionale, è valido purché persuada; il sentimento e la fantasia non debbono essere esclusi dal mondo della letteratura, a patto che lo scrittore si valga di queste facoltà per inculcare nel lettore idee utili.
La nostra letteratura illuministica si varrà soprattutto del trattato, del teatro, del poemetto didascalico e della lirica didascalica, cioè utilizzerà soprattutto i generi letterari adatti a diffondere le idee e a riformare gli spiriti. I maggiori centri della letteratura illuministica furono Napoli e Milano.
Gli illuministi meridionali si dedicano alla soluzione di problemi economici (Genovesi), finanziari (Galiani), giuridici (Filangeri), seguendo in prevalenza un indirizzo teoretico.
Gli illuministi del Nord (dove si sta formando la classe borghese e l’Austria sa governare meglio), si dedicano di più alla riforma pratica nel campo economico (Verri), giuridico (Beccaria)letterario (Verri, Baretti, Carlo Gozzi e Gaspare Gozzi, sociale, morale e politico (Goldoni, Parini, Alfieri).
Il trattato: deve esse agile, spigliato, interessante per il contenuto e piacevole per la forma. Il nostro trattato del ‘500 (Baldassar Castiglione: “Il cortigiano” – Machiavelli: “Il principe” – “I discorsi sulla prima deca di Tito Livio”) era condotto con stile architettato alla latina, cioè con un periodo che era costituito da numerose preposizione secondarie, con il verbo principale alla fine. Il trattato illuministico ha la spigliatezza e l’agilità del trattato francese, sul tipo del “Contratto sociale” del Rousseau e dello “Spirito delle leggi” di Montesquieau: un periodare breve con la preferenza per il sistema coordinativo, ad andatura spezzata e veemente, sul tipo di un discorso familiare, fatto con tono vivace ed aggressivo.
Siccome nella trattazione degli argomenti, in genere lo scrittore illuminista indugiava sulla critica delle posizioni opposte a quella che egli difendeva, il trattato aveva un tono polemico quasi costante e quindi piaceva ai lettori; mentre la parte propositiva o costruttiva , dovendo essere svolta in forma espositiva, la riducevano a ben poco.
Per rendere più attraente e più accessibile l’esposizione di u n argomento di inventa il
periodico , che è una forma di trattato svolto in una serie di articoli: articoli vivaci, chiari, accessibili a tutti. Da ricordare in Italia il periodico della “Accademia dei Pugni” di Milano, intitolato “Il caffè”. In esso scrivevano i fratelli Pietro ed Alessandro Verri, Beccaria ecc. Da ricordare inoltre il periodico del baretti intitolato “La frusta letteraria”, nella quale l’autore, con lo pseudonimo di Aristarco Scannabue, frusta tutta la letteratura inutile.
Un altro modo di trattare gli argomenti utili è l’Epistolario. L’autore immagina di scrivere lettere a confidenti, ed espone in esse i suoi pensieri sui più svariati argomenti. In Francia usò questo metodo il Montesquieau (autore delle “Lettere Persiane”). In Italia lo adottarono il Baretti (autore delle “Lettere famigliari ai fratellini”), l’Algarotti (autore delle “Lettere sulla Russia”) e Bettinelli (autore dlle “Lettere virgiliane”).
In conclusione: trattato vero e proprio – trattato in forma di periodico – trattato in forma di epistolario.
Nel complesso sono trattati che si leggono volentieri, perché sono abbastanza spigliati, specie i periodici e gli epistolari; ma hanno quasi tutti il difetto della superficialità
Dal punto di vista della lingua, gli illuministi sono avversi al vocabolario della Crusca (cioè a quel vocabolario che era stato compilato alla fine del ‘500 dall’Accademia della Crusca sulla base del principio affermato da Pietro Bembo: “La lingua italiana è quella degli autori toscani del ‘300, particolarmente di Petrarca e di Boccaccio”. La lingua della Crusca era dunque la lingua del ‘300, cioè antiquata; mentre gli illuministi per la loro letteratura di propaganda avevano bisogno di una lingua viva. Perciò essi adottarono la lingua parlata dalle persone istruite d’Italia “dalle Alpi alla Sicilia” ( come si dice all’inizio del “Caffè”). Melchiorre Cesarotti scrisse un “Saggio sulla filosofia delle lingue” in cui difendeva questa tesi: la lingua è un mezzo convenzionale per esprimere il pensiero –
il pensiero è in continua evoluzione – dunque anche la lingua è in evoluzione – perciò è un assurdo adottare la lingua del ‘300 – perciò bisogna adottare la lingua delle persone colte contemporanee, utilizzando vocaboli presi anche dalle lingue straniere, o creandone di nuovi sul modello di quelli già esistenti, qualora nella lingua nostra non si trovino i mezzi necessari per l’espressione. Così gli illuministi italiani introdussero nel loro linguaggio il periodare francese e svariati termini francesi.
Contro gli illuministi reagirono i soci dell’Accademia dei Granelleschi di Venezia, i quali difesero strenuamente il vocabolario della Crusca (a capo di essi c’era Carlo Gozzi).
Tenne una via di messo, tra i demolitori e i sostenitori della Crusca l’Accademia milanese dei Trasformati, di cui era socio anche il Parini: essa sosteneva che la lingua italiana è sostanzialmente quella della Crusca, ma era necessario sostituire certi vocaboli desunti dagli autori toscani del ‘300.
Il teatro: Il secolo XVIII è senza dubbio il più glorioso per il nostro teatro, in quanto contra tre grandi autori: Metastasio nel melodramma, Goldoni nella commedia e Alfieri nella tragedia. Si spiega facilmente il fiorire del teatro per due motivi: anzitutto perché i nobili a quei tempi avevano come svago serale il teatro; in secondo luogo perché in età illuministica e riformistica il teatro era il mezzo più efficace di propaganda delle idee, in quanto il teatro adotta il metodo intuitivo che è accessibile a tutti.
Il melodramma del Metastasio lineare, organico, semplice, capace di interessare il pubblico, fu considerato dai critici illuministi come l’esemplare perfetto dell’arte razionale. Secondo la critica illuministica, infatti, poeta sommo è quello che sa persuadere o convincendo l’intelletto o commuovendo il cuore. Il Barotti, pur lottando contro la letteratura inutile e fanciullesca dell’Arcadia, a cui apparteneva il Metastasio, ammirava di questi la capacità di interessare gli spettatori attraverso le situazioni commoventi, le intuizioni psicologiche e lo stile chiaro e persuasivo.
Il Goldoni, attraverso la sua commedia, contribuì alla riforma illuministica della società italiana, nel senso che si preoccupò costantemente di inculcare nel pubblico quella forma elementare di razionalità che si chiama “buon senso”. Il modello da lui costantemente seguito fu la “Natura “, cioè la psicologia umana e le situazioni della vita, come realmente sono in natura. Piacque agli illuministi proprio per questa aderenza alla razionalità elementare.
L’Alfieri, attraverso la tragedia, contribuì alla riforma politica del popolo italiano, nel senso che inculcò in esso l’odio alla tirannide e gli comunicò la passione della libertà.
La sua tragedia piacque agli illuministi , oltre che per la sua ispirazione politica, anche per la forza e per la sua efficacia persuasiva.
Il poemetto didascalico: il più famoso è quello del Parini, il quale ha rivolto a funzione didascalica anche la lirica (da ricordare le sue 19 odi).
Concetto della storia.
Una osservazione dobbiamo fare circa il concetto che gli illuministi ebbero della storia.
Distinguono tra storia e storiografia.
La storia intesa come il complesso delle istituzioni politiche, sociali, economiche, religiose ecc., dell’umanità passata, per gli illuministi non ha alcun valore, essendo tutte un ammasso di irrazionalità e di pregiudizi. La storia intesa come ”sviluppo della vita umana nel tempo” non è riducibile a scienza, perché essa non si svolge secondo una logica razionale, ma procede caoticamente.
Se non è razionalizzabile e quindi non è riducibile a scienza, la storia non merita alcuna attenzione.
La storiografia (specie in Italia) è molto curata dall’illuminismo, perché gli scrittori vogliono rievocare istituzioni e fatti del passato per dimostrare che fino ai loro tempi tutto era sbagliato nella vita privata e pubblica. Si tratta di una storia polemica.
Conclusione sull’illuminismo.
L’illuminismo ebbe il merito di richiamare l’umanità ad una vita più razionale, più fattiva e più costruttiva. Ebbe il demerito di bandire tutto ciò che non poteva giustificarsi con la ragione (i sentimenti, la tradizione, la fantasia, la fede religiosa, il sentimento patriottico). Ebbe anche il demerito di svalutare tutto il passato in blocco, con la pretesa di criticare tutto, e, nello stesso tempo si dimostrò assai incerto nel delineare le forme della vita futura dell’umanità: bravo nel demolire, poco bravo nel costruire.
L’educazione illuministica.
L’umanità nuova, sognata dall’illuminismo, doveva essere fondata sulle basi della natura e della ragione, anzi si potrebbe dire della natura soltanto. Infatti la natura in questo tempo viene intesa in tre sensi: come ragione evoluta e colta (illuminismo in genere) – come impulso sicuro e sano (Rousseau) – come buon senso (Goldoni e Parini).
Perché mai questo ritorno alla natura ? La risposta è facile se si pensa che giunta agli inizi del secolo XVIII la tradizione europea trascinava con sé una infinità di artifici irrazionali. Che il Re e la sua dinastia fossero i padroni della nazione era un pregiudizio contro il dettato naturale della ragione; che la vita degli individui fosse legata da una infinità di controlli ingiustificati, era ugualmente contrario alla ragione; che autorità esterne avessero il diritto di imporre la fede religiosa con la minaccia, era contro ragione; che il poeta dovesse sottostare alle regole dei retori e sacrificare ad esse la libertà del suo genio, era contro ragione; che nella società alcune classi godessero dei privilegi (non pagar tasse, essere esenti dal servizio militare, avere accesso alle cariche pubbliche), era contro natura la quale fa gli uomini tutti uguali nei diritti. Innaturali erano i costumi particolarmente della nobiltà; innaturali i procedimenti che si adottavano nella istruttoria penale (ad esempio la tortura, contro la quale protestò il Beccaria nel trattato “Dei delitti e delle pene”); innaturali i sistemi in uso nell’avviare i figli e le figlie alla professione, in quanto si stabilivano le professioni e i matrimoni prescindendo dalla inclinazione degli interessati.
Di fronte a questo complesso di storture e di pregiudizi evidentissimi nel mondo sociale, le persone colte vedevano nel campo della natura fisica una perfetta razionalità.
La scienza metteva in evidenza che la natura è tutto un mirabile complesso di rapporti razionali: l’irrazionalità si trovava solo nel settore della vita umana. Eppure gli uomini non sono altro che forme della natura anch’essi: vuol dire che, se la natura negli uomini non opera razionalmente, la colpa non è sua, ma è dell’uomo stesso. Di qui la necessità di ritornare alla natura per rettificare la vita umana. Ritornare alla natura significa ritornare alla razionalità.
Gli illuministi attaccano battaglia contro tutti i pregiudizi e le istituzioni ingiuste proprio per rivendicare la dignità della natura umana.
Conseguenze del naturalismo.
a)- Ponendo la natura come forza razionale che opera nell’intimo, gli illuministi,
anzitutto, vengono a garantire l’autonomia dello spirito umano.
Se la natura, ossia l’impulso o il buon senso o la ragione, che dirige dall’intimo la vita degli individui e dei popoli, consegue che individui e popoli possono fare a meno della legge esterna: ognuno dà legge a sé stesso in base al dettato della sua natura.
In campo politico è il popolo che detta legge a sé stesso (democrazia); in campo pedagogico è la natura che educa (naturalismo pedagogico del Rousseau); in campo religioso è la coscienza o ragione che detta la religione (religione naturale o deismo); in campo morale la legge è dettata dalla coscienza (imperativo categorico di Kant); in campo letterario lo scrittore non accetta più le norme dei retori, ma segue il dettato del suo genio (uguale libertà del genio esaltata più tardi dai Romantici).
b)- Intonazione più libera, più sincera, più genuina di tutte le attività della vita.
c)- Senso progressista in tutti i settori, in quanto la natura è concepita come energia creatrice che non si arresta mai e procede sempre lungo i binari della razionalità.
d)- Riformismo, cioè svecchiamento delle istituzioni politiche, religiose, sociali, economiche, per liberarla dalla irrazionalità e impostarle su basi nuove e razionali.
Il Riformismo costituisce un movimento che accompagna la propaganda illuministica in Europa. Nel campo politico sono da ricordare in Italia il Du Tillot, ministro riformista del Ducato di Parma e Piacenza; Il Tanucci, ministro riformatore a Napoli; Pombal ministro riformatore in Portogallo; Kaunitz in Austria; l’imperatore Giuseppe II pure austriaco; Federico II di Prussia; Caterina II di Russia.
Tra gli scrittori propugnarono riforme quelli della scuola napoletana (ad esempio il Genovesi che propugna la libertà di commercio; il Galiani che propugna la riforma monetaria; il Filangeri che propugna le riforme giuridiche; a Milano il Beccaria propugna la riforma del diritto penale, con l’abolizione della tortura nell’istruttoria e della pena di morte; il Giannone, napoletano, propugna riforme nei rapporti tra Chiesa e Stato sulle attività interne della Chiesa).
Si tratta di riforme non decisive, condotte senza un criterio organico, ma che dimostrano l’ansia di svecchiare, di razionalizzare, che è comune a scrittori ed uomini politici in questo secolo.
Particolarmente in Italia il Riformismo andò in rilento a causa della suddivisione politica della penisola: in Lombardia il riformismo fu assai attivo ad opera di Maria Teresa e del figlio Giuseppe II, qualcosa si fece in Toscana (governata dalla dinastia tedesca dei Lorena); qualcosa si fece a Napoli ad opera del Tanucci; quasi nulla si fece in Piemonte e nello Stato Pontificio.
Le riforme in Italia incominciarono un secolo più tardi e precisamente nel 1848, quando saranno concesse le costituzioni e si instaureranno regimi democratici.
Un certo impulso alle riforme, prima del 1848, lo diede la rivoluzione francese, quando l’Italia fu occupata dal Bonaparte e rimase sotto di lui dal 1796 al 1814.
