RINASCIMENTO (metà del sec.XIV – metà del sec.XVI)
Il Rinascimento è l’epoca in cui la civiltà romanza, uscita dalla fase religiosa, visse con pienezza la fase umana, ispirandosi, nella concezione della vita, ad una naturalismo sereno e dinamico, e adottando, nell’espressione, le forme di un classicismo agile e tecnicamente modernizzato.
Il naturalismo, cioè la concezione della vita come espressione libera e piena di tutte le risorse della natura umana, come esperienza terrena senza limiti e senza soste e l‘umanesimo, cioè il culto e l’imitazione della spiritualità e delle forme del classicismo greco-romano, sono i due aspetti caratteristici del Rinascimento.
La nuova epoca intercorre, dal punto di vista cronologico, fra la metà del secolo XIV e la metà del secolo XVI, cioè fra il termine del medioevo e l’inizio del Conformismo.
Il termine “rinascita”, fu adoperato, la prima volta, da Giorgio Vasari nelle sue “Vite degli eccellenti scultori, pittori ed architetti da Cimabue insino ai tempi nostri” (1550).
L’imitazione della natura, ossia la verosimiglianza e l’adozione dello stile classico nell’elaborare le forme della natura (cioè l’adozione dei canoni della proporzione perfetta, della simmetria, dell’armonia) sono , secondo il Vasari, i fattori che hanno facilitato l’uscita delle arti dalla confusione e dalla rozzezza del Medioevo, e che, applicati con precisione e genialità sempre crescenti fino a Michelangelo, hanno prodotto la meravigliosa arte che ornò l’Italia nel periodo 1350-1450.
Il termine “Rinascita” o “Rinascimento” dal campo delle arti fu poi esteso a tutta la civiltà del periodo suddetto, con significato polemico antimedievale più o meno esplicito.
Rinascere, infatti, significa risorgere da morte: e chi afferma che le arti e la civiltà rinacquero dopo il Medioevo, intende dire che essere erano morte nel Medioevo.
Secondo il Vasari, dal tramonto della Roma classica a Cimabue e a Giotto (dal secolo V al secolo XIV), le arti erano cadute ed erano rimaste nel fondo della miseria.
Secondo certi storiografi ammiratori fanatici della civiltà naturalistica e spregiatori della civiltà mistica, il Medioevo fu un’epoca deplorevole per rozzezza di costumi, per primitività mentale, per povertà letteraria, per squallore civile, per schiavitù morale, politica e religiosa.
Gli stessi uomini del Rinascimento, facendo il paragone fra lo stile mentale, il gusto artistico e la prassi del loro tempo e la civiltà dell’epoca che li aveva preceduti, ebbero la sensazione che solo essi sapessero utilizzare con arte tutte le risorse della natura, che solo essi fossero riusciti a creare una forma di vita degna dell’uomo.
Ne secolo XVIII gli Illuministi insistettero con compiacenza sull’antitesi fra Medioevo e Rinascimento come su un’antitesi fra la morte e la vita. Mossi da settarismo anticattolico l’Enciclopedismo francese e la Massoneria europea si impegnarono a dipingere il Medioevo(epoca in cui la Chiesa aveva ispirato e diretto tutte le forme della civiltà)) con i colori più foschi, presentandolo come l’età della superstizione, della schiavitù, dell’ozio, dell’oscurantismo, dell’umiliazione e della mortificazione di ogni sana forma di vita: cosicché “medievale” divenne sinonimo di “barbaro, primitivo, addietrato”. Il Carducci (esponente del settarismo massonico nella seconda metà dell’ottocento) nell’ode “Alle fonti del Clitunno”, deplorava la morte della civiltà naturalistica di Grecia e di Roma in seguito all’affermarsi della civiltà del “……Galileo- di rosse chiome” che “il Campidoglio ascese”- e “gittò in braccio di Roma una sua croce e disse: – Portala e servi-”.
Evidentemente si volle identificare il Cristianesimo con certe espressioni di ascetismo rozzo e fanatico, adottato da alcune sette (flagellanti, albigesi, catari, fraticelli), che dalla Chiesa stessa furono condannate come ereticali.
La verità è, invece, che, sotto certi aspetti ed in certi momenti della sua storia (specie nel secolo XIII, cioè nella sua fase culminante) il Medioevo raggiunse forme altissime di civiltà, di cui alcune insuperate fino ai nostri giorni. Basta,infatti, pensare che il Medioevo ci ha dato S. Tommaso d’Aquino, Dante, Giotto, le architetture romanica e gotica, lo stil novo, il Comune, la corporazione, quella specie di corporazione degli stati cristiani che fu il Sacro Romano Impero, gli ordini religiosi francescano e domenicano.
Non si può onestamente aderire né all’opinione di Giorgio Vasari e degli artisti che la pensavano come lui, i quali consideravano lo stile gotico “barbaro e pestifero”; né all’opinione degli umanisti, i quali spregiavano la Commedia perché “scritta in volgare e destinata alle donnicciole e alla gente rozza”; né all’opinione degli assai modesti filosofi del Rinascimento, per i quali la Summa Theologica era già superata; né si può giustificare il settarismo degli Enciclopedisti e del Massoni, i quali con pretesto di combattere il clericalismo, infierivano ciecamente contro ogni civiltà di ispirazione cattolica. Il Carducci, confondendo (non sappiamo se in buona o in mala fede) l’ascetismo orrido degli eretici medievali col misticismo cattolico, gridava all’anima umana, serena in Grecia e forte in Roma: “I foschi dì passaro: risorge e regna”: ma nessuno oserebbe affermare con convinzione che la civiltà cristiana sia sul serio rinunciataria e cavernale, che la Chiesa abbia davvero messo in catene gli uomini ed abbia davvero ammazzato la vita, e che gli umanisti abbiano compiuto il miracolo di risuscitare l’uomo, morto da lunghi secoli.
Non è opportuno né legittimo ridurre il contrasto fra Medioevo e Rinascimento ad una opposizione netta tra “barbaro” e “civiltà”, fra “morte” e “vita”, e considerare le due epoche staccate l’una dall’altra.
Non è opportuno perché, se si introduce il sistema di considerare la storia come una successione di età vive e di età morte, e di collocare negli interspazi fra le età vive, distanziate l’una dall’altra, le cosiddette “età medie o di mezzo o medioeve”, quasi fossero epoche senza alcuna funzione storica, si rischia di considerare i successivi momenti dell’evoluzione delle generazioni come staccati l’uno dall’altro, mentre è certo che nel mondo umano, come nel mondo della natura in generale, ogni fenomeno è generato da fattori precedenti ben definiti.
Non è legittimo perché storicamente risulta che il Medioevo ebbe una gloriosa funzione nello sviluppo della civiltà europea.
Giudizio di funzione e giudizio di valutazione.
Di ogni epoca si possono dare un giudizio di funzione ed un giudizio di valore: con il primo definiamo la parte che un’epoca, cioè che un gruppo di generazioni, ha esercitato nel processo della storia; con il secondo definiamo il grado di civiltà che quell’epoca ha raggiunto.
Il giudizio storico di funzione è sempre positivo. Infatti, se la storia umana è storia di vita, e se tra le fasi di una vita in sviluppo c’è un rapporto intimo ed indissolubile, è evidente che ogni epoca è continuazione di quella che la precede e preparazione di quella che la segue, cioè ogni gruppo di generazioni ha la funzione di ereditare il patrimonio di civiltà dell’epoca precedente, di elaborarlo secondo la sua indole, le sue capacità, le circostanze storiche, e di trasmetterlo alle generazioni successive.
Come nello sviluppo di un organismo vivente, ogni singolo momento ha funzione nettamente positiva, in quanto serve a far passare il complesso cellulare da uno stato all’altro, attraverso il potenziamento o l’eliminazione di certe forme già assunte dall’energia vitale e attraverso l’avviamento di forme nuove, così nello sviluppo dell’organismo della storia, ogni generazione, ogni epoca è anello di congiunzione fra quella che la precede e quella che la segue.
Il giudizio storico di valore può essere passivo o negativo. Esso, infatti, è un giudizio circa la sostanza e la consistenza di una civiltà, ossia il grado di ricchezza spirituale e di perfezione formale o tecnica da essa raggiunto.
Non occorre dire che il progresso formale o tecnico potrebbe verificarsi indipendentemente dal progresso spirituale: l’uno, infatti, è promosso da esigenze pratiche, dallo studio scientifico della natura, dagli ammaestramenti dell’esperienza; l’altro, invece, è promosso dall’ansia di percepire gli aspetti ed i significati ultimi delle cose, dalla sensibilità per i valori veri della vita, dall’intensità delle aspirazioni ideali.
Orbene un’epoca può presentare una spiritualità ricchissima e una abilità tecnica modesta: o, viceversa, una tecnica abile e feconda e una spiritualità mediocre.
Applichiamo, ora, le due forme di giudizio al Medioevo e al Rinascimento. In sede di giudizio di funzione il Medioevo è da considerarsi come un’epoca della naturale evoluzione della civiltà classica dopo l’inserimento in essa del fattore cristiano e del fattore Germanesimo; come epoca dell’evoluzione della civiltà mediterranea dopo l’incontro di essa con i popoli nordici; insomma, come un’epoca della nascita e della formazione della civiltà romanza.
Il Rinascimento si può considerare come un’epoca di evoluzione della civiltà romanza da una spiritualità e da una forma ispirata al soprannaturale verso una spiritualità più umana e una tecnica più concreta e più naturale; come epoca in cui le generazioni post-medievali, maturate dall’esperienza, acquistarono un senso più realistico della vita e delle cose.
Il Rinascimento utilizza e sviluppa le esperienze del medioevo: senza il Medioevo non avremmo avuto il Rinascimento. A dimostrare questa affermazione sta il fatto seguente: gli uomini del Rinascimento che, mossi da fanatismo classicista, preteso saltare a piedi pari il Medioevo per riallacciarsi direttamente all’età classica, condannarono le loro attività ad una sterile imitazione dell’antico e fecero la figura di gente fuori tempo.
Gli esponenti più sensati del Rinascimento, invece, si valsero della cultura classica solo per interpretare meglio il mondo che li circondava, cioè il mondo romanzo che, uscito dalla fase religiosa, stava vivendo la sua fase umana.
Come la civiltà greco-romana preparò l’ambiente in cui si sarebbero dirozzati e inquadrati più tardi i popoli europei, rimasti indietro nel cammino della storia, così la civiltà romanza, frutto di quella dirozzazione e di quell’inquadramento, dopo essere passata attraverso la fase religiosa del Medioevo e l’esperienza umana del Rinascimento, preparò l’ambiente in cui si sarebbero formati, nel corso dei secoli moderni, i popoli dei continenti exstra-europei.
In sede di giudizio di valore il Medioevo, almeno nelle fasi della giovinezza e della maturità, cioè dal secolo XI al secolo XIV, si rivela serio e profondo interprete della vita, appassionato cultore di ideali naturali e soprannaturali, geniale inventore di forme espressive complesse e vigorose, sebbene non raffinate ed eleganti: insomma, nel Medioevo spiritualità e tecnica si presentano solide e di largo respiro.
Il Rinascimento rivela agilità mentale, intelligenza pratica, vivacità e liberalità di sentimenti, ma, salvo rare eccezioni, scarsa profondità di pensiero e poco vigore di slancio ideale, mentre nella forma rivela ricchezza di risorse e di motivi tecnici, armonia di linee, semplicità e spigliatezza di ornato: insomma, nel Rinascimento spiritualità e tecnica si presentano tanto più agili e dinamiche, quanto più si sono sganciate dalla meditazione severa circa i gravi problemi della vita, per prendere contatto gioviale con le forme delle cose.
Nel Medioevo notiamo la serietà propria dello spirito religioso; nel Rinascimento la vivacità e la raffinatezza propria dello spirito epicureo.
Il Medioevo si presenta meditativo e solido, ma poco agile; il Rinascimento si presenta intuitivo e spigliato, ma poco profondo e sistematico; il Medioevo produce poco, ma alla storia lascia opere che sono miniere di idee di ideali; il Rinascimento produce con abbondanza veramente eccezionale, ma alla storia lascia opere che, in gran parte, sono puri esemplari di forma.
Confrontiamo la “Summa theologica” di S. Tommaso con la “Teologia platonica” di Marsilio Ficino, la “Divina commedia” con l’”Orlando furioso”, il Comune con la Signoria il Principato, e vedremo quanto il Medioevo appaia più quadrato del Rinascimento.
Nel campo dell’arte il Rinascimento, per l’abbondanza della produzione e la perfezione della tecnica, batte senza dubbio il Medioevo, ma si potrebbe sostenere assai bene un paragone, ad esempio, fra Giotto e Raffaello, fra il Duomo di Milano e la Basilica di S. Pietro: è vero che si tratta di stili differenti, ma, essendo lo stile una sintesi di ispirazione e di forma, il paragone è sempre legittimo.
Anche la famosa liberazione dell’uomo dalla schiavitù medievale che, secondo alcuni, costituirebbe uno dei più grandi meriti del Rinascimento, risulta una favola. Se per liberazione dell’uomo intendiamo l’avviamento dello spirito verso la spregiudicatezza morale e il soggettivismo religioso (che troppo spesso diventa indifferentismo i irreligiosità), bisogna purtroppo riconoscere al Rinascimento il triste merito di aver promosso questa libertà. Ma, se per liberazione dell’uomo intendiamo lo svincolamento dello spirito da tutto ciò che impaccia il razionale funzionamento della vita sia individuale che collettiva, non possiamo riconoscere al Rinascimento questo merito, perché non lo ebbe; anzi la storia ci attesta che proprio il Rinascimento avviò l’uomo verso svariate forme di schiavitù.
Nel Medioevo il regime comunale, schiettamente democratico, garantì le libertà politiche e civili a tutti i cittadini; nel Rinascimento il regime signorile e, più ancora quello principesco, eliminarono dalla storia il popolo, svalutandone e mortificandone le preziose energie.
Nel Medioevo il popolo fu così geloso della sua libertà, che insorse fieramente contro le pretese degli Svevi (Federico I Barbarossa e Federico II), le quali pur sembravano giustificabili nel quadro della sovranità imperiale cristiana: nel Rinascimento, dalla discesa di Carlo VIII (1494) al Trattato di Chateau Cambresis (1559), il popolo italiano assistette indifferente al passaggio ed ai saccheggi dei più svariati eserciti stranieri, e, alla fine, perdette vilmente la sua libertà.
L’episodio della eroica fine della repubblica fiorentina nel 1530 è troppo isolato perché possa essere assunto come simbolo del patriottismo di un’epoca che, nella quasi totalità, rivelò una incoscienza politica sommamente deplorevole; di fronte alla gloriosa infelice Firenze sta la vile Roma del sacco dei Lanzichenecchi (1527), e il Machiavelli svuotava di significato pratico il suo programma di rinascita politica nazionale, col suo orgoglioso disprezzo contro il popolo, cioè contro quella preziosa forza della storia che unica avrebbe garantito il successo delle sue proposte.
Giustamente gli uomini del Rinascimento, specie i romantici, vedranno nel Medioevo comunale l’epoca della libertà civile e dell’indipendenza nazionale e, nel Rinascimento, vedranno l’epoca in cui si affermò la schiavitù delle singole città e dell’intera nazione.
Nel Medioevo la Commedia, nonostante i frequenti motivi di critica spietata contro il clero e contro i responsabili dei mali della cristianità, fu letta e commentata in Chiesa; nel Rinascimento Fra Girolamo Savanarola, per aver protestato contro l’indegna condotta di Alessandro VI, fu impiccato.
Nel Medioevo scrittori ed artisti composero in piena libertà di spirito per il popolo; nel Rinascimento letterati ed artisti, asserviti agli aristocratici, composero con riguardosa deferenza verso i loro padroni.
Nel Medioevo Dante componeva per offrire “vital nutrimento” alle anime, e si compiaceva di investire col suo grido, simile ad un turbine, li “cime più alte”; nel Rinascimento il Boccaccio componeva per “dilettare le donne”, e l’Ariosto affermava che uno dei miracoli più sublimi della poesia era quello di riuscire a dare fama anche a persone condannate all’infamia dalla loro condotta. Vale la pena citare le parole precise dell’Ariosto: i signori “ancor che avessero tutti i rei costumi- pur non sapesson farsi amica Cirra – più grato odore avrian che nardo e mirra…. Non fu sì santo né benigno Augusto, – come la tuba di Virgilio suona – l’aver avuto in poesia buon gusto, – la proscrizione iniqua gli perdona – nessuno sappia se Neron fu ingiusto, – né sua fama saria forse men buona – avesse avuto e terra e ciel nemici – se gli scrittor sapea tenersi amici” (Orlando Furioso c. XXXV verss. 24-26).
Nel Medioevo poeti e artisti composero come dettava loro il genio; nel Rinascimento, poeti e artisti, salvo rare eccezioni, composero a norma dei modelli classici.
Il De Sanctis notava nel Rinascimento una contraddizione: uno splendore artistico e letterario indiscusso e una miseria civile e politica anch’essa indiscussa. La contraddizione è facile a spiegarsi: il Rinascimento coltivò molto la forma, ma coltivò molto poco gli ideali. Dove non è una spiritualità vigorosa, lì non è neanche il culto dei veri valori della vita e. quindi, neanche il culto della libertà, che tra i valori, è uno dei più sublimi.
Giustamente dirà l’Alfieri che l’ignoranza ed il vizio delle plebi sono i più potenti sussidi della tirannide: e nessuno può negare che né l’Ariosto, né il Machiavelli, né il Guicciardini, né alcun altro scrittore del Rinascimento si preoccupò di educare il popolo; anzi, se mai, con il loro atteggiamento antiplebeo, tutti, più o meno, contribuirono a svalutarlo e deprimerlo.
Le belle chiacchiere dei poeti e le belle composizioni degli artisti non valgono a salvare una nazione, quando la letteratura e l’arte non si ispirano al popolo, non sono dirette ad educarlo. In questo senso aveva ragione Mussolini allorché, accennando alla miseria politica dell’Italia nel Rinascimento, affermava: “Meno quadri e meno statue e più bandiere strappate al nemico”. Benché, in verità, sarebbe stato meglio affermare: “Molti quadri, molte statue e molte bandiere strappate al nemico”.
Nel campo religioso il Rinascimento eliminò, è vero, certe forme di superstizione indubbiamente ridicole, ma svuotò il senso e la pratica della religione, rifiutando ogni serio impegno coi dogmi e con la morale del cristianesimo, coltivando, insomma una religiosità di moda, vaga ed estetizzante che non ha alcun serio riflesso sulla vita.
Nel campo dei costumi eliminò molte grettezze, ma ne creò altre, introducendo, specie nell’ambito aristocratico, una etichetta mondana assai complicata e assai intransigente.
Nel campo della letteratura e dell’arte liberò l’ispirazione e la forma dal faticoso cerebralismo dei simboli e delle allegorie, ma favorì la tirannide della retorica.
In un solo campo si può parlare di liberazione vera e proprie e indiscutibilmente benefica: nel campo scientifico. Il Rinascimento, infatti, liberò la scienza e la tecnica da metodi errati e da pregiudizi infantili, ed indicò ad essa la via che le è propria, cioè la via della esperienza. E’ per questo motivo che si può datare la nascita del progresso scientifico e tecnico moderno dal tempo in cui l’uomo si dedicò allo studio diretto della realtà fisica per coglierne direttamente gli aspetti e le leggi, cioè dell’epoca rinascimentale.
Limiti entro i quali si può accettare il termine “Rinascimento”.
In che senso, dunque, si può accettare il termine “Rinascimento” ?
Se si intenda parlare di rinascita della civiltà in generale, il termine “Rinascimento”, applicato all’epoca post medievale, è improprio, perché il Medioevo ebbe la sua gloriosa civiltà e, per di più superiore, sotto l’aspetto spirituale, a quello del Rinascimento: se mai, in questo senso, si potrebbe parlare di rinascita nel secolo XI, cioè all’inizio del Basso Medioevo, quando, dopo la civiltà infantile del Medioevo Alto, si ebbero le prime grandi espressioni di una spiritualità e di una tecnica vera, menti ricche di motivi profondi e capaci di iniziative intelligenti.
Se si intende parlare di rinascita della civiltà classica, è doveroso fare una distinzione: si vuol dire che nel Medioevo la civiltà classica fu ignorata e disprezzata ? La Chiesa erede e custode fedele delle più grandi istituzioni di Roma, S. Tommaso rielaboratore di Aristotele, Dante che di dichiara umile e appassionato discepolo di Virgilio, smentiscono questa interpretazione.
Si suol dire che il Rinascimento studiò ed assimilò la civiltà greco-romana con spregiudicata oggettività, senza la preoccupazione di conciliarne lo spirito e le forme con le esigenze religiose o morali del Cristianesimo, e quindi senza ricorrere ad interpretazioni allegoriche più o meno forzate ed inopportune; e che nel Rinascimento lo stile d’uso fu quello classico, in opposizione a quello romanzo del Medioevo.
In questo senso si può parlare veramente di Rinascimento: cioè di rinascita della spiritualità naturalistica e dello stile semplice ed elegante dei classici. Ma il termine “Rinascimento” è soprattutto appropriato al nuovo indirizzo della scienza sui binari del metodo sperimentale: anzi, è proprio questa la rinascita veramente efficace, l’avviamento indiscutibilmente decisivo, a cui l’età seguente (la quale sotto altri aspetti sconterà la pena di molte miserie del Rinascimento), imprimerà un ritmo più intenso e più sicuro.
Conclusione. Il Rinascimento viene dopo il Medioevo; ma non è detto che chi viene dopo sia più perfetto di chi è stato prima. Se ciò fosse vero, i figli, ad esempio, dovrebbero essere più intelligenti e più onesti dei genitori.
Nel campo delle successioni si può affermare, con certezza, solo questo: chi viene dopo ha il vantaggio di poter usufruire delle esperienze e delle conquiste di chi ha lavorato prima: la successione cronologica delle generazioni favorisce, senza dubbio, lo sviluppo della tecnica, ma, di per sé, non offre alcuna garanzia di progresso spirituale.
Cause del Rinascimento.
Tra un’epoca storica e la successiva esiste lo stesso rapporto di causalità che intercorre fra tutti fenomeni della realtà; l’epoca successiva, se presenta aspetti nuovi nei confronti di quella precedente, non per questo si può dire che sia venuta su dal nulla. La verità è che, in ogni epoca, si ritrovano dei fattori vivacissimi che ad un certo momento si esauriscono, scomparendo completamente o soltanto affievolendosi, e fattori che operano nell’ombra, in attesa di rinvigorirsi quando i più vivaci si attenueranno.
In genere l’esaurimento di certe forme nuove di civiltà e di certe istituzioni è dovuto a germi di dissoluzione innati in esse, la cui presenza impaccia ed affatica la loro funzione e la loro evoluzione regolare, fino a che non generano la crisi definitiva. Cosicché la vita delle generazioni si presenta sotto un aspetto intimamente drammatico: si può dire che essa proceda in forza della lotta e che il progresso si verifichi più che per sviluppi regolari di fattori positivi, per cozzo di contraddizioni.
Le stesse cause che generano la dissoluzione della civiltà medievale promuovono la nascita della civiltà rinascimentale, nel senso che i fattori della dissoluzione, dopo aver operato da forze di contrasto, si affermano come promotori di nuovi indirizzi.
Prima Causa. La naturale evoluzione della psicologia delle generazioni.
Risulta dall’esperienza che l’uomo nelle fasi della fanciullezza, dell’adolescenza, della giovinezza vive in una specie di sogno ideale, alla cui composizione contribuiscono moltissimo la fantasia e il sentimento, mentre nella fase della maturità egli prende contatto immediato con la realtà attraverso l’esperienza diretta e il ragionamento puro: nelle prime fasi l’uomo è entusiasta, più vivace, più generoso, più fervido in tutte le attività nel mondo interiore; nella fase di maturità è più freddo, più utilitarista, più scettico.
Le nazioni dell’Europa moderna, sorte nel corso dell’Alto Medioevo, vissero la loro fanciullezza, la loro adolescenza e la loro giovinezza sotto la tutela materna della Chiesa, da cui avevano imparato a vivere cristianamente, ad interpretare naturalmente la vita, a produrre opere d’arte di ispirazione mistica.
Alcune nazioni contavano come loro fondatori o come gradi Re personaggi santificati dalla Chiesa (S. Stefano Re di Ungheria, S. Alfredo Re di Inghilterra, Carlo Magno considerato come santo); le più potenti tra esse, cioè quelle che avevano maggiormente contribuito al potenziamento della civiltà romanza, erano state classificate dal Papa con simpatici ed affettuosi attributi (primogenita della Chiesa d’Italia, cristianissima Francia); quasi tutte chiesero ed ottennero dal papa di essere considerate come fondi della Santa Chiesa e si impegnarono a pagare tributi annui alla Camera Apostolica. Il Papa che ebbe la bella soddisfazione di vedere tutto il mondo cristiano a Lui devoto e fedele, fu Papa Innocenzo IV: con questi si concluse la fase giovanile del Misticismo medievale. Infatti, durante il suo pontificato, mentre sorgevano i due più potenti ordini, domenicano e francescano, il Ghibellinismo per opere di Federico II di Svevia, riprende il tentativo di Federico Barbarossa, si sottrarre i regni, l’Impero, i Comuni all’influsso dei preti, non per ostilità contro la religione, ma per rivendicare la superiorità dei poteri politici sui poteri religiosi.
Lo spirito delle generazioni romanze tende ad emanciparsi dalla soggezione umile e devota alla santa Chiesa, sente il bisogno di una maggiore libertà: i laici acquistano coscienza della loro forza e criticano l’invasione degli ecclesiastici nelle attività temporali per garantire a sé stessi maggiore attività di azione.
I giuristi esponenti di questa lotta tra l’autorità religiosa, che non se la sentiva di rinunciare al suo compito di tutrice dei popoli, considerati da Lei come suoi pupilli, e l’autorità politica, che aspirava all’autorità intesa in senso classico, cioè alla indipendenza assoluta da qualsiasi potere, esagerando le posizioni opposte: alcuni esagerano i poteri della autorità religiosa, sottomettendo a questa il potere politico, senza riserve; altri esagerano i diritti della autorità politica sottomettendo al controllo di essa anche la Chiesa.
Era necessaria una chiarificazione: S. Tommaso e Dante, rievocando il pensiero genuino della Chiesa, dichiarano l’indipendenza reciproca dei due poteri, affermando nello stesso tempo la necessità di una stretta collaborazione fra essi, per il bene della repubblica cristiana. San Tommaso e Dante sono gli esponenti di un Medioevo spiritualmente maturo che avverte, oggettivamente e spassionatamente, l’esistenza di tesi opposte nel seno della storia, capaci di disgregare e svigorire la respublica cristiana, e propongono una conciliazione sulla base della ragione e delle fede.
Oltre che in quello dei rapporti fra Chiesa e Stato, anche in altri campi si verifica questa maturazione spirituale del Medioevo. Nell’arte e nella letteratura ai motivi puramente religiosi, si aggiungono motivi umani, alla idealizzazione mistica si aggiunge un intelligente e fine realismo: l’architettura (Chiese romaniche e gotiche, palazzi comunali) e la pittura (Cimabue) nel corso del secolo XIII fanno preziosi esperimenti per conciliare l’idealismo mistico e l’estetismo realistico; il Dolce Stile rappresenta in poesia il più bell’esperimento di sintetizzare il divino e l’umano, il soprannaturale e il naturale, l’amore di Dio e l’amore della creatura. Dante e Giotto sono i massimi esponenti di questa sintesi felice.
Anche nelle istituzioni e nei costumi si notano una maggiore agilità e spigliatezza, fervore di iniziative, aspirazione all’uguaglianza: l’intensificarsi della vita, la chiarificazione dei diritti e dei doveri di ciascun cittadino, la differenziazione delle classi, introducono nelle città le lotte civili. Il desiderio di restare liberi e il bisogno di una autorità che disciplini le forze in contrasto, rivelano la insufficienza dell’istituto comunale a rispondere alle nuove esigenze della storia e l’attaccamento delle generazioni romanze all’ideale della libertà.
Man mano che lo spirito si matura, gli individui e le generazioni rivelano la tendenza a sacrificare l’ideale alle esigenze pratiche: perché lo spirito del Medioevo, maturandosi, come cerca di adattare la religione e la morale alle esigenze della vita, umanizzando, laicizzando l’una e l’altra, come vagheggia in arte e in poesia impostazioni e motivi decorativi profani, così, in politica interna, è disposto a sacrificare l’ideale della libertà, della democrazia, dell’auto-governo del popolo, alle esigenze di una maggior sicurezza e di una economia più potenziata.
