IL SEICENTO
Il secentismo o Marinismo è un movimento letterario che si propone di reagire alla solenne compostezza dell’arte umanistica e di creare un poesia sfavillante e ardita, capace di sbalordire i lettori.
Lo stile umanistico aveva presentato le caratteristiche della chiarezza e dell’ornato decoroso: i marinisti si propongono di sostituire alla forma statica del classicismo, che contava già due secoli di vita, una forma spettacolare e movimentata.
Il programma marinista, nella sua parte negativa, è costituito, dunque, dal rifiuto della tradizione umanista. I classicisti dai propugnatori del nuovo movimento sono definiti “beccamorti di Parnaso”, cioè cultori di una poesia morta.
La parte positiva del programma si può riassumere in due motti: “Ricercare il nuovo”. Il Marino scriveva: “per novo cammino, dietro a nuovi pensier muovere il corso”): e “Meravigliare il lettore”. “E’ del poeta il fin la meraviglia chi non sa far stupir vada a la striglia”).
Ogni generazione riceve dall’età che l’ha preceduta un complesso di esperienze che influiscono decisamente sul suo programma e sulla sua fisionomia spirituale.
Il Rinascimento agli uomini del ‘600 dovette apparire come l’età delle innovazioni audaci, dei tentativi spregiudicati, delle realizzazioni superbe: la civiltà per opera di innovatori intelligenti e coraggiosi aveva evidentemente fatto un gigantesco passo in avanti. La scoperta di nuovi continenti, di nuove vie di comunicazione, delle armi da fuoco delle prime leggi della fisica, di nuovi espedienti tecnici nel campo della pittura, della scultura e dell’architettura persuasero gli uomini dell’età post-rinascimentale che per scoprire bisogna osare, svincolarsi dai pregiudizi del passato e avventurarsi nell’ignoto, fidando nelle risorse del proprio ingegno: ogni rinnovamento è un passo verso un Rinascimento. La serie dei rinnovamenti non ha limite. Le scoperte scientifiche non solo non si erano esaurite nell’età del Rinascimento, ma continuavano gloriosamente per opera di Copernico e di Galilei, confermando questo concetto della progressività indefinita della scoperta.
Audaci ed avventurieri, i secentisti vollero scoprire un “novo mondo” in tutti i campi.
La ricerca del nuovo in letteratura, però, non consiste, per i secentisti, in un rinnovamento dell’ispirazione (con cui andrebbe fatalmente connesso un rinnovamento della forma e del linguaggio, non essendo possibile scindere il modo di svolgere un tema dalla natura stessa del tema), ma nella creazione di una forma e di un linguaggio nuovo, senza alcuna preoccupazione di ridestare i grandi ideali della vita e di cogliere nella esistenza umana forme e motivi nuovi capaci di interessare.
E’ assurdo scindere il contenuto dalla forma e dal linguaggio: eppure i Marinisti si proposero di realizzare l’assurdità di un’arte ridotta a sola tecnica di espressione.
Il nuovo stile inventato dai marinisti è definito “concettoso”. Il concetto non è l’idea, come si intende comunemente, ma è una parola peregrina “velocemente significante un obbietto per mezzo di un altro”, ossia è una metafora ingegnosa.
Il “mondo nuovo” perciò, sarà caratterizzato da uno sforzo eroico di porre e conservare l’immaginazione in stato di incandescenza: non si tratta più di ricercare una espressione chiara e decorosamente formata per manifestare pensieri e sentimenti sgorgati da una convinzione intima, ma di ritrovare, nel serbatoio dell’immaginazione, forme sensibili le quali, con il pensiero che si vuole esprimere, abbiano una affinità così sottile e misteriosa che solo un “genio” riesca ad individuarla.
I grandi poeti, anzitutto, rivivono la vita intima del soggetto che trattano, in tutte le facoltà del loro spirito: il Marinista non medita, non sente, non interpreta; egli si impegna a ricercare le immagini più stravaganti per le sue povere idee, secondo un misterioso segreto di somiglianza noto a lui soltanto.
L’arte, perciò, si riduce ad un puro sforzo immaginativo, a linguaggio “sfavillante” di metafore. Ai fini dell’effetto linguistico, non solo viene sfruttata la metafora, ma vengono messi in uso tutti gli artifici più potenti della retorica.
Si ricorre infatti:
a)- alle aggettivazioni abbondanti;
b)- alle sinonimie incalzanti;
c)- ai paragoni moltiplicati;
d)- alle apostrofi;
e)- alle interrogazioni retoriche ed alle esclamazioni;
f)- alle personificazioni;
g)- agli epifonemi ( espressioni di chiusura che riassumono, in forma vibrata, i
concetti esposti nel corso della composizione;
h)- ai contrasti di concetti ne di parole;
i)- alle allitterazioni (ripetizione di suoni vocalici e consonantici);
l)- ai ritmi sonori e spesso onomatopeici.
Gli espedienti che la retorica umanistica aveva inventato per rendere efficace l’espressione linguistica offrivano ai secentisti risorse d’effetto ignote ai predecessori; infatti, li avevano considerati come mezzi; essi, invece, concentravano tutto il loro impegno, nella tecnica linguistica, come in un fine; quelli avevano lavorato con buonsenso, i secentisti, invasi come erano dagli eroici furori del “genio”, ed ispirati dalla voce misteriosa del “gusto” , miravano ad affogare i lettori in un mare di sonanti e colorite parole.