Le riforme stabili furono quelle compiute, magari a rilento, dal 848 in poi: per giungere a questa data che rappresenta l’inizio della riscossa generale dell’Italia, debbono passare cento anni di vicende più o meno dolorose, e soprattutto deve realizzarsi quella formazione spirituale degli italiani che rappresenta la base della rinascita politica ed economica.
Il nostro Risorgimento, prima che iniziativa rivoluzionaria contro l’assolutismo, prima che guerra contro l’Austria, fu rinascita spirituale: se non ci fosse stata questa, non ci sarebbero state neanche le rivoluzioni dei liberali e dei mazziniani, né vi sarebbero state le guerre di indipendenza.
Alla rinascita spirituale del popolo italiano, contribuì la rinascita degli intellettuali e delle classi elevate; alla rinascita degli intellettuali e delle classi elevate contribuirono il movimento illuminista, il Goldoni, il Parini, l’Alfieri, il Foscolo, il Manzoni e tutti gli scrittori romantici in generale.
Per cui, si può giustamente affermare, che il nostro Risorgimento abbia avuto origine alla metà del ‘700 on le opere degli illuministi che propugnarono riforme, con l’opera del Goldoni che combatté l’irrazionalità difendendo il buon senso; con il Parini che combatté la vita inutile e scandalosa egli aristocratici, per ridurre questa classe a forme di vita più serie, più utili; con l’Alfieri che combatté la tirannide, diffondendo l’ideale della libertà e il senso della dignità politica dell’individuo.
Spetterà al Foscolo inculcare nei giovani il senso eroico e al Manzoni il senso religioso della vita.
La riforma del Parini.
La riforma che il Parini condusse costantemente attraverso “Il Giorno” e le sue 19 odi, è di carattere morale e civile. Egli comprese che nessuna riforma pubblica è efficace se i singoli cittadini non sono capaci di vivere secondo i principi di una morale seria e attiva: è l’intimo dell’uomo quello che conta: “dall’alma origin solo han le lodevol’opre” (da “L’educazione”).
Il suo proposito è quello di “render saggi e buoni i cittadini suoi” (lettera a De Martini); perché è convinto che il “buon cittadino al segno cui natura e i primi casi ordinar, lo ingegno guida così, che lui la patria estimi” (“La caduta”).
Vediamo ora l”ambiente in cui si trova a vivere il Parini e in cui egli svolge la sua attività di educatore. La società italiana del secolo XVIII è divisa in due classi soltanto: la nobiltà e la plebe. Poco consistente è la classe intermedia della borghesia, che generalmente in ogni nazione e in ogni tempo, ha avuto il merito di promuovere le attività economiche in grande stile e di contribuire all’arricchimento della nazione.
La plebe è costituita da:
a)- da una massa immensa di contadini che, da quanto appare nel “Giorno”, sono disonestamente sfruttati dai padroni avari, che vogliono accumulare denaro, per comprare poi titoli nobiliari, e scialacquare, in mezzo ai lussi stolti della vita aristocratica, le ricchezze accumulate.
b)- da artigiani che vivono più o meno miseramente, alle prese con i clienti
aristocratici, che non pagano mai. I prodotti dell’agricoltura e dell’artigianato
italiano sono disprezzati, poiché la classe che consuma molto, cioè quella
aristocratica, preferisce i prodotti con l’etichetta straniera.
Al tempo dei Comuni le famiglie aristocratiche avevano esercitato cariche pubbliche e attività economiche; nel Rinascimento avevano protetto artisti e letterati. Quando, alla metà del ‘500, si instaurò, in quasi tutta la penisola, l’assolutismo dei principi e l’Italia decadde economicamente (perché con l’occupazione dell’impero bizantino e di tutto il Mediterraneo centro-orientale cessò il commercio in questo mare) mentre si affermavano le potenze colonialiste: Inghilterra, Francia, Olanda, Portogallo, Spagna, le famiglie aristocratiche italiane decaddero dal punto di vista politico ed economico: si ridussero a vivere vita privata, a coltivare le glorie di famiglie con vane ostentazioni di fasto e a difenderle con litigi spesso sanguinosi, che funestarono la vita della nostra aristocrazia delle nostre città e campagne.
Tutto questo nel corso del ‘600 (ricordare la vita della nobiltà lombarda del ‘600 rappresentata nei Promessi Sposi). Nel ‘700 l’Italia è sotto l’influsso della Francia (come nel ‘600 era stata sotto l’influsso della Spagna orgogliosa, fastosa e vuota di spirito). In Francia durante il regno di Luigi XIV (1661-1715) la nobiltà realizzò una svolta decisiva nel corso della sua storia. Essa aveva prima sempre lottato contro la monarchia: ora invece accettò l’invito di Luigi XIV di trasferirsi nella sua reggia di Versailles.
Qui i nobili francesi ebbero incarichi e stipendi. E siccome molti nobili erano inesperti della vita raffinata della corte, alcune famiglie aristocratiche più in vista aprirono i cosiddetti salotti, ossia circoli culturali e mondani, nei quali si adunava l’aristocrazia emigrata a Parigi, per apprendere nozioni di cultura varia, esposte da bravissimi conferenzieri, in forma semplice e vivace. Questi salotti andarono moltiplicandosi e nel ‘700 furono frequentati dagli esponenti più illustri dell’illuminismo e dagli stessi enciclopedisti, che ne organizzarono di propri. In questi salotti, allorché penetrarono le idee illuministiche, si insegnavano anche teorie spregiudicate in fatto di religione, di morale e di politica. Non bisogna dimenticare che alcuni esponenti della nobiltà francese erano imbevuti di idee rivoluzionarie ed atee; e che alcuni di essi furono anche scrittori famosi: Montesquieau era barone, Condorcet era marchese, il D’Holbach era barone. La vita della nobiltà, a Parigi, era diventata una gara di finezza e di eleganza: ci si allontanava sempre più dalla natura e ci si inoltrava sempre più nell’artificio, quasi che i nobili, che un tempo erano vissuti nelle campagne, sentissero il bisogno di fuggire il più lontano possibile dalla vita naturale, considerata come arretrata e meschina.
In Italia, in cui non era ormai possibile alcuna iniziativa perché i principati erano in decadenza e la classe aristocratica era abituata alla passività, l’influsso francese fu soverchiante; i nostri nobili imitarono i costumi immorali (tra cui il cicisbeismo), la mania di fuggire lontano dalla natura, la mania dell’artificio, la mania del lusso e della moda, la mania dell’esotico, l’ostentazione di una cultura enciclopedica senza alcuna consistenza. Anche presso di noi si istituirono salotti, se tali possono essere chiamati i circoli dell’Arcadia i cui soci erano in maggioranza aristocratici, trasformati in pastori e pastorelle. In tali circoli si coltivava una poesia fatta di complimenti e di tenerezze, tutta leziosità e falsa eleganza. Sia in Francia che in Italia vige il pregiudizio che la sensibilità (in Francia detta “sensiblerie”), cioè la capacità di commuoversi è indizio di nobiltà d’animo: chi si commuove di più rivela maggiore finezza, è più nobile. Di qui la tendenza del sesso femminile aristocratico alla commozione e la tendenza dei poeti arcadici ad intenerire i lettori. La nobiltà del ‘700 viene man mano distaccandosi dalla natura e dalla vita comune dei mortali, persuasa com’è che per essere nobili e per dimostrare di esserlo, è necessario sostituire alle esigenze della natura comune e ai modi comuni di vivere, qualcosa di più fine, di più degno della classe che è superiore a tutte le altre.
Mentalità e vita della nobiltà.
Il pregiudizio centrale, che costituisce il fondamento di tutti gli artifici e di tutte le irrazionalità della vita dei nobili, è la persuasione che essi hanno, di avere una natura superiore a quella comune. In forza del sangue aristocratico essi credono di appartenere ad una classe che il Parini definirà dei “semidei terreni”. Il sangue nobile comporta capacità ed esigenze ignote al volgo. Il sangue nobile impone il distacco dall’umanità comune, incarnata nella plebe.
Vediamo quali sono i pregi che la nobiltà di sangue comporta:
a)- La nobiltà di sangue comporta una intelligenza superiore, per cui i nobili non hanno bisogno di studiare. Ad essi basta una saltuaria e superficiale applicazione per apprendere una infinità di cose e saper parlare di tutto con competenza. Basta ricordare gli studi del giovin Signore: il tempo della toilette è anche tempo dello studio, i libri che egli legge sono quelli più licenziosi dei francesi (“La pulcelle d’Orleans” di Voltaire, “Le lettere” di Ninon de Lenclos famosa amante di uomini illustri del secolo XVIII in Francia. “I racconti” di La Fontaine). Per apprendere la lingua francese riceve il maestro quando ancora è a letto: apprende qualche frase di cui poi farà sfoggio nel bel mondo durante il giorno.
Gli uomini comuni parlano la lingua nazionale, il nobile che non può essere pari agli uomini comuni preferisce libri e lingua esotica. Durante il pranzo i nobili fanno sfoggio della loro cultura: parlano di tutto, a che se non si intendono di nulla. Il pranzo è il momento meno adatta per parlare dei grandi problemi, eppure i nobili fanno sfoggio di cultura proprio durante il pranzo. Il Parini con tristezza fa notare che si permettono di parlare durante il pranzo anche di argomenti religiosi e di fare sfoggio di empietà: si danno le arie di liberi pensatori, quando, di fatto, sono incapaci di pensare.
E’ opportuno ricordare, a proposito della boria intellettuale dei nobili, la satira sull’educazione dell’Alfieri. Fa parlare un conte con un prete a cui egli offre l’incarico di educare i figli. Per costringere il maestro ad accettare l’incarico ad un prezzo molto basso, il conte gli fa vedere che in fondo il suo compito non è molto difficile, perché il primogenito è di “eloquenza naturale un fiume”, in quanto ha ereditato il fior fiore del sangue paterno e materno. Una certa difficoltà, dice il conte, può presentarla l’educazione dei figli minori, in quanto non hanno preso dai genitori tutta la ricchezza del sangue nobiliare: tuttavia anche il compito di educare i minori è facile, dice il conte, perché il latino deve essere messo da parte, e l’istruzione deve servire soltanto a ché i ragazzi sappiano “di tutto un po’” (in armonia con quella cultura enciclopedica ad infarinatura in uso nel salotto francese e che più o meno fu un difetto anche dell’illuminismo francese).
Più o meno questa era l’educazione di tutti i nobili italiani, salvo qualche lodevole eccezione(ad esempio il Parini fu l’educatore di due bravi giovani nobili: Carlo Imbonati e Febo D’Adda: il primo cantato nell’ode “L‘educazione”: il secondo nell’ode “Alla Musa” come cantore di poesia). Nel complesso dunque ci troviamo di fronte ad una nobiltà che è estremamente ignorante, ma anche estremamente presuntuosa e capace di coprire la sua miseria mentale con saccenteria e l’improntitudine.
b)- In forza del sangue la nobiltà crede di saper far tutto. Nello stesso tempo, però, i nobili, desiderosi di distinguersi dagli uomini comuni, si guardano bene dall’esercitare le attività utili per la vita: non amministrano i loro beni – non si dedicano alle cariche pubbliche – non si dedicano agli studi ed alle arti – il lavoro, di qualsiasi specie, è per il volgo e per le bestie. Essi sanno esercitare una sola professione: quella di cavalieri serventi viziosi e ipocriti. Tuttavia essi si arrogano il diritto di discutere di arte, di economia, di letteratura, di filosofia.
c)- In forza del sangue nobile gli aristocratici credono di aver superato gli istinti della comune natura. Ecco gli istinti che essi credono di aver superato: l’istinto sessuale che si conclude con il matrimonio: sposare significa accoppiarsi come si accoppiano le bestie; e perciò sposano soltanto i plebei. Per gli aristocratici il matrimonio è solo un mezzo per garantire la continuità del casato e un erede al patrimonio familiare. Il matrimonio, come unione di animi e fonte di alti ideali domestici, è ignoto. Essi sono convinti che il matrimonio spegne l’amore, e con l’amore bandisce quel complesso di avventure galanti che rendono gaia la loro vita, tetra e viziosa. E’ permesso amoreggiare liberamente: il cicisbeismo è un vero e proprio istituto della vita nobiliare. Il cavalier servente era scelto dalla donna e dal marito di lei. Tra il cavalier servente e la dama i rapporti erano decisamente equivoci: del resto i mariti erano contenti di questo istituto, perché anche essi potevano fare da cavalieri.
Il secondo istinto che i nobili credono di aver superato è quello dell’appetito: essi non mangiano perché hanno fame, ma solo per piacere, avendo ricevuto da natura un apparato gustativo ipersensibile. Per i plebei bastano i cibi comuni, che saziano la fame; per i nobili sono necessari cibi prelibatissimi, ghiottonerie a raffinatezze esotiche. Un altro istinto è quello della pietà per i simili: i plebei sentono questa pietà; ma gli aristocratici, che hanno superato la comune natura e sono forniti di “sensiblerie” ipersensibile, non sentono più pietà per gli uomini, ma sentono pietà per le bestie.
Gli uomini comuni amano i figli , hanno simpatia per i bambini; gli aristocratici escludono dal loro mondo i piccoli e considerano noioso e volgare che nelle conversazione si permette di parlare di essi. I figli sono affidati alle cure di educatori estranei; crescono senza veri affetti, vengono educati ai pregiudizi della casta aristocratica e alle irrazionalità che in essa dominano.
Un altro istinto che essi credono di aver superato è il criterio naturale di valutazione delle cose buone e pregevoli. Il nobile del ‘700 è infatuato delle novità dell’esotismo. Il suo gusto ha superato la mentalità comune, e per apparire raffinato e buon intenditore di finezze, egli disprezza i prodotti della sua terra e dell’artigianato locale; ed esalta con fanatico entusiasmo i prodotti stranieri. Il tutto per non apparire simile agli altri mortali.
Infine, i nobili credono di aver superato perfino l’azione distruttrice che il tempo e la natura compiono sull’organismo umano, senza alcuna pietà e distinzione. Le ciprie, i cosmetici, le parrucche ecc. sono i mezzi inventati dall’arte per garantire ai nobili perpetua giovinezza.
Conclusione
Da quanto si è detto risulta che la nobiltà italiana del secolo XVIII, sull’esempio di quella francese, si propone di allontanarsi il più possibile dalla natura, per distinguersi dagli uomini comuni. Allontanarsi dalla natura significa corrompere e falsare la vita, in quanto le energie naturali sono sane, e qualsiasi surrogato di esse non può avere la sanità. A confermare la nobiltà in questa vita innaturale, venivano i governi stessi, i quali, per non avere i nobili all’opposizione, avevano loro concesso dei privilegi: non pagavano le tasse, non facevano il servizio militare, avevano cariche onorifiche.