Anche qui S. Tommaso e Dante, che tengono presenti i due termini del contrasto, cioè forze sociali differenziate, ansiose di affermarsi disordinatamente e il bisogno di una autorità capace di garantire sicurezza e benessere alla comunità politica, propongono la soluzione giusta al problema: S. Tommaso afferma che un buon regime politico è quello in cui è possibile alle forze sociali esprimersi liberamente entro i limiti di disciplina da garantirsi attraverso la vigile e forte azione dell’autorità; libertà ed autorità sono i due fattori essenziali del progresso e della pace anche per Dante che, se deplora le tirannidi di questo o quel signore, si rivela tuttavia il più appassionato assertore della necessità di una autorità forte: Ezzelino da Romano e i vari tirannelli che egli smaschera qua e là nella Commedia, sono spregevoli tanto quanto il famoso “re da sermone” Roberto il Savio di Napoli e Rodolfo e Alberto d’Asburgo: d’altra parte è noto quanto l’Alighieri fosse entusiasta del tentativo di restaurazione dell’autorità operato da Arrigo VII.
Per S. Tommaso e per Dante dunque peccano i tiranni perché opprimono la natura umana e inaridiscono la civiltà; peccano i principi deboli perché favoriscono lo sfrenamento delle passioni umane e non esercitano la missione affidata loro da Dio, che consiste nel dare la caccia alle tre fiere.
Nel campo politico internazionale all’ideale di una respublica cristiana universale, basata sulla comunità di fede e sul concetto di fratellanza, lo spirito che si matura e quindi diventa più utilitarista e meno idealista, sostituisce il programma di organismi politici isolati, unitari nella loro costituzione interna, pronti ad un gioco di forza e di astuzia per garantire la propria affermazione.
Nel contrasto tra l’universalismo romano-cristiano, che aveva appassionato il Medioevo nella fase dell’adolescenza, e l’individualismo nazionalistico o statalistico del Medioevo maturo, Dante indica ancora una volta la soluzione giusta in nome di Dio: l’impero è istituito, voluto dalla provvidenza per unificare, pacificare e difendere le singole comunità cristiane; queste, nel quadro dell’impero, hanno il diritto a sviluppare liberamente le loro energie sane e positive.
L’Alighieri che notò questa devozione della civiltà cristiana e deplorò la confusione generata dal cozzo tra il vecchio ed il nuovo indirizzo, lanciò alla respublica cristiana il suo grido di allarme e di ammonimento; e particolarmente chiamò in causa le due supreme autorità del mondo cattolico, cioè Pontefice ed Imperatore, che egli considerava responsabili della decadenza, il quanto il Pontefice dimentico della sua missione spirituale interferiva nelle lotte politiche aumentando la confusione e accentuando la crisi spirituale, e l’Imperatore inerte ed incapace trascurava la sua funzione di pacificatore per starsene a godere i suoi miseri possessi di Germania.
La voce dell’Alighieri fu un grido nel deserto: la storia con le sue forze nuove, risolveva la crisi a svantaggio della spiritualità mistica e a tutto vantaggio della nuova spiritualità schiettamente umana, finiva l’epoca del Magistero ecclesiastico e incominciava quella del Magistero laico.
Seconda causa: L’affermazione della borghesia nel campo sociale.
In circa tre secoli di regime comunale le città italiane avevano fatto miracolosi progressi in ogni settore dell’attività umana, e particolarmente nel settore economico.
Dal piccolo commercio fra città e contado, si era passati al grande commercio fra città e città della Penisola, fra la nostra nazione e le nazioni dell’Europa centro-occidentale: basta ricordare Venezia, Genova, Pisa tra le città marinare; Firenze, Napoli, Milano fra le città interne.
Dall’umile artigianato familiare, si è passati al sapiente ed efficace organismo produttivo dell’artigianato associato o corporazione.
Per facilitare l’importazione delle materie prime e l’esportazione dei manufatti, si costituiscono nelle più grandi città italiane e straniere, grandi magazzini di raccolta o fondachi; per finanziare le operazione di compravendita e facilitare il cambio della moneta si istituiscono banchi in tutti i centri commerciali (banchi dei Bardi, degli Acciaioli, dei Peruzzi: tutti fiorentini, banco di San Giorgio genovese ecc.).
Alcune famiglie, nell’esercizio delle attività commerciali e finanziarie, diventano straordinariamente ricche; la massa del popolo, avendo un lavoro ed un sufficiente guadagno, assicurati dalla corporazione, gode di un discreto benessere. Con benessere si diffonde un modo di vivere più esigente e più fine e si afferma una ardente brama di rinnovamento e di progresso.
Le grandi città, con la loro agiatezza, con la loro fastosità, con le possibilità che offrono agli ambiziosi di comandare e agli avidi di guadagnare, costituiscono una attrattiva potente per tutti gli arricchiti dei paesetti e delle campagne.
I nuovi immigrati non possono più costruire i loro palazzi entro la vecchia cinta di mura: perciò costruiscono nei dintorni del vecchio agglomerato urbano; e si formano così i borghi, i cui abitanti sono chiamati borghesi. Siccome gli abitanti dei borghi erano gente arricchita, trafficona, spregiudicata e gaudente, borghese divenne sinonimo di riccone astuto e abile. Dante con questa gente nuova ce l’ha a morte: egli vede in essa il mal seme trapiantato nella vecchia città pacifica, sobria e pudica; vede in essa degli arrivisti e dei gaudenti ambiziosi, sfrenati, triviali che provocano discordie, scandali, depressione civile, morale e politica. Egli aderisce alla fazione bianca, costituita in gran parte da questa gente nuova, ma solo ,per motivi contingenti di politica interna del Comune: del resto non esita, la prima volta che parla di Firenze nella Commedia, a chiamare “selvaggia” la sua fazione. Nel canto XVI del Paradiso egli espone, per bocca di Cacciaguida, la causa generali dei mali, non solo a Firenze, ma anche in tutte le città italiane:
“sempre la confusion delle persone
principio fu del mal della cittade”. (Parad. C.XVI vv.67-68)
e nel canto XVI dell’Inferno, a tre condannati fiorentini, che gli hanno domandato se in Firenze fioriscano ancora valore e cortesia, risponde:
“la gente nova e i subiti guadagni
orgoglio a dismisura han generata
Firenze, sì che ti già te’n piagni”. (Inf. C.XVI vv.73-74)
Quando entrano in città i nuovi arricchiti, entrano con essi le tre fiere che ostacolano agli individui e alla società l’ascesa al dilettoso colle della felicità: frode, superbia, avarizia. Nel canto VI il poeta, per bocca di Ciacco, presenta Firenze come città in fiamme, essendo stati i cuori dei cittadini incendiati da tre faville: “superbia, avarizia, invidia son le tre faville che hanno i cori accesi”.
(Inf. C.VI vv.58-59)
L’Alighieri è anche sdegnato ed offeso dal nuovo costume introdotto dai nuovi gaudenti nella vecchia città pudica: basta leggere l’opposizione tra i costumi della Firenze antica e quelli della Firenze nuova delineata per bocca di Cacciaguida nell’ultima parte del canto XV del Paradiso, per comprendere quanto fosca appaia all’Alighieri la situazione morale della sua città da quando la ricchezza vi ha introdotto lusso e lussuria. Nel canto XXII del Purgatorio Forese Donati non esita a definire le donne fiorentine peggiori delle femmine della zona più primitiva della Sardegna cioè della Barbagia:
“tempo futuro m’è già nel cospetto
nel qual sarà in Pergamo interdetto
alle sfacciate donne fiorentine
andar mostrando con le poppe il petto”.
(Purg. C. XXII vv.100-103)
E più oltre le chiama “svergognate”. Nel canto XV del Paradiso Cacciaguida dichiara che, al tempo suo, una donna scostumata come Cianghella sarebbe stata motivo di scandalo come nella Firenze odierna sarebbe di scandalo una donna onesta come Cornelia, la madre dei Gracchi: il che vuol dire che nella Firenze moderna le donne son tutte Cianghelle o scostumate.
Gli uomini, oltreché ambiziosi, presuntuosi e litigiosi, si sono specializzati nelle truffe, nella baratteria, nel latrocinio:
“Godi, Fiorenza, poiché sei sì grande
che per mare e per terra batti l’ali
e per lo Inferno il tuo nome di spande”
(Inferno c. XXVI vv.1-3).
Ma il Villani, contemporaneo di Dante, non la vede così: egli è il tipo del borghese che si compiace del progresso economico e civile della sua città, delle feste, dei ricevimenti pubblici offerti quasi in continuazione in omaggio di questo o di quel principe straniero, del lusso che rende piacevoli e belle le liete brigate fiorentine.
I borghesi, che avevano costruito splendidi palazzi fino a circa sei miglia di distanza da Firenze e che erano i promotori dell’economia, costituiscono la classe più forte della città: e quel che avveniva a Firenze si verificava in tutte le città italiane.
E’ chiaro, perciò, che il nuovo indirizzo spirituale debba sentire l’influsso della spiritualità borghese.
Tale spiritualità è caratterizzata dai seguenti fattori:
a)- utilitarismo: gli uomini d’affari considerano norma suprema della vita l’utilità e valutano le cose quasi esclusivamente con il criterio dell’interesse.
b)- edonismo: chi abbonda di ricchezza, ed ha perciò possibilità di godere, difficilmente si adatta che la vita è dovere e sacrificio ed accoglie volentieri che vivere significhi far tutte le esperienze più piacevoli, utilizzare il più possibile le risorse di godimento che la natura offre all’uomo.
c)- estetismo: la borghesia comunale non né una classe che, salita all’improvviso dalla miseria alla ricchezza, adotti uno stile di fasto rozzo e primitivo: essa si inserisce in una tradizione già lunga di eleganza e di buon gusto; e perciò nell’esprimersi, nell’abbigliarsi, nell’arredare la casa, nel nutrirsi, segue uno stile spigliato e piacevole; tra le famiglie ricche della città si instaura una specie di gara di finezza estetica.
Si diffonde il concetto che tutto ciò che è fatto con arte è fatto bene, anche se moralmente è deplorevole.
d)- naturalismo morale: chi ha intenzione di godere la vita, utilizzandone le risorse edonistiche e lucrative, ha bisogno di liberà morale: se infatti gli si impongono limiti che convoglino iniziative ed attività verso fini razionali chiaramente definiti, l’uomo di mondo ha l’impressione che gli imponga di rinunciare alla vita. Per lui, quindi, la legge morale costituisce una specie di quadro coercitivo che gli impedisce di esprimere con pienezza le risorse della sua natura. Perciò la morale dell’uomo di mondo non può essere che quella naturalistica, il cui principio fondamentale è il
seguente: segui la natura ovunque essa ti conduce, guardandoti solo dalla imprudenza e dalla volgarità.
La disciplina razionale imposta dalla filosofia e l’obbligo di imitare le perfezioni di Dio, imposto dalla religione, se fossero accolti dall’uomo di mondo, lo costringerebbero a rinunciare al programma di esperienze senza limiti da realizzare sulla terra. Perciò lo spirito borghese ama nascondere a sua aspirazione alla libertà morale assoluta, sotto il pretesto che gli uomini sensati debbono seguire le indicazioni della natura, la quale è maestra infallibile.
E’ evidente che in questa concezione non si tiene conto che, purtroppo, la natura umana non è maestra infallibile e soprattutto non si tiene conto che la voce degli istinti può soffocare la voce della ragione che pur costituisce l’essenza specifica della nostra natura.
e)- superficialismo religioso: l’uomo che si propone come fini supremi della vita il
guadagno e il godimento, necessariamente evita di prendere contatto pieno ed intimo con la religione cristiana la quale è troppo impegnativa per chi l’accoglie sul serio.
Quindi i borghesi delle nostre città comunali e signorili si pregano un Dio condiscendente alle esigenze della natura umana, anzi un Dio che si compiace che gli uomini usufruiscano serenamente e pienamente dei doni che gli ha loro concessi, che cioè seguano gli impulsi dell’amore, cerchino i piaceri della gola, godano spensieratamente le risorse dell’agiatezza e del lusso; purché siano prudenti e sappiano fare. Una divinità di questo genere non è certo quella a cui crede il cristiano; ma il borghese afferma che la religione è vera e buona quando soddisfa le esigenze dell’individuo, cioè quando l’individuo la crede vera e buona e trae da essa tranquillità di coscienza. Ci troviamo di fronte ad una tendenza evidente verso il soggettivismo religioso. La religiosità per l’uomo di mondo si riduce alla osservanza di alcune pratiche esteriori che hanno qualche cosa di singolare e di simpatico: a lui è ignoto il concetto che la religione è soprattutto imitazione delle perfezioni divine. Il borghese non nega le verità religiose, anzi dimostra, quando capita l’occasione, una certa ossequiosità teorica nei confronti di esse: ma esula completamente dal suo spirito la convinzione, e se non nega i dogmi non lo fa perché li riconosca e li accolga come veri, ma perché non gli interessano; e se, talvolta, anche il rispetto esteriore ai dogmi fosse utile, egli è sempre disposto, in nome dell’interesse, a fare atto di omaggio.
Affermazioni della spiritualità borghese nel campo della cultura.
E’ una aspirazione comune a tutte le persone benestanti di acquistare certa cultura per snellire la loro mentalità, per potenziare la loro abilità, per dare un certo decoro alle loro espressioni.
Il Villani ci dice che nella Firenze dei primi decenni del trecento le scuole, sia elementari che medie erano numerosissime: ciò dimostra che col progresso economico delle nostre città, agli inizi del secolo XIV, si andava affermando anche l’esigenza del sapere.
Fino ad allora, nel campo della cultura, avevano dominato incontrastati gli ecclesiastici: i pochi laici che vi si erano affermati, come Dante, avevano seguito generalmente l’indirizzo mistico che aveva dato a tutta la spiritualità medievale la Chiesa; pochissimi erano stati i laici che nel Medioevo avevano seguito un indirizzo culturale mondano: si ricordano in Francia gli scrittori dei romanzi amorosi e trovadori provenzali.
Nel secolo XV gli ecclesiastici vengono man mano decadendo, la schiavitù avignonese prima, lo scisma d’occidente poi, che tengono la cristianità in crisi per più di cento anni, generano disordine e decadenza nel mondo dei preti e dei monaci. Proprio nel momento in cui la spiritualità mistica viene meno, in seguito alla crisi spirituale dei sostenitori di essa, entrano nel campo della cultura i laici, con la loro mentalità nuova, borghese o edonistica che dir si voglia. La voce del Misticismo si affievolisce sempre di più, quella del Naturalismo si fa sempre più vivace e persuasiva: alla civiltà mistica o religiosa succede la civiltà umana o laica. Non è detto che questo laicismo sia anticristiano, ma non si può neanche affermare che sia cristiano nel senso tradizionale: o umanizza con intenti seri e con stile decoroso la religione o finge di ignorarla, ricordandosene quando lo richiede l’interesse.
Terza causa: La decadenza del papato e dell’Impero.
Le cause che provocarono questa decadenza furono molteplici:
a)- La lotta fra le due supreme autorità. Questa lotta è provocata, anzitutto, dalla
confusione delle idee circa i rapporti fra le due supreme autorità della respublica cristiana. Dal tempo di Teodosio, che nel 380 riconobbe la religione cattolica religione ufficiale dell’Impero, si affermò il concetto che il mondo cristiano e il mondo romano fossero ormai la stessa cosa, cioè si considerò la comunità cristiana come un organismo sociale unico di cui l’Imperatore curava gli interessi temporali ed il Pontefice curava gli interessi soprannaturali. Papa Gelasio (494-496) illustrò con chiarezza la natura dell’imperium cristianizzato ed affermò con chiarezza che le due supreme autorità della respublica cristiana erano dipendenti l’una dall’altra e che ambedue dipendevano direttamente da Dio.
Dopo l’interruzione dell’istituto imperiale nel periodo 476-800, con Carlo Magno risorse il concetto della respublica cristiana, governata contemporaneamente dall’Imperatore e dal Pontefice: ma questa volta i rapporti tra le due supreme autorità appaiono confusi fin dall’inizio della rinascita dell‘imperium christianorum. Infatti l’imperatore riceve la consacrazione dal Papa e questo rito include quasi il concetto che sia il Papa a comunicare l’autorità all’imperatore. D’altra parte l’imperatore ha il titolo di “Patricius Romanorum”, cioè il primo cittadino e protettore di Roma e, quindi, ha il diritto di intervenire con la sua autorità di personaggio più autorevole, nella elezione del Pontefice che spetta al popolo romano.
Di qui i frequentissimi casi in cui o il Papa nega la consacrazione all’imperatore o l’imperatore invalida l’elezione del papa: troppo spesso, nel Medioevo, le due supreme autorità del cristiano litigarono fra di loro o l’una tentò di sopraffare l’altra; troppe poche volte esse collaborarono cordialmente alla pace e al benessere della cristianità.
La lotta avvilisce e svigora: al termine del Medioevo, nonostante il grido disperato dell’Alighieri, l‘imperator christianorum è ridotto in pratica alla funzione di signorotto della Germania; e il Pontifex Christianorum è diventato il cappellano del re di Francia, in villeggiatura in Avignone.
Un altro motivo che provocò la lotta fra le due supreme autorità cristiane fu il riaffermarsi del concetto classico della sovranità, verso il secolo XII, cioè allorché rinacque il culto del diritto romano: la superaneitas o sovranità, secondo i giuristi romani, è diritto assoluto di controllo che ha il capo di una comunità su tutto ciò che si svolge nell’interno della comunità stessa. In forza di questo concetto tutte le attività che si svolgono nella comunità cristiana, e quindi anche le questioni politiche che la riguardano o nel complesso o nei singoli settori; per la stessa concezione l’imperatore vuol controllare il mondo ecclesiastico, affinché nulla sfugga alla sua direzione suprema.
Questo fu il significato ultimo della lotta tra Federico I Barbarossa e Alessandro III, fra Federico II e i papi Innocenzo III, Onorio III, Gregorio IX e Innocenzo IV.
In forza dello stesso concetto di sovranità le autorità minori della comunità cristiana, cioè re e principi, che fino ad allora si erano contentati di essere “primi inter pares”, pretesero anche essi di controllare la società di cui erano capi.
Così l’affermarsi del concetto classico della sovranità mise in contrasto il papa e l’imperatore, provocando la decadenza dell’uno e dell’altro; e spinse i re sottrarsi all’autorità suprema dell’imperatore e a sottrarre la Chiesa della loro nazione all’autorità suprema del papa.
b)- La maturazione psicologica delle nazioni.
Come nell’individuo, col procedere dell’età, si sviluppa e si definisce la personalità e con questa la tendenza all’autonomia, così nella storia delle nazioni si nota che esse, fino a quando sono in formazione, fino a quando non acquistano coscienza delle loro possibilità e delle loro tendenze particolari, facilmente si adattano di vivere in comunità supernazionali, da cui possono trarre utili aiuti per avviarsi e orientarsi lungo le vie della civiltà. Quando, però, una nazione, uscita dallo stato di infanzia e di fanciullezza, acquista coscienza della sua personalità etnica e civile, dei suoi interessi economici, delle sue risorse spirituali e materiali, allora essa preferisce uscire dai quadri delle comunità internazionali, per garantirsi la maggiore libertà possibile di movimento.
Nella fase di conclusione del Medioevo, cioè della fanciullezza e della adolescenza delle nazioni romanze, si nota evidentissima la tendenza delle famiglie etniche del mondo cristiano a spezzare i legami che le tengono unite fra di loro e le impegnano alla obbedienza delle due supreme autorità internazionali della respublica cattolica.
Di qui le tendenze separatiste nel campo religioso, che avranno laloro conclusione clamorosa col Protestantesimo; di qui la nascita della passione nazionalistica che ha la sua prima espressione nella guerra dei cento anni (combattuta dalla Francia contro l’Inghilterra per liberare il suolo nazionale dalla sovranità straniera), e avrà la sua conclusione nelle interminabili lotte tra Francia e Asburgo (specialmente tra Francesco I e Carlo V) durante il secolo XVI.
Questa tendenza al separatismo, che spezza l’entità religiosa e politica del mondo cristiano e provoca quell’antagonismo incessante e tragico fra le varie nazioni europee, che dura ancora oggi, è frutto di una maturità etnica e politica male intesa, cioè di una concezione della personalità come personalismo, della autonomia come libertà assoluta, del potenziamento individuale come individualismo.
Le varie nazioni credettero che, vivendo da sole, in piena libertà di movimento in quanto non più legate al grande organismo della comunità religiosa e politica cristiana , avrebbero realizzato con più facilità il loro progresso: credettero che per potenziarsi fosse necessario isolarsi, che per essere quello che erano dovessero imporre la forza della loro personalità: ma è chiaro che nessuno può far tutto da solo ed è anche più chiaro che, fra tanti che vogliono imporre ciascuno la propria personalità, debba esistere una guerra che non finisce mai.
c)- Lotta fra laici ed ecclesiastici.
Sebbene la Chiesa, nel corso del Medioevo, avesse affermato il suo predominio spirituale su tutte le nazioni cristiane e su tutte le classi sociali, sebbene gli ecclesiastici fossero stimati e quasi venerati dai fedeli, tutta via c’era stato sempre un gruppetto che aveva guardato i preti e i frati con tono di superiorità e quasi di ostilità: era stato il gruppetto delle grandi famiglie dell’aristocrazia militare germanica.
Queste in un primo tempo avevano visto negli ecclesiastici dei vinti che pretendevano di opporsi al rispetto dei vincitori, ammantandosi della maestà della religione; in un secondo tempo, quando si verificò l’alleanza fra i re barbari e la Chiesa, tra l’Imperatore ed il papa, avevano visto negli ecclesiastici dei collaboratori del re, dell’imperatore nel tentativo di limitare e comprimere le loro autonomie; in un terzo tempo, quando gli Ottoni concessero i feudi ai vescovi e agli abati, videro negli ecclesiastici dei competitori; in un quarto tempo, quando la Chiesa, ricca di beni temporali e intimamente affiatata con le grandi masse delle città comunali, costituiva una forza che logorava le loro posizioni di predominio tradizionale, videro negli ecclesiastici dei nemici da combattere e, a questo fine, si allearono con l’Imperatore, ormai passato anch’egli all’opposizione antipapale per la questione della sovranità (siamo al tempo degli Svevi) si raggrupparono nel partito Ghibellino, che non investiva il prete in quanto prete, cioè in quanto rappresentante della religione, ma il prete in quanto forza sociale; è un anticlericalismo che rientra nel quadro dell’eterna lotta dei poteri contro coloro che osino o pretendano di mettere in crisi le poro posizioni assodate.
Da parte loro gli ecclesiastici si erano pur spesso screditati partecipando apertamente alla lotta tra le fazioni politiche, dimostrando avidità insaziabile dei beni terreni, scandalizzando il popolo con i loro costumi deplorevoli; tutta materia di critica per gli anticlericali.
Nel secolo XIV poi il clero era decaduto miseramente per l’abbandono i cui era rimasta la Chiesa, sia a causa della schiavitù Avignonese, sia a causa della interminabile e deplorevole scisma d’Occidente.
Gli intellettuali laici del secolo XIV, già pieni di aspirazioni mondane e già per questo poco benevoli versi i preti, di fronte ad un clero in decadenza, assumono l’atteggiamento di persone superiori; già il Boccaccio vede, nella maggior parte degli ecclesiastici, degli ipocriti, degli ignoranti, degli imbroglioni.
In seguito a questo distacco spirituale fra clero e laici si verifica anche il distacco fra religione e cultura, fra pensiero cristiano e mondo intellettuale: il termine “chierico”, che prima aveva significato “dotto” era diventa quasi sinonimo di ignorante.
La concordia e la collaborazione favoriscono il progresso materiale e spirituale di una società: la discordia, sebbene spesse volte riveli esigenze nuove che non sempre sono fattori negativi dal punto di vista del progresso, tuttavia è sempre causa di dissoluzioni delle famiglie, delle nazioni e degli organismi politici o spirituali a carattere universale.
E’ chiaro che con la dissoluzione sociale di una comunità va connessa la dissoluzione anche della spiritualità che la caratterizzava. Con l’indebolimento ed il rilassamento del grande organismo religioso-politico della respublica cristiana , viene meno anche quella spiritualità mistica che aveva caratterizzato l’epoca medievale, ispirandone il pensiero, il sentimento, il programma d’azione, le espressioni pratiche in tutti i campi.
Quando si spegne la civiltà religiosa, sorge la civiltà profana o, come dicono “umana”. La religione era stata capace di unire spiritualmente tutta l’Europa cattolica, e di dare a tutte le espressioni della sua civiltà un indirizzo unitario; tolti di mezzo gli ideali comuni della religione, la società europea si fraziona in svariati settori particolari, ognuno dei quali punta sulle sue risorse materiali e spirituali, per affermarsi in una incessante concorrenza in antagonismo.
Dalla decadenza della respublica cristiana risultano due conseguenze nel campo della spiritualità europea e particolarmente italiana: il venir meno del misticismo a cui subentra una visione strettamente umana della vita; il venir meno della universalità nelle varie forme del pensiero e della prassi, a cui subentra un ben chiaro indirizzo particolaristico.
Quarta causa: Decadenza del Comune e affermarsi della Signoria.
Alla fine del secolo XIII ed agli inizi del secolo XIV l’istituto politico del Comune giunge a maturazione, e, come tutte le forme di vita che raggiungono la maturità, inizia la sua fase di tramonto: al Comune succede la Signoria; alla repubblica cittadina democratica succede una repubblica sorvegliata da un primo “civis” o “senior” (= signore), molto simile alla repubblica ateniese al tempo di Pericle o alla repubblica romana al tempo di Augusto.
Il motivo per il quale si verifica la decadenza del Comune e a questo si sostituisce progressivamente la Signoria, si può riassumere in quella formula che si suole applicare alla scomparsa di qualsiasi istituto storico nel corso dell’evoluzione umana: “Il Comune non è più capace di rispondere alle esigenze nuove della storia”.
Vediamo in che senso il Comune non risponde alle esigenze del secolo XIV.
a)- Anzitutto il regime comunale non è più capace di garantire la sicurezza interna dei cittadini. Nelle città col progresso economico e civile si verificano, necessariamente, quelle differenziazioni fra le classi e le famiglie che sogliono venire alla luce in ogni organismo sociale adulto, allo stesso modo che in ogni organismo vivente, con lo sviluppo, si manifestano più evidenti le differenze tra le parti che lo compongono e le attività funzionali proprie di ciascuna di esse.
La differenziazione è promossa normalmente dalla capacità economica della famiglia o della classe; capacità economica con cui vanno congiunti particolari nuclei di interessi, i quali con più facilità e con più sicurezza per affermarsi, normalmente si valgono della forza di questo o quell’ideale religioso o politico che più si adatti ad essere sfruttato ai fini utilitaristici.
Per questo motivo nella lotta degli interessi tra famiglia e famiglia, tra classe e classe, tra città e città, si infiltrarono i nomi e gli emblemi del Ghibellinismo, del Guelfismo, del Bianchismo , del Nerismo.
Le tre faville che hanno appiccato il fuoco della discordia in Firenze, hanno provocato in tutta la Penisola un rogo immane: “Ahi, serva Italia, di dolore ostello – nave sanza nocchiere in gran tempesta, – non donna di provincia, ma bordello !…. E ora in te non stanno sanza guerra – li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode – di quei ch’un muro ed una fossa serra. – Cerca, misera, intorno dalle prode – le tue marine, e poi ti guarda in seno, – s’alcuna parte in te di pace gode.” (Purg. c.VI vv.76-78/82-87).
L’Alighieri invoca l’intervento energico della autorità imperiale, cui spetta, per mandato divino, il compito di pacificare il popolo cristiano, ma né l’Imperatore né il Papa ascoltarono le invocazioni di pace che, in ogni parte della Penisola, levavano le persone più oneste e più pensose del bene comune. Invano il Petrarca scriveva la canzone “Ai signori d’Italia” per esortarli alla pace, invano il medesimo poeta chiedeva “a un senatore di Roma” che sedasse l’eterna lotta tra le famiglie della città eterna.