Infatti, per essere poeta, secondo l’estetica secentista, è necessario essere forniti di queste due facoltà: del Genio e del Gusto. Di tale estetica furono teorici Matteo Peregrini (”Delle acutezze”), Emmanuele Tesauro (“Il cannocchiale aristotelico”), e Baldassar Gracian (“ Agudeza y arte de ingenio”).
Con la parole “ingegno” noi, comunemente, intendiamo quella capacità straordinaria di una facoltà umana che riesca a realizzare conquiste inaccessibili alla massa comune dei mortali. Il genio dei secentisti è pura capacità immaginativa, cioè capacità di trovare immagini e ingegnosità nel combinarle per esprimere qualche pensiero, cioè capacità di evitare la forma e il linguaggio comune, sostituendo una forma ed un linguaggio straordinari.
IL genio è una specie di invasamento, di incendio della immaginazione per cui i concetti assumono forme esagitate (scomposte) e teatrali, e tutta la composizione procede fiammeggiante e travolgente; talvolta è una specie di fuoco d’artificio in base di batteria finale; talvolta è capriccio arguto ed elegante; talvolta è arditezza e temerarietà di immagini.
Il gusto è la capacità di individuare i bei ritmi, le belle disposizioni di parole, i bei contrasti, le ingegnose allitterazioni. Il genio è una proprietà che riguarda più la forma (cioè il modo di presentare il contenuto che, come si è detto, è immaginativo) e si riferisce all’immaginazione; il gusto esclusivamente riguarda la parola e si riferisce alla tecnica del linguaggio.
Non è difficile, ora, capire perché i secentisti si proponessero di meravigliare il lettore e come riuscissero nel loro intento.
Essi non intendono suscitare riflessioni profonde a passioni ideali e diletti superiori nell’animo dei lettori, ma si propongono di affascinare la loro immaginazione, di impegnarli maliziosamente nella interpretazione delle loro acute metafore, di dilettarli con l’ingegnosità dell’artificio. Di ottenere da loro il riconoscimento di una brava tecnica.
Motivi di ispirazione.
Essendo il contenuto della letteratura secentesca assai povero, non è difficile individuare i motivi di ispirazione di essa.
I temi costituiscono un pretesto, non per interpretare l’uno o l’altro aspetto della vita, ma per comporre “pezzi di bravura.
Abbiamo visto che la letteratura secentesca è descrittivo-immaginosa: è chiaro, quindi, che i motivi di essa saranno quelli che maggiormente si prestano ad uno svolgimento sfavillante ed immaginante.
I principali motivi sono:
a)- motivi paesistici, ricchi di colori, di suoni, capaci di produrre sensazioni languide e voluttuose.
b)- motivi elogiativi che si prestano egregiamente a favorire l’enfasi (basterebbe leggere, a questo proposito, le dediche delle varie opere secentesche).
c)- motivi macabri, capaci di destare impressioni forti e sensazione di orrore;
d)- motivi sensuali non svolti col tono svagato ed arguto dei rinascimentisti, ma con una esperienza lussuriosa, scandalosa ed ingenua nello stesso tempo.
e)- motivi polemici, svolti con baldanzosa aggressività, con tono tra il volgare e l’epico.
f)- motivi enigmatici, cioè motivi simili agli indovinelli, che si prestano assai bene a favorire il linguaggio metaforico.
Nessun tema svolto dei secentisti è impostato in modo interessante e profondo; ma non per questo si può dire che la loro produzione letteraria sia da respingere come insignificante: essa ha un significato storico assai interessante; infatti, come tutti i movimenti letterari, anche il secentismo interpreta l’esigenza più intima del mondo in cui sorse e si affermò.
La civiltà del secolo XVII è caratterizzata dalla clamorosità esteriore, dalla posa artificiosa, dalla forma fastosa.
Il Manzoni nei “Promessi Sposi” ha delineato con perfetta aderenza alla realtà storica questa civiltà bizzarra che unisce insieme la miseria e l’abbigliamento fastoso, l’onore e il puntiglio, il senso della propria dignità e la prepotenza, la signorilità e la rozzezza, la minacciosità della legge e la sua efficacia autorevolmente riconosciuta, la crudeltà più feroce e la santità più benevola, la sensualità e l’atteggiamento pietistico.
Il tono di questa bizzarria non è mai moderato o spigliato, ma è sempre eccessivo: eccesso nel male come nel bene, non tanto nelle intenzioni quanto nelle forme; è naturale quindi che anche i poeti di quel secolo siano bizzarri ed eccessivi; infatti il poeta è l’espressione più genuina di una generazione o di una età.
A causa del loro stile bizzarro, nella vita privata e nell’arte, essi furono considerati dal popolo cervelli balzani “capaci più di dire cose curiose che cose sensate”. Renzo nell’osteria della “Luna piena” dà l’appellativo di poeta ad un giocatore che ha detto una cosa curiosa e si professa anche egli poeta in quanto, nei momenti di euforia, sa dirne di cose curiose, ed il Manzoni commenta l’espressione di Renzo dicendo che nel secolo (forse anche al tempo suo) poeta non era già una sacro ingegno, un allievo delle Muse, un abitator di Pindo, ma un cervello balzano, che avesse nel dire e nel fare più dello stravagante che del normale.
E, in verità, il poeta secentesco non amiamo immaginarlo nell’atteggiamento di invasato, nella posa di uomo che, alla luce dei lampi del suo genio inferiore, capta visioni spettacolari e con linguaggio quasi da oracolo le riferisce al piccolo mondo dei mortali, affascinati ai suoi piedi.