Criteri della riforma pariniana.
Il Parini si propone di riportare la nobiltà italiana a vivere secondo natura e secondo ragione. Infatti solo la vita ispirata al dettato della natura e della ragione, è utile agli individui e alla società. Il Parini sapeva che in certe nazione d’Europa i nobili erano più attivi di quelli italiani: i nobili inglesi, ad esempio, prendevano parte alla vita politica della Camera dei Lords; in Olanda si dedicavano ad attività commerciali; in Prussia si dedicavano ad attività militari; nell’impero asburgico le grandi cariche erano esercitate da nobili molto intelligenti e attivi.
In Italia i nobili marciscono nell’ozio, chiusi nei loro ambienti fisicamente e moralmente viziati; reputano indegne di un aristocratico le attività utili; il popolo non ha né denaro, né istruzione, né libertà per dedicarsi ad attività utili. Nell’ode “La salubrità dell’aria” il Parini accenna ad un triste fenomeno generale nella società milanese: una stolta inerzia dei privati nei confronti delle leggi igieniche, favorisce il sudiciume personale e pubblico e le conseguenti epidemie. Fra gli Stati italiani la Lombardia era senza dubbio la meglio governata al tempo del Parini, perché l’Austria di Maria Teresa e di Giuseppe II si era proposta di attuare utili riforme; tuttavia il popolo lombardo (sia la plebe che l’aristocrazia) è una massa pigra e tarda a rispondere. Negli altri Stati italiani le cose andavano ancora peggio.
Il Parini vede la assoluta necessità di scuotere l’aristocrazia italiana, in modo che abbandoni i suoi pregiudizi e le sue forme di vita inutili e innaturali, per dedicarsi finalmente ad attività utili.
Vediamo ora la base sulla quale il Parini vuole ricostruire la vita della nobiltà italiana. L’abbiamo già accennata: la natura e la ragione. La natura e la ragione, senza essere nel Parini divinizzate, sono tuttavia da lui considerate come due ottime guide degli uomini, perché sono sane e illuminate.
Vediamo ora che cosa il Parini intende per natura:
a)- i bisogni e gli istinti naturali della specie umana;
b)- le inclinazioni naturali degli individui;
c)- le doti dell’intelligenza e del buon gusto, il dono della salute e della vigoria del corpo; lo spettacolo della bellezza umana e del mondo fisico, i prodotti sani e gradevoli della terra.
Il pregio della natura è la sanità; il beneficio che essa dona ai suoi cultori è quello della sanità fisica e morale. Nell’ode “Il messaggio” il Parini parla dei “liberi doni” della natura di cui il suo genio personale gli ha dato di godere nella vita. Chiama i doni di natura “liberi” sia nel senso che la natura li offre liberamente, sia soprattutto nel senso che sono doni genuini (libero = immune da artifici e falsificazioni).
Vivere secondo natura significa, dunque, seguire le proprie aspirazioni, le proprie inclinazioni, in modo da rendersi utili a sé e agli altri; significa godere moderatamente dei doni della natura; significa vivere a contatto con la natura fisica che è fonte di sanità fisica e morale.
Vediamo che cosa il Parini intende per ragione.
Il Parini non fu filosofo e per di più visse in un’epoca in cui la filosofia, divulgata dagli illuministi, , era comune a tutti ed aveva perduto di profondità e di serietà: si trattava di una filosofia facile, spregiudicata e spericolata. Perciò il Parini si contentò si seguire il dettato della ragione, intesa come “buon senso” e mantenne fede ai valori della nostra tradizione umanistica e cristiana.
La ragione del Parini non assunse pose orgogliose, non si autodivinizza, ma è modesta, senza complicatezze, anche se intransigente: capace di vedere dove è il giusto e l’ingiusto, il merito e il demerito, l’utile e il dannoso, il decoroso e l’indecoroso.
La natura (cioè le risorse psicologiche innate nell’individuo), costituisce il materiale su cui lavora la ragione. Nell’ode “L’educazione” il Parini afferma “perché sì ardenti affetti nel cuore il ciel ti pose ? Questi a ragion connetti e tu vedrai gran cose: e quindi l’alta rettrice somma virtude alice”. Il senso di questi versi è il seguente: il poeta si sta rivolgendo al giovinetto Carlo Imbonati e gli riferisce i precetti che il Centauro Chirone dava al suo discepolo Achille; Chirone diceva ad Achille così: perché il cielo ti ha posto nel cuore sentimenti e impulsi così vivaci ? Affida questi impulsi alla ragione e otterrai grandi vantaggi: l’alta rettrice, cioè la ragione trae fuori la virtù da qui (quindi), cioè da questi impulsi sani della natura.
Secondo il Parini, dunque, la natura è sana di costituzione, però non è illuminata ed è grezza; perciò ha bisogno di essere guidata dalla ragione e ingentilita dall’arte. Per questo motivo, egli si distacca dal naturalismo primitivo del Rousseau e si avvicina all’illuminismo, in quanto affida le risorse della natura alla ragione; ma nello stesso tempo supera anche l’illuminismo, in quanto tempera la freddezza e la nudità del razionalismo con l’eleganza sobria e decorosa del gusto classico, che costituisce la nota dominante della sua spiritualità Il Parini, infatti, si è formato allo studio dei classici, specialmente di Virgilio e di Orazio, dei quali ha assimilato il naturalismo sano, sereno e decoroso. Se volessimo trovare nel mondo latino un poeta che gli somigli di più, dovremmo accostarlo senz’altro ad Orazio, la cui “aurea mediocritas” (= aureo giusto mezzo) e la cui onestà naturale egli riproduce nel carattere e nella vita.
Dal poeta latino lo differenziano soltanto un maggiore impegno morale ed un sentimento umano più profondo e più appassionato.
La virtù, dunque, per il Parini consiste nel seguire la natura secondo il dettato della ragione e del buon gusto.
Le virtù più care al Parini sono le seguenti:
a)- la sincerità, la schiettezza che consiste nella genuinità del pensiero, del sentimento, della parola e della azione.
b)- la rettitudine che non viene mai meno per nessun motivo. Nell’ode “La caduta” il Parini al cittadino che gli ha consigliato di adulare i potenti e di scrivere oscenità per divertirli, affinché possa anche egli guadagnare denaro e avere una certa agiatezza, risponde che buon cittadino è colui che sa utilizzare le proprie inclinazioni naturali a vantaggio proprio e a beneficio della società in cui vive, e giammai abdica alla sua dignità morale né per ambizione, né per bisogno: non s’alza per orgoglio, né si abbassa per duolo.
c)- la moderazione che consiste nell’uso sobrio e decoroso dei beni di natura (la
moderazione è esaltata particolarmente all’inizio dell’ode “Alla Musa”).
d)- culto e amore di tutto ciò che nella vita è bello, gentile, decoroso e utile (concetto espresso nell’ode “Il messaggio”. Fervore per ogni forma di progresso (l’ode “Per l’innesto del vaiolo” e “La salubrità dell’aria”).
e)- il senso di umanità, di comprensione per tutti gli uomini (l’ode “Il bisogno”) e lo spirito di generosità.
f)- il senso della responsabilità individuale e sociale.
g)- il senso religioso inteso come culto intimo della divinità. “Nell’alma è d’uopo alzare Achille, il primo altare” (da “L’educazione”).
h)- simpatia e favore per ogni forma di progresso umano (ode “Innesto del vaiolo”).
i)- amore al lavoro svolto con intelligenza e buon gusto.
Fattori della formazione spirituale del Parini
1)- la nascita in campagna che lo avviò al culto di tutto ciò che è semplice e sano, alla austerità, alla simpatia per gli umili e per le loro attività, al culto del lavoro, al senso dell’utile.
2)- la formazione ecclesiastica la quale sebbene non abbia generato in lui una spiritualità soprannaturale vera e propria, tuttavia lo ha confermato nelle virtù della morale naturale (che sono quelle poco fa accennate).
3)- Il contatto con il mondo aristocratico. Il Parini fu educatore in casa Serbelloni. L’abate-precettore era una figura tipica della famiglia nobiliare. Egli era considerato, più o meno alla stregua del cocchiere, del capo-cuoco, del maggiordomo.
Il Parini era orgoglioso e ci teneva molto alla sua dignità, cosciente come era di essere un galantuomo e una persona colta; d’altra parte avvertiva di trovarsi dinanzi ad un mondo di vanitosi, senza alcun merito e don molti demeriti. In casa Serbelloni egli poté conoscere la nobiltà con tutte le sue sciocchezze; e, mentre osservava, per reazione si staccava da quel mondo e si confermava nelle sue convinzioni e nello stile di vita. Per reazione, dunque, rinforzò quella sua coscienza morale fatta di austerità e di rettitudine.
4)- La sua attività di scrittore e di insegnante. Avendo concepito la letteratura e l’insegnamento come una missione di educazione della gioventù italiana del suo tempo, egli si sentì in dovere di coltivare quegli ideali di vita decorosa, onesta e utile che si proponeva di inculcare negli altri.
Nella vita e nell’arte il Parini fu essenzialmente educatore; e dell’educatore possedette in sommo grado il senso di responsabilità e tutto quel corredo di virtù che rendono venerabile il maestro al discepolo (basta pensare al senso di venerazione con cui lo ricordano il Foscolo e il Manzoni giovane).
IL GIORNO
Le opere maggiori del Parini sono due: “Il giorno” e le “19 odi”.
Si suol dire che con il primo il Parini abbia demolito le irrazionalità della società aristocratica e con le seconde abbia ricostruito la spiritualità nuova sulla base della natura e della ragione e di tutti quegli ideali che rendono utile, sana e bella la vita.
“Il giorno” è un poemetto satirico didascalico i n versi sciolti (cioè non legati da rima).
La particolare forma di satira adottata si chiama ironia. Il poemetto è una composizione nella quale o si narra una vicenda o si intreccia in modo organico una serie di descrizioni.
C’è il poemetto didascalico georgico, in cui vengono dati precetti di vita campestre fra una serie di belle descrizioni (famose sono le “Georgiche” di Virgilio, poemetto in quattro libri; famosa è anche la “Coltivazione dei campi” di Alamanni del ‘500.
C’è il poemetto didascalico filosofico (come il “De rerum natura”di Lucrezio).
C’è il poemetto didascalico morale come quello del Parini.
Il verso è l’endecasillabo: cioè verso di undici sillabe con questo schema accentuativo: 4.7.10/4.8.10/6.10- Gli endecasillabi sono sciolti, cioè non legati da rima.
Satirico è detto il poemetto perché deride i difetti umani. La satira fu una delle prime forme letterarie dei Romani: era detta “satura” (= piatto misto) una forma teatrale in cui rientravano il dialogo, la mimica, la danza, il canto presso a poco come il nostro varietà). In genere il dialogo era a battute comiche mordaci. Il primo compositore di satire a Roma fu Lucilio: scrittore che criticò, come dice Orazio, ad una ad una le 33 tribù della città. Scrittore di satire fu anche Orazio: arguto e bonario (molto simile per il gusto e per la sua “aurea mediocritas” (aurea moderazione) al nostro Parini. Fu scrittore di satire Persio, giovanetto filosofo, predicatore morale; scrittore di satire fu Giovenale, aggressivo e realistico. Presso di noi scrittore di satire è stato l’Ariosto con uno stile molto simile a quello di Orazio: arguzia e bonarietà; anche l’Ariosto per la sua aurea moderazione somiglia molto al Parini. Dopo l’Ariosto e assai più grande di lui è il Parini. Dopo il Parini il Porta compone satire in dialetto milanese: satire realistiche di tono bonario e malinconico, ma sempre arguto. Il Belli, in dialetto romanesco compone sonetti satirici di stile realistico e di tono scherzoso. Dopo il Porta e il Belli notevole è il Giusti che nei suoi “Scherzi” deride in tono canzonatorio le varie forme di presunzione, di ipocrisia, di arrivismo comuni nella vita privata e pubblica.
Una particolare forma di satira è l’ironia, che consiste nel fingere di approvare ed esaltare un difetto, con l’intenzione evidente di metterlo maggiormente in ridicolo.
Perché il Parini adotta la forma della satira e non quella del trattato per riformare?
A quel tempo il trattato era comune ed aveva raggiunto una spigliatezza e una vivacità tali da suscitare l’interesse della classe colta in generale. Ma ben sappiamo cosa leggeva la gioventù aristocratica al tempo del Parini: cose che piacevano a Momo (= dio dello scherzo piuttosto volgare) e a Venere (= dea dell’amore), cioè cose spiritose e licenziose. Essa non avrebbe mai letto un trattato che, per quanto spigliato, avrebbe sempre avuto il difetto dell’esposizione astrattamente moraleggiante.
Di qui la necessità di attaccare direttamente il giovin signore, per costringerlo ad interessarsi di sé stesso.
Perché tra le varie forme di satira sceglie proprio quella dell’ironia ?
Vediamo anzitutto quante forme di satira vi possono essere:
a)- la satira predicatoria: che attacca i difetti umani in quanto nemici della virtù: ed appone ad essi, con begli elogi, le virtù opposte (esempio la satira di Persio) così come è la satira degli oratori religiosi quando mettono in cattiva luce i vizi.
b)- la satira realistica e aggressiva: consiste nel rappresentare con gusto maligno e con realismo spregiudicato gli aspetti ridicoli e volgari dei difetti umani, e nell’inveire con animosità contro di essi. Così fece Giovenale e qua e là, nella Commedia, Dante.
c)- la satira comica: ogni satira veramente induce a ridere, o almeno a sorridere, perché io difetti umani sono sempre ridicoli; ma la satira comica è specializzata a mettere in
evidenza i lati ridicoli nei difetti umani con l’intenzione di divertire. Tale fu la satira del Goldoni, il quale utilizzando gli aspetti comici dei difetti umani seppe divertire e insieme correggere il pubblico. Goldoni considera i difetti umani non come espressioni di cattiveria, ma di eccentricità, cioè di sfasatura mentale: ciò che è eccentrico è di per sé ridicolo. Il Goldoni alla sfasatura delle eccentricità oppone il buon senso e la moderazione, doti incarnate sempre nei personaggi simpatici.