L’Alighieri affermava nel “De Monarchia” che era necessario il comando di uno solo perché potesse essere garantita la pace nella comunità cristiana, e con la pace potesse essere garantita la felicità terrena: siccome l’Imperatore non sente più il dovere della sua missione e, d’altra parte, le autorità minori della respublica cristiana non sentono più il dovere del rispetto verso la suprema autorità politica, ogni città provvede da sé ai casi suoi; se un personaggio potente, o per forza militare o per forza economica o per autorità morale, si mostra capace di restaurare l’ordine e di garantire il tranquillo svolgimento delle attività economiche, culturali e religiose, i cittadini sia delle classi umili sia delle classi elevate, volentieri lo accolgono come pacificatore.
Sorge così la Signoria, come naturale conclusione della crisi interna del Comune.
b)- Il regime comunale non è più capace di garantire la sicurezza esterna della città.
Non solo lottano le classi e le famiglie nell’interno dei singoli comuni , ma si svolgono lotte incessanti anche fra città e città. La conseguenza più grande di questa incessante guerriglia è l’insicurezza generale che, a sua volta, impaccia e blocca le attività della produzione e del commercio.
L’ostilità fra paese e paese, infatti, impedisce il rifornimento delle materie prime necessarie alle industrie locali, impedisce l’esportazione dei prodotti, inaridisce le fonti della ricchezza e del benessere. E’ per questo motivo che, quando un personaggio, per la sua valentia militare, desta la fiducia che riuscirà a pacificare una grande zona, ad armonizzare gli interessi delle varie località di essa, ed a promuovere il benessere generale, al di sopra di ogni piccineria campanilistica, volentieri viene salutato ”primus civis” del Comune e proclamato “signore”.
Si tratta dunque di una unificazione in parte forzata, in parte libera: perché il popolo sa di perdere la sua libertà; libera, perché è una soluzione che volontariamente si accetta, in mancanza di una soluzione migliore.
Si afferma, dunque, nel secolo XIV, la tendenza alla costituzione di domini più vasti, all’unificazione di zone che hanno interessi comuni.
Questa tendenza sembrerebbe contraddire all’indirizzo individualistico che è proprio del Rinascimento: ma la contraddizione è soltanto apparente. Infatti nelle fasi auree del Medioevo (ad esempio al tempo degli Svevi) il particolarismo delle città era superato dal senso vivo degli interessi comuni, sia politici che religiosi, ed anche da una discreta coscienza nazionale; mentre nell’epoca nuova, i vari domini signorili, pur raggruppando membra che prima erano disperse, vengono a costituire blocchi isolati, in cui l’unità ha funzione soltanto interna, senza alcuna apertura di fraterna collaborazione con le altre zone, in nome di ideali comuni.
IL raggruppamento serve, dunque, a potenziare le unità individuali più complesse e più robuste, senza dubbio, ma anche reciprocamente sospettose e più ostili: si tratta, insomma, di una tendenza alla formazione di blocchi, ciascuno dei quali preferisce vivere a sé, tanto più, quanto più sente garantita la propria sufficienza.
Alla metà del ‘400, si afferma in Italia, la politica dell’equilibrio: non è, come dice la parola stessa, un sistema di collaborazione fra i vari Stati italiani, ma è solo un impegno a star fermi, perché ciascuno ha paura dell’altro.
Vediamo, ora, come il passaggio dal Comune alla Signoria, cioè da un regime democratico al comando di uno solo, abbia cambiato l’indirizzo anche della spiritualità generale e, quindi, anche delle lettere e delle arti.
La letteratura e le arti, che nel Medioevo sono vissute in mezzo al popolo traendo ispirazione da esso e restituendo ad esso, sublimato dalla bellezza, quel che ne avevano ricevuto, ora, col passaggio dal Comune alla Signoria perdono il contatto con la vita vissuta dalle moltitudini, si ritirano nei palazzi signorili, indossano abiti più eleganti, si esprimono con stile più controllato e decoroso, ma non vedono che il signore, la famiglia del signore, i cavalieri, dame, umanisti e abili imbroglioni.
Guardato dal palazzo del signore il popolo diventa plebe insignificante e negata, per natura, a qualsiasi forma di sensibilità superiore.
Il mondo della poesia e dell’arte troppo spesso si restringe all’elegante, ma spiritualmente assai modesto mondo della corte. E siccome nella corte i problemi della vita si riducono a quelli dell’eleganza, del piacere, del gioco politico, dell’affermazione della propria personalità, è naturale che le lettere e le arti girino sempre intorno a questi motivi. I gravi problemi della vita nazionale, che è in crisi per il costituirsi di potenti Stati unitari nell’Europa centro-occidentale; i problemi della decadenza religiosa e morale della respublica cristiana, la quale, perduta l’unità politica, si avvia a perdere anche l’unità di fede; i problemi della educazione spirituale, dell’elevazione economica e civile delle plebi, le quali con l’affermarsi della borghesia nella Penisola, e soprattutto con l’esaurimento del commercio nel Mediterraneo, ha bisogno di protezione e di sollecita cura da parte dello Stato: tutti questi problemi sono ignorati dagli scrittori e dagli artisti.
Se è vero che letterati ed artisti sono i maestri del popolo, col passaggio dal Comune alla Signoria, il popolo resta senza maestro; letterati ed artisti diventano maestri dei signori; ma se il valore degli educatori deve essere misurato dalla condotta dei discepoli, i maestri del Rinascimento non hanno grandi motivi di rallegrarsi.
Insomma le lettere e le arti del Rinascimento progrediscono mirabilmente nella tecnica, ma indietreggiano miseramente nell’ispirazione.
Aspetti fondamentali del Rinascimento.
I due aspetti fondamentali del Rinascimento sono: Naturalismo e Umanesimo.
Essi accompagnano l’epoca dal suo sorgere al suo tramonto, passando ambedue da uno stato di infanzia ad uno stato di maturità.
Naturalismo
Naturalismo significa culto di tutte le energie che costituiscono la natura umana; e concepire naturalisticamente la vita significa intenderla come espressione piena, libera e spregiudicata di tutte le energie di cui la natura fornisce ciascun uomo. In una concezione naturalistica della vita vengono giustificate tutte quelle forme di vivere che rispondono ad un’esigenza, ad una tendenza della natura umana.
Il criterio con cui si valuta la liceità di un modo di vivere è solo quello naturalistico:
tutto ciò che segue l’esigenza di natura, è buono; tutto ciò che contrasta le esigenze di natura, è cattivo.
Le uniche leggi della morale naturale sono le seguenti: prudenza, abilità ed eleganza; cioè chi vuol godere le risorse di piacere nascoste nella nostra natura umana e nella natura che ci circonda, deve evitare sempre la sfrenatezza bestiale, l’impassibilità balorda e cieca, la rozzezza del primitivo.
Chi segue la natura con prudenza, abilità ed eleganza è perfetto, anche si il suo stile mentale e pratico, non corrisponde alle norme della moralità tradizionale.
Chi segue la morale naturalistica tiene l’occhio fisso non a quello che l’uomo dovrebbe fare o essere in forza di speculazioni teoriche e di rivelazioni religiose, ma solo a quello che è praticamente il modo migliore di vivere: in altri termini, non esiste un complesso di norme di vita che possono essere definite senza tener conto della vita stessa; le norme di vita si traggono dalla vita stessa, cioè quelle forme di esistenza che, man mano, appaiono le più piacevoli, le più geniali, le più fini diventano esse stesse norme. Insomma, quando si stabilisce un codice di perfezione umana non bisogna procedere per ragionamenti filosofici, astratti, né per imposizioni religiose o soprannaturali, ma si deve tener conto soltanto delle esigenze reali della natura umana e di quei modi che, praticamente, le soddisfano nel miglior modo: è il codice morale dell’essere, della realtà, opposto a quello del dover essere o del ragionamento.
Nella concezione naturalistica, dunque, c’è la tendenza a svincolarsi da una mentalità religiosa per realizzare una vita schiettamente umana o laica; a rifiutare le spiegazioni soprannaturali dei fenomeni e non umani, per individuare le cause di essi in fatti puramente naturali. Indirizzo pratico, dunque, in opposizione all’indirizzo teorico (di cui ingiustamente i rinascimentisti attribuivano l’esclusivismo ai medievali); indagine realistica condotta in contatto stretto con la natura; valutazione o svalutazione di uomini e di cose, non secondo criteri morali o religiosi, ma in base a criteri utilitaristici, edonistici, estetici.
Esaltazione delle forze della natura umana.
Distinguiamo nell’uomo facoltà spirituali e facoltà fisiche e vediamo come gli uomini del Rinascimento favorirono l’espressione piena di essere e quali forme e quali indirizzi accolsero nel potenziamento di esse.
Le facoltà spirituali sono: intelletto, sentimento, volontà.
Intelletto. E’ considerato dai rinascimentalisti come la facoltà destinata ad affrontare non problemi teorici, ma problemi pratici, cioè ad individuare tutte le risorse dell’utile. Del bello, del piacevole che si trovano sulla terra.
Si affievolisce nel Rinascimento la speculazione teologica e filosofica; perfino la speculazione giuridica cede il posto alle esigenze pratiche della politica interna ed internazionale. Il Machiavelli, infatti, dichiarerà, esplicitamente, che il criterio per fare buone leggi non è la morale né la speculazione giuridica ma unicamente l’utilità del Principe, cioè l’utilità dello Stato.
L’intelligenza intesa, dunque, come facoltà risolutrice di problemi pratici, è al servizio della vita, intesa, a sua volta, come destinata ad esaurirsi sulla terra, senza alcuna apertura verso mondo soprannaturali. Come il Medioevo aveva costruito la “città celeste” sulla terra, definendone la struttura alla luce dei criteri teologici, filosofici, morali, giuridici, tutti convogliati verso il soprannaturale; così il Rinascimento di propone di ricostruire la “città terrena” piacevole, bella e soddisfacente, definendone la struttura con i criteri di una razionalità pratica di un gusto schiettamente profano.
L’incarico di creare la città terrena, di tracciarne le linee e di comporne l’ornato, viene affidato all’intelligenza e al buon gusto. Per poter assolvere questo compito l’intelligenza ha bisogno della massima libertà: quindi gli uomini del Rinascimento si impegnano a svincolarla da qualsiasi rapporto con la teologia e con la scuola: si afferma uno stile di libertà di pensiero che rifiuta sia i dogmi della Chiesa che quelli della scuola. L’espressione ultima di questa libertà di pensiero è l’affermazione luterana secondo la quale, perfino l’interpretazione della religione, deve essere lasciata alle esigenze delle singole coscienze.
Una intelligenza a servizio della vita capace di destreggiarsi con abilità tra difficoltà più svariate, inorgoglita dalle sue stesse conquiste, libera e spregiudicata in tutti i suoi movimenti fu l’ideale supremo dei rinascimentalisti: ideale che in gran parte si realizzò.
Ecco le caratteristiche più importanti nel campo del pensiero durante il Rinascimento.
a)- la filosofia viene staccata dalla teologia: la filosofia viene staccata dalle scienze; la teologia si illanguidisce; la filosofia (che nel Medioevo era unitaria) si ramifica in svariate correnti che rievocano, più o meno, le correnti filosofiche classiche; le scienze procedono per conto proprio con il metodo che loro si addice (cioè con il metodo sperimentale o induttivo).
b) laicizzazione del pensiero e della vita: cioè distacco del pensiero e della vita dalla religione. L’indagine storica non tiene più conto del fattore provvidenza, ma tende ad individuare le cause dei fenomeni umani nelle passioni, nelle capacità, negli interessi dell’uomo, e, quando si trova di fronte a qualche fatto che non può essere spiegato con l’intervento dell’uomo, ricorre ad una forza misteriosa che si chiama fortuna.
La morale elaborata col criterio naturalistico non tiene più conto del criterio religioso, cioè definisce il bene e il male non in base alla legge divina rivelata, ma in base alle esigenze della natura , del bello e dell’utile.
Il Rinascimento, ad opera del Machiavelli giunse a giustificare la distinzione (che purtroppo, in pratica, facciamo tutti) tra morale teorica e morale pratica o dell’esigenza: si riconosce che teoreticamente si dovrebbe agire secondo i dettami della santa religione e della santa morale, ma, nello stesso tempo, si afferma che per vivere è necessario seguire i suggerimenti delle circostanze: si fanno inchini alla religione e alla morale tradizionale, ma l’una e l’altra vengono dichiarate inadatte alla vita (sarebbe presso a poco la distinzione che nel V capitolo dei Promessi Sposi fa il dottore Azzeccagarbugli allorché è invitato a dare un parere circa una affermazione di Padre Cristoforo che aveva dichiarato che secondo lui nella vita sarebbe bene non vi fossero né sfide, né bastonate, né bastonatori: “l’affermazione del Padre, ottima sul pulpito,ma non val nulla, sia detto col dovuto rispetto, nella pratica della vita”: ci sono dunque una morale del pulpito e una morale della vita che non vanno d’accordo.
Come la storia e la morale, così anche la politica viene scissa completamente, non solo in pratica, ma anche in teoria, dalla legge morale: la politica non è l’arte di amministrare i popoli, secondo criteri eterni di giustizia e di umanità, di diritto e di fraternità, ma è gioco di abilità diplomatica e di capacità guerresca, è astuzia e forza sfruttate per il potenziamento dello Stato o del Principe che, purtroppo, viene identificato con lo Stato.
Il laicismo rinascimentista, pur mirando a svincolarsi dalla religione, per dare all’uomo la massima libertà nel pensiero e nell’azione, tuttavia non nega né combatte i principi religiosi: dichiara soltanto che tra religione e vita c’è una distanza incolmabile, che tra il dover essere e l’essere, non è possibile alcun contatto, e che tra il primo ed il secondo bisogna scegliere come norma il secondo.
Questo processo di laicizzazione che, come tutte le forme della civiltà rinascimentista per raggiungere il suo culmine alla fine del ‘400 e nei primi decenni del ‘500, s’introduce anche nell’interno della Chiesa: vescovi e alcuni papi sono più persone di mondo che rappresentanti, anche modesti, della religiosità evangelica. La più clamorosa espressione della tendenza nel Rinascimento è il Protestantesimo. Infatti Lutero sottrasse la religione alla Chiesa per affidarla alla coscienza di ogni singolo individuo, la sottrasse all’autorità religiosa per affidarla alla autorità politica: “Cuius regio illius et religio” fu il principio sancito alla pace di Augusta, quando si concluse la lotta tra l’imperatore Carlo V e i protestanti (1555). Era da tempo che gli intellettuali del Rinascimento vagheggiavano una religione senza prete, cioè che miravano a laicizzare perfino la religione: Lutero, come concluse il Rinascimento sotto altri aspetti, così lo concluse in modo particolare sotto questo aspetto. E con lui ha inizio quel processo di laicizzazione religiosa che è durata fino ai nostri giorni, particolarmente in ambiente calvinista.
Così la civiltà romanza, tenuta, per così dire, a battesimo dalla Chiesa cattolica, e da questa assistita spiritualmente e civilmente nel periodo della sua adolescenza e della sua giovinezza (cioè nell’epoca medievale), con il Rinascimento passa dalla fase religiosa alla fase umana, dalla fase mistica alla fase naturalistica, da un coscienziosa disciplina ad una autonomia esteticamente corretta e decorata, ma intimamente presuntuosa e dispersa.
c)- Profanismo: cioè culto di preferenza per gli ideali, la cultura, le attività umane ed antipatia per gli ideali, la cultura e per le attività religiose: oppure, se rivive ancora il culto degli ideali religiosi, esso assume forme e toni mondani. Il profanismo si rivela in modo particolare nel campo della cultura.
Nel Medioevo gli intellettuali, nella fase della loro preparazione e nella fase di studio e di indagine personale, preferivano venire a contatto con i libri della Sacra Scrittura, con le opere dei Padri della Chiesa, con il pensiero dei grandi maestri monaci, che nel corso del Medioevo, si resero famosi per la loro attività teologica, filosofica e giuridica.
Nel Rinascimento gli intellettuali compiono la loro preparazione sui testi classici e procedono nelle loro indagini alla luce del pensiero delle prassi schiettamente umane dei Greci e dei Romani.
Giovanni Dominici, un religioso degli inizi del ‘400, nella “Lucula noctis” (1405), deplora che i giovani invece di essere formati attraverso lo studio dei testi sacri religiosi, siano inviati sin dalla più tenera età al culto di una mentalità e prassi pagana.
Nel Medioevo, almeno a parole, i letterati e gli artisti lavoravano per la gloria di Dio e l’onore della Chiesa; nel Rinascimento letterati, artisti e politici lavorano esplicitamente per la loro gloria e per l’onore di questo o di quel principe: profanismo, dunque, anche nell’intenzione che perseguono gli intellettuali nel loro lavoro.
Il Rinascimento, come si è detto, si propone di creare la città terrena che sia piacevole ed accogliente per l’uomo ansioso di felicità; è per questo motivo che in quell’epoca si rivolge l’attenzione ai problemi di una edilizia civile e privata, affinché si possano individuare le combinazioni più armoniche delle linee e siano combinate le forme decorative più eleganti e decorose.
Fioriscono in questa epoca l’architettura, la scultura, la pittura profana: palazzi signorili, sistemazioni edilizie cittadine di ampio respiro e di buon gusto, ampiezze inquadrate da splendide costruzioni con fontane decorate da sculture, giardini pubblici con statue, sale di palazzi privati e pubblici arricchite da preziosissimi affreschi.
Si costruiscono anche chiese, ma si tende a dare ad esse la struttura e la decorazione proprie dei grandi edifici profani classici; il Medioevo aveva costruito la chiesa come luogo di preghiera e di elevazione spirituale, i rinascimentisti la costruiscono come palazzo bello del Signore Supremo: i medievali in chiesa venivano a colloquio con Dio, i rinascimentisti in chiesa volevano appagare la loro ansia estetica.
Di qui tutto il complesso di cerimonie, di fasto profano che si introduce nella chiesa durante la celebrazione dei riti sacri, per cui assistere ad una cerimonia sacra era come assistere ad un bellissimo spettacolo, che se appagava l’occhio distraeva però lo spirito.
E’ evidente in tutto il Rinascimento un tono sprezzante di superiorità nei confronti di tutto ciò che è ecclesiastico o sacro. Basta pensare, a questo proposito, che i filosofi del Rinascimento non simpatizzarono neanche per Aristotele, il quale era pur stato , insieme a Platone, il più grande esponente del pensiero classico: e ciò, soprattutto, perché Aristotele era stato compromesso dall’elaborazione tomistica: ai filosofi umanisti egli sembrava ormai, per così dire, fratizzato. Se essi più tardi si sentirono in dovere di rievocare anche Aristotele, ebbero cura di presentare il glorioso filosofo del tutto diverso da quello che aveva interpretato S. Tommaso: si parlò di aristotelismo puro (Pomponazzi); nelle Università l’elemento insegnante religioso (francescani e domenicani) viene sostituito da elementi laici: è naturale che come i religiosi avevano dato alla cultura un indirizzo soprannaturale o mistico, i laici le dessero in indirizzo schiettamente umano, cioè si preoccupassero di problemi storici, estetici, filologici, politici, componessero storia di ispirazione naturalistica componessero poemi di ispirazione cavalleresca, amorosa, encomiastica, componessero liriche di ispirazione idillica e amorosa e non si preoccupassero più dei grandi problemi dello spirito umano avido di infinito.
Così la civiltà romanza esce dalla chiesa e dal palazzo comunale per entrare nelle corti dei signori e nelle accademie dei dotti; cioè perde di vista il significato soprannaturale della vita e si dedica al culto del bello naturale e artistico, considerato non più come espressione di Dio sulla terra, ma come creazione dell’ingegno e del gusto umano.
d)- Razionalismo. E’ incluso nella concezione naturalistica della vita il proposito di permettere alle facoltà umane l’espressione più piena e più libera delle loro energie.
Questo proposito applicato alla intelligenza diventa razionalismo, cioè concezione della ragione come unica fonte di verità. Abbiamo visto che la ragione è stata distaccata dalla fede; bisogna ora aggiungere che quel distacco aveva come fine quello di permettere alla ragione di destreggiarsi a suo piacere e di affrontare i problemi più svariati con le sole sue forze, per giungere a conclusioni impregiudicate da affermazioni dogmatiche.
Dante, pur considerando supremo dovere, supremo onore dell’uomo, la ricerca del vero, riconosceva limiti imposti alle capacità umane; gli uomini del Rinascimento stimano possibile qualsiasi indagine e quando, talvolta, sono costretti a riconoscere che certi problemi sono troppo alti per essere risolti, se la cavano dichiarandoli inutili ai fini pratici della vita e, sorridendo ironicamente sui tentativi di coloro che, nel corso dell’età precedente, si sono impegnati ad illustrarli alla luce della rivelazione religiosa.
Guicciardini dichiara che i filosofi ed i teologi, avendo preteso di risolvere problemi superiori alle loro forze, sono caduti in una infinità di sciocchezze; e conclude che è bene lasciar da parte certi problemi, intorno ai quali non si potrà mai dire nulla di sicuro, e che vale la pena di occuparsi solo dei problemi pratici della vita.
Si tratta, dunque, di un razionalismo che, non volendo impegnarsi in indagini teologiche e metafisiche, che non interessano più l’uomo “umanizzato” del Rinascimento, astutamente dichiara simili indagini troppo superiori alle nostre possibilità e, con estrema leggerezza, decide di accantonarle.
Sembrerebbe che il riconoscimento della superiorità di certi problemi e della impossibilità umana di affrontarli sia una forma simpatica di umiltà; si tratta invece di una sprezzante rinuncia alle indagini, considerate come inutili e forse anche come compromettenti, essendo simili investigazioni soggette al controllo della autorità della Chiesa.
L’indagine razionalista nel Rinascimento dovrebbe essere limitata semplicemente al campo dei fenomeni umani e al campo delle arti; e questa limitazione fece sì che lo spirito umano si impegnasse nello studio di moltissimi problemi di tecnica, di forme, di scienza, che fino allora non erano mai stati affrontati.
Le scoperte, le invenzioni, le infinite forme di arte elegante e fastosa che fiorirono nel Rinascimento e diedero agli uomini di quell’epoca la sensazione di vivere sul serio la vita (in opposizione all’epoca medievale in cui gli uomini sarebbero stati ancora primitivi) furono il risultato di questo impegno più intenso nello studio dei problemi naturali.
Si tratta, dunque, di un razionalismo che ha avuto meriti altissimi nel campo della indagini naturali e che, se si fosse dedicato alla ricerca anche intorno ai grandi problemi riguardanti Iddio, l’uomo, il mondo, avrebbe garantito maggiore pienezza spirituale, maggiore ricchezza di motivi, una spiritualità più sostanziosa, insomma, all’epoca del Rinascimento.
In pratica anche nel Rinascimento furono affrontati i grandi problemi di Dio, dell’uomo, del mondo cioè i problemi metafisici: si trattò però di una metafisica indipendente dalla religione cristiana e audacemente avviata verso indirizzi propri, che rievocano più o meno le soluzioni della filosofia classica. Furono avanzate varie proposte circa i grandi problemi metafisici, ma quasi tutti concordano nella tendenza verso un leggero panteismo, che è la soluzione più semplice ed anche più comoda per chi non accetti la rivelazione e la metafisica cristiana. Il mondo venne considerato, non più come il riflesso di Dio creatore e trascendente, ma come “animal divinum” cioè materia animata da uno spirito divino. Tale concezione è la stessa che professarono gli antichi classici, i quali videro nella natura l’incarnazione di Dio e godettero di essa con una specie di misticismo edonistico e con la coscienza di rendere omaggio alla divinità. E’ questa concezione panteistica (come si è detto assai tenue e limitata solo al gruppo dei grandi esponenti della cultura rinascimentalista) che giustificò il naturalismo, l’estetismo, l’edonismo di questa epoca.
E’ chiaro che in questa concezione panteistica l’uomo viene considerato come l’espressione più bella del tutto, anzi come coscienza viva di esso in questa parte dell’universo che si chiama terra. Come parte cosciente del tutto l’uomo sente l’ansia di impossessarsi dell’universo, sia attraverso la conoscenza di esso, sia attraverso l’utilizzazione delle energie di esso. Di qui l’ansia della scoperta e della avventura; di qui l’affermazione che all’uomo è lecito tentare tutte le esperienze possibili ed immaginabili sia nel campo del lecito sia nel campo dell’illecito, in quanto, in una concezione panteistica, tutto diventa necessario e razionale e tutto, come necessario e razionale, è buono.
Machiavelli afferma che tutto ciò che è necessario nella vita pratica è buono; Guicciardini afferma che l’uomo si illude di essere libero mentre di fatto tutto è necessitato e regolato dalla forza universale che anima il tutto.
Nel razionalismo rinascimentalista, dunque, più o meno indirizzato verso il panteismo, l’affermazione fondamentale è questa: l’essere e il divenire sono regolati in tutte le loro manifestazioni da una razionalità perfetta e non potrebbero essere diversi da come sono: l’uomo saggio si sforza di capire questa razionalità e questa necessità per utilizzare il più possibile le cose ai fini di una esistenza piacevole e bella.
Vivere pienamente, senza incertezze e senza timori, è il risultato morale della concezione razionalistica del Rinascimento: infatti non esistono più limiti, o proibizioni, o discipline imposti dall’autorità esterna: è la ragione che impone limiti all’uomo: ma la ragione, come si è detto, trova buono tutto ciò che è necessario. Vivendo pienamente tutte le svariate esperienze l’uomo contribuisce, per così dire, a far sì che il tutto sia veramente tutto: sperimentare il vizio senza la virtù, conoscere una scienza senza conoscere le altre, significherebbe vivere parzialmente e in modo non adeguato alle esigenze della totalità universale. Di qui le caratteristiche dell’agilità e della versatilità proprie dello spirito del Rinascimento: di qui l’impressione di ricchezza e di floridezza che genera, a prima vista, la civiltà di quell’epoca.
E’ da notare, però, che la presa di contatto pieno ed esclusiva dello spirito umano con la natura, senza aperture soprannaturali, se è un ottimo presupposto per ampliare e moltiplicare le esperienze terrene, è anche un fattore che limita la visuale del mondo interiore e genera, presto o tardi, noia ed insoddisfazione. La presa di contatto esclusiva con la realtà naturale, se da una parte impoverì l’interpretazione della vita e quindi l’ispirazione dell’arte, dall’altra contribuì efficacemente al miglioramento della tecnica di espressione, in quanto lo studio della natura e dell’uomo, condotto in forma intensa, rende esperti delle risorse di cui sono forniti e l’una e l’altro. Ad esempio la scultura e la pittura, sono potentemente favorite dallo studio della anatomia umana e animale, dalla scoperta dei misteri delle linee e dei colori (da ricordare la scoperta della prospettiva sia lineare che aerea); il linguaggio poetico è potentemente favorito dallo studio delle lingue e delle letterature classiche.
Il Medioevo ebbe una spiritualità ricchissima in cui l’interpretazione naturale e soprannaturale della vita si armonizzavano tra loro e si completavano reciprocamente: ma ebbe una tecnica poco elaborata ed elegante sebbene originalissima e potentemente efficace. Il Rinascimento ebbe una spiritualità meno intensa e meno ricca, ma ebbe una tecnica più fine, più signorile più vicina alla natura bella: il Rinascimento è più lindo, più aristocratico del Medioevo, ma ha meno passioni, meno ideali, meno aspirazioni, meno slancio di esso.
e)- Sperimentalismo e Realismo. Avendo messo da parte i problemi teologici e metafisici, avendo limitato l’indagine a ciò che cade sotto la nostra esperienza, avendo sostituito nella interpretazione della natura dell’uomo i criteri pratici dai criteri teorici, era naturale che il metodo caratteristico del Rinascimento fosse quello sperimentale e induttivo: in ogni campo dell’indagine umana i principi debbono essere indotti da uno svariato complesso di esperienze: “non va scienza senza sperienza” dice Leonardo da Vinci. Prima di lui il Boccaccio aveva presentato l’uomo quale risulta dall’osservazione sperimentale piuttosto che quale risulterebbe da una interpretazione morale religiosa o filosofica.
Machiavelli farà della politica una scienza sperimentale; Guicciardini dichiarerà che la virtù suprema è la “discrezione” cioè la capacità di risolvere i problemi della vita caso per caso, secondo le esigenze pratiche che in ciascuno di esse sono incluse. Anche la morale, come si è già visto, trae i suoi principi dall’esperienza e dall’esigenza pratica: è buono tutto ciò che è necessario, è buono tutto ciò che ha avuto nel passato, e garantisce di avere attualmente, buoni risultati.