Cause.
Il secentismo si riassume in tre principi fondamentali:
1)- l’arte (la poesia) è forma e linguaggio:
2)- la forma e il linguaggio sono belli quando sono impressionanti.
3)- le facoltà dell’arte meravigliosa sono il Genio ed il Gusto.
Ritrovare le cause per cui si sono affermati questi tre principi significa ritrovare le cause del secentismo.
Cause del primo principio.
Una prima causa della riduzione dell’arte a forma e a linguaggio è da attribuirsi alla meschinità della vita spirituale durante il periodo che va dalla seconda metà del secolo XVI alla metà del secolo XVII.
Né ideali soprannaturali, come nel Medioevo, né ideali umani come nel Rinascimento, tengono deste ed attive le coscienze delle persone colte.
Con la crisi del Rinascimento si crea una mentalità generale conformistica (di adattamento) in tutti i campi: nel campo politico si soggiace all’influsso diretto o indiretto della Spagna; in campo religioso si accetta esteriormente la disciplina della Contro Riforma, senza accoglierla interiormente; nel campo morale si continua a distinguere tra morale teorica e morale pratica, come si era fatto nel Rinascimento; e forza di adattare i principi eterni ed immutabili della morale razionale rivelata ai casi della vita, furono talvolta perduti di vista i concetti essenziali dell’etica cristiana (la casistica spesso ammazza il principio, quando essa si riduce ad accumulare eccezioni su eccezioni al principio); in campo economico, al tenore generale di vita assai misero, normalmente mediocre, ed in certi momenti addirittura disastroso, non si apporta alcun rimedio, né con iniziative private né con provvedimenti pubblici; in politica ci si contenta, come in religione, come in economia, come in morale, della forma esteriore.
Il governo Spagnolo lancia fuori a gettito continuo gride minacciose, ma non si interessa del loro effetto.
La gerarchia ecclesiastica spesso si contenta di vigilare con l’Inquisizione e l’Indice sulla integrità esteriore della fede; gli amministratori delle città, in tempo di carestia, contentano il popolo con belle chiacchiere, intanto lo lasciano morire; i moralisti invece di illustrare ed inculcare i principi, si perdono in una casistica che permette quasi ad ognuno di fare quel che vuole.
La civiltà del ‘600, insomma, più che da convinzioni e di passioni ideali, è caratterizzata dal formalismo: e questo carattere si doveva fatalmente riflettere nella letteratura: povero e quasi nullo il contenuto, eccessivi la forma e il linguaggio.
Un seconda causa del formalismo secentesco si può individuare nel culto esagerato della retorica, messo in voga dagli umanisti del ‘400, e diventato fanatismo nella seconda metà del ‘500: per i mediocri un suggerimento, una indicazione per far bene diventa legge assoluta e quasi sostanza dell’arte, e i secentisti non avendo nulla da dire, e nel complesso essendo assai mediocri, riposero tutte le loro speranze di effetto e di forma negli artifici formali escogitati dalla retorica.
Infine anche l’esempio del Rinascimento contribuì all’affermarsi della concezione formalistica dell’arte; infatti nella letteratura, nell’arte del Rinascimento, per quanto ispirazione e forma fossero andate perfettamente di pari passo, tuttavia il culto della forma aveva impegnato i letterati e gli artisti in problemi di tecnica espressiva con tanto calore che erano riusciti a trovare forme sempre più perfette, i cui motivi, i cui aspetti geniali costituivano il motivo più profondo dell’ammirazione dei dilettanti ed anche dei professionisti. Ad esempio del Mosè di Michelangelo si ammirava più la perfezione dell’esecuzione tecnica (rilievo delle muscolature e delle vene, lavoro di panneggio, certe arditezze di posa) che l’ispirazione; similmente i Profeti della Cappella Sistina erano ammirati più per il loro rilievo scultoreo (frutto di profonda conoscenza della prospettiva) che per il senso esteriore che li animava; insomma la riforma rinascimentale è così bella, così perfetta che fa pensare, ad un osservatore comune, che l’abilità stilistica costituisce quasi il tutto, nell’arte, o l’essenziale.
Cause del secondo principio.
Una prima causa si può individuare nel fatto che di solito chi ha nulla o poco da dire, per destare interesse e impressione, in chi ascolta, si vale delle parole grosse, delle frasi ingegnose, di certi giochi di espressione che sembrerebbero voler dire chissà quali cose, e invece non dicono nulla.
Lo stile di chi vuole affermarsi a qualsiasi costo è sempre clamoroso, artificioso e presuntuoso, vivace, variatissimo, in modo da destare l’attenzione di chi sta intorno.
Una seconda causa della magniloquenza secentesca si può individuare in un traviamento dello stile maestoso del Rinascimento. Michelangelo in scultura, pittura e architettura, Tiziano in pittura, Ariosto in poesia, avevano composto, con disegno così vasto e con ricchezza di particolari così intensi, da creare esempi perfetti di maestosità artistica, e ammiratori di questa grandezza accolsero soltanto l’impressione delle forme, ma non individuarono la sostanza intima di pensiero e di sentimento che alimenta la pienezza e la robustezza delle forme, e confusero così il grande con il grandioso.
Il Tasso fu il primo a realizzare questa confusione, la quale tuttavia non gli nocque eccessivamente perché egli aveva un pensiero ed un sentimento da esprimere.