Vediamo per quale motivo il Parini non poteva adottare nessuna delle tre forme citate: la satira predicatoria, per essere efficace, presuppone una discreta sensibilità morale nel satireggiato; e tale sensibilità mancava alla nobiltà. La satira predicatoria inoltre è troppo impersonale, ossia combatte il difetto in genere. In terzo luogo essa cade facilmente nel difetto della noia. La predica sarebbe il richiamo meno adatto per la gente che è convinta di essere al più alto grado della perfezione.
Non poteva adottare la satira aggressiva, perché chi aggredisce passa facilmente dalla parte del torto, e può apparire mosso da animosità e malignità e offre all’attaccato il pretesto di atteggiarsi a vittima. Il Parini non vuol fare polemica, ma porre l’aristocrazia di fronte a sé stessa affinché, vedendosi quale effettivamente è, si vergogni di sé stessa.
Non poteva adottare la satira comica perché questa tende a divertire e quindi evita di prendere in considerazione gli aspetti odiosi dei difetti umani (che nel giovin signore non erano né pochi, né piccoli).
Il ridere sui difetti non sempre è sufficiente a generare vergogna di essi, specie se il riso è bonario. Il Parini si trovava di fronte ad una classe indurita dall’orgoglio e altezzosa; perciò la satira comica l’avrebbe appena sfiorata.
Non restava che la satira ironica: con questa il poeta poteva conservare un tono dignitoso e corretto e soprattutto intelligente e fine; e nello stesso tempo poteva colpire la gioventù aristocratica con la verità dei fatti, in quanto quello che veniva rappresentato costituiva la realtà vera. Dall’ironia sgorga il ridicolo, perché il contrasto tra quello che uno crede di essere e quello che realmente è, costituisce sempre fonte di comicità. Nello svolgimento del suo tema raramente il Parini perde la calma ed esce dai limiti dell’ironia: solo qua e là scende alla caricatura o al grottesco, cioè alla esagerazione di certe note ridicole; o al sarcasmo, cioè all’espressione pungente e aggressiva; oppure al riso sdegnoso (come nella conclusione dell’episodio della Vergine cuccia: “e tu idol placato delle vittime umane isti superba”).
Fine che si è proposto il Parini nel comporre “Il giorno”.
In una epistola in versi al signor De Martini (giurista incaricato dal governo imperiale austriaco di riformare i tribunali lombardi) il Parini afferma che egli ha inteso, nel “Giorno” “espor l’utile e il ver scherzando”; e che con l’”acre riso” della sua satira ha “tentato frenar gli errori dei fortunati e degli illustri”. La sua satira perciò non ha fine a sé stessa. Il Parini, nobile figura di educatore, non fu mai mosso dal gusto della caricatura e della beffa velenosa: egli non scrisse per sfogare rancori personali né per demolire la nobiltà mettendola in cattiva luce di fronte alle altre classi, bensì intese soltanto riformarla.
“La superbia prepotente, e il lusso stolto ed ingiusto, e il mal costume e l’ozio – e la turpe mollezza, e la nemica di ogni atto egregio vanità del core” (vanità del core = votezza dell’animo, insipidità spirituale): ecco la massa dei difetti della classe aristocratica, di quella classe che dovrebbe essere la migliore (àristos in greco significa migliore, l’ottimo), ed è invece la peggiore e costituisce una “fonte , onde sul popolo poi discorre (scorre giù) il vizio”. La classe aristocratica non solo non è il buon fermento della società italiana, ma è la causa della corruzione e della decadenza generale della nazione.
Il proposito costante del Parini (evidente nelle odi e nel Giorno) è quello di “ render buoni e saggi i cittadini suoi”: e a tale scopo vuole che la classe più influente smetta di dare scandalo e di costituire un peso morto per la società italiana, e cominci a dare esempio di virtù e a lavorare seriamente per l’elevazione economica, morale, civile e sociale della patria. Invece di appartarsi nel “bel mondo” da cui sono bandite le forme sane e belle della natura, e in cui, perciò, avvizziscono fisicamente e intisichiscono moralmente; invece di considerare il popolo come una massa schifosa e spregevole e di segregarsi da esso, i nobili tornino a vivere secondo natura e a contatto con essa: si pongano alla testa del popolo e lo guidino alla realizzazione di forme di civiltà sempre più alte: riconoscano di essere mortali e si sforzino di rendersi immortali con le “belle opre”. Il Parini è convinto che i nobili costituiscono la classe più capace di promuovere la rinascita della nazione: hanno mezzi finanziari, tempo libero, influenza sociale; e perciò possono dedicarsi agli studi e farsi onore nell’esercizio di attività amministrative, economiche e militari. A lui, laborioso ed onesto, ansioso di vedere una società italiana intelligente, attiva e moralmente sana, ripugna lo spettacolo di una gioventù che potrebbe fare molto e non fa nulla, e che, anzi, pretende sfacciatamente di imporre all’ammirazione e al rispetto del popolo le sue stupidaggini e i suoi vizi.
Alla gioventù aristocratica del suo tempo egli contrappone i nobili delle età precedenti. L’aristocrazia medievale e rinascimentale, idealizzata dal Parini, diventa esempio di vita seria e costruttiva, spesa a servizio delle arti e delle lettere, nelle attività amministrative e guerresche, e nel culto delle virtù familiari.
A questo ideale di vita egli vuole ricondurre i nobili; e per indurli a ravvedersi, li mortifica con la sua satira o meglio li costringe a vergognarsi, presentando loro il ritratto di sé stessi. Riformata la nobiltà egli spera di vedere tutta la società italiana ritornare “saggia e buona”: infatti dalla classe da cui ora scorre giù sul popolo il cattivo esempio del vizio, potrà scorrere il buon esempio di una vita utile ed onesta.
In tal modo il Parini rientra nella schiera dei riformatori italiani, anzi si afferma come il riformatore più decisivo, se è vero che, come dice egli stesso, “dall’alma origin solo han le lodevoli opre”. Il fatto che durante il nostro Risorgimento molti nobili si sono resi utili alla patria (basta ricordare Confalonieri, Porro, Lambertenghi, Massi D’Azeglio, Cavour ecc) sta a significare che l’opera educativa del Parini, rinforzata da quella del Foscolo e del Manzoni, favorita dagli effetti sociali della rivoluzione francese, ebbe i suoi risultati.
Possiamo domandarci perché il Parini abbia scelto come protagonista del suo poemetto proprio un giovane dell’aristocrazia.
I motivi sono pressappoco i seguenti. Anzitutto l’attività educativa in generale si rivolge non agli anziani, ma ai giovani, perché l’avvenire della società è affidato a questi ultimi. Riformare la gioventù significa porre le premesse per un rinnovamento della società. In secondo luogo, perché i giovani sono più sensibili alla critica, in quanto sono più capaci di vergognarsi; e sono più sensibili agli ideali, in quanto il loro spirito, non essendo stato ancora modificato dai pregiudizi e dall’egoismo, accoglie più facilmente il bello e il buono. In terzo luogo perché la gioventù fornita com’è di energia, e capace, quindi, di grandi cose, è maggiormente deplorevole quando dà spettacolo indecoroso di ozio e di vizio. I vecchi con gli stessi difetti sono ridicoli, ma i giovani, oltre che ridicoli, sono anche dannosi per la vita della società. Di qui lo sdegno del Parini e la sua preoccupazione di ricorrere ai ripari facendo uso della satira più pungente, quale è l’ironia.
Impostazione dell’ironia del Giorno.
Trattandosi di un poemetto ironico, l’impostazione è basata sulla finzione. Il Parini, stando a contatto con la nobiltà, ha individuato negli aristocratici soltanto “bassi geni dietro al fasto occulti” (“La caduta”), cioè anime volgari che mascherano la loro volgarità col fasto e con l’artificio. La loro vita gli è apparsa come un “faticoso ozio” (“Alla musa”); negli ambienti in cui vivono, si respira aria viziata in senso sia fisico che morale. Il “bel mondo” gli è apparso come uno strano e ripugnante miscuglio di sciocchezze, di falsità, di corruzione, di ciprie, di profumi, di eleganze.
Egli è convinto che dall’”alma origin solo han le lodevoli opre” e che “mal giova illustre sangue ad animo che langue”. Eppure finge di credere alla “sublimità” del “bel mondo”, finge di accettare il pregiudizio secondo il quale, in forza del sangue aristocratico, i nobili hanno superato la natura umana. Essi sono persuasi di costituire una classe intermedia tra gli dei e il volgo, la classe dei “semidei terreni”, dotata di ogni pregio fisico, intellettuale, morale.
1)- In forza del sangue essi credono anzitutto di essere intelligentissimi.
Il Parini finge di credere a questa superiorità intellettuale: “a voi, divina schiatta vie più che a noi mortali il ciel concesse – domabile midollo dentro al cerebro – sì che breve lavor basta a stamparvi – novelle idee. Inoltre a voi fu dato – tal dei sensi e de’ nervi e degli spirti – moto e struttura, che ad un tempo mille – penetrar puote e concepir vostr’alma – cose diverse, e non però turbarle o confonder giammai, ma scevre e chiare – nei loro alberghi ricoverarle in mente”. La superiorità intellettuale non si manifesta soltanto come agilità e vastità di apprendimento, ma anche come squisitezza e infallibile capacità di giudizio: capacità che il Parini chiama “gusto” (una specie di istinto, innato nel sangue, con cui i nobili distinguono il vero e il bello senza che abbiano bisogno di conoscere le norme dell’arte o di acquistare cultura):” ma che non puote quel d’ogni precetto – gusto trionfator che all’ordin vostro – in vece di maestro il ciel concesse – et onde a voi coniò le altere menti – acciò che passan de’ volgari ingegni oltrepassar la paludosa, – e d’aere più puro abitatrici- non fallibili scorre il vero e il bello”.
Il Parini, dunque, finge di credere che gli aristocratici siano davvero intelligentissimi e infallibili nei loro giudizi. Quando però egli riferisce intorno agli studi del giovin signore, intorno ai libri che egli legge, intorno alla presunzione ed alla fatuità con cui giudica e sentenzia circa gli argomenti più svariati, viene delineando la figura del perfetto ignorante e presuntuoso. Quella del giovin signore non è cultura e tanto meno è sapienza: è soltanto saccenteria sciocca.
Per acquistare cultura bisogna studiare e studiare sodo; ma il giovin signore riceve i suoi maestri (quello da ballo, quello di canto, quello di francese) mentre è ancora a letto; e si dedica alla lettura durante la toilette. I libri che egli legge vengono tutti dalla Francia, e si tratta di libri osceni o empi. Gli bastano queste letture per darsi le arie di pensatore spregiudicato e progressista. Durante il pranzo, in casa della dama, ci dà un bel saggio della sua saccenteria e della sua miseria mentale.
2)- In forza del sangue nobile gli aristocratici credono di saper far tutto. In pratica le
uniche attività in cui gli aristocratici, giovani e vecchi, sono esperti sono gli amoreggiamenti incessanti, la maldicenza, il gioco; la coreografia impeccabile dell’etichetta e della moda. Alcuni tra essi hanno conseguito, a forza di lungo e paziente esercizio, certe abilità particolari e specializzazioni; uno è celebre per lo schioccare della frusta; un altro è famoso perché sa imitare egregiamente col corno il suono della tromba del postiglione; un altro è notissimo come arrabbiato frequentatore del caffè; un altro è specializzato nei segreti del gioco e tiene consulenze su questo argomento; un altro è appassionato, anzi maniaco delle carrozze, noto ai tifosi ed ai carpentieri di tutta Italia. Non trovando altro modo per mettersi in evidenza, i nobili più ambiziosi cercano di farsi una fama con le loro stravaganze: uno, per esempio, fa professione di dottrine pitagoriche e si nutre nei pranzi solo di pane e di erbe: un altro fa professione di epicureismo e mangia come un bue, per attrarre su di sé l’attenzione dei commensali. “in nulla cosa esser – mediocre a gran signore non lice; abbia il popol confini; a voi natura – donò senza confini e mente e cuore. Dunque a la mensa, o tu schifo rifuggi – ogni vivanda, e te medesmo rendi – per inedia famoso, o norma acquista – d’illustre voratore”.
I nobili, dunque, non fanno nulla di utile; non sanno far nulla di serio; e, se fanno qualche cosa, sono mossi soltanto da ambizione che si risolve in mania e si sfoga in stravaganza.
3)- In forza del sangue nobile gli aristocratici credono di aver superato gli istinti comuni.
a)- l’istinto dell’appetito. Il giovin signore è mosso al cibo non dall’appetito, come i comuni mortali, ma dal piacere. Le papille gustative degli aristocratici hanno una conformazione tale che i cibi comuni non riescono a solleticarle: per esse sono necessari cibi piacevoli o (per usare la parola appropriata) ghiottonerie. I nobili dunque non solo non hanno superato l’istinto dell’appetito, ma sono raffinatissimi ghiottoni.
b)- L’istinto sessuale. I nobili considerano il matrimonio come la tomba dell’amore, come un “modo più penoso”, come una rinuncia formale alla vita del “bel mondo”: il marito per essi è un “stallon ignobil de la razza umana”. Ma in pratica il giovin signore è un lussurioso di classe: egli visita “devotamente di tanto in tanto le aree di Venere” in Francia e in Inghilterra: egli ogni giorno amoreggia liberamente con la dama, in forza dei diritti che gli competono come cavalier servente: “Pèra, dunque, chi a te nozze consiglia – ma non però senza compagna andrai – che sia giovin dama, d’altrui sposa; – perché sì vuole inviolabil rito – del bel mondo onde tu sei cittadino”. Il rito, la norma a cui si accenna, è spiegata dal Parini assai bene col mito di Amore e Imene.
Questo mito è stato introdotto per spiegare il modo ipocrita con cui i nobili pretendono ammantare la loro lussuria e le usurpazioni di Amore (= libero amore) a danno di Imene (= matrimonio).
4)- In forza del sangue gli aristocratici credono di aver superato la sensibilità comune. Gli
uomini comuni sentono pietà per le miserie dei loro simili: “Qual anima è volgar – dice ironicamente il Parini – la sua pietade – all’uom riserbi”. L’aristocratico, invece, “sdegna comun affetto; e i dolci moti – più lontano limite sospinge”.