Il metodo sperimentale, applicato alla politica ed alla morale, fece sì che fossero elevate a principio certe prassi che erano, sono e saranno sempre deplorevoli e ingiustificabili. Applicato, però, al campo delle scienze, dove la legge che è insita nei fenomeni può essere scoperta soltanto con l’osservazione dei fenomeni stessi, il metodo fu provvidenziale e promosse quello studio attento della natura, che ha dato origine alla scienza moderna, spazzando via una infinità di pregiudizi, infiltratisi nel campo scientifico o perché accolti per sentito dire o perché imposti dalla filosofia, la quale nel passato, unita come era alle scienze, aveva preteso di ragionare astrattamente sulla natura dei fenomeni, che può essere percepita solo attraverso l’osservazione diretta.
Alla scienza va strettamente connessa la tecnica, nel senso che le leggi di natura non vengono scoperte per essere vagheggiate, ma per essere applicate alla pratica delle arti umane (l’applicazione dei principi scientifici all’arte si chiama tecnica). Non si può negare che dal punto di vista tecnico i rinascimentisti hanno acquistato svariati motivi.
Oltre alla accennata tecnica del disegno e del colore nell’arte della pittura, sono da ricordarsi le prime scoperte anatomiche, i progressi dell’ingegneria edile, idraulica e militare, le invenzioni e il perfezionamento delle armi da fuoco e della stampa con i caratteri mobili. Né sono da trascurarsi le infinite espressioni della tecnica applicata all’uso e a forme di vita igienicamente ed esteticamente più decorose che non nell’epoca precedente.
Lo studio della terra in generale portò alle grandi scoperte geografiche per realizzare le quali fu necessario il perfezionamento della tecnica nautica. Quando poi si impose la necessità di utilizzare le ricchezze delle nuove terre scoperte si sentì il bisogno di perfezionare la tecnica della cultura agricola, la tecnica dei trasporti marittimi, della conservazione delle merci, del commercio e della finanza.
Infine, dopo aver acquistato la conoscenza della terra, si preannunciano i primi tentativi di procedere, con lo stesso metodo sperimentale, affiancato da quello delle ipotesi, alla scoperta delle realtà celesti, cioè del campo astronomico: Copernico formula l’ipotesi che non la terra sia il centro del mondo, ma che il sole sia il centro di un sistema di cui la terra è un modesto fattore, un pianeta che gira, insieme agli altri, intorno al vero centro. Da questo tentativo di esplorazione dei cieli risulterà il bisogno di perfezionare la tecnica per l’osservazione degli oggetti a distanza Galileo Galileo nel seicento riuscirà a fornire all’astronomo il cannocchiale.
Il progresso scientifico e tecnico, il miglioramento delle forme di vita dal punto di vista estetico, edonistico ed utilitaristico, diedero agli uomini del Rinascimento la sensazione di avere superato la fase della primitività medievale, di avere ingentilito ed ampliato la vita e di avere conquistato il dominio della terra: di qui il disprezzo per il Medioevo; l’ottimismo edonistico nel godimento delle agiatezze; il tono orgoglioso ed audace di chi è riuscito a scoprire misteri che sembravano impenetrabili ed è sicuro di aver trovato le fonti della felicità.
f)- Criticismo. La sensazione che i rinascimentalisti hanno di avere creato una civiltà nuova, di aver realizzato la pienezza del vivere, li induce a disprezzare l’epoca precedente, cioè la civiltà medievale, e a sottoporre a critica le varie affermazioni fatte,, nel corso dei secoli nei vari campi dell’indagine umana.
Gli storici, i giuristi, i filologi, i filosofi, gli scienziati del Rinascimento si compiacciono di cogliere spesso la civiltà precedente in errore, di poter così mettere in luce la loro bravura, calcando le tinte dell’ignoranza altrui. La tradizione medievale, svalutata e spregiata, viene accantonata e si rivela in tutti gli intellettuali l’ansia di riallacciarsi ad una civiltà più razionale e più umana, cioè a quella classica: grande rispetto, dunque, per i Greci e per i Romani; diffidenza, critica, altezzosità nei confronti dei medievali.
La tradizione medievale, ad esempio, aveva presentato come documento storicamente certo la “Donazione di Costantino” per giustificare il dominio temporale dei Papi. Lorenzo Valla, impiegato alla corte pontificia, dimostra che quel documento è falso: grave smentita alle affermazioni storico-giuridiche dei sostenitori del potere temporale dei Papi (anche Dante aveva creduto alla donazione di Costantino, pur deplorandola: “Ahi Costantin di quanto mal fu matre- non la tua conversion, ma quella dote – che da te prese il primo ricco patre” c.XIX dell’Inferno vv.115-117.)
La giurisprudenza medievale fu elaborata dalla Chiesa la quale valendosi dei principi più ragionevoli del diritto classico romano cercò di dare buone basi giuridiche al suo dominio spirituale su tutto il mondo ed anche a certe pretese di carattere temporale. Gregorio VII (1013-1024) e Innocenzo III (1198-1216) furono i più vigorosi assertori del diritto della Chiesa nei confronti dei vari Stati cristiani; e più o meno dalla riforma gregoriana (1074) alla schiavitù avignonese (1305) la Chiesa esercitò un controllo pieno su tutti gli Stati della respublica cristiana, molti dei quali erano sorti sotto la protezione di essa e volontariamente avevano riconosciuto la sua alta sovranità feudale, obbligandosi a pagare anche un tributo annuo.
Quando, nel secolo XII, in seguito alla rinascita della cultura, ritornò in vigore lo studio del diritto classico (specie a Bologna per iniziativa del giurista Irnerio), incominciò ad affermarsi il concetto della sovranità dello Stato che costituiva il principio fondamentale della giurisprudenza classica (sovranità, da superaneitas, significa superiorità dello Stato su tutte le persone fisiche e morali che si trovano entro i confini dello Stato stesso e, quindi, il diritto da parte di questo di controllare tutte le attività che si svolgono entro la sfera della sua giurisdizione e, quindi, diritto di controllare la Chiesa).
Federico I Barbarossa e Federico II, suo nipote, iniziarono il tentativo di affermare la sovranità assoluta dell’imperatore e di esercitare il controllo, non solo sugli enti autonomi (Comuni e Feudi), esistenti in tutto il territorio dell’impero, ma anche sulla Chiesa: di qui la lotta tra gli Svevi ed i Papi. I fautori del principio dell’autorità assoluta dell’imperatore furono i Ghibellini; i fautori della sovranità assoluta del Pontefice furono i Guelfi. Dei due contendenti non vinse nessuno: il papato alla fine del medioevo decade in seguito alla schiavitù avignonese (1305-1378) e allo scisma d’Occidente (1379-1418): l’impero, dopo il tentativo di Arrigo VII di restaurare l’autorità imperiale, non fu più che un nome.
Vinse, invece, una tendenza nuova, cioè la tendenza alle sovranità individuali ossia nazionali sia nel campo religioso che in quello politico. Lo star sotto la tutela di di autorità universali, quasi fossero bambini bisognosi dell’assistenza della balia, sembrava una situazione umiliante a nazioni che erano uscite, ormai da tempo, dallo stato d’infanzia ed erano venute formando la loro fisionomia e il loro carattere tecnico, politico, giuridico.
All’universalismo medievale, compromesso irrimediabilmente dalla lotta fra le due autorità supreme e dalla irrefrenabile avanzata delle nazioni romanze verso la loro maturità, succede l’individualismo nazionale, reso più accentuato dall’energia con cui si afferma il principio della sovranità statale.
Dante aveva propugnato il principio della distinzione del potere religioso, del potere politico nella collaborazione reciproca: ed aveva deplorato tanto le soverchierie e le invadenze papali nel campo politico, quanto le soverchierie e le invadenze politiche.
Egli era apparso anticlericale, ma di fatto era stato solo un critico dei metodi usati dagli uomini di chiesa nell’autorità di Dio. Marsilio da Padova, difensore della sovranità degli Stati e dell’autocefalismo delle singole chiese nazionali, favorì apertamente l’autorità politica a tutto danno dell’autorità religiosa.
L’anticlericalismo, favorito dal triste esempio dato dagli ecclesiastici durante la schiavitù avignonese, prima e durante lo scisma d’Occidente e la decadenza morale del periodo che va dallo scisma alla Controriforma (1545), assunse, nel periodo del Rinascimento, un tono spregiudicato ed ardito: il laicismo ghibellino del Medioevo stava diventando ideologia avversa sia ai diritti che alle pretese ingiuste della Chiesa. Machiavelli affermava che non si può dire tanto male della curia romana che non se ne possa dire ancora di più. Guicciardini chiamava i preti “caterva di scellerati” e desiderava vederli ridotti o senza vizi o senza autorità. Sembrerebbe che tanto il Machiavelli che il Guicciardini siano avversi ai preti, ma credono nella divina missione della Chiesa: c’è però da notare che per il primo era preferibile la religione pagana che quella cristiana, perché questa infiacchisce l’uomo, mentre l’altra lo accende di amore per le cose terrene e lo fa quindi feroce guerriero; per il secondo, scettico e senza fede, cristianesimo, maomettanesimo e tutte le altre religioni del mondo valevano la stessa cosa, cioè non valevano nulla.
Tuttavia è storicamente notevole questo atteggiamento di antipatia diffusa verso l’autorità dei preti. Lutero, che sottopone a critica le affermazioni più solenni della Chiesa romana e in nome del Vangelo dichiara soverchieria ed usurpazione l’autorità del Papa e di tutti i grandi della gerarchia ecclesiastica, propugna la libera interpretazione della scrittura, nega il valore dei sacramenti, è l’espressione più radicale e più audace del criticismo rinascimentista. Infatti, se l’audacia e la gravità della critica è misurata dalla importanza storica e morale dell’istituzione che si critica e se fino al secolo XV l’autorità più venerabile e l’istituzione più sacra era stata la Chiesa, non si può negare che la demolizione totale della Chiesa stessa da parte del protestantesimo costituisca il gesto più audace e conclusivo del criticismo rinascimentista.
Sull’esempio di Lutero, Principi e re, a seconda dei loro interessi, si distaccarono da Roma e costituirono Chiese locali con principi dogmatici e morali, e con riti culturali tutti propri e talvolta arbitrari.
Nel Medioevo la critica che la giurisprudenza classica muoveva alle pretese della giurisprudenza ecclesiastica, propugnatrici l’una della sovranità esclusiva del potere politico, l’altra del potere religioso, sembrava limitata solo al campo del diritto e all’anticlericalismo laico dell’imperatore e dei feudatari ghibellini, aveva un aspetto quasi esclusivamente politico: nel Rinascimento alla Chiesa vengono negati i diritti politici, perché non ha neanche quelli religiosi, e anticlericalismo non è antipatia contro l’invadenza temporale dei Papi, ma negazione dell’autorità religiosa della gerarchia ecclesiastica in genere.
Questa conclusione era fatale nel processo di naturalizzazione o umanizzazione della civiltà romanza, le nazioni cristiane dopo di essere state a scuola della Chiesa ed avere creduto a tutto quello che lei aveva insegnato, incominciavano a rielaborare e vagliare tutto quello che avevano appreso, per rendersi conto se mai la maestra avesse insegnato e imposto qualche cosa di suo puro arbitrio.
La critica nel campo filologico si appunta contro l’interpretazione religioso-allegorica dei testi classici, a cui avevano atteso gli umanisti medievali, particolarmente Dante.
Gli umanisti del Rinascimento vedono nelle opere dei classici quel che c’è di fatto, senza tentativi di interpretazioni tendenziose: la civiltà classica per essi non solo non ha bisogno di giustificazione né di scuse, nell’atto di presentarsi al mondo cristiano moderno, ma vanta addirittura la sua superiorità nella cultura religiosa medievale, se non altro per la bellezza delle forme di cui essa detiene il monopolio.
Anche dal punto di vista linguistico gli umanisti trovavano gli scrittori medievali in fallo: i libri scritti in latino dotto medievale erano per essi documenti deplorevoli che attestavano quanto l’ignoranza avesse potuto deformare la splendida lingua dell’età aurea di Roma.
I filosofi del Rinascimento evitano il più possibile contatti con la filosofia del Medioevo, perché la considerano asservita alla religione e non possono fare a meno di deplorare che il più grande pensatore dell’antichità classica, cioè Aristotele, sia stato così stoltamente interpretato dai medievali. Come già si è detto, all’Aristotele male interpretato oppongono l’Aristotele puro attraverso lo studio critico delle sue opere di lingua originale, cioè greca.
Nel campo geografico-scientifico le smentite date alla tradizione sono innumerevoli e gravissime; s’era detto che al di là delle colonne d’Ercole fosse impossibile la navigazione: Cristoforo Colombo, seguendo il pensiero di Paolo Toscanelli, suppone per ipotesi che la terra sia rotonda e procede alla scoperta della via occidentale delle Indie e si imbatte in un continente nuovo. Citiamo solo questo esempio, ma è sufficiente per farci intendere quanto orgoglio destasse negli uomini del Rinascimento maturo la coscienza della loro superiorità nei confronti dei pregiudizi stoltamente accolti da generazioni e generazioni nell’epoca precedente.
Come l’individuo giunto alla fase della sua maturità, sottopone ad esame tutto quello che ha appreso dagli altri, affinché le sue convinzioni abbiano l’impronta della sua razionalità personale, cosi avviene delle generazioni e il Rinascimento rappresenta nella storia delle generazioni romanze la fase di un criticismo già adulto e quindi spregiudicato e spesso presuntuoso: il criticismo di Dante, che mirava ad eliminare ciò che non poteva sostenersi, ma rispettava ciò che era sostanziale, era stato ormai sorpassato dalla tendenza al radicalismo, proprio degli audaci e degli orgogliosi.
Volontà.
I rinascimentisti hanno mirato a potenziare la volontà umana:
1)- Affermandone l’autonomia cioè la libertà:
a)- dalla legge morale
b)- dalle consuetudini tradizionali
c)- dalla autorità della Chiesa.
Viene così proclamata l’autonomia della volontà e il diritto dell’individuo a dirigere sé stesso secondo il suo arbitrio (in pratica i rinascimentisti si resero schiavi dei modelli classici; gli uomini politici e gli storici adularono e servirono i tiranni; gli uomini politici e gli storici adularono e servirono i tiranni. Il Guicciardini nega perfino il libero arbitrio).
2)- Affermandone la capacità illimitata.
A chi è fornito di intelligenza agile e di energia di volontà, nulla è impossibile.
All’uomo “virtuoso”, cioè all’uomo che sa fare, non occorre l’aiuto di Dio per superare difficoltà e pericoli. Di qui la mancanza del senso del bisogno di Dio nei personaggi della storia o della letteratura del Rinascimento.
Difficilmente un personaggio dell’Orlando Innamorato o dell’Orlando Furioso, specialmente se uomo, si raccomanda a Dio per ottenere l’aiuto nelle imprese difficili. Sembra che quanto più l’impresa è difficile tanto più essa attragga l’interesse e impegni le energie dell’uomo avido di cimentarsi con l’impossibile, per saggiare le sue energie e rendersi conto della loro efficienza.
Specie nei due poemi citati troviamo personaggi che incarnano il tipo dell’uomo senza paura, capace di cimentarsi non solo con le più temibili forze della natura, ma anche con le forze soprannaturali demoniache (magia); e in questo scontro tra l’uomo e il soprannaturale il vittorioso è sempre l’uomo.
3)- Affermandone la capacità creativa.
I rinascimentisti amarono vedere l’uomo nella natura non come contemplatore estatico della bellezza di essa e delle bellezze del Creatore di essa, ma come impegno di un lavoro di trasformazione, di sistemazione, di abbellimento di tutto ciò che è in essa per creare le condizioni di una vita agiata e decorosa. Con l’applicazione intensa di tutte le energie della volontà, l’uomo può domare la natura, la fortuna, le circostanze. Di qui il concetto che i rinascimentisti ebbero della storia come creazione dell’uomo, con esclusione di interventi soprannaturali.
L’aspetto più grave di questa concezione della creatività dell’arbitrio umano consiste nella pretesa di definire il bene e il male, non secondo criteri oggettivi, immortali ed eterni, ma secondo le esigenze di una soggettività più o meno interessata e più o meno dominata da passioni.
Particolarmente la volontà dei capi, dei principi, cioè di colori i quali sono per natura superiori agli altri, , è valorizzata sino al punto che la legge diventa espressione del loro arbitrio: pare che ritorni la vecchi espressione classica ”quod principi placuit illud legis habet rigorem”. Con tale soggettivismo morale e giuridico si esaltava in modo superlativo l’uomo, si creava anche la mentalità più adatta per arbitri e soprusi di ogni genere: e tutti sappiamo quanto spregiudicata sia stata la tirannide dei Principati nel Rinascimento e dopo il Rinascimento.
Sentimento.
Il sentimento umano viene potenziato in due modi:
1)- Col liberarlo dagli incubi religiosi e morali.
La preoccupazione del giudizio di Dio, la paura delle pene dell’oltre tomba, la trepidazione di fronte alla tentazione, il senso del rimorso dopo la caduta, la sensazione della propria miseria e del proprio avvilimento, il bisogno di espiazione su cui aveva insistito la spiritualità medievale, vengono eliminati con tono di superiorità e di ironica braveria dagli uomini nuovi che hanno superato il concetto di Dio giudice, del peccato, della penitenza.
Si afferma nel mondo affettivo dell’epoca rinascimentista un vivace senso ottimistico, un senso di sicurezza e di goliardia, un’aria di serenità che danno l’impressione della vera padronanza di sé stessi e delle cose.
Il rinascimentista si libera dalle paure dell’oltre tomba in due modi: dichiarando che di certe questioni non si potrà mai dare una soluzione definitiva, che cioè nessuno mai saprà quale è il nostro destino dopo la vita terrena; tale problema è troppo grande pensano essi perché possa essere risolto da noi che siamo così piccoli o meglio da noi che possiamo e dobbiamo conoscere solo ciò che è positivo o sperimentale; inoltre cercano di obliare l’enorme mistero dell’universo (come direbbe il Carducci) divagando lo spirito con l’impegnarlo nell’azione, col distrarlo attraverso i godimenti, con l’ammaliarlo attraverso l’incanto della bellezza.
Così gli antichi classici sviavano il pensiero triste della morte: con lo scetticismo e con l’edonismo.
2)- Col promuovere tutte le forme della sensibilità.
Al rinascimentista come ripugna la sensibilità gretta quasi disumana dell’asceta, così ripugna la sensibilità eccessiva e smoderata che si manifesta con impulsività disordinata e quasi centauresca. Il rinascimentista ama la sensibilità aperta a tutte le impressioni, particolarmente a quelle serene: la sensibilità estetica, la sensibilità amorosa, il gusto dell’agiatezza decorosa, l’amore allo svago, il senso del proprio onore, la lealtà verso gli amici e ai capi, l’intransigenza nei confronti dei nemici, perfino la simpatia per una pratica religiosa moderata e gaia, perfino la ammirazione per la virtù bella e moderna, costituiscono i motivi più comuni del mondo affettivo del rinascimentista.
Più uno è sensibile più è buono; più la sensibilità è educata, è moderata, fine e decorosa, più uno è perfetto. Come si vede anche nel campo del sentimento vale il principio fondamentale del naturalismo e cioè alle energie della natura bisogna permettere l’espressione piena verso ogni direzione.
La pedagogia del Rinascimento mirò ad affidare la sensibilità dei giovani attraverso il culto del bello; nel mondo intellettuale furono coltivate le mentalità platoniche e cavalleresche, con il preciso intento di diffondere negli ambienti più elevati uno stile fatto di grazia, di compostezza e di intelligente vivacità. Il Boiardo, il Ficino, il Castiglione, il Bembo furono gli esponenti di questo stile decoroso e nobile: il Boiardo vagheggiò ed attuò nella sua vita e rappresentò in arte l’esemplare del cavaliere perfetto, cioè dell’uomo in cui si riassumono gli ideali del guerriero valoroso, dell’innamorato gentile, dell’uomo d’onore, d’amore, di cultura. Il Ficino ed il Bembo vagheggiarono e rappresentarono l’uomo esteta, cioè cultore del bello, il quale attraverso la contemplazione dell’armonia delle linee fisiche e delle doti spirituali visibili nelle creature, ascende alla contemplazione del Creatore.
Si può cogliere questa aspirazione al gentile e al bello nel concetto stesso che gli umanisti cristiani hanno avuto di Dio e nello stile che gli artisti hanno adottato nella composizione di soggetti religiosi. Gli umanisti cristiani hanno concepito Dio come bellezza e armonia che riflettono e che si diffondono in tutto l’universo creato; e ciò in armonia con il pensiero di Platone, il quale aveva presentato al sommo della gerarchia delle idee il bello e il buono che improntano di sé tutte le idee sottostanti e tutte le imitazioni sensibili di esse (cioè il mondo): Ficino e Bembo si specializzarono nell’esaltazione dell’amore platonico e ideale, cioè dell’amore inteso come gaudio spirituale di fronte alla bellezza pura diffusa nell’universo sensibile.
Baldassarre Castiglione, nel suo “Cortegiano”, riassume nella figura del gentiluomo la spiritualità del perfetto cavaliere e dell’esteta platonico: il gentiluomo è un cavaliere esperto in tutte le attività più decorose e nobili, è un’anima vivace, leale, amante della bellezza pura.
Gli artisti che trattarono soggetti religiosi rivelarono nelle loro composizioni la loro passione per la bellezza elegante e signorile: gli architetti concepirono i templi come abitazioni signorili di Dio e luoghi ove i fedeli, attraverso il diletto della bellezza che li circondava, riuscissero a prendere contatto con la bellezza assoluta.
Nel Medioevo Dio era stato concepito come amore, giustizia, potenza e bellezza: così l’aveva presentato Dante; nel Rinascimento, epoca del bello, ci si compiace di considerare Dio come bellezza e di infondere, nelle composizioni di carattere religioso, l’armonia ed il decoro che sono l’essenza del bello.
Come in tutte le altre manifestazioni della spiritualità rinascimentista, così anche in quelle del sentimento si nota, in confronto con quelle del Medioevo, minore ampiezza, ma maggiore capacità ed abilità nel creare belle forme, esemplari perfetti.
Facoltà fisiche.
Si è detto che i medioevali trascurassero il corpo, anzi si compiacessero di umiliarlo e di tormentarlo: non è vero, perché gli esponenti della civiltà medioevale hanno considerato il corpo come strumento dell’anima e si sono contentati di disciplinarlo per,sottometterlo alle esigenze dello spirito, ma non hanno mai propugnato l’idea di un avvilimento di esso.
Tuttavia non si può negare che nel culto delle doti fisiche i medioevali appaiono ancora arretrati nei confronti dei rinascimentisti. Ma ciò si spiega col fatto che la tecnica si perfezione con l’esperienza e che normalmente una generazione che ha un secolo di più di esperienza è, dal punto di vista materiale, più evoluta di una generazione che ha un secolo di esperienza in meno.
Vediamo quali sono le doti più notevoli del corpo e i n qual modo il Rinascimento seppe valorizzarle e potenziarle.
Sanità. Per coltivare la salute il Rinascimento curò assai di più del Medioevo l’igiene pubblica e privata. Abitazioni più salubri, un’edilizia pubblica di maggior respiro e di maggiore decoro, vie ampie, piazze, giardini pubblici ben sistemati, diffusione dell’uso dei bagni, introduzione di cibi nuovi e di un’arte culinaria più squisita, sono invenzioni con cui il Rinascimento intese garantire la sanità del corpo.
La penitenza corporale fu svalutata, perché considerata come avvilimento di un corpo che è opera di Dio e come inutile, perché la vera religione è interiore: insomma si vide nella penitenza non un esercizio di disciplinamento del corpo, ma solo una mania di abbrutimento.
Bellezza. L’armonia delle linee, la moderata floridezza delle membra, l’espressività del volto, la vivacità degli occhi, nel Rinascimento furono considerate come superbi fattori di bellezza. Un bel corpo costituì la passione degli scultori e dei pittori del Rinascimento, i quali gareggiarono nel modellare le membra nel modo più verosimile al reale, con arte di idealizzazione di buon gusto e di eleganza. Si diffonde così nell’arte l’uso del nudo e si impone ad ogni artista la necessità di applicarsi allo studio della anatomia.
Se paragoniamo una creazione di Giotto con una di Leonardo, o di Raffaello, o Michelangelo, la prima ci apparirà senza dubbio più ricca di spiritualità, ma la seconda presenterà una modellatura così perfetta da realizzare la sintesi piena del vero con l’ideale.
I rinascimentisti alimentarono la bellezza fisica con l’uso della ginnastica, che rende agili le membra e dà euritmia ai movimenti: la “Decora Palestra” di Orazio appare a questa età, avida di bellezza, come uno splendido fattore di incivilimento, inventato dai classici e trascurato dai medioevali e rimesso in onore da essa. Con la ginnastica va connessa la danza: e con la danza va connessa la musica: danza e musica sono considerati i due fattori di educazione nell’armonia esteriore e in quella interiore, cioè come fattori di educazione estetica.
A mettere in evidenza le belle forme interviene la moda dell’abbigliamento e delle acconciature: si tratta di uno stile di abbigliamento che ha il fine di mettere in evidenza quel che è bello e di correggere e nascondere quel che è brutto; si tratta di acconciature che mirano a rendere più nitida e più aurea la figura del viso. Non si può negare che nella tecnica del bello e dell’agiatezza gli uomini del Rinascimento abbiano raggiunto forme che si impongono all’attenzione delle persone di buon gusto: è per questa perfezione esteriore che i rinascimentisti, guardando all’epoca che li aveva preceduti ebbero la sensazione di aver risuscitato l’uomo, cioè di aver promosso il rinascimento della civiltà.
Aspetti generali del Rinascimento derivanti dal Naturalismo.
1)- Tramonto del Misticismo e affermazione dell’Umanesimo.
Cessazione della concezione religiosa della vita e affermazione della concezione umana: non più la visione della natura che ascende verso la soprannatura, ma visione della natura come realtà unica, donata all’uomo, per realizzare il suo perfezionamento. Il Medioevo aveva lavorato alla creazione della “città celeste”, cioè di una civiltà che riflettesse gli ideali e le aspirazioni soprannaturali; il Rinascimento è tutto intento a creare la “città terrena”: bella, gioconda, complessa e armonica.
Cessa la fase religiosa della civiltà umana: l’uomo esce dalla tutela dei preti, cioè della religione, ed incomincia una vita autonoma.
2)- Edonismo.
Cioè concezione della vita come piacere, cioè come potenziamento della nostra natura sensibile e spirituale attraverso tutte le esperienze più adatte a promuovere e a soddisfare le esigenze del corpo e dell’anima. Il fine della vita è sulla terra e il fine terreno dell’uomo è quello di vivere il più a lungo possibile e il meglio possibile.
3)- Individualismo.
La rivalutazione della natura umana, propugnata dai rinascimentisti, non fu rivalutazione della natura umana in quanto tale, ma dell’uomo ben potenziato di energie native: quel che conta non è l’animalità e razionalità (essenza o natura dell’uomo uguale, in tutti gli uomini), ma il grado di perfezione o di potenziamento dell’animalità e della razionalità nei singoli individui.
Quindi, nel Rinascimento, si tributa onore e rispetto non all’umanità in genere, ma a questo o a quell’uomo che incarna in sé stesso un esemplare perfetto di umanità. Se i rinascimentisti avessero valorizzato la natura umana in quanto tale, avrebbero conservato l’universalismo medioevale, se non per motivi religiosi almeno per motivi umani, in quanto in tutto il mondo esistono uomini che come natura sono eguali anche se sono diversi quanto a potenziamento di natura; ed in questo senso avrebbero precorso il cosmopolitismo degli Illuministi.
L’uomo ben potenziato, cosciente delle sue risorse e della sua capacità, ama affermarsi come individuo. Per questo nel campo delle arti non avremo più le “Scholae” in cui quel che conta è il programma comune e chi agisce è il gruppo: ma troveremo tanti indirizzi (pur nello stesso campo di aspirazioni e di metodi) quanti sono gli artisti. Si parla di “scuola rafaellesca e michelangiolesca”, ma di fatto gli scolari di Raffaello e di Michelangelo non erano esecutori dei disegni dei maestri e se rivelavano, talvolta, spirito di iniziativa, essi stessi ci tenevano molto a dichiararsi autonomi.