Ma alla fine del ‘500 e nei primi anni del ‘600, nei vari campi dell’arte, si nota la tendenza al movimentato: il David del Michelangelo è l’esemplare della forza giovanile concentrata in un atteggiamento di misurata e composta audacia; il David di Bernini, invece, piegato su un fianco, con lo sguardo torvo, in atto quasi di mordersi un labbro per ira, è l’espressione della forza in atteggiamento teatrale: queste due statue in cui è svolto lo stesso soggetto possono essere assunte quasi a simbolo della grandezza cinquecentesca e della teatralità secentesca.
Anche la speculazione filosofica nella seconda metà del ‘500 ha assunto un tono audace e quasi drammatico: la concezione cosmografica aristotelico-tolemaica, messa in crisi dalla ipotesi copernicana, viene decisamente annientata dalla concezione del Bruno, il quale afferma l’infinità dell’universo e la identificazione di esso con Dio; ogni singolo essere è parte del tutto infinito e tende ad abbracciare, per così dire, e a godere l’universo. In ciascuno di noi vive Dio, cioè l’Infinito; di qui l’ingrandimento smisurato della nostra piccola vita e la sua ansia di espansione illimitata, di qui il tono di perfetta effervescenza, di perpetua tensione ad evadere i limiti e, per così dire, di perpetuo invasamento divino, cioè di perpetuo eroico furore “proteso alla consecuzione dell’immenso”.
Anche nel mondo della letteratura si è notata, nel corso del secondo ‘500, una drammaticità, ora di posa, ora di vera passione: basta pensare al Tasso, ai suoi eroi in perpetua crisi, al suo linguaggio incontentabile, all’enfasi costante del suo tono. L’architettura dell’”Orlando Furioso” è più grandiosa di quella della “Gerusalemme liberata”, ma in confronto con la medesima è più lineare, più nitida; il mondo psicologico del Tasso è meno vasto di quello dell’Ariosto, ma infinitamente più ricco di contrasti e di colpi di scena improvvisi.
Alla confusione del grande con il fastoso e l’enfatico contribuì moltissimo lo stile generale della vita che si affermò in Europa, dominata dalla civiltà spagnola.
A Spagna che nel 1492 era ancora impegnata nella lotta contro l’antico invasore moro, nel 1519, in seguito alla fortunata eredità di Carlo V, diventò la più potente nazione del mondo; passò da una vita mediocre ad una vita imperiale. Ma come avviene ad un privato, che se passa improvvisamente dalla miseria alla ricchezza, mancando di un gusto affinato dall’educazione, più che di eleganza si circonda di sfarzo spesso grossolano, così avvenne alla Spagna; mancando di una vera e propria tradizione di civiltà, di lunghe ed elaborate esperienze nei vari campi dell’attività umana, improntò affrettatamente uno stile di vita che ovviasse alle deficienze interiori con forme esteriori impressionanti.
Ad esempio la Spagna non aveva una esperienza giuridica, politica ed amministrativa da poter reggere degnamente un complesso di terre e di popoli quale era quello del suo impero; non avendo un personale esperto delle attività amministrative, la Spagna si servì, per il reggimento dei vari reami e vicereami e ducati, di nobili rozzi e di avventurieri, ai quali, passati dai pascoli degli altopiani poveri ed arretrati delle Castiglie alle grandi città italiane o alle fertili e ricche zone delle Americhe, si diedero le arie di gran signori e si proposero di affermarsi di fronte alle popolazioni con uno stile costantemente enfatico e impressionante.
Le arie di Hidalgos e di Conquistadores sono comuni anche ai più modesti e più rozzi amministratori spagnoli; dall’abito, tra militaresco e cortigiano, alle gride rimbombanti di terribili parole, ai cognomi stessi artificiosamente arricchiti dalla congiunzione di più casati e spesso dal nome della città nativa, agli elenchi infiniti delle cariche, tutto rivela in quegli uomini, spiritualmente poveri, l’ansia di far colpo.
Ma gli effetti disastrosi della loro amministrazione stanno a dimostrare che rare volte essi sono andati al di là delle belle parole: basta leggere i “Promessi Sposi”per rendersi conto di questo giudizio negativo; la guerra di Casale attirò sul Ducato di Milano una infinità di mali, ma lasciò la situazione politica come era prima; durante la carestia Ferrer invece di fornire la città di viveri, fatti venire dalle regioni vicine, acquieta il popolo con belle parole; le gride contro mi bravi furono ripetute decine e decine di volte dai governatori, uno più enfatico dell’altro, ma i bravi continuarono a vivere e a vigoreggiare.
Anche le famiglie signorili italiane, alleate più o meno strettamente alla Spagna, assimilano quello stile della boria altezzosa e del fasto senza gusto; i nobili di campagna erano più o meno come don Rodrigo, cioè superbi, prepotenti e villani; i nobili di città più o meno o spavaldi come il conte Attilio o boriosi come il Conte Zio o freddi e compassati come il padre di Gertrude.
L’onore del casato è l’ideale supremo di questa nobiltà: di qui le sopraffazioni reciproche tra famiglie e famiglie, di qui le frequenti parate dei parentadi, in occasione di fatti lieti od anche luttuosi.