La dama, che come donna e come gentildonna, dovrebbe avere un animo sensibile e tenero, nell’episodio della Vergine cuccia ci dà un esempio pratico della magnanimità aristocratica. I nobili amano le bestie e disprezzano l’uomo: a questo si riduce la loro sensibilità. Quando poi si infuriano col parrucchiere o col cameriere, escono in escandescenze bestiali.
5)- In forza del sangue gli aristocratici hanno superato il mondo ambientale.
Il volgo è contento della sua terra e delle sue arti, e si compiace dei prodotti del suo lavoro “la plebe si nutra e vesta delle fatiche sue”. Gli intellettuali all’antica ammirano e venerano la nostra lingua nazionale, la nostra tradizione artistica e letteraria, il nostro patrimonio religioso e morale, gli aristocratici, per distinguersi dal volgo, ammirano, apprezzano, acquistano e pagano profumatamente solo ciò che viene dall’estero. Le bevande, i tessuti, gli oggetti di ornamento, perfino la lingua (quella francese): tutto deve venire dall’estero “ a le grand’alme – di troppo agevol ben schife Cillenio – il comodo presenti, a cui le miglia pregio acquistino e l’oro”.
In pratica, però, si tratta di cose che hanno pregio solo perché vengono da lontano e perché sono pagate di più: molti prodotti che vengono spacciati per esteri, sono comunissimi prodotti italiani a cui è stata appiccicata l’etichetta francese o inglese. Così il giovin signore non solo non dimostra di avere buon gusto, ma si rivela autentico babbeo: lo sa bene “il merciaiol – pronto inventor di lusinghiere fole – e liberal di forestieri nomi – a merci che no mai varcaro i monti”.
Quanto alla moda, la manie dell’esotismo è inesauribile fonte di assurdità. Un esempio, l’acconciatura dei capelli dovrebbe essere fatta, come ogni opera d’arte, in base al criterio dell’armonia: per usare una immagine pariniana, l’architettura del capo dovrebbe armonizzare col resto della persona: “accordar al sembiante l’edificio del capo”. Ma se il parrucchiere osasse seguire questo criterio, povero lui ! Bisogna “prender legge da colui che giunse – pur ier di Francia”.
Quanto alla lingua, la mania frencesizzante fa sì che gli aristocratici non parlino bene né il francese (perché non lo studiano), né l’italiano (perché lo disprezzano). Quanto alla cultura, la mania francesizzante ha diffuso, in mezzo agli aristocratici, la saccenteria, che è un misto di ignoranza e di presunzione, quando non è antireligioneria o sconcia spregiudicatezza morale.
6)- In forza del sangue gli aristocratici hanno superato i difetti fisici. I comuni mortali si
adattano alle imperfezioni naturali del volto e al logorio prodotto dal tempo sui loro lineamenti. I nobili, invece, a forza di cosmetici e ciprie, di nei finti e di acque odorose, eliminano le rughe, combattono la vecchiaia, rabberciano le irregolarità del volto, eliminano le sgradevoli esalazioni del corpo proprio e di quello altrui.
Eppure sotto quella maschera c’è l’uomo con i suoi irrimediabili difetti fisici: sotto la parrucca incipriata potrebbe esserci ”odiato rosso dei capelli”; sotto i cosmetici di cui si imbellettano i vecchi ci sono le rughe; sotto i vestiti eleganti c’è un corpo che si insudicia e che “di lavacro universal convien bagnare”. Non parliamo delle realtà ripugnanti che si nascondono sotto il lusso e la toeletta delle dame anzianotte.
Né parliamo della tracce, che, sul volto del giovin signore, lasciano le fatiche notturne del gioco e i vizi.
7)- In forza del sangue e per distinguersi dal volgo, gli aristocratici credono di aver superato le ripartizioni naturali del tempo: dormono di giorno e vegliano di notte.
In conclusione l’orgoglio del sangue si traduce in uno sforzo infelice di superare le esigenze di natura e quindi la vita del popolo che si regola secondo la natura.
Gli aristocratici credono di aver superato la natura, ma i pratica sono scesi al di sotto di essa; credono di aver superato le virtù comuni; ma in pratica si vantano e si compiacciono dei vizi più volgari; credono di aver creato un’etica superiore, quella della moda, ma in pratica sono schiavi volontari di un’etica e di un gusto che, oltre ad essere assurdi, sono estremamente ridicoli. Al Parini non è difficile dimostrare tutto questo: a lui, infatti, è sufficiente riprodurre la vita dei nobili come essa è realmente. Dal contrasto fra le loro convinzioni e la realtà della loro vita scaturisce spontaneo e naturale il ridicolo.
Schema del Giorno.
Il poemetto è impostato su un presupposto generale: il giovin signore e un “eroe del belmondo”, “un campione della moda”, “un eroe della dama”. Questo concetto evidentissimo in tutta l’opera, è enunciato chiaramente e con la solita fine ironia, nel “Mattino” e precisamente nel punto in cui il poeta invita Marte in persona a cingere la spada al suo “giovine eroe”, paragonato ad un cavaliere del ciclo di Artù. Il Parini allorché inizia l’elenco degli arnesi da combattimento che il giovane eroe dovrà portare con sé, invoca regolarmente le Muse come fanno Omero, Virgilio, Tasso allorché cominciano i famosi “cataloghi” (= elenco degli eroi e dei reparti che prendono parte ad una guerra): anche questo particolare sta ad indicare che l’autore ha voluto dare al “Giorno” l’impostazione del poema epico. Tale impostazione, evidentemente, contribuisce a rafforzare l’ironia, che risulta appunto dal contrasto fra il tono epico della trattazione e le sciocchezze trattate.
1)- Il mattino, si potrebbe definire “il momento della preparazione dell’eroe”.
Preparazione culturale (letture) – preparazione estetica (toeletta) – preparazione
strumentale (arnesi) . Da tutte le parti del mondo, specie dalla Francia, confluiscono sulla ”ara sacra” della toeletta e nel guardaroba del giovin signore.
Mentre artisti eccellenti (il parrucchiere e gli altri ministri della toeletta in primo piano nel chiuso di una stanza, tra mille profumi, lavorano intorno all’eroe, si vedono nello sfondo, in lontananza, masse plebee di contadini e di artigiani lavorare in tutti i continenti per fornire al “bel mondo” le armi della moda, i piaceri e il lusso.
Intermediari, tra questa plebe “dannata a lavorare” e “il bel mondo” si muovono mi commercianti: gente furba, espertissima nel darla a bere allo sciocco signore, da cui è rispettata e ben pagata.
2)- Il mezzogiorno. E’ il primo combattimento dell’eroe a fianco della dama, in un
ambiente ristretto e scelto in un momento di alta intellettualità, quale può essere quello del pranzo: “fia la mensa – il favorevol loco ove al sol esca – dei brevi studi il glorioso frutto”. Appena entra in campo tutti gli fanno largo e gli cedono il posto: il più frettoloso è il marito della dama. Nella prima impresa (trinciamento delle vivande) conquista il primo brillante campionato: “i convitati inarcheran le ciglia sul difficil lavoro, e d’oggi in poi si fia ceduto il trinciator coltello”. Quindi l’intermezzo patetico della commozione della dama per il ricordo della Vergine cuccia: anche lei conquista così un campionato: quello della sensibilità. Poi le discussioni dotte: “fia la mensa il favorevol loco ove al sol esca – dei brevi studi il glorioso frutto”. E così conquisterà un altro campionato: quello della cultura: “or tu, signore, col volo ardito del delice ingegno – t’ergi sopra d’ogn’altro. Il campo è questo dove più splender dei: nulla scienza – sia quant’esser si vuole arcana e grande – ti spaventi giammai”. Il primato che conquisterà nella sua esibizione culturale sarà quello dello scherno contro la religione: “qui ti segnalerai coi novi Sofi, schernendo il fren che i crudeli maggiori – atto solo a stimar ecc”- “ il mio signor come aquila sublime – dietro ai Sofi novelli il volo spieghi…. applauda intanto tutta la mensa al tuo poggiare ardito”.
Il campionato nello scherno contro la religione è il più facile, perché (essendo l’argomento il più arduo di tutti) per conquistarlo basta essere ignoranti.
3)- il vespro. O la giostra dei cavalieri al Corso. E’ la seconda fase dell’epopea nobiliare:
una specie di giostra o rivista in cui i grandi casati mettono in evidenza la loro magnificenza e si scontrano in competizione di finezza e di lusso. In pratica tutto si riduce ad una gara di cafonate da sbalordire.
Il cavaliere e la dama affrontano la competizione insieme, proprio come nei grandi poemi epico-cavallereschi.
Con l’ampliarsi della visione il Parini ha modo di presentare un campionario assortito di esemplari del bel mondo, cosicché i lettori abbiano una idea più completa dell’ambiente aristocratico.
Come nei grandi poemi, dopo le battute iniziali con azioni di massa, l’episodio prende il sopravvento sull’impresa collettiva, così nel Giorno, dopo la compatta discussione dei convitati che, sotto la direzione del giovin signore (rinforzato dalla dama) sono stati tutti concordi nel dir male degli italiani e nel deridere le credenze religiose, l’azione epico-cavalleresca si fraziona in diversi episodi destinati a porre meglio in evidenza la individualità dei personaggi e i costumi dell’ambiente.
Il primo tema, quello delle visite e dell’amicizia, è quanto mai adatto ad illustrare i rapporti reciproci tra le famiglie nobili. Al biglietto di augurio del giovin signore, l’amico, malato, risponde: “or venga il giorno – che si grate alternar nobili veci – a me sia dato !”. La visita della dama all’amica isterica si concluderebbe con una zuffa fra le due “amiche”, se il cavalier non intervenisse affrontando l’ira dei ventagli.
4)- la notte o la veglia. “Loco è, ben sai, na la città famoso….. ivi la turba della gioverntù divina – scende a pugnar con le mutabil arme di vaghi giubboncel, d’atti vezzosi, di bei modi del dir stamane appresi….. Quanta folla d’eroi ! Tu, che modello – d’ogni nobil virtù, d’ogni atto eccelso – esser dei fra i tuoi pari, i pari tuoi a conoscer apprendi; e in te raccogli quanto di bello e glorioso e grande, sparse in cento di loro arte e natura”. E’ lo stesso mondo del Corso visto a distanza ravvicinata. Nelle stanze “folte di cavalieri e dame” il giovin signore combatte l’ultima fase della sua battaglia quotidiana: “ardito e baldo – vanne, torna, ti assidi, ergiti, cedi – premi, chiedi perdono, odi, domanda – sfuggi, accenna, schiamazza, entra e ti mesci – ai divini drappelli; e a u punto empiendo – ogni cosa di te, mira e conosci”.
Siamo (nella Notte) alla fase della battaglia generale, combattuta a corpo a corpo. Nelle sale splendenti, turbina una assortita folla di nobili: adolescenti, giovani, vecchi, damigelle, dame, vecchie matrone. Ognuno è mosso dalla ambizione di dare la migliore prova di sé stesso.
Poi la battaglia del gioco: impegnativa al massimo, e spesso rovinosa. L’ultima visione è, senza dubbio, la più penosa: la dama, dimentica dei suoi doveri di madre e della sua dignità di donna, si ingolfa nel gioco colla foga del giocatore più maniaco.
Perché il Parini ha preferito descrivere la “giornata” del giovin signore ?
Per satireggiare la nobiltà sarebbe stato ugualmente inventare una trama di avventure in cui fossero implicati uno o più giovani aristocratici, con i loro modi di pensare e di agire. Anzi, seguendo questo procedimento, il Parini avrebbe evitato la forma del diario, che presenta notevoli svantaggi:
a)- perché è difficile legare le varie parti in modo organico (nel diario si lega solo col ”poi” e col “dopo questo”, cioè col solo rapporto della successione temporale, che è il rapporto meno vitale).
b)- perché la materia è arida, in quanto non presenta nulla di eccezionale e
difficilmente si presta a lasciarsi vivificare dalla fantasia e dal sentimento.
c)- perché è facile il pericolo della ripetizione e della monotonia.
Un trama inventata, con situazioni ed episodi svariatissimi, con avventure di ogni genere in Italia e all’estero, sarebbe certo stata più facile e più avvincente per un poeta che non avesse avuto la coscienziosità del Parini.
Parliamo di coscienziosità perché, senza dubbio, egli fu indotto a sobbarcarsi al peso del procedimento più difficile per tutti i motivi di impegno morale e civile. Il suo proposito, infatti, era quello di riformare la nobiltà, satireggiandone la vita vera e reale, quella di ogni giorno, non quella dei momenti eccezionali. E’ la giornata vera degli aristocratici, sono le loro attività reali, insignificanti e scandalose, che incidono sulla vita della società e determinano il grado di arretratezza del popolo italiano.
In sostanza, dunque, il Parini preferisce come tema la giornata del giovin signore, per due motivi:
a)- perché è un tema rispondete alla realtà dei fatti;
b)- perché è un tema più valido ai fini della riforma civile e sociale che egli si è
proposto.
Mezzi con cui il Parini rinforza l’ironia.
1)- L’impostazione epica che fa contrasto con la miseria della vita aristocratica;
2)- L’introduzione di numerosissime divinità pagane a servizio dei semidei terreni, come nei poemi classici.
3)- La creazione di miti nuovi per spiegare certe usanze del bel mondo: il mito di Amore e Imene – quello della cipria – quello del Piacere – quello del canapè.
4)- Richiami storici famosi e paragoni con personaggi illustri di poemi epici o epico-cavallereschi, per illustrare i momenti più ridicoli della giornata dei nobili.
5)- Il tono fra ammirato e scanzonato con cui il volgo osserva e commenta la vita degli aristocratici.
6)- Lo stile elegante e l’impegno serio con cui il poeta tratta un argomento così
meschino.
Lo stile del Parini
Il Parini adotta ,lo stile classico; e si potrebbe dire che egli è di fatto il primo poeta neoclassico italiano.
Il neoclassicismo è un movimento artistico-letterario che fiorisce dalla seconda metà del ‘700 al primo trentennio dell’800, caratterizzato dal proposito di trattare temi moderni con spirito moderno, facendo uso dei procedimenti compositivi classici.