Nel campo delle lettere poi non troviamo più scuole: ogni letterato, pur inquadrandosi nella spiritualità comune dell’epoca, ha uno stile mentale e tecnico personale; e troviamo spesso gli scrittori in polemica e in litigio gli uni contro gli altri. Basti a questo proposito ricordare il non certo degno spettacolo che diedero alcuni umanisti nella loro ansia di affermare ciascuno la propria personalità e di deprimere quella dei colleghi.
Anche nel campo della filosofia e della teologia si verifica un frazionamento che, se da una parte favorisce l’individuazione di problemi nuovi e la ricchezza di proposte per risolverli, tuttavia, esaurisce le forze in tentativi personali che il più delle volte, rimangono sterili. Nel Medioevo la filosofia di tutte le scuole della respublica cristiana era stata la Scolastica, particolarmente la Scolastica Tomistica: nel Rinascimento il pensiero comune, l’indagine condotta da più persone nello stesso senso sembra ripugnare; si prende ciascuno una strada propria, che in fondo non è altro che una delle tante strade percorse già dalla filosofia classica. Nel campo teologico le affermazioni fatte durante il Rinascimento e da cattolici e da eretici sono innumerevoli e, particolarmente, quelle ereticali, di carattere violento e radicale: (ricordare Wikliff, Hus, Lutero, Calvino, Zwingli nel campo ereticale; il cardinal Caietano, Bellarmino, Molina e la scuola gesuitica).
Ma il campo in cui l’individualismo fu più evidente e, per la storia dei popoli europei più dolorosa, fu quello della politica e della religione.
Vediamo anzitutto l’affermarsi dell’individualismo nel campo politico internazionale.
Nell’Alto medioevo si erano formate etnicamente varie nazioni moderne: in quel mondo ferveva lo spirito individualista proprio dei popoli germanici e dei popoli primitivi in genere; ma l’universalismo politico del Romanesimo e l’universalismo religioso del Cristianesimo erano riusciti a dare una certa unità a quell’aggregato di popoli, che neanche si conoscevano tra di loro.
Verso la fine del secolo XIII le due forze che alimentavano l’unità dell’Europa si esaurivano: il Sacro Romano Impero perdeva qualsiasi forza coesiva e quella sovranità che esso invano, per opera degli Ottoni e degli Svevi, aveva tentato di affermare su tutta la respublica cristiana, andando a rafforzare gli organismi politici minori, che prima erano (almeno di nome) soltanto autonomi: Comuni, Feudi, Nazioni diventarono organismi politici indipendenti, in lotta con l’autorità universale dell’Impero e il lotta fra di loro.
In quel momento di crisi sarebbe stato ottimo rimedio il fattore della fede religiosa comune: in nome del Cristianesimo l’Europa avrebbe potuto conservare l’unità (e Dante era di questa opinione): ma anche la religione era in crisi a causa della schiavitù avignonese prima e dello scisma d’Occidente poi.
Come gli individui per potenziarsi credono necessario troncare i legami che li uniscono ai principi oggettivi del vero e del giusto o i legami sociali che li uniscono attraverso un fatto spontaneo e libero, alla comunità democratica, così i gruppi etnici o nazioni per potenziarsi credono opportuno isolarsi: tanto gli individui che le nazioni, con l’isolamento intendono garantirsi la libertà di movimento: e con la libertà di movimento intendono assicurarsi la condizione prima per esprimere pienamente tutte le loro energie perpetuando antagonismi e gare spesso cruente. Petrarca aveva orgogliosamente esaltato “il latin sangue gentile” in opposizione alla “rabbia e alla scabbia tedesca”; il Rinascimento, coltivando il mondo classico esaltava Roma e l’Italia, come centri e sorgenti di civiltà, adoperando per gli altri popoli l’antica denominazione di “barbari”: il popolo tedesco che, con Carlo V d’Asburgo, agli inizi del secolo XVI, diventa il titolare del più grande impero della storia, risponde all’orgoglio latino, svincolandosi sdegnosamente da Roma anche dal punto di vista religioso. Lutero concludeva spesso infuocati discorsi al popolo con i grido “lontano da Roma”.
Con il maturarsi della coscienza etnica in vari popoli dell’Europa si matura anche l’orgoglio di razza, si afferma cioè il nazionalismo: anche i legami religiosi, che fino a questo momento erano stati considerati come sacri perché stretti da Dio stesso, tra le varie nazioni cristiane, vengono spregiudicatamente troncati: anche sotto questo aspetto il Protestantesimo conclude il Rinascimento. Nell’interno di ciascun o degli organismi politici individuali maggiori e minori si afferma la personalità robusta che dà ad essi un indirizzo unitario e li amministra con uno stile di precisa sovranità.
Così si affermano nei secoli XIV e XV le monarchie nazionali della Francia, della Spagna, dell’Inghilterra e in Italia si affermano le Signorie e i Principati.
Nella nostra Penisola l’individualismo politico è tanto più evidente quanto più accentuato è il frazionamento di essa in una infinità di Signorie; e fa più colpo perché, col passaggio dalla democrazia del Comune alla larvata tirannide della Signoria e all’aperta tirannide del Principato si ha l’impressione netta dell’affermarsi dell’individuo che sa fare e ben potenziato sulla collettività. Il Senior o Signore è il primo cittadino, è l’individualista più forte a cui il Comune affida sé stesso per motivi di difesa, di pacificazione, di potenziamento economico (una specie di Pericle o di Augusto ai loro tempi).
Il Principe è un sovrano assolutista che accentra nelle sue mani tutti i poteri e si distanzia, insieme alla sua famiglia, non solo dalla plebe, ma anche dalla borghesia e dalla nobiltà.
Il concetto di sovranità, fino ad eguagliarlo a quello di proprietà di un popolo, i Principi diventarono i padroni dei loro sudditi, tanto è vero che nelle successioni ereditarie di monarchie e principati le popolazioni venivano assegnate come il resto del patrimonio a questo o a quell’erede, senza che si tenesse affatto conto delle esigenze etniche, religiose, economiche, culturali, linguistiche.
Così dall’individualismo degli organismi politici si passa alla affermazione delle personalità dell’uomo “virtuoso” nel senso di ciascuno di essi.
A prima vista potrebbe sembrare che questo frazionamento del mondo politico europeo, e particolarmente italiano, sia stato una specie di disgrazia storica; ma è de notare che l’universalismo politico in Europa se era stato nel Medioevo ben attuato teoricamente, tuttavia praticamente non era mai stato efficiente a causa della mentalità individualistica delle nazioni giovani che sono sempre primitive e quindi incapaci di volgere lo sguardo al di là dei loro confini; e soprattutto è da tener presente che, il frazionamento contribuì a definire la fisionomia etnica e la funzione storica delle singole nazioni e che si trattò di organismi politici ben più saldi e robusti di quelli medievali: infatti la monarchia assoluta non si afferma nei singoli stati nazionali e le Signorie o i Principati che si affermano nelle nazioni ancora divise internamente (come l’Italia e la Germania) raccolgono le forze delle singole unità politiche e riescono, magari per i loro interessi dinastici, a potenziarle. Insomma si tratta di unità molteplici staccate l’una dall’altra, ma nel loro interno saldamente unite, e quindi più potenti.
A questo proposito il Machiavelli lamentava la divisione politica dell’Italia, perché, secondo lui l’unità fa la forza; il Guicciardini faceva osservare che nella penisola non avremmo avuto la fioritura di tante città, se ciascuna di esse non fosse stata centro di una Signoria o di un Principato particolare.
A confermare il pensiero del Guicciardini interviene la storia, la quale ci presenta nel Rinascimento, città principesche illustrissime che non avrebbero mai avuto tanta importanza se non fossero state capitali di una Signoria o di un Principato.
Del resto l’individualismo, quando è retto da una buona forza coesiva che utilizza tutte le risorse dell’unità individuale, è sempre fattore di potenziamento e di progresso. Il guaio fu che nel Rinascimento i singoli organismi politici della penisola, mentre si venivano rafforzando all’interno, perdevano il contatto fra di loro, anzi si logoravano in lotte reciproche: così quell’Italia che nelle singole parti era potentissima di fronte allo straniero (Carlo VIII, Luigi XII, Ferdinando il Cattolico, Francesco I, Massimiliano d’Austria, Carlo V) dimostrò una debolezza deplorevole: la divisione politica era purtroppo accompagnata anche dalla divisione morale: l’individualismo si eguagliava con l’egoismo, con l’orgoglio del principe e della sua famiglia; e in mancanza di una viva fede religiosa e patriottica, che stringesse spiritualmente tra di loro i vari settori della penisola, non poteva non avvenire quello che avvenne: alcuni signori chiamarono gli stranieri, combatterono a fianco di essi contro i loro colleghi connazionali, per caparbietà ed egoismo.
Si verificò presso a poco il fenomeno opposto a quello che si era verificato nel Medioevo; allora in Italia c’era una unità spirituale costituita dall’unità di fede religiosa e da un discreto senso patriottico; ma lo stile individualistico germanico aveva introdotto nella storia italiana il metodo delle divisioni e delle suddivisioni amministrative, specie col feudalesimo nel Rinascimento gli organismi politici individuali erano unitari però mancavano di rapporti spirituali reciproci: così nel Medioevo si ebbero le Leghe dei Comuni, e la nostra storia scrisse episodi di glorioso patriottismo; nel Rinascimento, mancando ideali comuni, la nostra storia scrisse belle pagine per le singole Signorie e Principati, ma alla fine dovette scrivere pagine tragiche per tutta la penisola e per le più singole parti di essa.
Insomma nel Medioevo c’erano i fattori spirituali per realizzare l’unità politica dell’Europa e l’unità intera delle singole nazioni ( e tali fattori erano la religione e la sensibilità etnica), ma l’individualismo germanico impedì l’unità internazionale e quella nazionale.
Nel Rinascimento rimane il frazionamento medievale; le singole unità vennero potenziate all’interno, scomparve qualsiasi contatto fra di loro, perché vennero meno i fattori dell’unità spirituale, cioè l’unità di fede religiosa e l’unità di stirpe (compromessa quest’ultima dal sistema di lasciare in eredità i popoli, anche se di nazionalità diversa, allo stesso padrone): nel Rinascimento non contano più né fede né patria, conta solo il padrone.
L’individualismo nel campo religioso ha la sua piena espressione nelle chiese nazionali o statali e nella affermazione della religione di coscienza: conseguenze ambedue della decadenza della forma coesiva della Chiesa.
La Chiesa è fino a che è indipendente dalle interferenze politiche laiche e fino a che non interferisce negli affari temporali: fu misera al tempo del feudalesimo; fu gloriosa al tempo della riforma gregoriana alla metà del ‘200; decadde quando cominciò a parteggiare per questa o quella fazione, chiese appoggio di questo o quel principe.
Con l’affermarsi della sovranità nei singoli organismi politici, cioè all’affermarsi del controllo del padrone su tutte le attività che si svolgevano nell’interno dello Stato, anche la Chiesa fu sottoposta a controllo.
Gli stati militari hanno un esercito alle dipendenze del re: per mantenere l’esercito e per sopperire alle necessità della amministrazione statale, il re o il principe ha bisogno di danaro: e siccome la Chiesa, nel corso dei secoli è venuta accumulando un ricchissimo patrimonio, controllare la Chiesa significa controllare le ricchezze della stessa e poterne disporre.
Di qui la lotta contro la Chiesa romana assertrice dell’universalismo o super-nazionalismo cristiano; da qui il favore concesso da re e da principi a svariati eretici e al Papa; di qui l’adesione di numerosissimi re e principi al movimento luterano che laicizzava la religione e la affidava alle autorità politiche. In Italia, dove le eresie attecchirono, la rovina della Chiesa fu determinata dal predomino delle famiglie principesche nel mondo della gerarchia ecclesiastica: Vescovi, Cardinali e Papi erano normalmente creature di questa o quella famiglia signorile italiana, quando non era creatura di questo o quello Stato d’Europa.
4)- Utilitarismo.
Tutto ciò che è utile per potenziare o un individuo fisico (cioè una persona) o un individuo morale (cioè uno Stato) è buono: questo è il principio fondamentale dell’utilitarismo, che, come si vede, è strettamente connesso con il naturalismo.
Quando si afferma la bontà di tutto ciò che contribuisce al benessere di un individuo si ha l’utilitarismo privato o egoismo; quando si dichiara legge suprema il bene pubblico e, a questo bene vengono asserviti tutti gli altri beni di qualsiasi natura siano e a chiunque appartengano, si ha l’utilitarismo pubblico.
In parole povere il principio utilitaristico rientra nel naturalismo in quanto le nature ben potenziate hanno diritto di usufruire delle energie della natura meno potenziate per affermarsi e realizzare la pienezza della loro espressione.
Le nature maggiori sono le seguenti: l’artista, il letterato, il nobile, il principe. Di queste nature maggiori la massima è il Principe, il quale si identifica con lo Stato, e perciò ha diritto di sfruttare tutte le nature minori per il suo potenziamento.
5)- Aristocraticismo.
L’umanità non è se non un “vulgo”, dice il Machiavelli; e il volgo è un “animale pazzo pieno di mille errori”, dice il Guicciardini. Il “vulgo” è costituito da coloro i quali non sono nature maggiori: cioè tutti coloro che non sono né letterati, né artisti, né principi, né ricchi, né belli, né abili costituiscono il “vulgo”.
Nelle città comunali tutti erano cittadini e tutti erano eguali in diritto e in doveri, perché vigeva il regime democratico. In regime signorile e principesco, conta solo il Signore e quelli solo che possono competere con lui per qualche eminente risorsa di natura (che può essere risorsa artistica o finanziaria)
6)- Con l’aristocraticismo va connesso il superominsmo.
Cioè il principio che le nature minori hanno il dovere di servire alle nature maggiori e queste hanno il diritto di sfruttare le nature minori.
Da quel che s’è già detto il tipo del superuomo è il Principe.
Il Comune in crisi aveva accolto come provvidenziale l’intervento di un pacificatore, di un personaggio autorevole o signore, il quale garantisse ai singoli cittadini e alle varie classi, la sicurezza e la tranquillità
Ben presto il “primus civis” raccoglie nelle sue mani tutti i poteri statali e diventa sovrano assoluto. Favoriti dall’inerzia spirituale del popolo, dalle circostanze storiche e dal consenso degli intellettuali, i principi, ad un certo momento, credono sul serio di essere quasi delle divinità sulla terra o almeno di possedere una natura superiore con cui vanno connessi diritti e privilegi speciali: il Principe diventa, così, padrone che considera i sudditi come esseri inferiori, facenti parte del suo patrimonio familiare.
7)- Senso e culto della propria personalità e di tutto ciò che è connesso con essa: senso dell’onore, reazione energica contro l’avversario, pervicacia fino a che l’avversario non sia stato messo fuori combattimento, esaltazione delle proprie idee e delle proprie opere, esaltazione del casato sono le espressioni più comuni dell’io del Rinascimento.
8)-Tendenza all’autonomia assoluta nel campo dell’indagine intellettuale e nel campo morale: questa tendenza mira a garantire la massima libertà; e la libertà è condizione essenziale per l’espressione piena delle forze di natura. Vengono rifiutati, come s’è già visto, limiti del dogma, della tradizione, dell’autorità religiosa; ma purtroppo si afferma un deplorevole servilismo nei confronti della natura massima, cioè il Principe.
9)- Enciclopedismo. Il principio che le energia di natura debbano essere espresse in modo integrale con la massima intensità, ridice colui che ad esso si ispira ad affermarsi nei campi più svariati della vita. Gli esponenti più illustri della letteratura e dell’arte del Rinascimento presentano quasi tutti la caratteristica della enciclopedicità, cioè quasi tutti si dedicano ad attività molteplici, non solo affini tra loro, ma spesso appartenenti anche a campi assai diversi. Ad esempio Leonardo da Vinci è fisico, matematico, pittore, scultore e letterato; Michelangelo è scultore, pittore, architetto e letterato; Leon Battista Alberti è architetto, pittore, scultore, letterato, musico e atleta.
Cimentandosi in più campi dell’attività umana l’uomo del Rinascimento mira a rendersi conto delle sue capacità, a fare le più larghe esperienze, ad affermare la potenza della sua personalità sulla natura in un raggio vasto il più possibile.
Il pericolo più comune cui vanno incontro gli enciclopedici è il dilettantismo, cioè l’attività molteplice senza impegno serio per nessuno dei settori in cui si lavora: la cultura dei dilettantisti è pura e semplice infarinatura e le loro opere hanno la caratteristica costante della faciloneria e della superficialità. Gli enciclopedisti del Rinascimento superarono questo pericolo in modo brillantissimo, in quanto furono uomini di ingegno robusto, di profonda cultura, di potente energia volitiva.
Anche nel Medioevo i grandi ingegni erano enciclopedici: Dante è cultore di musica, di politica: ma tra l’enciclopedismo medievale e quello rinascimentale esiste una notevole differenza: nel Medioevo tutte le attività dello spirito umano avevano un centro, cioè la religione, a cui si riferivano; nel Rinascimento manca un vero legame tra i vari settori del pensiero e dell’arte, o al massimo si potrebbe considerare come fattore comune l’ideale del bello da realizzarsi in tutti i campi della vita.
10)- Concetto della perfezione. Virtuoso o perfetto è l’uomo che sa far bene tutto (anche il male); quindi virtù significa abilità. Chi sa fare più cose, e le sa fare meglio, è più virtuoso. Gli esemplari di perfezione più comuni nel Rinascimento sono: l’artista, il cavaliere, il gentiluomo, il principe che sappia congiungere insieme le qualità “della golpe e del lione” direbbe il Machiavelli.
L’ideale di perfezione per il Medioevo è il santo cioè l’uomo che realizza in sé la perfezione naturale e soprannaturale, l’uomo che nel corso della vita assimila più possibilmente la perfezione di Dio; per il Rinascimento l’uomo perfetto è colui che assimila il più possibile di ciò che nella terra è bello e utile. L’ideale supremo del Medioevo è il bene cioè l’adeguamento della vita all’ordine universale che esprime la volontà divina; gli ideali supremi del Rinascimento sono due: l’utile ed il bello, cioè lo sfruttamento delle risorse terrene con stile armonico e fine.
11)- Estetismo. La civiltà del Rinascimento deriva da quella medievale, che nella sua lunga elaborazione, aveva raggiunto uno stile di vita moderato e decoroso nello stesso tempo. Quando con il Rinascimento si diffonde e si afferma l’edonismo, cioè la concezione della vita come piacere, è naturale che il culto delle cose piacevoli non avvenga in forme primitive e truculente, ma con quello stile di grazia già avviato dal Medioevo.
Un uomo che si rispetti deve essere fornito di buon gusto, e deve sapersi esprimere con buon gusto, cioè con bellezza, con armonia. Nel mondo delle nature maggiori, durante il Rinascimento, si instaura una vera e propria gara di eleganza e di finezza: l’armonia e il decoro, cioè la bellezza, diventano armonia cioè estetismo.
12)- Realismo: cioè contatto immediato con la natura, con i fenomeni della storia, con problemi di qualsiasi genere, senza predisposizioni mentali di nessun genere: né religiose, né morali, né filosofiche. Tale realismo è conseguenza logica del naturalismo, nel senso che se tutto il vero, il bello, tutto l’utile è nella natura, per cogliere queste tre preziose risorse è necessario procedere direttamente all’indagine di essa, con occhio nudo senza far uso di occhiali di questo o di quel colore, cioè senza pregiudizi.
Di qui l’uso di porre l’attenzione su quel che l’uomo è, non su quello che dovrebbe essere, di cogliere nella storia solo le forze umane, essendo solo esse visibili, di trarre le leggi morali e politiche della prassi, cioè dell’esperienza della vita, di adeguare l’arte alle forme della natura e di trarre da questa e dalla ragione soltanto le leggi (la ragione in arte suggerisce il principio da intendersi come proporzione e armonia nelle complessità).
UMANESIMO
Concetto: per Umanesimo intendiamo il culto, cioè l’ammirazione e l’imitazione di tutte le forme della civiltà classica romana e greca.
E’ Umanesimo non solo il culto della letteratura romana e greca, ma anche il culto dell’arte, della politica, del pensiero filosofico, dello stile morale e religioso propri del mondo classico.
Il culto del mondo classico non costituisce un fenomeno caratteristico del Rinascimento: infatti i classici erano stati studiati anche nel Medioevo. S. Tommaso, ad esempio, prende a suo maestro in filosofia Aristotele, e Dante prende a suo maestro in poesia Virgilio.
Il diritto romano durante il corso del Medioevo orienta i codici delle varie nazioni romanze e, particolarmente nel Basso Medioevo, contribuisce all’affermarsi del concetto e della prassi della sovranità nel campo politico (da ricordare Irnerio e la scuola dei giuristi Bolognesi, tutti uguali nel diritto classico che nel mondo politico, ha come principio supremo: “quod principi placuit, illud legis habet vigorem”: da ricordare i loro rapporti con gli imperatori Svevi, cioè con i più energici assertori della sovranità imperiale). Roma, nel Medioevo, fu considerata non solo come centro della cristianità, ma anche come città bella, come monumento glorioso lasciato alla storia dal glorioso popolo romano: i Romei, durante il cammino di andata e di ritorno, cantavano un inno famoso: “O Roma nobilis….” in cui dell’eterna città è esaltato il valore religioso e civile.
Essendo la civiltà medievale sorta sotto l’influsso e la protezione della Chiesa, anche questo aspetto di essa, cioè l’Umanesimo, doveva necessariamente riflettere le esigenze religiose del Cristianesimo.
La Chiesa medievale interpretò il mondo classico con mentalità cristiana: ne colse gli aspetti spirituali e formali migliori e se ne appropriò per elaborare i suoi dogmi, per organizzare la cristianità, per esprimere il suo pensieri e i suoi affetti religiosi. Fu un Umanesimo originalissimo in quanto dal mondo classico si prendeva solo lo spunto per elaborazioni vitali e rispondenti alle esigenze della storia che è in continua evoluzione.
Gli umanisti medievali erano coscienti della superiorità della spiritualità cristiana su quella classica, ed erano preoccupati no di copiare gli esemplari classici ma di approfondire, di sviluppare, di potenziare il patrimonio spirituale della società cristiana.
Platone, Aristotele, Socrate, Virgilio, Seneca, Orazio erano considerati come precursori del cristianesimo, ma non come autorità infallibili a cui fosse necessario ritornare per pensare bene, per sentire bene, per esprimersi bene.
La Chiesa adottò il “sermo doctus romanus”, ma si guardò bene di esemplarizzare una particolare forma storica di esso (ad esempio il “sermo doctus” aureo o argenteo), perché la Chiesa si valeva della lingua come mezzo e non la considerava affatto come fine: si ebbe così il “sermo doctus medievalis”, che, sebbene con piaccia ai fanatici dell’esemplare aureo, ebbe tuttavia il grande pregio di essere un latino vivo e quindi di essere una vera e propria lingua (cioè una lingua che risponde, evolvendosi di continuo, alle esigenze dello spirito umano in continua evoluzione).
La Scolastica e particolarmente S. Tommaso desunse alcuni principi dalla filosofia classica solo per giustificare ed illustrare i principi del Cristianesimo: si ebbe così una filosofia originalissima e vitale.
Dante desunse da Virgilio “lo bello stile che gli fece onore” e qualche motivo fantastico, ma non c’è poeta più originale di Dante nella storia della letteratura italiana.
L’Umanesimo del Rinascimento è caratterizzato dalla tendenza ad esemplarizzare e assolutizzare le forme del pensiero e dell’espressione create dai Romani e dai Greci.
Anzitutto gli umanisti del Rinascimento tolsero via le interpretazioni allegoriche del mondo classico, comuni nell’Umanesimo medievale, per esigenze religiose e morali: e videro nei classici non i precursori del Cristianesimo ma gli esponenti di una civiltà imbattibile, i sostenitori perfetti dell’indagine filosofica, gli organizzatori insuperabili della vita civile e politica, i veri saggi che seppero rendere bella la vita e goderla.
Videro perciò nelle opere dei classici quel che in esse si poteva oggettivamente vedere, evitando interpretazioni attenuative o allegoriche, non essendovi alcun motivo di attenuare certi aspetti e certe espressioni di una civiltà che era considerata perfettissima nello spirito e nelle forme.
Alla interpretazione oggettiva, all’esemplarizzazione del mondo classico va unita l’imitazione di tutto ciò che apparteneva a quel mondo. I motivo classici, sia spirituali che formali, furono considerati non come spunti da utilizzare per procedere meglio lungo la propria strada, ma come norma e leggi assolute, con tenere conto delle quali significava condannarsi all’insuccesso nel pensiero e nell’arte.
Di qui un aspetto antipatico di questo Umanesimo: il fanatismo. Di qui la denigrazione del Medioevo, disprezzato come epoca non classica e quindi da considerarsi come sprecata, come una unità di passaggio, nel corso della storia della vera civiltà. Di qui il termina Rinascimento con cui essi denominarono la loro età, perché finalmente essi erano riusciti a risuscitare l’uomo classico, cioè l’uomo vero, l’arte classica, cioè l’arte perfetta.
Cause dell’Umanesimo.
1)- Naturalismo. Abbiamo visto che il Rinascimento concepisce la vita come espressione piena di tutte le energie di natura. Le generazioni che accolsero questa concezione erano state elaborate spiritualmente dalla civiltà comunale, seria e decorosa almeno sino alla fine del secolo XIII; non erano affatto generazioni primitive.
Quindi l’ansia edonistica e lo sprigionamento di tutte le energie naturali si manifestarono, presso di esse, in forme eleganti e di buon gusto. Se fossero state generazioni primitive la concezione e la prassi naturalistica si sarebbero manifestate in forme rozze e di cattivo gusto. La borghesia dei nostri Comuni, la nobiltà delle nostre città signorili, le famiglie principesche affermatisi nelle maggiori città italiane, avevano come programma quello di godere, ma di godere con arte, anzi consideravano il bello come il più potente fattore di godimento.
Le forme del bello create dai Greci e dai Romani, apparvero allora le più perfette e le più adatte a soddisfare quest’ansia di armonia e di eleganza. Le forme create dal Medioevo, sia in letteratura che in arte, apparivano confuse, rozze, popolaresche. Ad esempio il Vasari dice che lo stile gotico è arido e orrido per la sua confusione e la sua stravaganza.; Niccolò Niccoli (in un dialogo di Leonardo Bruni) definisce la Commedia di Dante poesia per calzolai, mugnai e frati. Le forme espressive medievali erano, inoltre, rese antipatiche alle nuove generazioni signorili ed aristocrateggianti dal fatto che sapevano troppo di Chiesa: per esse erano necessarie forme espressive civili o profane; e siccome le forme migliori di questo genere erano, per tradizione, quelle classiche, si doveva naturalmente ritornare al culto dell’imitazione di queste.
Vivere significa pensare con acutezza e vivacità, sentire con grazia,parlare con eleganza, vestire con gusto, circondarsi di visioni belle; in tutte queste cose i Greci ed i Romani erano stati veramente bravi maestri: dunque era naturale che si ritornasse ad essi. Insomma si può concludere che, come il naturalismo costituì necessariamente, cioè per naturale conclusione del processo della civiltà romanza verso forme sempre più umane, la mentalità del Rinascimento, così l’Umanesimo doveva necessariamente costituire l’indirizzo formale più adatto al naturalismo. Il naturalismo costituisce la concezione della vita del Rinascimento: l’Umanesimo costituisce la forma con cui quella concezione si esprime.
2)- L’affinità spirituale tra i rinascimentisti e i classici.
La spiritualità del Rinascimento, infatti, è ispirata dal naturalismo, cioè da una concezione schiettamente umana della vita; e la stessa concezione ebbero i classici, per i quali vivere significava esprimere con pienezza ed armonia tutte le energie della natura umana. Gli uomini del Rinascimento, data la loro mentalità, dovevano simpatizzare più per lo stile mentale pratico del Cristianesimo, quale si era particolarmente affermato nella fase di maturazione del Medioevo, stile ricco di motivi umani e sovrumani, originalissimo di forma, sebbene un po’ difettoso quanto ad eleganza. Ma nel Rinascimento quel che contava era il bello: il vero e il buono, ideali di S. Tommaso e di Dante, erano in decadenza.