Anche nel mondo ecclesiastico si afferma uno stile sfarzoso nelle divise, nelle cerimonie liturgiche, nella decorazione dei templi. Particolarmente i Gesuiti (ordine di origine spagnola e di tono religioso-militaresco) si distinguono nel culto della grandiosità, sia quando costruivano edifici ad uso di Collegio, sia quando edificavano e decoravano Chiese (ad esempio “Il Gesù di Roma”), sia quando impostavano l’educazione dei giovani su un programma tipicamente eroico; anche l’oratoria sacra assunse forme teatrali e si valse di tutti gli artifici inventati dalla retorica secentista, per far colpo sull’uditorio e pascerlo di belle parole.
Insomma l’enfasi diventa, nel ‘600, uno stile o modo mentale che si rivela in tutte le espressioni della vita. E’ chiaro che, essendo il poeta l’interprete più genuino di una generazione, tutte le espressioni poetiche del ‘600 siano intonate a grandiosità eccessiva. A confermare lo scrittore nella sua posa di invasato contribuiva anche il fatto che egli in genere era al servizio di questa o di quella corte e quindi, oltre che riflettere la civiltà del secolo nella sua forma più tipica (quella cortigiana), doveva impegnarsi a dar lustro al casato del Signore, illustrandone le gesta in forma superlativa e procurandogli l’onore di possedere, in antagonismo con gli altri casati, il più illustre verseggiatore.
In arte, più che nella poesia, il secentismo ebbe le sue più belle e più piene espressioni.
In architettura (Bernini e Borromini), il Barocco ci diede chiese e palazzi dalle linee ardite, movimentate e spezzate, dalle decorazioni sfavillanti di oro e di stucco; in scultura (Bernini) ci ha dato statue colossali dalle pose teatrali, dai panneggi svolazzanti, da certi spunti veramente interessanti per arditezza di tecnica; in pittura (Caravaggio e i Carracci) ci diede quadri dalle tinte forti e dai contrasti netti.
In conclusione il secolo XVII è caratterizzato dal gusto del grandioso e dell’impressionante: tale gusto, quando è sorretto da capacità notevoli, giunge ad esprimersi in forme interessanti e belle, quando, invece, è sorretto solo da capacità mediocri, come avviene nel campo letterario, cade in un formalismo bizzarro e stravagante, e quasi a tutti i lettori antipatico.
Cause del terzo principio.
Una prima causa del terzo principio della teoria estetica del secentismo è da individuarsi in una falsa interpretazione della genialità, quale si era rivelata nei grandi artisti e letterati del Rinascimento: Leonardo, Michelangelo, Raffaello, Tiziano, Bramante, Ariosto, Machiavelli si erano imposti all’ammirazione delle persone colte per la complessità e la originalità sia di ispirazione che di forma: Leonardo era apparso come il mago che conosceva i misteri di tutte le arti; Michelangelo come il genio solitario che vive nel mondo dei suoi segreti; Raffaello come una creatura soprannaturale ispirata dalle Muse; Tiziano il Re dei colori; Bramante come il Dedalo moderno; l’Ariosto come il vulcano inesauribile di fantasie meravigliose; il Machiavelli come l’uomo “mariolo sì, ma profondo”: insomma ognuno di quei grandi personaggi rivela una capacità anormale, una specie di misteriosa abilità gli aveva permesso di uscire dal comune e dall’ordinario.
I secentisti abbagliati da questo carattere di straordinarietà del Genio confusero l’ingegno con l’ingegnosità, cioè credettero che per creare cose grandi non fosse necessaria un grande spiritualità, bensì solo una buona dose di abilità nel cercare forme nuove e complicate.
A far confondere l’ingegno con l’ingegnosità contribuì anche assai la dottrina machiavellica circa la vera sapienza. Sapienza, per Machiavelli e per i rinascimentisti in genere, non è conoscenza del vero e intelligente applicazione di esso nella realtà della vita vissuta, ma è abilità, astuzia: il principe saggio non è quello che, nell’amministrare il suo popolo, si regola secondo i principi eterni del vero, del buono e del giusto, ma quello che, in un mondo di cattivi, sa abilmente destreggiarsi, prevenendo o respingendo le iniziative della malizia altrui con piani di difesa e di offesa spregiudicatamente combinati ed attuati; la politica così diventa l’arte delle “mine contro mine” (come fa dire al Podestà il Manzoni).
Il Botero, affermando che per la difesa della religione è lecito ricorrere a qualsiasi mezzo, convalidò il metodo del Machiavelli, sebbene ne limitasse l’uso solo alle difese della fede. Le lotte religiose in Francia tra Lega Cattolica e Lega Ugonotta, e quelle in Germania tra l’Unione Evangelica e la lega Cattolica, le bricconerie e le astuzie della diplomazia europea nel secolo XVII stanno a dimostrare che, dopo le dottrine del Machiavelli e del Botero, il successo nella vita pubblica non era affidato tanto alla sapienza e alla saggezza, quanto all’astuzia ed alla abilità.
Il secolo XVII, enfatico ed orgoglioso, fu anche un secolo attaccabrighe: il senso dell’onore diventò istinto di sopraffazione e puntiglio; sia nella cittadina di provincia che nelle grandi città, le famiglie dei nobili sono in perpetua lotta tra loro, non tanto per motivi di interesse quanto per avere la soddisfazione di infliggere l’umiliazione all’avversario.
Di qui tutto un intreccio si contrasti e di alleanze, di diplomazie familiari in competizione con altre diplomazie familiari: “mine contro mine” anche nel piccolo mondo dei privati. Ed anche in questo mondo la vittoria spetta all’ingegnoso: spetta, ad esempio, ad un Conte Attilio, che sa conquistare l’orgoglio del Conte Zio, spetta ad un Conte Zio che sa far capitolare un Padre provinciale.