Classici furono detti i più grandi scrittori dell’antichità greco-romana; e i classicisti sono tutti coloro che nel corso dei secoli imitano gli scrittori classici. La nostra tradizione culturale e artistica è strettamente collegata col pensiero e con l’arte classica: i greci ispirarono i Romani – i Romani lasciarono la loro eredità agli Italiani dell’epoca post-classica. Nel Medioevo pensatori e poeti usavano prendere lo spunto generale dal pensiero e dallo stile classico, per elaborare in modo originale il loro pensiero ed esprimere il loro mondo interiore. S. Tommaso si rifà alla filosofia di Aristotele, ma la elabora secondo il pensiero cristiano. Dante si dichiara discepolo di Virgilio: “tu sei lo mio maestro e il mio autore – tu se’ colui da cui mio tolsi – lo bello stile che m’ha fatto onore” (Inf. C.I vv 85-87). Se c’è un poeta originale nella nostra letteratura è proprio Dante: e in che senso, allora, egli si dichiara virgiliano o classicista ? Nel senso, certamente, che egli ha adottato la precisione, la concretezza figurativa, la chiarezza che sono le caratteristiche essenziali dello stile classico in generale e di quello virgiliano in particolare.
Il classicismo medievale non imita, dunque, passivamente le impostazioni, le immagini, le forme linguistiche dei greci e dei romani: adotta l’indirizzo generale dello stile classico, ma lavora per conto proprio.
Nel Rinascimento, invece, specie durante la fase dell’Umanesimo, l’imitazione dei classici assunse un indirizzo radicale: spesso furono passivamente riprodotti gli atteggiamenti spirituali, le immagini, il frasario caratteristici dei più grandi autori latini. Si tentò perfino di sostituire il volgare con la lingua latina dell’età aurea. La nostra letteratura, allora, si staccò dalla vita e divenne libresca: per intenderla bisognava essere versati negli studi classici. La retorica ( una specie di codice letterario basato sui modelli antichi) fissò le regole per i vari generi letterari. L’Ariosto, Machiavelli, Guicciardini, dotati com’era di genio, furono gli unici che lavorarono secondo la loro ispirazione, attenendosi soltanto nelle linee generali ai modi dello stile classico.
Nel seicento, l’aspirazione al ”nuovo” indusse i marinisti a ripudiare lo stile classico.
Il Marino definiva i classicisti “beccamorti di Parnaso”, cioè cultori di cose morte e sorpassate. Nonostante questa avversione al passato, tuttavia i marinisti ripetono anch’essi le immagini classiche e abusano della retorica: anzi la letteratura del ‘600 può essere senz’altro un concentrato di artifici retorici, non escluso il frasario mitologico classico che, anzi, costituisce l’elemento ornamentale preferito.
Nella prima metà del settecento l’Arcadia sorge col proposito di combattere il “cattivo gusto” del seicentismo; e per riportare la letteratura alla semplicità ed alla chiarezza, torna al classicismo. Ma si tratta di un classicismo di imitazione, come quello umanistico, e, per di più, ristretto agli atteggiamenti, alle immagini ed al frasario della poesia pastorale.
Alla metà del ‘700 la critica illuministica demoliva il classicismo accademico e retorico in generale e quello arcadico in particolare. Temi sciocchi ed inutili, atteggiamenti falsi ed anacronistici, immagine vecchie e prive ormai di vitalità, espressioni linguistiche cadute in disuso: a questo si era ridotto il classicismo delle varie accademie. Non fu difficile, perciò, alla letteratura illuministica guadagnarsi la simpatia del pubblico degli intellettuali con la modernità e l’interesse degli argomenti trattati, con la utilità del contenuto, con l’espressione viva. Tuttavia i nostri illuministi non seppero creare uno stile che alla agilità ed alla vivacità congiungesse anche la precisione e l’eleganza.
Spetta al Parini il merito di avere salvato il classicismo dalla morte tirandolo fuori dalle accademie e riportandolo a contatto con la vita; e nello stesso tempo il merito di aver utilizzato quanto di buono offriva la letteratura illuministica; egli, infatti, congiunse la modernità dei temi e del contenuto con la precisione e l’eleganza dello stile classico.
Il Parini non riprodusse passivamente temi, situazioni, atteggiamenti, immagini, frasi desunte dai classici ; ma adottò soltanto i procedimenti compositivi usati dagli antichi per trattare temi moderni, con spirito moderno. Il suo classicismo non è imitativo, ma creativo: è un classicismo nuovo o neoclassicismo.
Vediamo in particolare quali sono i principi fondamentali dell’estetica classica:
1° Principio: l’arte imita la natura. Aristotele definisce l’arte “mimesis” ovvero imitazione della natura. Dante afferma: “natura lo suo corpo prende da divino intelletto e da sua arte….. l’arte vostra quella (la natura) quando puote – segue…. sì che vostr’arte a Dio quasi è nepote”. L’artista, o con le parole o con i mezzi figurativi, crea persone, paesaggi, vicende, situazioni simili a quelle della realtà: crea il verosimile.
2° Principio: l’arte, a differenza della natura, crea il perfetto, cioè forme nelle quali si incarna pienamente l’idea corrispondente al soggetto trattato. In natura, ad esempio, non c’è nessun albero che riproduca perfettamente l’idea di albero; ma un artista può crearlo tale che esso sia l’incarnazione piena di quell’idea.
Perciò il principio enunciato sopra come primo si completa in tal modo: l’arte imita la natura, ma lavora su un piano ideale e crea il perfetto. L’arte è sintesi di natura più ideale.
3° Principio: alla creazione della forma ideale concorrono le seguenti facoltà: capacità di osservazione – capacità di imitazione – intuito intellettuale – senso delle proporzioni e quindi dell’armonia nel disporre la struttura dell’insieme e nell’elaborare i particolari – possesso sicuro ed uso intelligente dei mezzi di espressione. Tutto lo spirito, insomma, partecipa alla creazione artistica.
4° Principio: per creare la forma ideale è opportuno seguire i seguenti procedimenti compositivi.
a)- Idealizzazione, che consiste nell’attribuire ad un soggetto tutte le note più significative in modo da farne un esemplare perfetto nella sua specie. Un esempio: il Parini, all’inizio della “Notte”, vuol descrivere la notte del passato con le sue tenebre e i suoi orrori per opporla alla notte moderna in cui tutto “si irradia di nuova luce”. Ebbene egli raccoglie e organicamente compone le note più significative di una notte orrida: note che nella realtà si possono cogliere isolatamente, mai congiunte insieme, perché nessuna notte reale le possiede tutte nello stesso tempo. Ecco le note: un’atmosfera di tenebre e di pericoli che incombono dall’alto rendono “timida la terra – i deboli raggi delle stelle remote e de’ pianeti che nel silenzio camminando vanno” permettono una percezione confusa e quindi più paurosa delle cose – edifici alti coperti dalle tenebre – teschi antichi ai piedi delle vecchie torri – fortezze – uccellacci notturni che svolazzano e stridono sinistramente – fiamme smorte dei fatui fuochi vaganti per l’aere “orribilmente tacito ed opaco” – la figura bieca dell’adultero col cappello “su le ciglia”, avvolto in un mantello e armato – fantasmi che “lungo le mura dei deserti tetti spargono lungo acutissimo lamento” – cani che “da lontano, per lo vasto buio rispondono ululando” al lamento dei fantasmi.
Tutto questo insieme di note non si trova mai in una notte reale, e quindi in natura non esiste una “notte orrida” perfetta. L’arte raccogliendole tutte insieme, crea una forma o visione che incarna perfettamente l’idea di “notte orrida”: siamo di fronte ad una notte orrida idealizzata.
b)- Mitizzazione, che consiste nel trasferire uomini e cose in un mondo soprannaturale, in cui assumono aspetti divini: o nello spiegare l’origine di una cosa, ovvero il significato di un concetto, con un mito. Ad esempio il Parini trasferisce ironicamente i personaggi e le cose del bel mondo su un piano divino: e spiega l’origine del libero amore, della cipria, del piacere, del tric-trac, del canapè, con miti da lui creati ex-novo. Quando il mito serve a spiegare l’origine di una cosa si chiama etiologico: miti di tal genere furono creati dal greco Callimaco (“La chioma di Berenice”), da Ovidio (nelle “Metamorfosi” e nei “Fasti”), da Properzio (nelle “Elegie romane”).
La mitizzazione serve a rinforzare l’idealizzazione, anzi è la più efficace forma dell’idealizzazione stessa: e nel “Giorno” essa serve ad accentuare il contrasto tra la meschinità della vita aristocratica e il tono solenne con cui il poeta la tratta, cosicché dal contrasto scaturisca più evidente il ridicolo.
c)- Armonia, che consiste nel proporzionare fra loro le parti costitutive di una forma , cioè nel dare a ciascuna di essere il posto e lo sviluppo che le competono in forza della funzione che svolgono nel complesso dell’opera e in base alla importanza che hanno in rapporto alle altre. Per i classici l’armonia costituisce l’essenza della bellezza; e risulta dalla proporzione delle parti che entrano in competizione. Perché una cosa sia bella occorrono tre cose: che abbia tutte le parti che la costituiscono – che queste parti siano organicamente collegate – che esista tra esse un rapporto di proporzione reciproca . (bellezza = armonia; armonia = proporzione; proporzione = rapporto razionale tra le parti. Ad esempio: un volto umano è bello, quando non manca nessuna delle parti che lo costituiscono (naso, occhi, bocca ecc); quando ogni parte è al suo posto; quando ugni parte è proporzionata alle altre (ad esempio un naso troppo voluminoso rompe la proporzione e quindi diminuisce la bellezza). Il poeta che svolgerà ampiamente questo concetto della bellezza intesa come armonia sarà il Foscolo nel “Carme delle Grazie”.
d)- Concretezza, che consiste nel rendere intuitiva il più possibile l’idea che si vuole esprimere. A tale scopo l’espressione concettuale viene sostituita il più possibile con l’espressione figurativa. Ad esempio: invece di dire “gli aristocratici sono insensibili alle miserie umane ed amano più le bestie che gli uomini” (che sarebbe una espressione concettuale), il Parini descrive (o figura) l’episodio della Vergine Cuccia, in cui lo stesso concetto è visto, intuito in una scena.
“Ut pictura poesis” disse Orazio: la poesia è come la pittura, cioè il poeta dipinge immagini precise con le parole. E il Foscolo nelle “Grazie” dirà: “sdegno il verso che suona e che non crea” (ossia sdegno il verso che è puro suono e non crea nessuna immagine in chi ascolta); ed ancora: “a voi chieggio – l’arcana armoniosa melodia pittrice – della vostra beltà…. anch’io pingo e spiro a fantasmi anima eterne”.
Il Parini, oltre che del classicismo fu seguace anche delle teorie estetiche del sensismo, secondo il quale l’arte parla ai sensi e alla fantasia, con immagini precise e concrete, come quelle create dalla pittura e dalla scultura.
Per rendere intuitiva l’idea il classicismo adottò i seguenti procedimenti:
– descrizione precisa e completa fino nei minimi particolari. L’immagine appena abbozzata o mancante in qualche parte, non rende intuitiva l’idea ma piuttosto la confonde; e perciò l’imprecisione e l’incompletezza sono considerati come i difetti più gravi del comporre.
– personificazioni di identità astratte o di esseri inanimati (uso frequentissimo nel “Giorno).
– paragoni per chiarire e rendere concreto un concetto.
e)- Eleganza e decoro, che consiste nel preferire le immagini piacevoli a quelle spiacevoli; e nell’evitare la nota rozza o l’espressione usuale e volgare, quando non si può fare a meno di riprodurre una immagine spiacevole. Il Parini, ad esempio, accenna a molte cose e a molti usi volgari e osceni, ma ingentilisce sempre l’espressione o modellandola sul linguaggio mitologico o sul frasario comune ai grandi scrittori di Grecia e di Roma, o creandola egli stesso con squisito senso di signorilità. Basti citare, a tal proposito, “l’altrui donna a te sì cara”, per indicare la dama del giovin signore che, in pratica è una adultera legale; oppure i rapporti poco puliti dei nobili con le signore della borghesia, espressi con l’elegantissima frase: “le belle cittadine che ai tetti loro dedussero gli dei”.
Questi sono i procedimenti per creare la forma e l’immagine ideale. Si tratta, come si vede, di procedimenti, non di pezzi già fatti e destinati ad essere utilizzati passivamente. Il procedimento è un modo di lavorare, e come tale, non impedisce affatto l’originalità dell’opera. Ad esempio: il procedimento della mitizzazione fa sì che il Parini non ripeta i miti vecchi, ma ne crei di nuovi per conto proprio.
5° Principio: la bellezza, che è armonia, genera armonia, serenità nello spirito di chi la contempla. Anche l’arte, che è creatrice di bellezza, ingentilisce l’animo. Il Parini nell’ode “Alla Musa”, afferma che la poesia educa “al decente, al gentile, al raro, al bello”. Il Foscolo nell’ode “All’amica risanata”, parlando della bellezza, afferma:”l’aurea beltade, ond’ebbero ristoro unico ai mali le nate a vaneggiar menti mortali”; e nelle “Grazie” illustra poeticamente l’opera di civilizzazione della specie umana compiuta dalle Grazie, cioè dalle figliole della bellezza.
6° Principio: l’arte oltre che dilettare con la bellezza delle forme, deve educare l’animo umano al vero e al bene; anzi l’arte educa dilettando. Orazio dice testualmente: “omne tulit punctum qui miscuit utile dulci lectorem dilectando pariterque monendo” (= consegue ogni approvazione chi mescola l’utile col dolce, dilettando ed insieme educando il lettore). Il pensiero del Parini, a questo proposito, è stato già ampiamente illustrato: egli ha scritto per educare.
Questi principi dell’estetica classica furono accolti ed applicati dal Parini, che li considerava dettati dalla natura stessa: ”i gran principi cui creò la natura e che sopra il senso degli uomini regnaro gran tempo in Grecia; e nella Tosca terra rinacquer poi più poderosi e forti”. Il Parini afferma che tali principi sono stati adottati dalla natura nel senso che i primi artisti, imitando la natura, li hanno scoperti nelle cose, le cui forme sono ben definite, proporzionate, armoniche e chiare.
Nel trattato “Principii delle belle lettere” il Parini espone più particolarmente ed organicamente le sue idee estetiche. In esso esamina l’origine dell’arte in generale e la fa risalire all’istinto dell’imitazione innato nell’uomo, al bisogno di rendere più decorosa la propria vita, alla necessità di esprimere i propri sentimenti. Parlando delle attività che intervengono nella creazione artistica, insiste sull’osservazione della natura, sull’imitazione di essa e sull’elaborazione compiuta dalla fantasia. Parlando, infine, dei fini dell’arte insiste sul concetto che essa mira all’utile e al dilettevole.