3)- Il bisogno dei rinascimentisti di giustificare il proprio stile mentale e pratico di fronte alla coscienza tradizionale cristiana.
Non tutti gli uomini del Rinascimento spregiudicati e quelli stessi che si mostravano tali sentirono il bisogno di giustificare il loro modo di pensare e di agire, facendo appello ai motivi di saggezza e di bellezza contenuti nella civiltà classica e che gli stessi uomini di religione avevano ammirato o imitato, perfino nelle età storiche sopraffatte dal misticismo. Insomma i rinascimentisti si acquietavano la loro coscienza cristiana col pretesto che, in fin dei conti, essi erano in buona compagnia: erano infatti in compagnia di Omero, di Socrate, di Platone, di Aristotele, di Demostene, di Cicerone, di Livio, di Orazio, di Virgilio ecc. tutti personaggi che, se non erano sublimi come i Santi, erano tuttavia più umani e quindi più simpatici, più accessibili e, se vogliamo, meno impegnativi.
4)- La situazione politica delle città italiane.
Nel Rinascimento cessa il Comune e sorge la Signoria. Il Signore è un “primus civis”, è l’uomo che alla cittadinanza travagliata dalle lotte interne (nella fase di tramonto del Comune) ha ispirato la fiducia che egli sarebbe stato capace di garantire tranquillità, forza economica, eleganza e gioia alla città. La figura del “senior” richiama alla mente dei conoscitori della storia antica, il famoso signore di Atene, Pericle, e il famoso signore di Roma, Augusto, cioè due personaggi gloriosi per le loro attività civili, per la fioritura d’arte che essi promossero con la loro munificenza.
Gli umanisti si valgono di questi richiami storici e classici per provocare l’ambizione periclea o augustea di signori che in genere venivano da famiglie di commercianti o erano ex capitani di ventura o derivavano da stirpe guerriera feudale.
Quando il Signore è entrato in questa mentalità augustea, gli umanisti si mettono al suo servizio, acquistano la sua piena fiducia ed hanno la più completa libertà di realizzare, nel mondo moderno, le iniziative artistiche e letterarie del mondo classico: cioè essi suggeriscono ed impongono la forma della fioritura artistica e letteraria promossa dl “primus civis”.
Il primo a valersi delle risorse estetiche del classicismo, sia in arte che in letteratura, è il Signore, il quale si costruisce palazzi e ville secondo lo stile classico: fa ornare le sue abitazioni e i luoghi più importanti della città con statue ed affreschi ispirati alla scultura e alla pittura classica, chiama a corte persone che parlino e compongano con la stessa eleganza degli scrittori latini e greci, introduce mode di abbigliamento, usi e costumi graziosi dell’antica civiltà. Così la casa del Signore diventa esempio di decoro e di buon gusto a tutti i cittadini, particolarmente alle famiglie ricche, le quali, anzi, competono con esso in buon gusto e munificenza. Anche gli umili artigiani risentono l’influsso di questa atmosfera artistica e, nel costruire anche il mobile più semplice, tengono criterio non solo di utilità, ma anche quello dell’arte. Il nostro artigianato, in questo tempo, produce cose meravigliose e gareggia degnamente con gli artigiani di Roma, di Atene e di Bisanzio.
5)- Il bisogno naturale di procedere in arte verso forme espressive sempre più elaborate ed eleganti, parallelamente al progresso civile ed economico.
Non si può negare che nel regime signorile l’economia e l’agiatezza giungono ad un livello notevole, e giustamente gli uomini del Rinascimento, guardando alle generazioni che li avevano preceduti, potevano dire di averle superate nel tenore di vita e alla finezza dei costumi. La forma medievale, sia in arte che in poesia, esprimeva il gusto del popolo, di un popolo che, dominato dagli ideali religiosi, politici e morali di vasta portata, amava la forma solida, l’ornato complesso ed agile nello stesso tempo, una forma tutta penombre e luci accordate con gusto originale.
La forma classica ha queste caratteristiche: con poche linee, con un disegno semplice ed armonico, con un ornato modesto e fine riesce a creare visioni piacevoli e signorili; è per questo motivo che agli umanisti non piace la complessità metafisica o teologica con cui i medievali strutturavano le loro opere in poesia e in arte, né piacciono le combinazioni simboliche della forma con cui essi esprimevano i sensi metafisici e teologici delle loro composizioni.
Ad esempio gli architetti gotici, nel costruire tennero presente e per la struttura e per l’ornato un criterio teologico e simbolico di questo genere: la Chiesa è il luogo della orazione; l’orazione è ascesa dell’anima verso Dio; perciò la chiesa nella sua struttura e nel suo ornato deve simboleggiare la comunità dei fedeli che aspira a sollevarsi verso il cielo: di qui lo sfumare delle linee e degli elementi decorativi in caratteristiche dell’architettura gotica.
Nel Rinascimento si mettono da parte le idee teologiche e filosofiche, si mettono da parte i simboli, e si compone secondo un criterio di armonia e di grazia che sembra eternamente adatto a soddisfare il gusto del bello nelle persone di alta civiltà (il criterio dell’armonia e della grazia adottato dai classici): criterio eternamente efficace perché l’essenza dell’arte è l’armonia.
6)- La protezione accordata dai Signori ai letterati e agli artisti.
Il Mecenatismo ebbe origine nell’età moderna, all’inizio del Basso Medioevo, quando le corti feudali si ripulirono, cioè cessarono di essere fucine di violenza e nido di barbarie, per diventare esemplari di uno stile di vita umano e cavalleresco stile che proprio dalla corte fu chiamato cortese. Nelle corti di Provenza furono accolti giuristi e poeti. Dante fu accolto da svariati Signori.
Quando si affermano le signorie e il capo ha il bisogno di acquistarsi la simpatia di tutti e di imporsi alla attenzione del pubblico, deve ricorrere necessariamente a persone intelligenti ed esperte in tutte le forme più belle della vita: chiama, perciò, intorno a sé letterati ed artisti i quali gli sbrighino gli affari con abilità, gli abbelliscano la corte, lo difendano con la loro propaganda, diano un tono elevato a tutto l’ambiente della corte.
Attività degli umanisti.
L’umanista è il cultore devoto di tutto ciò che appartiene al mondo letterario, artistico, filosofico, politico dell’Italia e della Grecia classica.
1)- Ricerca dei codici. Nel corso del Medioevo la Chiesa aveva salvato molta parte del patrimonio artistico e letterario classico; parte lo aveva utilizzato lei per i suoi scopi (ad esempio basiliche civili trasformate in basiliche religiose); parte aveva permesso che restasse nell’abbandono. Del patrimonio conservato non sempre i frati dei conventi ebbero cura diligente: spesso, specie ne secolo IX e X, i manoscritti delle opere classiche restavano incustoditi negli scaffali delle biblioteche comunali. Al tempo di Dante le opere dei classici conosciute e studiate erano in numero assai modesto: si conoscevano l’Eneide di Virgilio, le Satire di Orazio, qualche cosa di Ovidio, qualche cosa di Cicerone, di Seneca, di Cesare.
Il primo compito degli umanisti perciò fu quello di ricercare nelle varie biblioteche d’Europa i codici delle opere classiche rimasti nell’ombra durante il corso del Medioevo.
I più famosi scopritori di codici furono N. Niccoli, Coluccio Salutati, Guarino Guarini e specialmente Poggio Bracciolini.
2)- Ricostruzione dei testi. I copisti medievali aveva spesso introdotto variazioni ed errori nei testi che ricopiavano. Gli umanisti, persone che possedevano bene la lingua latina ed avevano buon gusto ed erano esperti del pensiero dei vari autori, avvertivano subito incongruenze ed errori nei testi che leggevano. Confrontando fra loro codici diversi della stessa opera individuavano quale di essi fosse il più degno di fede, quale in un caso particolare fosse la dizione da preferirsi e da considerarsi originale.
3)- Interpretazione oggettiva del contenuto delle opere. Cioè studio diretto, interpretazione senza pregiudizi, illustrazione ampia di ciò che era veramente contenuto nelle opere. Sorge così la, passione per la archeologia, per la storia romana e greca, per gli usi e i costumi classici, per il pensiero religioso, politico, morale, giuridico del mondo classico.
4)- Deduzione di norme compositive dai modelli classici destinate all’uso e all’utilità dei letterati moderni. Gli umanisti considerarono la forma classica come perfetta: vedono in essa una buona sostanza di pensiero, una struttura formale ben salda e chiara un linguaggio preciso ed espressivo, un metodo di decorazione sia formale che linguistica assai moderato e decoroso. Chi vuol ben comporre deve leggere gli esemplari migliori fioriti in ciascuno dei generi letterari trattati dai classici.
Per venire incontro ai bisogni di coloro che amassero seguire lo stile classico, gli umanisti raccolsero principi e regole per ciascuno dei generi letterari: sorse così la retorica umanistica, cioè quel complesso di norme del ben parlare e del ben scrivere tratte dagli umanisti dalle opere dei classici. La retorica è frutto di due pregiudizi: che la forma classica è esemplare insuperabile; che a chi vuol far bene non resta che seguire gli esemplari di perfezione: esemplarismo o tipizzazione e imitazione sono i due canoni fondamentali della retorica umanistica.
5)- Assimilazione del pensiero e dei modi di vivere dei più illustri esponenti del classicismo e tentativi di applicare alle esigenze della vita moderna le invenzioni letterarie e politiche dei classici.
Furono rievocate le correnti filosofiche greche e romane; nella dimostrazione di questa o di quella tesi morale, civile, politica e religiosa, gli umanisti si valsero di citazioni desunte dagli scrittori classici ed evitarono, con particolare cura, qualsiasi richiamo alla Sacra Scrittura e alle opere dei pensatori cristiani.
In politica, infine, vagheggiarono o la forma di regime repubblicano con personaggi retti ed onesti come i Catoni, gli Scipioni, i Deci; oppure una Signoria sul tipo di quella di Pericle o di Augusto.
I repubblicani, in verità, furono pochi e comparvero nella storia del Rinascimento solo nella metà di esso, cioè nel periodo in cui era ancora recente il passaggio dalla repubblica comunale alla gentile tirannide del Signore e quindi le figure degli eroi della repubblica romana (tra i quali Catone Uticense che si uccise per non cadere nelle mani di Cesare; Bruto e Cassio che morirono a Filippi combattendo per la libertà della repubblica contro i cesariani) potevano facilmente suggestionare i giovani e accenderli di passione libertaria (da ricordare Cola di Rienzo appassionato propugnatore di una rinnovata repubblica romana a carattere nazionale; da ricordare la congiura del Lampugnani nel 1461 e di Girolamo Giesi contro gli Sforza di Milano e quella dei Pazzi contro i Medici a Firenze nel 1478), quando la Signoria si era bene affermata prevalsero l’ammirazione e l’imitazione della storia imperiale di Roma.
Il Machiavelli fu il più illustre rievocatore della prassi politica e militare romana e il più energico propugnatore di un ritorno ad essa.
6)- Composizione in lingua latina aurea. Gli umanisti considerano esemplare perfetto in lingua latina solo quella del periodo aureo e si sforzarono di esprimere la portata della civiltà del loro tempo con la lingua di Cicerone (per la prosa) di Virgilio e di Orazio (per la poesia). Alla base di questo tentativo sta un pregiudizio veramente deplorevole, che cioè una lingua possa avere una forma esemplare fissa, mentre, è chiaro che, essendo la lingua un mezzo di cui si vale lo spirito per esprimersi ed essendo lo spirito sempre in evoluzione, anche essa si rinnova di continuo; la lingua esemplare e fissa è lingua morta nel senso che fu parlata un tempo ed oggi non si parla più, ma si impara sui testi; la lingua in evoluzione si chiama lingua viva, perché segue il metodo della vita.
Il latino umanistico fu una lingua morta, il latino medievale era stato, invece, una lingua viva, perché almeno nel campo dei dotti aveva seguito la evoluzione dello spirito.
Gli umanisti chiamarono il latino medievale barbarico; ma tale pregiudizio varrebbe a quello di chi chiamasse barbarico l’italiano perché, fissato supponiamo come esemplare linguistico il Petrarca noi oggi non parliamo più una lingua uguale a quella del glorioso Aretino. Non esistono lingue belle o lingue brutte, ma solo lingue ricche e lingue povere; esistono invece linguaggi belli o linguaggi brutti, ossia modi sapienti di usare la lingua o modi mediocri.
Il latino umanistico guardò con sdegno orgoglioso non solo il latino medievale, a anche, e soprattutto, il volgare. Già il Petrarca preferiva scrivere i latino classicheggiante piuttosto che in volgare; in tutta la prima metà del ‘400 il latino umanistico dominò incontrastato nel mondo degli scrittori e infierì contro il povero volgare: “di tanto si eleva il latino sul volgare” diceva N. Niccoli “di quanto un dotto è superiore ad un ignorante”. Ma il tentativo di imporre il latino e di eliminare il volgare doveva fatalmente fallire: una lingua morta per quanto utilizzata in tutte le sue possibilità di espressione, non riesce mai a rispondere alle esigenze di una civiltà infinitamente più ricca di quella a cui essa servì ai suoi tempi: la lingua di Cicerone e di Virgilio era la vecchia lingua di mille e quattrocento anni e nello spazio di mille e quattrocento anni si erano affermati nella storia del mondo latino il Cristianesimo, il Germanesimo, il Feudalesimo, il Comune, una mentalità nuova e costumi nuovi: era impossibile esprimere la nuova civiltà con una lingua così vecchia per quanto storicamente così meritevole e gloriosa. Nella seconda metà del ‘400 si ritorna, però, al volgare.
Lo studio del latino classico fu solo un tirocinio per chi volesse intraprendere la via della cultura e volesse acquista buona pratica dei mezzi espressivi linguistici: è la stessa funzione che ha oggi lo studio del latino nelle scuole, negli istituti ad indirizzo classico.
7)- Scoperta del mondo greco. Durante il corso del Medioevo pochissimi erano coloro che nel mondo occidentale conoscessero la lingua greca: S. Tommaso lesse le opere di Aristotele in una traduzione assai approssimativa fatta da un suo confratello Guglielmo di Moerbecke (1215-1286). Nel 1360 viene istituita nello “Studium generale di Firenze” la prima cattedra di greco che fu affidata a Leonzio Pilato a cui successero Manuele Crisalora, Guarino Guarini (l’Università di Firenze fu fondata nel 1323).
L’interesse degli umanisti italiani per la lingua e la letteratura greca aumentò quando nel 1439 si adunò a Ferrara il concilio dei rappresentanti della Chiesa bizantina e i cattolici: in quella occasione dimostrò la sua bravura nella conoscenza del greco il camaldolese Ambrogio Traversari e si strinsero legami di amicizia culturale fra alcuni dotti bizantini e umanisti italiani. Quando nel 1454 Bisanzio viene conquistata dai Turchi, giungono i n Italia alcuni illustri esponenti del mondo intellettuale bizantino, i quali accelerarono e intensificarono la presa di contatto degli umanisti con la cultura greca classica.
I più famosi esponenti della cultura bizantina i n Italia, in questo tempo, furono Costantino Lascaris e il cardinale Bessarione. Il culto della letteratura e della filosofia greca risvegliò negli italiani la passione per Platone e Aristotele (Platone interpretato da Marsilio Ficino; Aristotele interpretato da Ponponazzi; si diffuse, come una moda, la mentalità platonica con il concetto centrale dell’amore estetico: si diffuse nei primi decenni del ‘500, la “Poetica” di Aristotele che insieme all’”Ars poetica” di Orazio costituì il codice infallibile della retorica umanistica.
Senza dubbio lo studio delle lettere e della filosofia greca contribuì ad ampliare l’orizzonte spirituale dei nostri umanisti e ad affinare i mezzi di espressione.
8)- Fondazione di accademie e biblioteche.
Gli umanisti formavano una specie di classe che aveva membri nelle più illustri città italiane: era una classe in cui ogni individuo, si può dire, formava un mondo a sé, tanto che ciascuno era cosciente del proprio valore e dei propri meriti. Gli umanisti più quotati intorno a sé crearono circoli di intellettuali che accogliessero le loro idee e i loro indirizzi. Queste associazioni di dotti, le quali avevano il fine di precisare, elaborare, difendere questo e quell’indirizzo letterario o filosofico, furono chiamate Accademie (dal nome della scuola in cui insegnò ad Atene Platone).
Le Accademie più famose del Rinascimento furono le seguenti:
la Pontiniana di Napoli, fondata da G. Pontano e d’ispirazione letteraria-lirica;
la Platonica di Firenze, fondata da Marsilio Ficino d’ispirazione filosofica platoneggiante.
La Romana a Roma, fondata da Pomponio Leto d’ispirazione filosofica-stoicizzante, letterario- ciceronizzante, ed in fine anche impegnata in ricerche archeologiche.
Per rendere più facili le indagini agli umanisti vennero raccolti in biblioteche i codici preziosi delle opere classiche sia latine che greche. Quando poi la stampa rese più facile la moltiplicazione dei libri, le biblioteche si arricchirono in modo straordinario non solo di opere antiche, ma anche moderne, non solo profane, ma anche religiose, non solo in latino e in greco, ma anche in volgare o in lingua straniera.
Famosi raccoglitori di codici e di libri furono Nicolò Niccoli, Coluccio Salutati, Guarino Guarini, Papa Nicolò V, Papa Pio II, Bessarione. Le raccolte di questi illustri personaggi costituirono i nuclei di gloriose biblioteche le quali furono organizzate ed arricchite in modo veramente splendido dagli illustri principi mecenati.
Le biblioteche più famose furono: Laurenziana a Firenze, La Marciana a Venezia, la Vaticana a Roma.
Accademie e biblioteche si organizzarono particolarmente perché gli umanisti furono protetti ed aiutati dal mecenatismo di signori e di Papi. Quindi possiamo considerare il mecenatismo, le accademie, le biblioteche come i sussidi più preziosi, che favorirono lo sviluppo e l’affermazione del culto del mondo classico cioè l’umanesimo.
SVILUPPO DEL RINASCIMENTO
1)- Fase di nascita.
Non si può dire con precisione quando cessi il Medioevo e sorga il Rinascimento. Già Dante avverte e deplora, nella sua generazione, la presenza di motivi religiosi spirituali nuovi, del tutto opposti alle aspirazioni e alle forme ormai tradizionali della civiltà romanza: nota la presenza di gente nuova, avida di guadagni, ambiziosa, moralmente spregiudicata; nota l’accentuazione del processo disgregativo della società comunale, cioè il differenziarsi delle classi e l’inasprirsi della lotta tra i vari gruppi di cittadini, nota che è venuto meno il concetto di fraternità nell’ambito delle piccole comunità comunali e nel vasto complesso di tutta la respublica cristiana; per questo tenta di arrestare la dissoluzione della struttura religiosa, morale e politica della società medievale, prospettando la punizione divina, riservata ai malvagi, ed invoca l’intervento repressivo e pacificatore delle due supreme autorità incaricate da Dio a difendere, a pacificare, a potenziare al Respublica Cristiana.
Tuttavia in Dante stesso troviamo alcuni motivi che, sebbene con mentalità diversa, saranno sviluppati dal Rinascimento. Tali motivi sono i seguenti:
a)- Il culto dei classici, dei quali egli sceglie come maestro Virgilio, il più vicino, secondo lui al Cristianesimo, il più umano, il più saggio, il più decoroso nella elaborazione artistica delle sue creazioni interiori.
b)- Un certo realismo congiunto con l’idealizzazione che prelude al realismo e al metodo di idealizzazione del Rinascimento: la differenza è solo in questo: Dante coglie e rappresenta la realtà, ma la interpreta con mentalità di teologo, di filosofo e di sapiente, e nell’elaborare le forme fantastiche si vale dell’idealizzazione mistica; il Rinascimento coglie la realtà nel suo essere, la interpreta con criteri edonistici ed estetici, la idealizza secondo i metodi profani dell’arte compositiva classica.
c)- Un spiccata antipatia contro gli ecclesiastici che presumono di intromettersi negli affari temporali, per sfruttarli ai loro fini egoistici, compromettendo la tranquillità e la giustizia nel mondo cristiano.
Dante potrebbe sembrare un anticlericale, un ghibellino, laicista, ma tra lui e i laicisti del Rinascimento intercorre una differenza enorme: Dante colpisce gli uomini di Chiesa perché si preoccupa delle sorti della Chiesa; i laicisti del Rinascimento colpiscono gli uomini di Chiesa per trovare pretesto per sganciarsi dal Cristianesimo.
d)- Una sorta di simpatia per alcuni Signori che già si erano affermati in svariate città d’Italia. Dante non faceva alcuna distinzione tra governo democratico e comunale e signorile: a lui non interessava la forma, interessava piuttosto, che chi governava, governasse bene. L’esaltazione degli Scaligeri e di altri svariati Signori italiani prelude all’uso degli scrittori del Rinascimento di rendere omaggio a questo o a quel Principe che li proteggesse. Ma anche qui la differenza fra Dante e gli umanisti è enorme: Dante esalta o rimprovera i Principi a seconda che essi si rendano degni o indegni “del pregio, del sangue e della borsa”, cioè a seconda che sono veramente cortesi e benefici nei confronti del popolo o no; gli umanisti incensano il Signore o perché vedono in lui una natura maggiore o perché aspettano da lui protezione e vantaggi.
Col Petrarca il Rinascimento fa la sua prima apparizione, ma si presenta timido ed in forme così delicate e gentili che sembra voler conciliarsi (benché non lo possa) con la mentalità mistica del Medioevo.
I motivi del Rinascimento che troviamo espliciti in Petrarca sono i seguenti:
a)- Il culto per la bellezza umana accompagnata da un amore che per quanto si sforzi e sa limitarsi, ha le caratteristiche vere e proprie di una passione che suggestione ed appassiona: non è più amore della bellezza divina che si riflette sulla creatura, ma trepida sensibilità per le belle forme, per il decoro dell’aspetto fisico, e dello spirito che sa mantenersi in armonioso equilibrio: è amore terreno, ma sostenuto entro i limiti di un vagheggiamento estetico e di ispirazione platonica.
b)- L’aspirazione alla vita comoda, ed uno stile di proprietà e di finezza modellato su quello dei più illustri personaggi della storia repubblicana di Roma.
c)- La passione per un regime politico in Italia che rievochi i bei tempi in cui “il latin sangue gentile” era alimentato e rinvigorito da Roma “caput Italiae”, cioè la simpatia per un regime politico in Italia in forza del quale la nostra stirpe, separata dalle altre nazioni, unita, indipendente e sovrana si regolasse secondo i principi, le istituzioni, i costumi indicati da Roma. Si tratta di un individualismo politico nazionale, da potenziarsi con l’unità di tutte le popolazioni della penisola e con l’imitazione della politica classica romana.
d)- La passione per la cultura profana. Il Petrarca può essere definito il primo umanista a causa della sua tendenza ad interpretare con oggettività storica le opere latine, senza più ricorrere alle allegorie e agli accomodamenti in uso nel classicismo medievale: per la rievocazione idealizzata che egli fa della storia repubblicana di Roma nell”Africa”; per l’uso di ricorrere spesso all’autorità della sapienza e della saggezza nello sviluppo delle sue tesi morali e psicologiche; ed infine per l’adorazione, nella maggior parte delle sue opere, della lingua latina aurea modellata su quella di Cicerone, di Livio, di Virgilio.
e) La sua lindura stilistica che importa disprezzo del volgare medievale, compresa l’opera dell’Alighieri. Petrarca è il poeta dei quadretti nitidi, delle rifiniture decorative, a cui la sintesi realistica, la robustezza e la travolgenza fantastica, il lirismo spesso tempestoso, il linguaggio frequentemente rude di Dante dispiacciono o sembrano indizi di spiritualità e di arte ancora barbariche.
f)- L’aspirazione alla gloria mondana ed il gusto di scrivere per far conoscere sé stesso. Diciamo che il Rinascimento nel Petrarca è ancora timido, in quanto i motivi che di esso si ritrovano nello spirito e nelle opere dell’Aretino, sono contrastati da motivi mistici propri dell’età medievale: di fronte all’amore di Laura è l’amore di Dio; di fronte alla ispirazione, alle comodità e ai piaceri è il senso del dovere, della disciplina morale e della penitenza; di fronte alla simpatia per organismi politici nazionali e sovrani è il rimpianto per la decadenza dell’unità del mondo cristiano; di fronte al culto della parola degli uomini è il rimorso di non curare, come si dovrebbe, la parola di Dio contenuta nelle Scritture e nelle opere dei Padri; di fronte al culto della propria persona sta una specie di mania di confessarsi peccatore e di far conoscere a tutti la propria miseria per bisogno di umiltà.
Petrarca, dunque, intravede la bellezza di una vita concepita materialisticamente, la vagheggia, la desidera quasi, per riempire decorosamente la sua giornata terrena, ma da buon cristiano la teme. Affascinato dalla nuova visione della vita, vorrebbe giustificarla e vorrebbe quasi persuadersi che si può concludere una conciliazione con la vecchia spiritualità mistica, o quasi a dimostrare che tale conciliazione è possibile egli si preoccupa di dare al suo naturalismo ed al suo umanesimo quell’aspetto che lo rende meno spregiudicato, meno temibile, cioè l’aspetto estetico puro. Si tratta dunque di un naturalismo e di un umanesimo assai decorosi e gentili che più tardi costituiranno un esemplare perfetto per tutti quegli umanisti cristiani che, desiderosi di conciliare la nuova mentalità e il nuovo stile con i propri principi religiosi, vedranno nel Petrarca il maestro insuperabile.
2)- Fase di affermazione esplicita ma indiretta.
L’esponente di questa fase è il Boccaccio il quale, apertamente, enuncia tutti i motivi della spiritualità rinascimentale, presentandoli, però, non come propri, ma come espressioni della mentalità e dello stile di vita dell’umanità comune, espressioni raccolte da sette ragazze e da tre giovanotti moderni; egli, il Boccaccio, sarebbe quindi il relatori di ciò che dicono i suoi dieci novellatori; e i dieci novellatori sarebbero gli osservatori e i relatori di ciò che dicono e fanno gli uomini. E’ un bel modo di presentare la nuova mentalità e la nuova prassi, senza assumersi la responsabilità, senza difenderla né condannarla: si nota una evidente simpatia per quella mentalità e quella prassi, ma egli esplicitamente non dà nessun giudizio né positivo né negativo; assume l’atteggiamento di chi osserva, sorride, si compiace intimamente ma evita di compromettersi.
Motivi rinascimentali nell’opera del Boccaccio.
a)- Esaltazione delle forze della natura e l’affermazione che ad esse non si può resistere.
b)- La concezione della vita come ricerca del piacere in modo intelligente e fine.
c)- L’osservazione oggettiva e realistica della vita e l’interpretazione puramente
di essa.
d)- Il soggettivismo religioso e morale.
e)- La critica maliziosa, arguta e comica degli uomini di Chiesa: un certo laicismo
basato sul concetto che i laici sono meno ipocriti, più umani, più liberali, più
abili e più fini degli ecclesiastici.
f)- Un’arte compositiva che sintetizza il metodo realistico e quello della
idealizzazione schiettamente umana (in opposizione alla idealizzazione
mistica del Medioevo).
Il Boccaccio vive questi motivi, li presenta al lettore come forme dell’umanità comune, ma non li giustifica: è dunque un presentatore oggettivo e impersonale della nuova civiltà.
3)- Fase dell’affermazione giovanile. Il ‘400 è il secolo in cui i motivi sono accolti apertamente, sono tradotti in forme pratiche di vita, sono giustificati idealmente.
E’ caratteristica della psicologia giovanile l’entusiasmo ideale per tutto ciò che è o sembra bello, piacevole, emotivo: la giovinezza ha un suo pudore naturale che, nel godimento dei beni terreni, non le permette la volgarità, la spregiudicatezza, il radicalismo scettico ed utilitarista. E’ per questo motivo che il Rinascimento giovane del ‘400 si presenta entusiasta ma decoroso, appassionato e convinto, ma capace di disciplinarsi e di mantenersi entro le forme di una cordialità e di una simpaticità che rivelano anime serene e gioviali.
Si tratta di un Rinascimento a carattere estetico ed a tono commosso, con una tendenza ad un certo orgoglio per aver acquistato il vero senso della vita (cioè un senso umano e gentile del vero).