E’ chiaro che in un mondo dove non si apprezza la sapienza, ma l’abilità, anche il poeta disprezzi una formazione spirituale profonda e si dedichi all’avventura della forma e della parola.
Alla formazione dell’opera d’arte concorrono tutte le facoltà dell’uomo sia perché, essendo lo spirito umano unitario, non si può concepire nessuna espressione, quindi anche l’arte, se non come risultato di u n lavoro armonico delle varie facoltà dello spirito stesso, sia in modo particolare perché l’arte è l’espressione che riassume e trasferisce in un piano ideale tutte le attività del nostro mondo interiore.
L’ingegnosità tecnica perciò, cioè l’abilità nel ritrovare forme ed espressioni che destino curiosità e meraviglia, non costituisce certo la capacità artistica vera e propria; il vero ingegno è costituito dalla capacità di percepire la realtà in un modo il più possibile completo e nell’inquadrarla in una visione vasta e seria della vita, nel sentirla con passione, cioè con intensità, nel rappresentarla con precisione e con evidenza. I poeti del ‘600 erano nell’impossibilità di creare una poesia non avendo il concetto esatto della natura e della missione del poeta.
Il gusto a cui essi si appellavano e che, insieme al genio, era la fonte inesauribile di buoni suggerimenti al compositore, e, in pratica, talmente soggettivo che non vale la pena annoverarlo tra i fattori dell’arte, a meno che non lo consideriamo come una facoltà istintiva a trovare le forme più efficaci dell’espressione linguistica, di cui sono fornite certe persone che, oltre che ad una eccellente potenza spirituale, hanno anche una notevole esperienza della parola.
Ma nel ‘600, secolo, come si è detto, orgoglioso e puntiglioso, l’individualità che al gusto è naturale viene (accentrata) esagerata in quanto è considerata come garanzia di originalità, come motivo per distinguersi dagli altri ed affermarsi come scopritori.
Giudizi sul ‘600.
Giudizi opposti sono stati enunciati nei confronti della civiltà del secolo XVII: alcuni hanno svalutato questo secolo come età di decadenza generale, altri l’hanno esaltato come età di effervescente dinamismo e di notevole attività in tutti i campi.
I primi hanno confuso il seicento con il secentismo, cioè la vita intera di quel secolo, con un particolare aspetto di essa: aspetto certamente non simpatico, o meglio antipatico al nostro gusto tradizionale latino, amante delle proporzioni e dell’armonia, della sobrietà e dell’eleganza, dell’idea e della forma.
Gli altri hanno veduto nelle varie espressioni della civiltà di questo secolo l’incarnazione di una spiritualità, di un’ansia, di una forma storicamente vera dell’anima umana nel suo evolversi incessante, cioè hanno veduto espressioni appropriate di una mentalità vera e propria; e ciò, secondo essi, è sufficiente per affermare che tutte le manifestazioni della civiltà di quel secolo hanno il loro valore.
Alla svalutazione assoluta dei primi si possono opporre conquiste veramente realizzate dal ‘600, alla rivalutazione assoluta dei secondi si può notare che non è sufficiente che una espressione di vita sia sincera e genuina perché possa essere dichiarata senz’altro pregevole.
Non si può negare che nel campo dell’architettura e della pittura il ‘600 ci ha dato delle opere veramente pregevoli.
L’ansia del nuovo e dell’improvviso, tendenza all’effetto clamoroso prodotto con l’irregolare,il capriccioso, lo spezzato, hanno trovato interpreti veramente eccellenti in architetti come Bernini e Borromini: dal colonnato di Bernini alla chiesa di S. Agnese del Borromini, c’è tutta una serie di edifici sacri dalle linee bizzarre, capaci di destare curiosità ed interesse, e dall’ornato fastoso e straricco capace di sbalordire.
Il nome di Michelangelo, di Caravaggio e dei fratelli Carracci sono giustamente rimasti celebri nella storia della pittura: compongono con il metodo dei contrasti forti e delle tinte piene ed abbondanti, ma sanno veramente raggiungere l’effetto dell’impressione forte.
Questi risultati nel campo dell’arte stanno a dimostrare che solo i mediocri nel ‘600, come in tutti i secoli, abusano di una formula tecnica per sostituire la vera ispirazione: la linea spezzata, lo stracarico ornativo, il contrasto violento rimangono pure forme se lo spirito che vuol realizzarle non conosce lo slancio dell’ardimento, la passione del grandioso.
Non si può, inoltre, negare che il secolo XVII è tra i più gloriosi per le conquiste scientifiche. Galilei, famoso per le sue invenzioni nel campo della fisica, ma più famoso per l’invenzione del metodo scientifico (metodo induttive-deduttivo); il Torricelli, il Castelli, il Redi, il Malpighi, il Viviani, sono i personaggi a cui spetta il merito di aver iniziato praticamente la serie delle invenzioni scientifiche nell’età moderna.
Nel campo politico domina, come si è visto, un deplorevole conformismo al dominio spagnolo: i signorotti del tempo non conoscono l’Italia, ma solo “il Re Filippo nostro signore o il suo creato conte Olivares”, tuttavia esiste una roccaforte, se non di italianità pura e disinteressata, almeno antispagnola, nel ducato di Savoia: intorno a Carlo Emanuele I di Savoia troviamo anche due scrittori antispagnoli: il Tassoni con “Le Filippiche”e il Testi.