Pregi del Giorno.
Li distinguiamo in pregi di contenuto e pregi di stile.
Pregi di contenuto ovvero di sviluppo del tema.
1)- Ampiezza di svolgimento nonostante la ristrettezza del tema. Abbiamo già notato la difficoltà costituita dalla scelta del diario del giovin signore come argomento del poema. Tuttavia col giovin signore entra direttamente in scena tutta l’aristocrazia e indirettamente anche il popolo; e quindi tutta la società italiana del sec.XVIII°.
Di questa società il Parini ha individuato e rappresentato, non gli aspetti contingenti ed esteriori, bensì l’anima: da una parte una classe orgogliosa, che vive contro natura e, quindi, si rivela totalmente vuota di ideali e di affetti sinceri; dall’altra il popolo che ancora vive secondo natura e perciò si rivela moralmente sano, lavoratore, assennato.
Quello che colpisce e rimane in chi legge il poemetto, non è tanto il complesso delle sciocchezze obbligate della vita del giovin signore e dei suoi colleghi, quanto il voto miserando di quella vita: nessun vero affetto, nessun ideale, perfino nessuna vera passione. Siamo di fronte a quella vanità o vuotaggine del cuore che nella lettera al De Martini, il poeta definiva “nemica di ogni atto egregio”.
Perciò il tema vero è ben più vasto della giornata del giovin signore: esso è il vuoto assoluto di una classe, e precisamente della classe più influente, con tutti i suoi tristi riflessi sulla vita sociale della nazione italiana. Più volte il poeta ci presenta di scorcio l’Italia che invano spera in questa gioventù indolente ed inutile. I motivi del Giorno, perciò, saranno validi fino a che sulla terra ci saranno uomini vanitosi ed inutili : di qui l’universalità del poema.
2)- La varietà dei tipi che il poeta ci presenta. Man mano che la scena si allarga dal Mattino al Mezzogiorno, al Vespro (i tipi e non i caratteri perché gli aristocratici sono senz’anima) si moltiplicano, fino a diventare folla nella Notte. In ogni tipo si incarna un aspetto della vita degli aristocratici, una forma particolare della loro vanità.
Dall’inizio alla fine del poema, passa dinanzi ai nostri occhi una serie svariatissima di ritratti, delineati con impareggiabile finezza psicologia e precisione di note esteriori. Si vede bene che il Parini è un osservatore acutissimo e sa abilmente armonizzare l’aspetto esteriore di un personaggio, con le sue caratteristiche interiori. Basta pensare al ritratto dell’epicureo e del vegetariano e a quello dell’aristocratico forestiero nel Mezzogiorno.
3)- La passione con cui segue i movimenti del protagonista e dei suoi colleghi.
Il Parini è uno spirito ricco di umanità e di senso morale: perciò è sempre presente nel suo poema con il suo sdegno represso e il suo piglio ironico. Questa partecipazione continua ed intensa dell’autore conferisce a tutto il poema una immediatezza lirica assidua ed appassionata. Al potenziamento di questa immediatezza contribuisce efficacemente il discorso diretto: il poeta, infatti, si rivolge di continuo al giovin signore o, qua e là, ad altri personaggi, per tenere più legati al suo spirito i motivi particolari e tutta la materia in generale. E’ questa liricità costante (ossia questa partecipazione appassionata) che conferisce alto valore poetico a tutta l’opera, in quanto la arricchisce di umanità.
4)- L’abilità con cui lega i passaggi. Forse una delle difficoltà maggiori che presentava il tema del diario era la saldatura organica e vitale dei vari momenti della giornata del giovin signore. Il Parini ha saputo quasi sempre superarla, ricorrendo alle soluzioni più geniali: ora associando motivi particolari che si richiamano perché insieme costituiscono un motivo più generale (ad esempio: i vari motivi della toeletta rientrano nel tema, più generale, della preparazione dell’eroe) -ora associando motivi che si richiamano per somiglianza – ora associando motivi che si richiamano per opposizione – ora facendo ipotesi (ad esempio. All’inizio della Notte: dove sarà il mio signore “ Forse sta facendo questo; forse potrebbe essergli capitato quest’altro….) – ora fingendo che la sua attenzione, già rivolta ad una scena, sia richiamata da un suono o da una visione di tonalità più intensa – ora assumendo la funzione di un fotografo che, tra mille scene interessanti, riprende quelle che maggiormente lo colpiscono.
Gli elenchi stessi perdono la loro aridità dell’enumerazione in serie, per assumere la funzione di particolari inseriti organicamente in un quadro generale. Ad esempio: l’elenco degli arnesi del mattino, non solo è ravvivato dalla personificazione dei singoli oggetti (ognuno dei quali cerca di mettersi in evidenza per certe sue attrattive), ma costituisce il complesso pittorico di un tema che può essere enunciato presso a poco così: “le armi dell’eroe”. L’elenco dei commensali si traduce in una serie di particolari di un quadro generale: “belli spiriti ad intellettual convegno”; l’elenco del Vespro illustra il tema: “campionario di lusso stolto”; l’elenco della Notte: “orgogli e sciocchezze in competizione serrata”. Non si tratta di elenchi, ma di particolari di un quadro, che si richiamano per somiglianza o per contrasto e sempre sono collegati dal concetto che nel mondo aristocratico un tipo vale l’altro, perché tutti son tipo di sciocchi.
5)- La ricchezza dei motivi con cui riesce a variare e a ravvivare la materia: descrizioni precise e nitide, richiami mitologici e miti nuovi – richiami storici – richiami a motivi famosi di poemi classici – paragoni appropriati e condotti con mirabile arte descrittiva – discorsi di questo o di quel personaggio.
Pregi di stile.
1)- Espressione intuitiva. Il Parini parla costantemente per immagini; non discorre ma rappresenta; o pittura o scolpisce. Le frequentissime personificazioni stanno a dimostrare che intendeva parlare alla intelligenza dei lettori attraverso la loro fantasia e che l’espressione figurativa gli sembrava la più adatta ad inculcare idee, anche se artisticamente era la più difficile.
2)- Figurazione precisa e nitida. Di ogni oggetto, di ogni gesto di ogni fisionomia, di ogni stato d’animo il Parini sa individuare e riprodurre la nota o le note più significative e rivelatrici. Ci troviamo costantemente di fronte a pitture o sculture tratteggiate con proprietà, elaborate nei minimi particolari e chiare.
3)- Senso delle proporzioni e quindi armonia. E’ questa forse la nota stilistica più difficile del Giorno. Infatti la satira, animata com’è da uno spirito critico, è portata ad esagerare, cioè a vedere il male perfino là dove esso non c’è, oppure è di lieve entità: di qui il costante pericolo che essa, insista troppo su certi motivi (negativi), che cada nelle lungaggini e nelle esagerazioni.
Veramente questo è il rimprovero più comune che viene fatto al Parini; ma, salvo qualche rarissima occasione, nella distribuzione delle parti, nello sviluppo dei motivi, nella composizione dei quadri e dei ritratti, le proporzioni sono sempre rispettate. Se, talvolta, il poeta inserisce numerosi particolari nel quadro, lo fa per esigenze di chiarezza e di completezza.
4)- Signorilità ed eleganza di immagini e di espressione. Anche nei punti più scabrosi il Parini, da vero poeta classicista, evita costantemente la trivialità e l’oscenità: egli ignora la descrizione cruda, il linguaggio veristico, che è spesso proprio dei poeti satirici (ad esempio di Giovenale). L’immagine mitologica, il vocabolo classico, la perifrasi appropriata, sono i mezzi con i quali egli riesce ad esprimere in forme piacevoli, anche gli aspetti più riprovevoli della vita aristocratica.
5)- Il linguaggio preciso e forbito. Al tempo del Parini era viva la lotta fra l’Accademia milanese dei Pugni e l’Accademia veneziana dei Granelleschi. Esponenti della prima erano i fratelli Verri, che propugnavano l’abolizione del vocabolario della Crusca (denominato così perché era stato compilato dall’Accademia della Crusca di Siena alla fine del ‘500), in cui erano raccolti i vocaboli e i modi di dire dei grandi autori toscani del trecento, specie del Petrarca e di Boccaccio (secondo la teoria linguistica del Bembo). Secondo i soci dell’Accademia dei Pugni, la lingua da adottare era quella viva della persone colte di tutta Italia, con l’aggiunta di vocaboli e modi di dire desunti dalle lingue straniere (specie da quella francese), qualora la nostra non offrisse i termini necessari ad esprimere certi concetti.
Esponente dell’Accademia dei Granelleschi era Carlo Gozzi, il quale sosteneva l’intangibilità del vocabolario della Crusca.
IL Parini fece parte dell’Accademia dei Trasformati, la quale sosteneva che la nostra lingua non doveva essere imbarbarita con l’introduzione di elementi stranieri e che perciò il vocabolario della Crusca costituiva sempre il codice linguistico fondamentale del vocabolario medesimo, con l’abbandono di termini antiquati e con l’accettazione di vocaboli che i grandi scrittori rinascimentali avevano introdotto nell’uso.
La lingua usata nel Giorno ha i seguenti pregi:
a)- italianità pura e modernità.
b)- precisione e chiarezza.
c)- sceltezza ed eleganza.
Dalla lettura del poemetto si trae l’impressione che i Parini doveva essere un conoscitore formidabile delle lingue classiche e di quella italiana. Si dice che egli abbia limato moltissimo il linguaggio del Giorno (il Manzoni in un sermone satirico intitolato “Contro i verseggiatori d’occasione” dice che il Parini spesso “faceva oltraggio al crin canuto”, cioè si strappava i capelli quando non riusciva a trovare il termine esatto); tuttavia non si nota nessuna forzatura nella sua espressione e tutto sembra naturale e spontaneo. La scelta esatta dei vocaboli non solo fa in modo che egli pitturi e scolpisca con la massima precisione e concisione le immagini, ma garantisca al verso una varietà melodica appropriata alla varietà dei motivi trattati (basta ricordare l’episodio della Vergine Cuccia e l’introduzione della Notte). I versi onomatopeici (ossia che riproducono il suono delle cose descritte) sono frequenti e soprattutto sono naturalissimi. Talvolta incontriamo iperbati alla greca (costruzioni inverse: ad esempio. “per lungo di magnanimi lombi ordine”, e perifrasi ingegnose (ad esempio “l’altrui donna a te sì cara”): il poeta le usa non solo perché costituiscono un modo efficace di esprimere il pensiero, ma perché servono a dare solennità classica al linguaggio, in quanto lo avvicinano a quello di Omero.
Difetti del Giorno.
1)- Non accenna ad alcun pregio del giovin signore. Mette in evidenza i pregi dell’aristocrazia antica, ma in quella moderna vede soltanto difetti. Il vuoto assoluto (dato che il Parini ha voluto mettere in evidenza la “vanità del cuore” della gioventù aristocratica), non esiste neanche nello spirito umano. Tuttavia, forse, i pregi erano così pochi in confronto ai numerosi e rovinosi difetti, che il Parini non ha creduto rivolgere ad essi la sua attenzione.
2)- Insiste troppo su certi motivi: ad esempio: sugli equivoci rapporti del giovin signore e la dama; sulla dabbenaggine del marito; sulla descrizione dei giochi nella Notte; su particolari, talvolta, inutili ai fini del motivo che sta svolgendo.
3)- Qua e là alcune immagini imprecise (ad esempio: le grazie delle mani della dama quando, durante il pranzo, trincia le pietanze), un po’ oscure e, talvolta, ricercate e forzate.
4)- Certe espressioni linguistiche non chiare e un po’ artificiose.
Si tratta di difetti che, messi a confronto coi pregi, non tolgono nulla alla grandezza del capolavoro pariniano. Orazio dice che lo stesso Omero talvolta sonnecchia, cioè procede alla stracca e lavora alla meglio.
Il problema dell’unità del Giorno.
I critici si sono domandati quale sia il motivo che dà unità al Giorno. Alcuni hanno individuato questo motivo nella presenza costante del parini quale “precettor d’amabil rito”. Altri lo hanno individuato nell’ironia che domina da capo a fondo il poemetto e che, perciò, conferirebbe ad esso l’unità di tono.
Tuttavia il primo motivo non appare sufficiente a spiegare l’unità dell’opera. Infatti qui non si tratta di sapere se c’è un personaggio che rimane in scena dall’inizio alla fine: in tal caso varrebbe la pena di proporre un personaggio di legamento, per così dire, lo stesso giovin signore. Ma il problema consiste nel vedere se la presenza costante di un personaggio riesca a collegare i motivi di un’opera. No n è difficile capire che un legame di tal genere è esteriore: infatti con il pretesto che è sempre lo stesso personaggio ad agire a a raccontare, uno scrittore potrebbe parlare di tutto quello che vuole, senza che tra i vari motivi svolti ci sia un rapporto organico e vitale.
Meno ancora regge il legame dell’unità di tono: con lo stesso tono uno potrebbe parlare di tutto quello che gli viene in testa, anche se si tratta di cose che non hanno nessun rapporto fra di loro.
Allora bisognerà trovare un motivo, un tema unitario più profondo e vitale. Questo tema è indubbiamente proprio quello che il Parini ha trattato, inteso nel senso che egli ha voluto dargli. Il tema è la giornata del giovine aristocratico, anzi della classe aristocratica. La giornata di un individuo o di una classe, in pratica si identifica con la sua vita: “signor, tu vedi di quest’opre ordirsi de’ tuoi pari la vita, e sorger quindi la gloria e lo splendor di tanti eroi”. Perciò, descrivendo una giornata intessuta di sciocchezze vissute con presunzione, il poeta intende svolgere il tema seguente: “la vita inutile e presuntuosa della classe sociale più responsabile”: un tema sempre attuale in tutti i tempi e in tutti i luoghi. I motivi particolari che il Parini introduce nella sua opera non sono altro che mezzi di cui egli si serve per illustrare questo tema.
Ed è proprio questa funzione comune da essi svolta, è proprio questa finalità comune a cui essi sono destinati, che li collega vitalmente fra loro. L’unità, quindi, nel Giorno c’è:
essa è costituita dal tema che, superando l’arido diario ed assumendo un significato etico e sociale di portata universale, vivifica i vari motivi e li salda organicamente. D’altra parte, a lettura finita, noi abbiamo una idea abbastanza precisa della vita del “bel mondo”: se l’impressione che si riceve è unitaria, bisogna concludere che, il quadro a noi presentato dal poeta, è anch’esso unitario.
