Letteratura italiana delle origini dalle lezioni del prof. Mancini don Dino a Fermo

 

    Letteratura italiana.

Quattro domande degli alunni al prof. Mancini:

   Che cos’è la letteratura italiana?

   La letteratura italiana è l’esposizione dei movimenti letterari che si sono succeduti nella vita culturale della nostra nazione dal Medioevo a oggi. Essa presenta soprattutto le opere dei più grandi autori, nella loro genesi e nel loro valore. La letteratura è l’espressione della spiritualità di una generazione, oltre che dei grandi autori che la creano, e bisogna inquadrare i movimenti letterari e le grandi opere, che ne sono l’espressione, nella spiritualità non solo di questi grandi esponenti, anche in quella della generazione in cui fiorirono.

    Si potrebbe esprimere il rapporto tra i fattori che generano i movimenti e le opere letterarie in questi termini: lo spirito di una generazione influenza l’animo dei poeti che di essa fanno parte; lo spirito del poeta si trasfonde nel contenuto e nella forma della sua opera. L’opera d’arte può essere considerata come l’espressione più espressiva della spiritualità, della capacità creativa, del gusto di una determinata generazione.

   La storia è un organismo vivo, ove ogni fenomeno è strettamente collegato con l’altro, anche se è differente e opposto adesso, quindi, nella storia della letteratura, i vari movimenti presentano un intimo rapporto fra loro e sono vitalmente congiunti anche se diversi.

   Qual è l’origine dei fenomeni letterari?

   L’origine dei fenomeni letterari è legato al problema generale dell’origine dei fenomeni storici, perché il fenomeno letterario non è che uno dei tanti fenomeni della vita storica delle generazioni. Si conoscono tre soluzione a questa domanda:

A) La soluzione umanistica si può riassumere così: sono i personaggi eccezionali e geniali che danno origine ai vari indirizzi della storia e della letteratura.

B) La soluzione marxista vuole che ogni fenomeno storico sia causato da un fattore economico. Marx afferma che l’evoluzione della materia-uomo genera bisogni nuovi, i quali causano nuovi modi di produzione, e questi generano nuove strutture sociali politiche, religiose, morali con conseguenti nuovi gusti e nuove forme di letteratura e di arte.

C)-  La soluzione cristiana spiega che i fenomeni della storia sono generati dalla libertà e dalle capacità dell’uomo. La provvidenza divina li utilizza per realizzare piani di salvezza che hanno in Gesù Cristo il centro di tutta la storia umana.

   La letteratura è creata dalla volontà dei letterati?

    Possiamo osservare che nel sorgere e nello svilupparsi dei fenomeni storici non è la sola volontà che crea i fatti (anche letterari). Tutte le facoltà umane (sentimenti, pensieri, atti dello spirito e della volontà) intervengono in questa creazione.

   Come è dall’esperienza, gli uomini più dotati dalla natura danno origine a realizzazioni più espressive. Il contatto fra gli uomini determina il diffondersi di nuove conformazioni che divengono patrimonio comune e sono motivo di emulazione per altre persone e per altri popoli.

Quale funzione hanno i movimenti culturali?

   Di ogni epoca storica si possono dare un giudizio di funzione ed un giudizio di valore. Con il primo notiamo il ruolo che essa ha per le generazioni nel processo della storia; con il secondo definiamo quale sia il grado di cultura manifestato in un’epoca. Ogni fase delle generazioni eredita la cultura della fase antecedente, la elabora secondo la propria indole e secondo le circostanze storiche, per poi lasciarla alle generazioni successive. Il giudizio di funzione è sempre positivo come avviamento di forme nuove. Senza che esistessero i movimenti di un’epoca, non esisterebbero neanche i successivi.

   Il giudizio di valore dipende dal grado di perfezione manifestato dai movimenti culturali. Il progresso tecnico può verificarsi indipendentemente dal progresso spirituale: questo è promosso dall’ansia di percepire i significati della realtà e dalla intensità delle aspirazioni per le finalità ideali.