Traiano Boccolini ne’ “I ragguagli del Parnaso” e ne’ “La pietra di paragone politico” rivela una audace indipendenza di giudizio.
Ma a noi interessa in modo particolare il campo letterario. Qui per poter dare un giudizio, il meno possibile inesatto, dobbiamo fare delle distinzioni. Troviamo, infatti, varie forme di ispirazione e di espressione; e, nel numero, certamente qualcosa di buono si può trovare.
Anzitutto osserviamo le espressioni del secentismo vero e proprio, cioè quelle che avrebbero potuto costituire l’interpretazione autentica dell’anima del secolo XVII, cioè dell’ispirazione al nuovo e al grandioso, caratteristica di esso.
Se G.B. Marino è il più notevole interprete di questa aspirazione e quindi abbiamo il diritto di basare il nostro giudizio particolarmente sulle sue opere, non possiamo fare a meno di riconoscere che il secentismo non ha avuto in letteratura affermazioni così gloriose, come le ha avute in architettura e in pittura.
Si nota, infatti, nelle opere del Marino, più una mania di perpetua avventura, che una mentalità solida e seria; si scorge più una segreta intenzione di apparire come un mago della parola, che un nobile proposito di incarnare, in motivi e forme ben definiti, gli ideali del secolo.
Questa osservazione relativa al Marino vale anche per la maggior parte degli scrittori del ‘660. Non mancarono, infatti, in quel secolo persone di eccellenti capacità, ma quasi tutte evitarono di fare sul serio; sia per incostanza, sia per brama di originalità che confondevano con la stravaganza, sia perché forzati dalla persuasione generale che il poeta fosse un invasato incantatore di cervelli umani.
Parallelo al movimento marinista esiste nel ‘600 una corrente classicheggiante rappresentata dal Chiabrera, dal Testi, dal Guidi e dal Filicaia: ma anche la produzione di questi autori ha nulla di preciso e di serio; della poesia classica essi non hanno assimilato né lo spirito né la forma, ma si sono contentati di adottare i metri e il tono. Nel complesso fanno l’impressione di persone che volendo imitare un famoso oratore si contentato di riprodurre il tono della voce in tutte le sue varietà di modulazione. Ci troviamo di fronte al solito concetto dell’arte concepita come forma e come tono.
Il desiderio di novità ha prodotto nel campo letterario anche generi letterari nuovi: troviamo infatti il poema eroicomico (”La secchia rapita” del Tassoni), il ditirambo (Redi), la commedia dell’arte, il melodramma.
Il Tassoni, che tra gli innovatori fu certamente il più ricco di genio, ebbe una straordinaria capacità di costruire le scene e di riprodurre i particolari, con combinazioni veramente felici, e rivelò una spigliatezza ed un duttilità di linguaggio tali che, non si esagera, a paragonarlo in questo con l’Ariosto; tuttavia egli preferì essere perpetuo mattacchione che vero poeta.
Si noti come i singoli motivi della “Secchia rapita” siano condotti con arte veramente eccellente fino al passo che precede la conclusione, e come l’ultimo passo sia costantemente una specie di balletto da istrione: con la frase volgare, con l’espressione comico-popolaresca rovina, per così dire, tutta una costruzione veramente bella.
Senza dire che manca a tutta l’opera una impostazione ben chiara e seria, cioè una vera visione della vita, che egli avrebbe benissimo potuto trattare, anche in un poema eroicomico. Il bizzarro desiderio di originalità, che lo indusse a farsi ritrarre con un fico in mano, sintetizza, presso a poco, la forma sua spirituale.
Il ditirambo nacque col Redi e col Redi si può dire che sia morto: la breve vita non fu certo gloriosa: “Bacco in Toscana” non è che un elenco di buoni vini e un esempio di virtuosismo tecnico per riprodurre lo stato di ebrietà. Un genere nuovo, dunque, ma nulla di nuovo.
La commedia dell’arte, sorta alla fine del ‘500, ebbe il suo massimo sviluppo e si abbandonò a tutte le bizzarrie possibili ed immaginabili durante il corso del ‘600: nello stile della maggior parte delle compagnie comiche essa si ridusse ad un guazzabuglio farsesco destinato a far rimanere a bocca aperta e a far crepare dalle risa un pubblico di pessimo gusto: colpi di scena, buffonerie, spacconate; quindi anche qui nulla di buono.
Il melodramma, sorto anche esso alla fine del ‘500, durante il corso del secolo XVII si ridusse ad una specie di “arie” senza vera e propria azione e con un intreccio costituito, come quello della commedia dell’arte, da vicende intricate e sbalorditive. Più notevole, per opera di valenti maestri, la parte musicale che il libretto, ridotto com’è, il più delle volte, a vere e proprie meschinerie.
L’audacia della spiritualità del ‘600 ebbe qualche notevole affermazione nel campo della critica, di cui eccellenti rappresentanti sono il Tassoni e il Boccolini: l’uno con i “Pensieri diversi”, l’altro con “I ragguagli di Parnaso”: manca sia nel pensiero dell’uno che nel pensiero dell’altro una sistematicità che inquadri e problemi e li risolva con dimostrazioni coerenti e logiche.