Motivi del Rinascimento giovane.
a)- Culto dell’uomo considerato come la più perfetta delle creature e l’unica capace di percepire, sentire, elaborare idealmente tutto ciò che vi è di utile e di bello sulla terra: i filosofi e i pedagogisti del ‘400 insistono sul concetto della dignità dell’uomo (“De dignitate hominis” di Pico della Mirandola) e propongono le più belle forme mentali e pratiche adatte ad esprimere questa dignità.
b)- Interpretazione platonica o estetica della realtà, la quale così assume un aspetto ideale , diventa una specie di giardino di bellezza, un paradiso creato dal buon gusto dell’uomo.
c)- Il culto di tutto ciò che vi è di più serio e gentile nell’ambito delle realtà terrene: della famiglia, dell’amicizia ( “Della famiglia” di Leon Battista Alberti del 1441), dell’arte, del decoro privato e pubblico, della lealtà verso le autorità e delle libertà individuale e sociale, e di una religiosità moderata e fine.
d)- Conciliazione tra Cristianesimo e Rinascimento, ossia conciliazione tra religione e naturalismo, tra pensiero cattolico e pensiero classico, tra esigenze di espressione mistica e proposte di forme espressive naturalistiche.
Generalmente si pensa che tutti gli intellettuali siano stai atei o pagani: è vero invece che se nel complesso i rinascimentisti furono degli spregiudicati, particolarmente nella vita pratica, ci furono tuttavia tra essi degli uomini equilibrati, che si proposero di conciliare la serietà dei principi cristiani con la giovialità e la serenità del nuovo stile di vita; senza dire che gli stessi spregiudicati, anche quando espressero pensieri contrari ai principi cristiani non lo fecero in forma polemica, né tentarono mai esplicitamente di abbattere le affermazione del Cristianesimo.
Specie nella fase giovanile del Rinascimento gli intellettuali di compiacquero di dare alla loro fede religiosa maggiore liberalità e agilità, e di dare alla loro pratica religiosa un tono più spigliato, più intelligente e più fine: eliminarono il più possibile il formalismo esteriore, vantandosi di superare così lo stile superstizioso e gretto della religiosità medievale. Il Boccaccio deride la credulità primitiva della plebe e l’astuzia ciarlatana di certi preti e di certi frati: egli dà quel primo colpo a quel complesso di superstizioni e di deformazioni, quasi idolatriche, contro il quale aveva già diretto la sua critica anche l’Alighieri, in svariati punti della Commedia.
Gli intellettuali del ‘400 dimostrano di aver già superato la fase polemica contro le superstizioni religiose e si presentano con una mentalità superiore, ispirata ad una specie si estetismo o idealismo religioso, su cui ha esercitato la sua influenza la rinata spiritualità platonica.
Ci troviamo di fronte a quella religiosità umana, liberale, terrena che aveva attratto il Petrarca, ma che al tempo del Petrarca non poteva ancora affermarsi perché sembrava troppo spregiudicata in confronto col misticismo integrale del Medioevo. Nella fase giovanile del Rinascimento la mentalità e lo stile dello spirito si sono già inquadrati nell’atmosfera di libertà creata dalle nuove generazioni, naturalistico-umanistico.
Se Giovanni Dominici nella “Lucula noctis” si dimostra preoccupato per la invasione dei classici pagani nel mondo delle scuole e della cultura, Vittorino da Feltre, Pico della Mirandola, Marsilio Ficino e lo stesso fra Gerolamo Savanarola considerano l’educazione classica come ottimo mezzo per promuovere l’evoluzione delle anime giovanili cosicché la loro religiosità cristiana trovi nella educazione umanistica i modi più belli per esprimersi.
L’Architettura, la pittura, la scultura di ispirazione religiosa; le scuole tenute da ecclesiastici; lo stile di vita nei conventi e nella stessa corte vaticana, durante il corso del ‘400, presentano le forme caratteristiche di questa religiosità cordiale e piacevole: sembra che la religione riesca a moderare la impulsività sfrenata del naturalismo e l’ardore fanatico dell’umanesimo, e che naturalismo e umanesimo riescano a dare una mentalità e uno stile più agili e più belli della severa religione medievale.
Questa sintesi tra Rinascimento e Cristianesimo ha, in verità, un indirizzo troppo formale: ci si preoccupa soprattutto di dare una veste più simpatica e più moderna al cristiano senza tenere troppo conto della sua formazione interiore. E’ per questo motivo che nella sintesi dei sue fattori, Rinascimento e Cristianesimo, chi viene a perdere della sua sostanza è il Cristianesimo. Ad esempio gli umanisti, per quanto si professassero cristiani si astenevano il più possibile dalla pratica religiosa per non apparire sacrestani; nella corte pontificia gli umanisti che vi furono accolti introdussero uno stile di mondanità non sempre corretto, le statue, gli affreschi e i quadri religiosi , perfettissimi quanto a tecnica, nel complesso hanno una ispirazione religiosa molto modesta.
Il Rinascimento vinceva con il suo realismo il misticismo; con la sua mondanità la serietà, con la sua impulsività la disciplina.
e)- Il culto dell’ideale cavalleresco: il cavaliere, uomo d’armi, d’avventura e di amore aveva costituito già nel Medioevo un esemplare di perfezione di tendenza laica: a lui si opponeva il paladino tutto serio, tutto impegnato nella difesa della fede e della patria.
Ora il cavaliere del ‘400, uomo d’armi, di onore, di amore, di cultura, coglie quel che c’era di buono nell’ideale del paladino e nel cavaliere medievale e crea l’esemplare dell’uomo moderno perfetto, cioè del cavaliere gentiluomo.
Boiardo è un esponente di questo stile cavalleresco in cui l’impulso naturale e senso ideale della vita si sintetizzano in figure eroiche e gentili, appassionate dell’ideale e condiscendenti verso forme più liberali di vita.
f)- Un certo senso di compassione per tutti coloro che sono ancora arretrati: si tratta di una compassione cordiale, senza toni sprezzanti, propria di chi si compiace di aver realizzato uno stile superiore di vita e guarda, con un certo tono di umana compassione, quelli che sono rimasti indietro senza loro colpa. Il Boiardo stesso ci presenta un Orlando Innamorato che, caduto dal cielo degli eroi nel complicato inferno degli innamorati, sa disimpegnarsi con mediocrità. Lorenzo il Magnifico si compiace osservare, dal suo mondo raffinato e intelligente, la plebe la quale risponde alle esigenze di natura e alla nuova concezione estetica della vita come meglio può ( la Nencia da Barberino).
g)- Il vagheggiamento di paesaggi idealizzati, di visioni idilliache. Il motivo idillico si può dire che sia il più costante ed il meglio elaborato sia nella pittura che nella poesia del ‘400 (basta ricordare per la pittura il B.Angelico, il Botticelli, il Perugino. In poesia il Poliziano per le “Stanze” per la giostra di Giuliano de’ Medici” e Sannazzaro per “L’Arcadia”).
h)- Indagine curiosa ed appassionata e soprattutto entusiasta delle forze della natura esaltazione del metodo sperimentale come il più adatto per tale indagine; ansia di scoprire e di utilizzare le scoperte per promuovere la felicità dell’uomo: nella seconda metà del ‘400 abbiamo le più grandi scoperte del Rinascimento e l’inizio di un nuovo corso della storia civile e scientifica. Basta citare Cristoforo Colombo, nel campo delle scoperte geografiche; Leonardo da Vinci, nel campo delle scoperte scientifiche.
i)- Il culto delle forme classiche che, come suole accadere nei giovani allorché si appassionano di una moda, assume toni di vero e proprio fanatismo: disprezzo del Medioevo, tentativo di abolire il volgare, proposito di restaurare il latino aureo, imitazione scrupolosa degli esemplari classici. La fase giovanile, dunque, è assai ricca di motivi, ma due sostanzialmente predominano: un edonismo sano e sereno ed un gusto spiccato per la forma semplice e fiorita nello stesso tempo, semplice di linee e fiorita di graziosi spunti decorativi.
4)- Fase del rinascimento maturo.
Caratteristiche della spiritualità matura sono l’oggettivismo realistico, il praticismo, l’utilitarismo, lo scetticismo, nei confronti di tutto ciò che è ideale.
Gli uomini del Rinascimento maturo esauriscono il programma naturalistico ed umanistico, abbandonandosi a tutte le esperienze della vita e dell’arte.
Sperimentare la vita significa conoscerla, conoscerla significa individuare l’intrico e i procedimenti.
La conoscenza oggettiva elimina le forme ideali a priori che avvolgono la realtà in un velo che impedisce di coglierne le linee e i motivi veri. L’esperienza, dunque, porta alla oggettività; l’oggettività elimina l’idealismo. Tolto l’idealismo è eliminato il legame affettivo che tiene unito lo spirito umano a queste o a quelle realtà e gli impedisce di superarla, di controllarla da un punto di vista più elevato; cioè l’oggettivismo è un ottimo presupposto per vedere gli uomini e le cose inquadrati in una visione generale in cui è possibile vedere il valore giusto dei singoli fenomeni e cogliere il processo attraverso il quale anche le forme più opposte si armonizzano.
Si tratta di considerare i singoli uomini e le singole cose non in sé stessi, ma in un rapporto tanto quanto è vasta la vita: in tal modo è possibile cogliere i fenomeni, non in una sola fase del loro sviluppo, ma in tutto il loro divenire; e quindi è possibile vedere come certe contraddizioni alla fine si conciliano e tutto nella vita è armonia.
Questa visione armonica genera nello spirito dell’osservatore serenità e sorriso: serenità, perché i dammi più foschi, le difficoltà più aspre, le previsioni più nere, l’eccessività passionale, le esemplarità supreme, alla fine perdono della loro eccessività e si riducono a normalità; sorriso perché per una persona esperta vedere gli uomini che si entusiasmano troppo o si addolorano troppo per questa o per quella vicenda, per questo o per quell’ideale, è uno spettacolo divertente, in quanto l’osservatore già sa come certe posizioni si concluderanno. Un’altra forma di maturità è il superamento di sé stessi, cioè il guardare al proprio mondo come a qualche cosa di estraneo e sorridere serenamente su di esso come si è sorriso sui mondi altrui o sulla realtà umana in generale. Si matura così il tipo dell’uomo esperto, superiore, arguto, scettico, caratteristico del Rinascimento maturo.
Riassumiamo il processo attraverso cui si forma questo tipo: esperienza – oggettivismo – superamento del reale – visione armonica del reale – serenità – sorriso di superiorità o ironia sul mondo esterno – superamento di sé stesso e ironia su sé stesso.
IL tipo caro agli intellettuali.
Il tipo caro agli intellettuali del ‘500 è Orazio, fine epicureo, arguto e bonario. Si tratta di una spiritualità che accoglie una infinità di motivi, percepisce una infinità di modi di essere e di rapporti nella vita, intuisce i processi psicologici più reconditi e le condizioni più svariate delle forze umane, ma non approfondisce l’interpretazione del reale: si tratta di una visione intelligente e complessa, ma non si va oltre l’esperienza, non si cerca di interpretare le cause prime e i fini ultimi della realtà e della storia.
L’interpretazione del reale data dal Medioevo è certamente più seria perché inquadra la vita, oltreché in una visione naturale, anche e soprattutto in una visione soprannaturale. L’interpretazione del Rinascimento potrà essere più realistica, più oggettiva, ma dice poco allo spirito umano perché non vede nulla oltre i fatti e le cause immediate di essi. Le affermazioni più audaci e più spregiudicate, le iniziative più preoccupanti dal punto di vista morale e sociale, vengono giustificate apertamente e presentate come espressione della mentalità e dello stile pratico dell’uomo perfetto. Sono scomparsi i timori del Petrarca, le presentazioni dirette del Boccaccio, i giovanili pudori del ‘400: in fase di maturità il contatto pieno con la vita viene realizzato con spregiudicatezza e convinzione.
Motivi del Rinascimento maturo.
Si tratta presso a poco degli stessi motivi che abbiamo illustrato parlando del naturalismo e dell’umanesimo, cioè dei due aspetti fondamentali del Rinascimento.
a)- Sperimentalismo, realismo, oggettivismo, razionalismo nelle indagini relative al mondo fisico e al mondo umano: sono eliminate le interpretazioni soprannaturali, vengono messi da parte gli spunti metafisici e teologici, si evita di appellarsi ad un piano provvidenziale disposto da Dio sapiente, misericordioso e giusto. Sorge la storiografia a carattere veramente scientifico cioè condotta col fine di trovare in essa le cause dei fatti nell’ambito dei fatti stessi. Sorge la scienza come attività autonoma e con metodo proprio. E’ ridotta a scienza sperimentale perfino la politica, perfino la morale e induce i suoi principi dall’esperienza.
b)- La tendenza a curare di più la struttura che l’ornato su ogni composizione sia nel campo artistico che in quello letterario, politico, civile.
Il Rinascimento giovane aveva amato la struttura di piccolo respiro, affinché nel piccolo si concentrassero come graziosi modelli, tutte le eleganze della armonia delle linee e di motivi decorativi: il Rinascimento maturo preferisce l’arte di impostazione graziosa, di solidità strutturale, di decorazione sobria e decorosa. E’ per questo che nella fase giovanile gli umanisti hanno rivolto l’attenzione alla Roma imperiale. Citiamo un esempio nel campo politico: gli uomini del Rinascimento giovane ammirano non tanto la struttura del mondo politico romano quanto i gloriosi personaggi che per così dire lo ornano, e specie nel periodo repubblicano, cioè gli eroi, gli artisti, i grandi scrittori, i mecenati; gli uomini del Rinascimento maturo (ad esempio il Machiavelli) rivolgono l’attenzione all’arte con cui Roma seppe adoperare la forza e l’astuzia; alla sua attività militare, alle sue istituzioni civili, politiche, economiche, al suo modo di organizzare in un vasto complesso imperiale una infinità di popolazioni europee, asiatiche ed africane.
Il Rinascimento giovane andava in cerca di esemplari umani da ammirare: il Rinascimento maturo va in cerca di costruzioni solide da imitare nella età moderna per garantire la potenza dello Stato forte. Un esempio nel campo artistico: le architetture del ‘400 sono di proporzioni modeste come struttura, ma sono ricche di spunti decorativi: tutto è fuso in un piccolo complesso di linee e di decorazioni armoniche da costituire il vero gioiello architettonico: le architetture del Rinascimento maturo sono di impostazione grandiosa e rivelano la bellezza non tanto nell’ornato quanto nel sapiente gioco delle luci e delle ombre, dei pieni e dei vuoti, cioè nella proporzione e nell’armonia delle masse (basta pensare alla Basilica di S. Pietro del Bramente). Un esempio nel campo letterario: il Poliziano nelle “Stanze per la giostra” ci offre un esemplare di poemetto dalla struttura semplice e dal respiro moderato straricco di descrizioni decorative, elaborate con squisito senso di eleganza e con preciso criterio di armonia; l’Ariosto nel Rinascimento maturo ci offre un esemplare di poema di impostazione mastodontica (niente di meno tre azioni), di intreccio complicatissimo, di quadri paesistici e psicologici svariatissimi e numerosissimi.
Gli uomini del Rinascimento maturo, dunque, ci fanno impressione di gente che ha una mentalità vasta, una intelligenza esercitata, una tecnica più disinvolta, più evoluta e quindi più capace di creare con libertà: il Rinascimento giovane ci appare più grazioso, più artista, più ansioso di quadretti artistici e perfetti, ma meno intelligente.
c)- Accentuazione dell’individualismo, sia nel campo della vita privata che in quello della vita pubblica, sia nel campo nazionale che in quello internazionale: è il tempo in cui nella lotta tra personaggi e nazioni di natura maggiore e personaggi e nazioni di natura minore, si affermano i primi (ricordare le lotte tra Carlo V e Francesco I, tra Asburgo e Francia).
d)- Accentuazione dell’utilitarismo: utilitarismo pubblico col Machiavelli che propone come principio supremo “salus publica suprema lex”, utilitarismo privato col Guicciardini che propone come fine supremo della vita il “bene particolare”.
Il Rinascimento giovane vagheggia come ideale supremo della vita la bellezza, cioè l’armonia, l’eleganza, la grazia: il Rinascimento maturo, come suole avvenire negli individui maturi, pone l’attenzione non tanto sul bello quanto sull’utile: il bello, il buono, il sacro, il profano, tutto passa al servizio dell’utile. Il bello prima aveva fine a sé stesso ora non viene svalutato, ma viene convogliato verso il fine ultimo, cioè verso l’utile.
Guicciardini dice così: “sembrar buono è utile assai; ma siccome non si può apparir buoni a lungo se non lo si è veramente, siate buoni sul serio”. Il saper danzare, il saper armeggiare, secondo lo stesso Guicciardini, costituiscono ottimi fattori di successo per persone che altrimenti non riuscirebbero ad affermarsi, specie nell’alto mondo della politica e degli affari: il ‘400 stimava queste attività perché erano belle, il ‘500 le stima perché sono utili, pur riconoscendole e ammirandole. Machiavelli afferma che il Principe per costruire e consolidare lo Stato forte deve utilizzare tutte le risorse che gli offrono la storia, la psicologia umana, le passioni religiose, gli ideali più sacri.
Il Protestantesimo si affermò in questo o in quello Stato non perché questo o quel Principe simpatizzasse per Lutero e riconoscesse ormai insufficiente la religione cattolica, ma per puro interesse politico o finanziario: ad esempio i Principi tedeschi, impauriti dalla forza dell’Imperatore che allora era Carlo V , il più potente personaggio della storia asburgica, approfittarono della ribellione di Lutero al Cattolicesimo per ostacolare l’attività e l’influenza di Carlo V che era cattolico.
e)- Esaltazione dell’aurea mediocritas. (uguale aureo, giusto mezzo o aurea misura).
Succede alle persona maturate dall’esperienza di assumere, quasi necessariamente, un tono di indifferenza e di superiorità nei confronti della vita, o meglio nei confronti di quelle forme di vita che hanno dell’eccessivo. Il Rinascimento maturo non crede più all’uomo eccezionale, capace di fare tutto, benché ammiri l’uomo che sa fare più degli altri; l’idealizzazione assoluta è caratteristica dei giovani, l’uomo maturo sa che nella vita pregi e difetti, bene e male, bello e brutto vanno uniti sempre insieme. E’ uomo di buon senso, quindi, colui che guarda la vita senza disperarsi e senza esaltarsi fanaticamente; senza spregiare e senza abbandonarsi alle manie glorificatorie.
L’Ariosto è il personaggio del Rinascimento maturo che meglio incarna il tipo dell’uomo misurato: finemente ironico in confronto degli eccessivismi, simpaticamente compiacente nei confronti delle forme moderate e ragionevoli della vita. Angelica bellissima e capricciosissima, è dal poeta condotta a sposare un semplice fante: il poeta sorride sulle donne che vogliono far pesare la loro bellezza. Rodomonte, a Parigi, sembra un gigante infuriato che nessuna forza può frenare: è un personaggio cosciente della propria forza, orgoglioso di essa e provocatore perché fida su di essa: l’Ariosto lo presenterà all’atto di uccidere una donna inerme dalla cui bellezza è stato preso senza che da lei fosse stato provocato, e soprattutto lo presenta ridicolo quando fa sì che, abbracciato con Orlando nudo e pazzo nelle spire di una lotta centauresca, cada dentro un fiume e a fatica guadagni la riva. Ammira, invece, i caratteri gentili e affettuosi, moderati e sinceri: tutto ciò che è orgoglioso, presunzione, provocazione, pretesa capricciosa, spavalderia, costituisce il complesso delle eccessività e di queste il poeta sorride.
f)- Scetticismo. L’uomo maturo, a meno che non sia un esemplare di saggezza cioè non abbia il costume di conciliare insieme la teoria razionale con la pratica, la meditazione delle verità sublimi con l’onestà della prassi quotidiana, è normalmente dedito agli affari della vita vissuta e indifferente nei riguardi dei grandi problemi della nostra esistenza, delle indagini morali, dei principi assoluti,, e immobili che reggono le varie attività umane. Per l’uomo maturo le leggi del vivere sono nella vita stessa, cioè l’azione ben riuscita costituisce per lui norma di vita; e nei riguardi delle indagini teoriche, particolarmente di quelle metafisiche, morali e teologiche, egli dimostra indifferenza e scetticismo.
Gli intellettuali del Rinascimento maturo, perciò, normalmente disdegnano le ricerche intorno ai primi principi della morale, del diritto, intorno alle cause e ai fini ultimi della umana esistenza, evitano gli approfondimenti teologici e metafisici dei problemi che trattano, dichiarando che per quanto si voglia indagare intorno a ciò che supera l’esperienza concreta non si raggiunge mai certezza.
L’Ariosto accoglie molte affermazioni del Cristianesimo intorno alla Provvidenza divina, intorno ai destini della umanità creatrice, intorno alle più comuni norme della vita morale, ma ha tutta l’aria di un uomo che ripete cose diventate ormai d’uso e per di più col il tono svagato e sornione di chi ci crede e non ci crede, perché sa che la vita è quel che è e il destino ogni uomo se lo crea da sé, con la sua bravura o la sua stoltezza, con la sua onestà o con la sua disonestà.
Il Machiavelli, come s’è già visto, rifiuta le indagini teoriche, perché, come dice lui, sono state già fatte da altri, ma soprattutto perché le conclusioni a cui sono giunti gli altri sono messe costantemente in crisi dalla pratica della vita vissuta: quindi, secondo lui, non vale la pena perdere tempo nella ricerca di ciò che poi, alla fine, non sarà utile in nessun modo.
Il Guicciardini, che conclude il Rinascimento, affermerà esplicitamente che non vale la pena sprecar tempo nelle indagini teoriche della metafisica e della teologia , cioè delle ricerche fatte in campo superiore a quello dell’esperienza comune, perché tutti quelli che si sono dedicati ad esse sono caduti in mille contraddizioni, e ciò significa , secondo lui, che la verità in quel campo non si può raggiungere.
I campi della legge di natura, della storia, della politica intesa come amministrazione pratica dello Stato, della tecnica artistica, sono gli unici nei quali si possono ottenere risultati concreti e tangibili, e che, quindi, meritano l’attenzione delle persone intelligenti.
Così il Rinascimento apriva la strada ad una sapienza nuova, intesa cioè come scienza pratica, quasi tecnica, e metteva da parte le interpretazioni profonde ed eterne della vita, le avevano costituito la gloria della speculazione di S. Tommaso e della poesia di Dante.
g)- Sazietà della vita. E’ destino del cuore umano ricercare, con intensità e passione sempre crescente, esperienze sempre nuove, per concludere sempre con la delusione.
Infatti lo spirito dell’uomo ha l’ansia dell’infinito, e per quanto sperimenti le cose, non ne trova mai alcuna che lo sazi, né il numero influisce ad acquietare le ansie, perché moltiplicare le cose che non soddisfano non significa realizzare un complesso che soddisfi. Le persone che hanno maggiore possibilità di esperienze normalmente sono le più insoddisfatte: è più vivace lo spirito di coloro che meno conoscono ma hanno l’ansia di conoscere, che non lo spirito di coloro, i quali hanno conosciuto molte cose e le hanno trovate presso a poco tutte eguali, cioè tutte inadeguate a saziare le aspirazioni infinite del cuore.
Di qui l’atteggiamento caratteristico dell’uomo di esperienza e dell’uomo maturo in genere, cioè una specie di sazietà della vita intesa non come appagamento, ma rinuncia a continuare una ricerca indefinita di ciò che mai si potrà trovare. Si verifica così una specie di distacco dalle cose, che può essere preludio e spinta ad aperture soprannaturali e mistiche attraverso cui sia possibile raggiungere l’Infinito, cioè Dio; oppure potrebbe essere l’inizio di una noia interiore accompagnata dalla amarezza di avere ormai ben poco da fare sulla terra.
Il Rinascimento maturo, come l’individuo maturo, guarda alle cose della terra con l’occhio di chi le conosce bene e sa che esse più di tanto non possono rendere e fa questa constatazione con un tono che sta tra l’ironia e l’amarezza. Mancano però tentativi di evasione verso il mondo soprannaturale, quali erano stati realizzati dai più grandi spiriti del Medioevo; come mancano le deplorazioni più o meno angosciate della nostra miseria terrena, che caratterizzeranno la meditazione sulla vita fatta dal Leopardi.
Si tratta di una sazietà della vita fatta da persone misurate e capace di controllarsi, persone che, conosciuta la nullità della vita, si guardano bene dall’entrare in convento o di abbandonarsi ad emozionanti lamenti: continuano a guardare la vita, a goderne le risorse che essi sanno di poter trovare, sebbene in misura limitata, sorridono di coloro che, conoscendo la realtà vera dell’esistenza, si danno da fare da poveri illusi per ricavare da essa quel che non può dare, solo molto raramente si lasciano sfuggire qualche espressione un po’ dura circa la struttura immutabile del nostro destino. A proposito di queste espressioni dure è molto significativo un ricordo del Guicciardini: “Quando io considero a quanti accidenti e pericoli di infirmità, di caso, di violenza e in modi infiniti è sottoposta la vita dell’uomo: quante cose bisogna concorrino nell’anno a voler che la raccolta sia buona, non è cosa di cui io mi meravigli più, che vedere un uomo vecchio, un anno fertile”.
h) Essenzialità. Chi ha conosciuto la vita, chi ha sperimentato la verità delle cose umane, chi è stato deluso nelle sue speranze, se è saggio è anche naturalmente molto prudente: frena gli entusiasmi, limita le iniziative, si contenta di quello che è essenziale. A questo proposito, così dice il Guicciardini: “Io ho desiderato, come fanno tutti gli uomini, onore e utile; e ne ho conseguito molte volte sopra quello che ho desiderato e sperato; e non di meno non v’ho mai trovato dentro quella satisfazione che io mi ero immaginato; motivo, chi ben lo considerasse potentissimo a tagliare assai delle vane cupidità degli uomini”.
La persona esperta e delusa è, dunque, normalmente essenziale nel suo stile mentale, affettivo e pratico. Questa essenzialità consiste, anzitutto, nel coltivare l’utilità personale. Pur sapendo che nella vita tutto è vano e che la vita stessa è una vanità, l’uomo maturo sa che bisogna pur vivere; e siccome è necessario vivere, vale la pena di trascorrere il periodo dell’esistenza terrena nel modo migliore possibile, utilizzando tutti i mezzi che la natura e gli uomini mettono a disposizione. Aver conosciuto la vanità delle cose non significa disprezzarne l’utilità.
A questo proposito è ancora opportuna una citazione del Guicciardini: “Io mi feci beffe da giovane del saper suonare, ballare, cantare e simili leggiadrie, dello scriver bene, del saper cavalcare, del saper vestire accomodato, di tutte quelle cose che sembrano dare agli uomini più ornamento che sostanza, non di meno ho visto per esperienza che questi ornamenti e il saper far bene ogni cosa danno dignità e riputazione agli uomini e lo abbandonare di tutti gli intrattenimenti è talvolta principio o cagione di grande profitto o esaltazione”: un complesso di sciocchezze , dunque, può essere di grande utilità. Questa tendenza alla essenzialità utilitaria è riassunta in una espressione ancora dello stesso Guicciardini: “Quegli conduce bene tutte le sue cose nella vita, il quale tenga sempre dinanzi agli occhi il bene particolare”. Oltre che nella concretezza degli interessi l’essenzialità consiste nella eliminazione radicale il più possibile della formalità e delle esteriorità. Ad esempio nel campo della religione le pratiche esteriori hanno un valore assai limitato: quel che conta è fare del bene: “non biasimo i digiuni, le orazioni e simili opere pie che ci sono ordinate dalla Chiesa o ricordate dai frati; ma il bene dei beni e non nuocere a nessuno, giovare in quanto tu puoi a ciascuno”, dice il Guicciardini.
Sarebbe opportuno qui ricordare il vecchio proverbio “Poco ma buono” se quel buono si sapesse con sicurezza in che cosa consiste: Benché nel caso del Rinascimento maturo è facile individuare il buono in quanto esso è ciò che produce qualche utile effetto a noi o ai nostri simili.
L’essenzialità inoltre consiste nel buon senso: i ragionamenti filosofici, le complicazione sofistiche, le sottigliezze teoriche, fanno perdere di vista le verità più utili alla vita e compromettono il valore e la funzione pratica di esse. Chi si regola col buon senso vive bene anche senza grandi ragionamenti complicati, ma chi manca di buon senso, non conclude mai nulla di utile né per sé né per gli altri.