Le fonti del Giorno.
Il Carducci chiama “fontanieri” coloro che si accaniscono a trovare le fonti da cui i grandi poeti avrebbero attinto per comporre i loro capolavori.
Per quanto riguarda il Parini, i fontanieri avrebbero trovato le seguenti fonti:
1)- Il “Ricciolo rapito” di Pope 8pubblicato tra il 1712 e il 1714). E’ un poemetto satirico che nel titolo richiama “La secchia rapita” del nostro Tassoni.
Alla bella giovinetta Belinda il silfo (= spiritello benigno dell’aria) Ariele preannuncia i sogno una prossima sventura. Quando ella si svegli ha inizio la toeletta e il poeta la descrive minutamente, soffermandosi soprattutto sui due riccioli della fanciulla, che hanno fatto invaghire Achille, un nobile cavaliere. Ariele raduna i suoi silfi e ordina loro di vigilare perché nulla accada di male a Belinda.
Sta scendendo la notte ed il poeta elenca tutti i tipi di malfattori che popolano le tenebre notturne. Belinda su un cocchio dorato giunge ad un grande palazzo, dove sono adunati per giocare a bridge, i più alti esponenti della nobiltà inglese.
All’arrivo della fanciulla tutti tacciono, appunto perché stavano parlando male di lei.
E’ presente anche il prode Achille, col quale Belinda ingaggia una partita a carte. Durante il gioco Achille taglia un ricciolo alla sua avversaria, che in precedenza aveva rifiutato a lui il suo amore. Lo gnomo (=spirito cattivo) Rancore del regno della notte, ascende nella sala dove è avvenuto il misfatto e coi suoi fluidi malefici suscita ire nel petto della giovinetta Talestre, che partecipa per Belinda, e in quello di Clarice che, innamorata di Achille, approva l’offesa fatta a Belinda. Si accende una mischia furibonda in cui volano tazze, carte da gioco, collane spezzate; ed anche ventagli.
Alla lotta prendono parte anche Venere e Marte a favore di Talestre; Minerva ed Apollo a favore di Clarice. Alla fine interviene Giove, che incita Belinda ad aggredire personalmente Achille. La fanciulla getta sul volto dell’avversario tutto il tabacco della sua tabacchiera e lo accieca, lo fa starnutire e lo fa stramazzare su una poltrona. Mentre Belinda sta per pungerlo con uno spillo, interviene il barone Piuma 8una specie di Patroclo) che induce il suo amico Achille a restituire il ricciolo. Ma questo no n si trova più nelle tasche di Achille: è salito misteriosamente in cielo e si è trasformato i n costellazione.
2)- “Le lutrin”(= leggio) di Boileau (pubblicato tra il 1674 a il1683). La Discordia vuol turbare la pace dei canonici della cappella a Parigi; e perciò svela, in sogno, al canonico tesoriere che, mentre egli dorme, il canonico cantore usurpa il suo ufficio. Il tesoriere, per vendetta, fa collocare davanti al posto del cantore u n leggio che lo copra. Mentre tre aiutanti del tesoriere spostano il leggio, nel profondo della notte, il cantore, avvertito in sogno, sveglia tutti i canonici e corre ad impedire l’affronto: il leggio è abbattuto. Il tesoriere ricorre alla Giustizia, nel cui palazzo trova il Cavillo che lo incita alla lotta. Mentre egli scende le scale del palazzo, incontra il cantore e i suoi alleati; e attaccano una battaglia a colpi di libri di cattivi autori, presi da una libreria che è nei pressi. Il tesoriere stesso pone termine alla mischia, benedicendo i contendenti. Il saggio Ariosto risolve la lite: il leggio sarà rialzato nello stesso luogo in omaggio alla volontà del tesoriere; e poi sarà rimosso in omaggio alla volontà del cantore.
3)- Il “Cicerone” di G. Carlo Passeroni (sacerdote e poeta come il Parini e suo caro amico). Il Cicerone è un poema di 101 canti. L’autore narra la vita di Cicerone, ma prende lo spunto dai vari momenti di essa, per fare confronti con la vita e i costumi del secolo XVIII°. Le digressioni di questo genere sono tante e costituiscono i due tersi del poema: in schizzi, quadri, episodi, il Passeroni parla con arguzia ed assennatezza dei vizi della nobiltà, della moda, delle bizzarrie donnesche, delle monacazioni forzate, del cicisbeismo.
4)- Un satira in latino di un certo Lorenzo Lucchesini (gesuita del ‘600) intitolata: “In antimeridianas improbi iuvenis cura” (contro le occupazioni antimeridiane di un malvagio giovane.
5)- L’abbondante letteratura del ‘600 e del ‘700 , sia italiana che francese. Basta ricordare in Italia: il Tassoni col suo poema eroicomico “La secchia rapita” – il Goldoni con le sue Commedie; in Francia il La Fontaien con le sue “Fables” (che lo stesso autore definì: “un’ampia commedia in cento atti diversi e la cui scena è l’universo”).
6)- Due operette del Parini stesso. Un “Discorso sopra le caricature” (letto ai soci della Accademia dei Trasformati) in cui ritrae una serie di macchiette della società del tempo. “Il dialogo della nobiltà” (in cui si anticipa sia il pregiudizio del sangue, sia l’intento del Parini di smontare l’orgoglio dei nobili).
Siamo in un’epoca non eroica, e quindi è naturale che fiorisca la satira di costume; siamo in periodo di riforme, e quindi è naturale che la critica si affermi come presupposto del rinnovamento.
Ebbene, nonostante che nel Giorno si ritrovino svariati motivi e situazioni di opere precedenti; nonostante che l’atmosfera in cui Parini vive, sia carica di spirito satirico, tuttavia la personalità della sua opera poetica è inconfondibile. Egli non imita nessuno; semmai utilizza situazioni, procedimenti ed immagini suggerite da altri per esprimere quel suo mondo interiore, che ha una fisionomia ed una vitalità tutta particolare, anche se si inquadra, com’è naturale, nello spirito del suo tempo.
Composizione del Giorno.
Il Giorno come lo abbia mo attualmente, non fu pubblicato dal Parini, ma dal Reina (che dal 1801 al 1804 curò l’edizione di tutte le opere edite ed inedite dell’amico poeta, in sei volumi).
Il Parini fin da quando incominciò a lavorare intorno alla sua opera, aveva intenzione di comporre e pubblicare tre poemetti: Il Mattino, il Mezzogiorno, la Sera. Infatti, nella dedica del Mattino alla Moda, afferma: “se a te piacerà il riguardar con placid’occhio questo Mattino, forse gli succederanno il Mezzogiorno e la Sera”. Che egli avesse intenzione di intitolare l’opera completa “Il giorno”, risulta dall’ode “La caduta”: “E te molesta incita di porre fine al giorno”. Questo sarebbe stato il titolo generale di tutti e tre i poemetti, qualora egli fosse riuscito a completarli e a pubblicarli in un’opera sola.
Il Mattino uscì nel 1763. Tutti i letterati, concordemente ne riconobbero i pregi. Il conte di Firmian (ministro dell’imperatrice Maria Teresa a Milano e amico del poeta) lo ammirò. Il Baretti, in un articolo della Frusta letteraria definiva l’autore del Mattino “uno di quei pochissimi buoni poeti che onorano la moderna Italia”.
Ricordando che la Frusta del Baretti non risparmiava nessun letterato inutile, bisogna concludere che al terribile critico l’opera apparve utile alla riforma della società.
Nel 1765 uscì il Mezzogiorno, a cui furono fatte le stesse accoglienze del Mattino.
La Sera, invece, non uscì che dopo la morte del poeta, per l’interessamento del Reina, divisa in Vespro e Notte.
Dai documenti risulta che fino all’anno1779 il Parini intese mantenere alla terza parte il titolo di Sera. In quell’anno, però, un poeta ignoto, sfruttando l’impazienza del pubblico, che attendeva l’ultima parte del lavoro pariniano, pubblicò una “Sera”. Il Parini, allora, si sentì nella necessità di cambiare la sera, a cui egli stava lavorando, in Vespro e Notte, in modo da distinguerla da quella del poetastro rivale. E tale distinzione fu mantenuta dal Reina nell’edizione del 1801.
Ora vediamo per quali motivi il Parini non portò a termine e non pubblicò la terza parte.
Subito dopo la pubblicazione del Mezzogiorno (1765) egli cominciò a lavorare intorno alla Sera. Ma già nel 1766 egli dichiara di aver “ quasi dimesso il pensiero della Sera” perché gli stampatori gli hanno ristampato il Mattino e il Mezzogiorno “in mille luoghi”, senza tener conto che, per il diritto della proprietà riservata, a lui spettava parte dell’incasso.
Da un documento del 1770 risulta che egli sta lavorando alla “Sera”. Nel 1785 il Pindemonte si reca a far visita al Parini e questi gli recita alcuni passi della Sera. E nello stesso anno 1785 nell’ode “La caduta” egli dimostra di essere consapevole dell’attesa del pubblico per la terza parte: la patria lo “incita a por fine al Giorno”. Nel 1791 il Parini, in una lettera, diceva: “nella primavera ventura spero e quasi tengo per certo di avere in pronto due poemetti (il Vespro e la Notte), per seguito e termine di quelli altri due antichi, che hanno avuto la fortuna di non dispiacere”. Ma i due poemetti non uscirono finché egli fu vivo; e la Notte non fu completata.
I motivi possono essere i seguenti.
Due sono di carattere pratico e poco significativi:
a)- il disonesto atteggiamento degli stampatori che sfruttavano il suo lavoro, senza dargli alcun compenso, per cui egli non se la sentiva di dedicarsi ad un lavoro che apportava vantaggi finanziari solo agli altri.. Il motivo morale capace di fargli superare questa considerazione utilitaria, non era ormai più urgente: infatti quello che doveva dire ai nobili per indurli a cambiar vita, lo aveva detto nel Mattino e nel Mezzogiorno; e se anche avesse lasciato l’opera a quel punto, il suo compito sociale era quasi assolto.
b)- gli incarichi scolastici che gli furono assegnati nel 1769 (insegnamento di belle lettere nelle scuole Palatine e nel 1776 (la presidenza e l’insegnamento presso l’Accademia delle belle arti di Brera); ed altri incarichi di carattere culturale non gli permisero di lavorare con la stessa lena con cui aveva lavorato dal 1760 al 1765, quando era libero da ogni impegno.
Quattro motivi sono di carattere morale e molto impegnativi.
1)- una volta assunto ad incarichi scolastici ed educativi, il Parini non vedeva opportuno continuare nella sua attività satirica; anzitutto perché molti alunni che frequentavano le sue scuole appartenevano alla nobiltà; ed egli quale insegnante e quale preside doveva apparire, ormai, soltanto nella veste di educatore imparziale; e, in secondo luogo, l’opera educativa, a vantaggio della nobiltà, poteva svolgerla direttamente nella scuola.
2)- Dopo la pubblicazione del Mattino e del Mezzogiorno, il Parini, in seguito alla
animosa reazione dei nobili ed al plauso concorde della classe intellettuale, comprese che aveva colpito nel segno; e, perciò, non sentì più urgente la necessità di continuare nella critica demolitrice. Si dedicò, piuttosto, alla fase positiva, che è rappresentata dalle “Odi”, nelle quali insegnò costantemente principi di vita naturale e civile. In questa fase ricostruttiva, forse, al Parini non riusciva più facile, come prima la demolizione attraverso la satira; gli sembrava , forse, un compito ormai superato; e, d’altra parte, l’insegnamento del bene gli sembrava ormai più utile della critica del male. Da questo rallentamento della vigoria satirica, deriva il rallentamento della composizione della Sera.
3)- Avendo svolto quasi tutti temi fondamentali della sua satira nel mattino e nel
Mezzogiorno, sentiva la difficoltà di procedere ancora sulla stessa linea, col rischio di ripetersi e di non trovare motivi interessanti. D’altra parte, l’entusiasmo con cui il pubblico aveva accolto il Mattino e il Mezzogiorno, se da una parte lo confortava, dall’altra lo spaventava perché costituiva per lui un impegno, non solo a mantenersi nello stesso piano di perfezione artistica, ma a fare anche meglio. Di qui la lentezza con cui condusse la composizione della Sera (cioè del Vespro e della Notte): sembrava quasi che la sua vena si fosse esaurita.
4)- Dal 1789 in poi (cioè dopo l’inizio della Rivoluzione francese) egli fu trattenuto dal pubblicare quello che aveva scritto (Il Vespro e la Notte fino all’argomento del gelato) da una considerazione profondamente umana.
Anzitutto stava vedendo che dal tempo in cui aveva scritto il Mattino, cioè da circa venti anni, la nobiltà si era scossa dal suo torpore: molti nobili partecipavano attivamente alla vita pubblica; e, d’altra parte, egli stesso, stando a contatto con persone autorevoli appartenenti alla aristocrazia, si era accorto che non tutti i nobili erano come il giovin signore.
In secondo luogo, non ritenne opportuno che, mentre la nobiltà veniva ghigliottinata in Francia, egli rincarasse la dose dell’odio antiaristocratico con la pubblicazione del Vespro e della Notte. Per questi motivi il Parini morì senza aver pubblicato l’ultima parte del suo poema. La pubblicazione fu fatta, come si è detto, più volte dall’amico Reina. Questi ristampò il Mattino secondo l’edizione del 1763, e il Mezzogiorno, secondo l’edizione del 1765, togliendo, però, da esso tutto l’episodio relativo alla passeggiata al Corso , incorporandolo nel Vespro (come del resto era nell’intenzione del Parini stesso.)
Il testo del Vespro (su cui fu fatta l’edizione) era quello scritto a mano dal Parini; e la Notte fu riordinata dal Reina in base ai vari testi autografi tutti più o meno frammentari.
Conclusione.
La “dolce vita”, espressione della naturale tendenza dell’uomo all’ozio, al vizio e alla sfacciataggine congiunti insieme, non ha mai avuto un fustigatore più intelligente ed impegnato del Parini. Il tema, eternamente valido fino a che ci saranno individui e classi sul tipo dell’aristocrazia cicisbea del ‘700, pone il Giorno fra le opere di contenuto universale; l’arte squisita con cui il Parini ha svolto il tema, lo pone fra le opere più pregevoli della nostra letteratura.