L’unica affermazione notevole della critica secentesca è quella relativa alle regole aristoteliche, che vengono definite non imperative, ma solo indicative. Fu questa una affermazione intelligente e capace dei più preziosi sviluppi, ma, essendo frutto più di mania antitradizionalista che di una nuova mentalità estetica, rimase senza conseguenze: ad ogni modo in essa possiamo cogliere un preludio alla reazione che più sistematicamente ed efficacemente condurranno i romantici contro la retorica dei generi letterari.
Letteratura scientifica.
La produzione letteraria a cui si è precedentemente accennato è espressione immediata della mentalità enfatica e stravagante del mondo secentesco: possiamo definirla letteratura di costume e di stile, e destinata al “letterati” e agli ambienti pomposi dell’aristocrazia, oppure agli ambienti grossolani della plebe.
Appartata da questa letteratura di costume, che, non avendo nulla da dire, moltiplica e gonfia le parole, fiorisce la letteratura scientifica.
Abbiamo visto che il ‘600 è un secolo veramente glorioso dal punta di vista delle scoperte scientifiche, non solo per quanto riguarda l’Italia, ma anche per le altre nazioni: scienze avviate sulla buona strada dal nostro Rinascimento, che aveva richiamato l’attenzione degli uomini sulla realtà terrena, realizzano in questo secolo le loro prime gloriose conquiste, avendo trovato il metodo vero e più efficace, cioè la combinazione dell’indagine sperimentale con la matematica, il processo induttivo e quello deduttivo.
Il merito del metodo e delle sue prime applicazioni spetta al Galilei. Questi visse durante il seicento, ma fuori dal mondo secentista, perché la sua anima fu sempre a contatto col mondo della natura, in cui si compiacque di indagare, e in cui trovò le più belle soddisfazioni. Simile ad un nuoco Colombo egli, munito di un metodo sicuro, entrò nel mondo, si può dire, ancora vergine della natura, e, con sua grande meraviglia, vide schiudersi, uno dopo l’altro, i misteri di essa: “Merito del metodo”, diceva egli, “che si rivela chiave infallibile dei segreti della natura”.
“Nel saggiatore” e nel “Dialogo intorno ai massimi sistemi” il Galilei espresse la sua passione scientifica, il suo entusiasmo per la infallibilità del metodo, la sua felicità per aver incontrato tanta fortuna nel mondo, prima oscuro ed ignoto, della natura.
La relazione che egli fa delle sue esperienze e delle sue conquiste, non ha il tono della cronaca freddamente narrativa: ma quella di una storia meravigliosa ed appassionante: la lucidità del suo pensiero, l’ordine perfetto della realtà fisica che egli discopre, impongono alla sua relazione nitidezza e semplicità. Chiarezza e passione, severità scientifica ed entusiasmo ottimistico fanno delle sue due opere esemplari perfetti, e sinora unici, di trattati scientifici.
Galilei aveva molte cose da dire e il suo entusiasmo era uno stato d’animo vero e proprio, e perciò non aveva bisogno di assumere pose e di chiacchierare a vuoto. Il senso di umiltà e di simpatica bonarietà con cui egli attribuisce, non a sé stesso, ma al metodo il merito delle sue scoperte, lo rende caro al lettore, il quale, finalmente, si trova di fronte ad un vero scienziato senza le ciglia aggrottate e senza le arie misteriose del mago.
La ricchezza del pensiero e la passione per l’argomento, come hanno garantito serietà ed arte alle opere scientifiche del Galilei, così hanno conferito notevole importanza letteraria all’opera storiografia di Paolo Sarpi. Questo frate veneziano, ardito sostenitore delle parti della sua Patria in una contesa con la S. Sede, indotto, da questa sua presa di posizione, a scorgere nella attività della Chiesa più l’opera degli uomini che l’azione dello spirito di Dio, compone la storia del Concilio di Trento con una mentalità naturalistica e profana, degna di un Machiavelli o di un Guicciardini. L’osservazione e la critica esplicita sono rarissime: il Sarpi si contenta di descrivere con efficacia, sicuro che il lettore intelligente capirà il suo pensiero segreto. Anche egli, come il Galilei, ha molte cose da dire e, quindi, usa uno stile molto sobrio e chiaro.
Il povero cardinale Sforza Pallavicino, che si assume il compito di rispondere, con una storia documentata, alle interpretazioni tendenziose del Sarpi, aveva anch’egli molte cose da dire, dovendo confutare e difendere con prove positive, si trovò più impacciato e gli mancò la libertà di cui può usufruire chi attacca e demolisce. Tuttavia la pesantezza della storia del Pallavicino, sia essa da attribuirsi alle esigenze della difesa o a modesta capacità artistica, è innegabile e pone l’opera stessa in un grado di inferiorità rispetto all’avversario.
Conclusione
Come tutti gli altri secoli, anche il seicento ha avuto la sua forma spirituale, il suo stile mentale: a molti nel passato e ai giorni nostri quella forma mentale presuntuosa, chiassosa e pompeggiante, non è piaciuta e non piace: ma qui non è questione di gusto, ma è questione di arte.
Come di qualsiasi forma spirituale si può creare una espressione perfetta, quindi bella, così anche la mentalità fastosa del ‘600 avrebbe potuto avere la sua espressione perfetta e bella, e di fatto, come si è visto, in certi campi l’ha avuta, mentre in molti altri ha fallito: colpa di chi questo fallimento troppo esteso e troppo evidente? Non certo colpa dell’ideale perseguito, ma, senza dubbio, della mediocrità o della ambizione di coloro che si erano assunto il compito di esprimerlo degnamente.