L’essenzialità infine consiste nel giusto mezzo o “aurea mediocritas” oraziana. Tutte le forme di eccessività sono forme superflue : amori furiosi o amori languidi, spavalderie provocanti o remissioni balorde, presunzione assurda e capricciosa, o inerzia quasi animalesca, sono tutte forme che alla persona esperta appaiono non solo ridicole ma soprattutto inutili e nocive sotto ogni aspetto. Bisogna aspirare a quelle cose che la natura ci offre, utilizzandole con intelligenza e buon gusto: insomma è conveniente restar fedeli alle esigenze decorose e spontanee di una naturalità che non sia né primitiva né acutizzata da una raffinatezza incontentabile.
L’uomo maturo ha normalmente poche simpatie e normalmente gli affetti della vita che riscuotono la sua simpatia sono quelli in cui si riflette una maturità sincera e moderata; immaginare uno spirito maturo come insensibile e chiuso a qualsiasi simpatia, è contrario al vero. Se egli infatti sorride con sottile ironia sulle bellezze capricciose che presumono suscitare incendi in serie e compiacersene, ammira le bellezze vivaci ma modeste; se egli sorride sugli amori furiosi o fuori stagione, segue con simpatia i cuori che li amano con fedeltà e in serena armonia; se egli non approva la scorrettezza e la brutalità passionale, si compiace di coloro che nelle loro avventure soddisfano con eleganza il cuore e il senso; se egli disapprova la slealtà, giustifica l’inganno quando è adoperato per tenere a posto gli sleali di professione.
Il Rinascimento utilizzò particolarmente due forze della natura umana: la ragione e il senso estetico. Nell’età matura del Rinascimento, in fase cioè di essenzialità, la ragione si contentò di buon senso (uguale razionalità naturale) e l’esigenza estetica si contentò del buon gusto ( uguale estetica naturale)
Nel Campo dell’Umanesimo.
E’ caratteristica dei giovani, i quali si propongono un modello da imitare, sforzarsi di riprodurre particolarmente le forme esterne di esso: i bambini imitano i gesti dei grandi, i giovani imitano le pose di certi personaggi che essi ammirano; manca ad essi la capacità di fare da sé, cioè di prendere lo spunto soltanto dal modello per continuare poi il cammino con le forze proprie.
L’uomo maturo che si proponga un modello, imita di questo il pensiero, la concezione della vita, e dalle forme esteriori di esso trae lo spunto per adattarlo in modo del tutto originale alle esigenze della vita sua personale.
L’umanesimo del ‘400, un po’ fanatico come sono un po’ fanatici tutti i giovani, ammira ed imita del mondo antico tutte le risorse formali: la struttura dei singoli generi letterari, lo svolgimento dei temi in forma di mito, motivi famosi in questa o in quell’opera dei più gloriosi poeti classici, la grazia delle descrizioni idilliche, l’idealizzazione dei personaggi illustrati, persino la lingua che vogliono sostituire a quella volgare. Bastano due esempi: Poliziano si propone di svolgere il tema dello innamoramento di Giuliano dei Medici: svolge il suo soggetto in forma di mito, così come facevano i classici romani e greci. Lorenzo dei Medici deve parlarci della sua villa: per svolgere il tema ricorre allo schema del poemetto eziologico, così caro ai poeti alessandrini in Grecia, a Ovidio e a Properzio in Roma.
Gli umanisti del Rinascimento maturo, anzitutto, abbandonano l’illusione di poter far rivivere la lingua latina classica e, con molto più buon senso, ritornano al volgare cercando di elaborarlo, di arricchirlo, di renderlo, insomma, adatto alle esigenze della spiritualità moderna. In secondo luogo degli autori antichi, più che altro, si sforzano di cogliere il pensiero, la concezione della vita, i principi generalissimi della tecnica formale.
Ariosto compone un poema che è lo specchio fedele dell’epoca storica in cui egli visse, un poema, quindi, moderno e originale: eppure egli accolse nel corso dello svolgimento alcuni spunti tratti dall’Eneide (episodio di Cloridano e Medoro; quello delle Arpie; quello di Astolfo internato in una pianta, che richiamano rispettivamente gli episodi di Eurialo e Niso, delle Arpie nelle isole Strofadi, di Polidoro incarnato in un cespuglio di mirto): si tratta di rievocazioni utilizzate in modo originalissimo, fuse perfettamente in un complesso grandioso che le assorbe e dà loro un significato del tutto nuovo.
Machiavelli, durante il giorno, nel suo riposo forzato di S. Casciano “si rivolta infra pidocchi, si ingaglioffa trattando con piccoli uomini del vulgo, alla sera sveste i panni sporchi di fango, indossa curiali ed entra in conversazione coi grandi scrittori dell’antichità, non per farsi insegnare da essi come si scrive, ma come si costruisce uno Stato e come si vive in uno Stato forte”.
Nell’introduzione si “Discorsi sulla prima deca di Tito Livio” egli deplora che i suoi colleghi intellettuali sprechino troppo tempo nello studio delle forme classiche e troppo poco si preoccupino del modo di vivere dei classici, che pur furono maestri così insigni in ogni campo dell’attività umana.
Guicciardini, pur deplorando che il Machiavelli si rifaccia di continuo ai classici, tuttavia dimostra di aver tolto anch’egli da essi alcuni principi fondamentali della sua spiritualità: una saggezza epicurea, maliziosa e ironica, il concetto che nella vita noi sembriamo liberi ma non lo siamo, il culto svagato ed elegante della propria persona.
Pregi e difetti del Rinascimento.
Pregi:
1)- IL Rinascimento ha promosso una conoscenza più oggettiva e, quindi, più precisa della natura; ed ha avuto anche il merito di aver trovato il metodo più efficace per favorire tale conoscenza, cioè il metodo sperimentale.
2)- Il Rinascimento ha avuto il metodo di aver prodotto sia nel campo letterario che in quello artistico, con tale abbondanza e con tale eleganza formale, da dare l’impressione agli uomini di quel tempo ed agli storici dell’età successiva, che sul serio la vita fosse rinata dopo una fase di morte o fosse venuta la luce dopo una fase di latenza.
3)- Il Rinascimento ha avuto il merito di aver perfezionato la tecnica dell’espressione sia in letteratura che in arte.
Difetti:
1)- Il Rinascimento ebbe il demerito di curare troppo la forma e di trascurare l’ispirazione, di coltivare più il bello che il vero, di rappresentare in forme idealizzate la vita piuttosto che interpretarla negli aspetti e nei suoi significati profondi e universali.
Basta mettere a confronto l’“Orlando Furioso” e la “Commedia”per capire quanto sublime e seria sia l’ispirazione del massimo esponente del Medioevo e quanto modesta ed alla buona sia l’ispirazione del Rinascimento.
2)- Il Rinascimento ebbe il demerito di aver distaccato l’arte dalla vita e di averla avviata alla retorica ed al formalismo in genere.
3)- Il Rinascimento ebbe il demerito di asservire la letteratura ai potenti costringendola al falso o all’artificio; di negare la sublime funzione ad essa di maestra del popolo, quasi che nell’esercizio di quella missione essa si degradasse; di chiudere la poesia che si alimenta di esperienze e di imitazioni appassionate, nelle accademie e nei circoli degli eruditi.
4)- Il Rinascimento ebbe il demerito di immiserire le spirito della civiltà chiudendolo entro un orizzonte puramente umano, senza apertura metafisiche soprannaturali: le cose viste da vicino appaiono sempre meschine; e se uno vuol farle apparire grandi deve travisarle, ricorrendo alle gonfiature retoriche e allo sfavillio delle forme.
E’ certamente vero che il Rinascimento produsse con abbondanza mai vita e con perfezione formale che sbalordisce, ma è anche vero che la Spiritualità del Rinascimento fu troppo mediocre, almeno dal punto di vita civile e morale: il bello è certo un grande ideale, ma chi si diverte a contemplare il bello e non pensa a vivere con dignità, a promuovere e potenziare i grandi ideali che tengono elevato il tono dell’esistenza, ha più la posa dell’esteta che la serietà dell’uomo.
Con la scusa che alle esigenze della natura non si può resistere il Rinascimento dal punto di vista morale si rivelò, come direbbe Orazio “nitidus de gregiae Epicuri porcus”; col principio che la politica è un gioco di astuzia e di forza, i Principi del Rinascimento giocarono la libertà e l’indipendenza di quasi tutta la penisola. Insomma il Rinascimento presenta un mirabile splendore artistico e letterario abbinato ad una autentica miseria morale, politica e civile; si ha l’impressione di trovarsi di fronte ad un ambiente intelligentissimo, abilissimo, di ottimo gusto, ma poco serio, cioè poco pensoso degli interessi vitali e dei problemi più gravi che riguardano l’individuo e la società.
5)- In Rinascimento, infine, ebbe il demerito di disprezzare quanto era stato creato dal Medioevo. Col pretesto che essi avevano raggiunto una perfezione tecnica assai superiore a quella medievale, gli uomini del Rinascimento si credettero in diritto di disprezzare tutto il complesso della civiltà dell’epoca precedente; e così tolsero a sé stessi la possibilità di utilizzare, con le dovute correzioni, con i necessari ampliamenti, con l’originale creazione ed elaborazione di nuove forme di vita e di arte, il ricco patrimonio di pensiero e di forme che il Medioevo era venuto accumulando. Ad esempio era proprio vero che per pacificare le città fosse necessario l’intervento di un Principe, cioè il sacrificio della libertà politica e civile ? Non era forse assai più adatta , allo stesso fine, e assai più capace di garantire la libertà, la proposta di Dante, cioè l’intervento concorde del Papa e dell’Imperatore? A questa osservazione si rispose allora come si risponde oggi: la storia era in marcia, i fatti ostacolavano o addirittura travolgevano gli ideali e le persone sagge preferiscono adattarsi alla situazione, ricorrere ai mezzi che sono più a portata di mano, invece che afferrare, come si suol dire, la bandiera dell’ideale e andare controcorrente.
Se questo adattarsi sia un merito non lo sappiamo; se il fatto che le generazioni del Rinascimento hanno dimenticato così facilmente il modo di pensare di sentire e di volere di S. Tommaso e di Dante, e hanno trascurato come sciocchezze le proposte di questi due grandi genii preoccupati di dare una salda e razionale organicità alla vita privata e pubblica, sia rivelazione di magnanimità, non lo sappiamo. Se risolvere i problemi nel modo che è più facile, ma che nello stesso tempo compromette irrimediabilmente i beni più preziosi della vita, è un merito, il Rinascimento ebbe senza dubbio questo merito; ma se rinunciare alla lotta ideale per amore di quiete e di gioioso vivere, è una specie di viltà, il Rinascimento fu sufficientemente vile.
E il guaio fu che le generazioni rinascimentali non si accorsero di essere vili, anzi si vantarono del loro agile e sereno adattamento alle esigenze concrete della storia e chiamarono illusi, teorici, senza criterio pratico, idealisti fanatici i pensatori dell’epoca precedente che avevano lavorato per individuare la verità, per formulare programmi adatti a realizzare nella vita pratica il giusto e il buono. Machiavelli nel XV capitolo del Principe parlando di questi teorici, fa un atto di malizioso ossequio alla loro logicità astratta e con sicurezza annuncia il suo metodo concreto. Ma quando si volle più tardi, nel secolo XIX, risolvere il problema dell’unità e della indipendenza d’Italia, bisognò ritornare al metodo medievale, cioè al culto dell’idea (libertà, popolo, religione, patria, lavoro).
Breve raffronto fra Medioevo e Rinascimento
1)- il Medioevo è mistico, il Rinascimento è naturalistico.
2)- Il Medioevo è idealista, il Rinascimento è realista.
3)- l Medioevo ha come ideale il bello e il buono, il Rinascimento ha come ideale
il bello e l’utile.
4)- Il Medioevo è universalista, il Rinascimento è individualista.
5)- Il Medioevo è democratico, il Rinascimento è assolutista e aristocratico.
6)- Il Medioevo preferisce le forma impostata su solide basi di pensiero, il
Rinascimento preferisce la forma impostata sulle basi del buon gusto.
LETTERATURA VOLGARE NEL ‘400
Distinguiamo nella letteratura volgare del ‘400 due fasi: quella della prima metà del secolo e quella della seconda metà.
1)- Letteratura in volgare della prima metà del ‘400.
Col Petrarca si afferma il pregiudizio che la persona colta deve esprimersi in latino aureo e che deve adoperare il meno possibile il volgare: il pregiudizio del Petrarca furoreggia specie nella prima metà del ‘400. In questa fase le persone colte scrivono quasi tutte in latino aureo e la letteratura in volgare fiorisce soltanto in mezzo al popolo: così ci troviamo di fronte ad una letteratura in volgare quasi esclusivamente popolare.
Gli umanisti avevano l’impressione di degradarsi di decadere dal piedistallo della loro erudizione qualora adottassero la lingua che parlava e che capiva il popolo; e allora artigiani, dilettantisti, spiriti bizzarri si dedicano a comporre versi per esprimere sentimenti di religione, d’amore, di ansietà, di dolore.
Produzione lirica. Si tratta di una produzione quasi esclusivamente lirica nella quale rientrano tutte le forme metriche di struttura tenue e agile: sonetto, madrigale, ballata, villanelle, barzellette, frottole e soprattutto canzonette, costituiscono un complesso di lirica popolare assai simpatico e piacevole. Si tratta di sentimenti spontanei, benché semplici e talvolta primitivi, espressi in forma realistica, temperata quasi sempre di un coscienzioso pudore. Gli autori sono quasi tutti ignoti; e dei noti i più famosi sono Leonardo Giustinian, autore di canzonette chiamate “Giustinianee”, e Giovanno Dominici autore della famosa lauda “Dì, Maria dolce con quanto desio”.
Produzione narrativa. Le “Chansons des gestes” francesi, particolarmente quella di Orlando, erano assai note al pubblico popolare italiano, Francesco Andrea da Barberino nei “Reali di Francia” aveva cercato di inquadrare i personaggi di Carlo, di Orlando e dei paladini minori nella storia, interpretata naturalmente con la mentalità di chi compone leggenda; e nel Veneto con una lingua che stava tra il francese e il dialetto di quella Regione vennero composti da giullari i codiddetti “Cantari franco-veneti”, assai rozzi ma cari al popolo che si compiaceva di ascoltare la narrazione della vita e delle imprese di Orlando e di Carlo, che con la loro fama avevano riempito la storia e la leggenda del Medioevo: senso religioso, senso patriottico, senso eroico costituiscono una buona attrattiva per un pubblico popolare.
In Toscana nei primi anni del ‘400 circolano due poemetti popolari ispirati al ciclo carolingio: “La Spagna in rima” e “L’Orlando”.
“La Spagna in rima”, “L’Orlando”, “I Reali di Francia, “I cantari franco-veneti” dal punto di vista artistico sono ben misere cose, ma testimoniano verso quali motivi si dirigesse l’interesse del popolo e ci spiegano perché mai nella seconda metà del ‘400 si verifichi la grande fioritura dell’epopea carolingia.
Produzione teatrale. Tre sono i fattori che compongono il teatro: scena, azione, dialogo. Il teatro italiano ha le sue lontane origini nella lauda sacra dialogata (ad esempio nel “Pianto di Maria” di Jacopone da Todi), appunto perché il dialogo è già un elemento del teatro.
Le prime rappresentazioni teatrali in Italia si ebbero verso la metà del secolo XIV e si ispirarono tutte esclusivamente a motivi religiosi: furono perciò dette sacre rappresentazioni. I soggetti scelti erano presi dal Nuovo Testamento o dalla vita dei Santi; il fine che l’autore si proponeva era quello di edificare il pubblico: i locali in cui le rappresentazioni erano tenute erano, abitualmente, luoghi sacri.
Le caratteristiche fondamentali della sacra rappresentazione erano le seguenti: soggetto religioso; successione di quadri staccati l’uno dall’altro, e non vera e propria azione per svolgere le fasi dell’argomento; mancanza di veri contrasti psicologici e di interesse, cioè mancanza di dramma; rudimentalità della attrezzatura scenica.
La sacra rappresentazione fiorì durante la prima metà del ‘400 per opera di religiosi, delle confraternite e delle compagnie di dottrina. L’autore del copione, normalmente, era una persona molto devota, di mediocre cultura, ma esperto delle simpatie e dei gusti del popolo.
2)- Letteratura in volgare della seconda metà del ‘400.
Gli umanisti capirono ben presto che l’impresa di sostituire il latino al volgare era impossibile. Infatti enorme era la difficoltà che essi incontravano nel tentativo di esprimere la civiltà del loro tempo con una lingua addietrata di mille e quattrocento anni: dal tempo di Cicerone ad essi la vita si era arricchita di una infinità di motivi nuovi, sia nel campo del pensiero che della prassi, sia nel campo religioso che in quello civile e politico; ed era assurdo pretendere di esprimere questa civiltà, infinitamente più complessa, con i mezzi linguisti di cui si valeva Cicerone per esprimere la civiltà del mondo suo.
Un altro motivo che indusse l’umanista a smetterla con il suo fanatismo per la lingua latina e a ritornare alla lingua volgare, fu il fatto che dalle sue opere egli non ricavava la fama cui aspirava, in quanto il pubblico che le intendeva era assai ristretto, anzi era costituito esclusivamente dal gruppo dei suoi colleghi, i quali per di più, normalmente, erano invidiosi e si interessavano delle opere dei loro avversari, non certo per elogiarle, bensì per criticarle. La composizione in volgare procurava all’umanista un pubblico assai più vasto e, quindi, garantiva una fama più sicura e più fruttuosa.
Un ultimo motivo che decise della sconfitta del latino e della rivincita del volgare e che è strettamente connesso con il precedente, fu la situazione pratica in cui venne a trovarsi la maggior parte degli umanisti. Nessun umanista, infatti, salvo rarissime eccezioni, poteva vantare una autonomia economica, cioè poteva dedicarsi agli studi vivendo di rendite proprie: l’umanista vive al servizio di questo o quel Signore che, mentre gli garantisce il quieto vivere e gli dà la possibilità di attendere alle sue occupazioni letterarie, esige anche da lui che gli renda i suoi preziosi servizi, sia come segretario sia come ambasciatore, sia come poeta di famiglia.
Durante i ricevimenti l’umanista era incaricato di fare onore agli ospiti e alla casa con le sue belle composizioni; e queste non potevano essere scritte che in volgare perché anche nell’ambiente signorile i conoscitori del latino erano ben pochi. Qualche umanista si azzardò, talvolta, a far recitare al figlio o alla figlia del Signore una bella orazione in lingua latina, ma è facile immaginare la noia degli uditori, specie se il discorso era lungo. Inoltre nella corte vivevano dame e gentili cavalieri i quali chiedevano al poeta umanista composizioni che li istruisse e li dilettasse: è chiaro che tali composizioni, se per caso venivano scritte in latino, non erano intese quasi da nessuno del pubblico dei lettori od ascoltatori, ed era, perciò, necessario ritornare all’uso del volgare.
I motivi di ispirazione della rinnovata letteratura volgare.
a) – Il motivo dell’amore, inteso da alcuni come fonte di soavi affanni, da altri come maestro di gentilezza e di belle opere, dalle anime più elevate come contemplazione e gaudio della bellezza pura, al modo platonico.
b)- Il motivo della bellezza intesa come armonia di forme e gentilezza di spirito.
c)- Il motivo dell’avventura intesa come espressione di capacità fisica e spirituale, come mezzo per saggiare le proprie forze e prenderne coscienza.
d)- Il motivo della perfezione cavalleresca, intesa come stile impeccabile, come sintesi di generosità, di audacia, di lealtà, di intelligenza e di abilità.
e)- Il motivo della cultura, intesa come rivelazione di umanità più fine, come fattore di apertura mentale e di superiorità morale, come criterio per giudicare o con liberalità o con tono di maliziosa ironia.
f)- Il motivo della natura vista come complesso meraviglioso di quadretti in cui si raccolgono, in armonia di linee e lucidità di toni, tutti gli spunti più delicati e più simpatici del paesaggio.
g)- Il motivo della passione classicista, intesa come ansia di riprodurre, nel mondo moderno, lo spirito e le forme della civiltà greco-romana.
Ricchezza formale della rinnovata letteratura volgare.
L’esperienza dell’umanesimo nella fase del fanatismo classicistico, se non fu coronata da grandi successi estetici, se cioè non fu caratterizzata dalla produzione di grandi opere, tuttavia, ebbe una enorme importanza dal punto di vista formale. Infatti gli umanisti, studiando le opere dei classici:
a)- anzitutto vennero a conoscenza di tutti i generi letterari creati dagli scrittori greci e romani e tentarono di rievocarli nelle loro composizioni;
b)- in secondo luogo utilizzarono le forme, che per ogni genere letterario, erano state inventate ed elaborate dai classici;
d)-ed in terzo luogo si valsero delle conoscenza ampia e profonda delle lingue classiche per affinare e potenziare il volgare.
Se gli umanisti del ‘400 avessero avuto più ingegno o avessero adottato una mentalità più indipendente nei confronti dei modelli classici, anche nel secolo XV la nostra storia letterari avrebbe contato opere di sommo pregio.
Generalmente, invece, gli autori in volgare della seconda metà del ‘400 ci hanno dato opere perfette nella modellatura classica, ricchissime di belle tradizioni e di gentili motivi sentimentali, ma di breve respiro, simili a graziose miniature, o opere di grande respiro, ma ancora confuse nella struttura e poco precise nei particolari: le prime sanno troppo di erudizione e rivelano scarsa comunicazione con la vita reale; le altre sono moderne, accolgono svariati motivi della civiltà nuova, ma rivelano la incapacità degli autori a controllare i singoli momenti della composizione: le prime sembrano create ed elaborate da una mentalità professorale assai diligente ed intelligente, ma poco aperta ai grandi problemi della vita vissuta; le seconde sembrano create ed elaborate da bravi uomini di mondo, ansiosi di esprimere un vastissimo complesso di esperienze, ma ancora inesperti dei modi con cui si conduce un’opera di grande mole.
Come esemplari delle opere del primo gruppo possiamo citare i poemetti classicheggianti del magnifico, la “Stanze per la giostra” di Poliziano, “L’Arcadia” di Sannazzaro; come esemplari del secondo gruppo possiamo citare il “Morgante” del Pulci e l’”Orlando Innamorato” di Boiardo.
La questione della lingua agli inizi del ‘500.
Dante nel “De vulgari eloquentia” si era proposto di individuare la lingua italiana che dovevano adottare le persone colte della Penisola nelle composizioni ad alto soggetto e a tono elevato. Egli aveva affermato che l’opera di affinamento dei volgari dialettali compiuta dagli scrittori delle diverse regioni, aveva diffuso nei centri di cultura (scuole, corti, curie amministrative) una lingua che presentava caratteristiche diverse in quanto era elaborazioni di linguaggi diversi.
Perché la soluzione dell’Alighieri avesse avuto una efficacia pratica, sarebbe stato necessario compilare un vocabolario, una grammatica e una sintassi della lingua da lui individuata e definita: ciò che avvenne agli inizi del ‘500, cioè nella fase di maturazione e di maggior produzione, nel Rinascimento, quando il problema della lingua si presentò di nuovo.
Una volta sgonfiata la passione per il latino aureo, una volta riaffermata la necessità pratica di ritornare al volgare, gli intellettuali del Rinascimento maturo sentirono il bisogno di definire una lingua modello, che fosse capace di esprimere, con precisione e con eleganza, qualsiasi atteggiamento dello spirito, con capacità, con decoro, con arte.
Gli esponenti della questione linguistica, agli inizi del ‘500, sono il Bembo e il Trissino: il primo sostiene la tesi che la vera lingua italiana è quella elaborata dai grandi autori toscani del ‘300, particolarmente dal Petrarca e dal Boccaccio; il secondo sostiene, invece, la tesi che la lingua italiana è quella adoperata dalle persone colte delle varie regioni della Penisola, cioè sostiene una tesi uguale a quella proposta dall’Alighieri. Il Bembo è un umanista bravo scrittore in latino aureo bravo scrittore in volgare.
Agli umanisti piace esemplarizzare, cioè fissare modelli perfetti sia riguardo alla ispirazione che riguardo alla forma e alla lingua; ed è per questo che il Bembo ad una lingua viva preferisce magari una lingua addietrata di circa un secolo e mezzo, ad una lingua in evoluzione preferisce una lingua fissa. Il Bembo è appassionato ammiratore e imitatore del Petrarca: per questo egli propone come modello di lingua in poesia quella del “Canzoniere” e dei “Trionfi”; e come modello di lingua in prosa propone quella del Boccaccio.
Il Bembo espone le sue teorie nel “Prose della volgar lingua”, che è un trattato in cui oltre che risolvere il problema linguistico l’autore si propone e risolve svariati problemi di fonetica, di grammatica e di sintassi. La tesi del Bembo è sostenuta da valenti scrittori toscani, quali il Machiavelli, il Varchi e il Giambullari. Alla fine del secolo XVI sorge a Siena l’Accademia della Crusca, di cui è fiero e intransigente campione Lionardo Salviati. I cruscanti si propongono di stacciare la lingua italiana per separare il fior fiore dalla crusca: il fior fiore è costituito dal patrimonio linguistico contenuto nelle opere del Petrarca e del Boccaccio; la crusca è costituita dalle forme linguistiche usate anche da valenti scrittori, ma non toscane, anzi non fiorentine. Viene così compilato il vocabolario della Crusca secondo un criterio strettamente bembesco, cioè con il proposito di raccogliere in esso solo i vocaboli della lingua fiorentina, non viva, ma elaborata dal Petrarca e dal Boccaccio.
Tale vocabolario dominò incontrastato fino ai tempi dell’Illuminismo e dalla fine del ‘500 alla metà del ‘700 gli scrittori italiani petrarcheggiano con grande scrupolo e diligenza. Alla soluzione del Bembo si oppose il Trissino, il quale commentò il “De vulgari eloquentia” di Dante e, sull’esempio di questi, propose una lingua nazionale al cui patrimonio contribuissero le varie regioni d’Italia con ciò che avevano di meglio, ossia con ciò che di meglio avevano saputo elaborare i vari scrittori che si erano affermati in ciascuna di esse.
L’opera in cui il Trissino sostiene la sua tesi è intitolata “Il Castellano”.
Altri letterati, quali i Davanzati, il Dani, L’Aretino, il Cellini, il Gelli, il Caro pur aderendo alla soluzione del Bembo, si dimostrarono più liberali nel senso che invece di un fiorentino fisso alle forme del Petrarca e del Boccaccio, cioè antiquato e morto, preferivano una lingua toscana viva, cioè una lingua che accogliesse non solo le forme di Firenze, ma di tutta la regione Toscana e, per di più, tenesse conto delle esigenze del rinnovamento a cui ogni lingua va soggetta per il fatto che è un mezzo di espressione di cui si valgono le persone vive, la cui spiritualità è in continua evoluzione. Essi riconoscono che fissare una lingua significa ucciderla e renderla inaccessibile al gran pubblico dei lettori, i quali intendono la lingua del loro tempo e difficilmente hanno possibilità di apprendere una lingua morta.
Il Bembo volle fare della lingua del Petrarca e del Boccaccio una lingua nazionale, proponendola, una volta per sempre, all’imitazione di tutti gli scrittori d’Italia; il Trissino volle che alla formazione della lingua nazionale contribuissero tutte le lingue regionali: in tempo di umanesimo, cioè in tempo di culto dei modelli, non poteva avere il sopravvento che la tesi del Bembo. Questa tesi se da una parte favorì la precisione, l’eleganza, la logicità strutturale della lingua letteraria, dall’altra contribuì a fare delle opere egli scrittori una specie di museo linguistico accessibile soltanto m agli eruditi; e, soprattutto, creò il pregiudizio che esistesse una lingua poetica già bella e fatta, ossia il pregiudizio che bastasse adoperare certi vocaboli, adoperati dal Petrarca, per fare poesia: ad esempio “cigno” invece di “poeta”, “liquidi cristalli” invece di “acque”, “zèfiri” invece di “venti” ecc. erano forme che ogni poeta si sentiva in dovere di adottare perché esse costituivano il vocabolario del letterato che si rispetta. Ma a questo modo la poesia diventava accessibile solo a chi conosceva quel vocabolario.
L’umanesimo, come aveva distaccato l’ispirazione dalla vita vissuta e la forma della vita intima del soggetto trattato, così ha distaccato la lingua dall’uso comune: ispirazione, forma e linguaggio sono così avviati verso l’Accademismo, cioè verso la morte.