Dice uno studente: <<Le riflessioni letterarie dei prof. Mancini Dino sono eccellenza della comprensione logica umana>>

LA LINGUA ITALIANA

  La lingua italiana è detta anche volgare perché deriva da quell’unico volgare latino che si diffuse in tutto l’impero occidentale e si frazionò in sei volgari principali durante lo stanziamento dei barbari nell’impero. A Roma, infatti, fin da quando fu fondata la città si parlavano due lingue: quella del popolo e quella dei dotti, tra le due lingue vi erano differenze notevoli, ma non tali che chi parlasse l’una non intendesse l’altra. Intercorreva presso a poco la stessa differenza che passa oggi fra la lingua nazionale e il dialetto locale.

Notiamo anzitutto quali siano in genere le differenze fra la lingua dotta e quella popolare.

Le persone dotte hanno molti più pensieri da esprimere che non il popolo e sentono il bisogno di distinguere tra un concetto e l’altro, tra un atteggiamento dello spirito e l’altro.

Perciò la lingua dei dotti ha queste caratteristiche: l’abbondanza dei vocaboli, di forme grammaticali e sintattiche anche in relazione a proposito della abbondanza dei pensieri da esprimere; costante preoccupazione di distinguere un concetto dall’altro, e quindi abbondanza di forme diverse, in relazione all’esigenza di precisione.

A Roma la lingua dotta si venne formando nell’ambito di quella volgare per queste esigenze delle persone colte; anzitutto perché le persone colte conoscevano cose che non conosceva il popolo – in secondo luogo perché esse dovevano interessarsi di questioni molto più vaste di quelle di cui si interessava il popolo nella vita quotidiana: e quindi avevano bisogno di una lingua più vasta, più ricca più precisa – in terzo luogo perché venivano a contatto con le persone colte di altri paesi e per comunicare con esse avevano bisogno di una lingua che superasse quella locale.

Il volgo tende a eliminare le sillabe finali mute. Elimina in genere la vocale di una sillaba postonica interna. I generi sono soltanto due: maschile e femminile; se i casi erano solo uno per il singolare uno per il plurale come si distinguevano i complementi? Per mezzo delle preposizioni.
Diffusione del volgare.

     Da Roma il volgare si diffuse in tutto il Lazio, quindi in tutta Italia e dal primo secolo D.C. si diffuse in tutto l’impero d’occidente ( non in oriente, perché là dominava la civiltà ellenica che era superiore a quella romana).

   Diffondendosi in Italia e nelle province il “vulgaris” subì qualche trasformazione dovuta alla diversa conformazione degli organi fonetici delle varie popolazioni e alla persistenza di elementi delle lingue locali.

   Tuttavia finché vi fu l’unità politica nell’impero, anche l’unità linguistica non fu compromessa in modo sensibile. Quando nel quinto secolo i barbari si stanziarono nell’impero e sorsero i regni romano barbarici anche la lingua volgare si frazionò notevolmente, cosicché assunse forme notevolmente diverse nei vari regni stessi.

   Si ebbero così sei volgari nuovi o lingue romanze o neolatine: portoghese, spagnolo, francese, provenzale, italiano, romeno. Nel seno di ciascun volgare sorsero svariati dialetti a seconda delle condizioni delle circostanze storiche delle varie regioni.

Uso del volgare nelle composizioni letterarie.

     Nell’alto Medio Evo (476-1050) la cultura è in decadenza in mezzo ai laici: essa fiorisce soltanto nel mondo ecclesiastico e gli ecclesiastici quando compongono (croniche, prediche, trattati di filosofia, di teologia, di morale, inni religiosi) adottano il sermo doctus nella forma medievale. Il volgare era parlato quotidianamente e veniva usato per le più comuni pratiche scritte (lettere, contratti, testamenti). Solo nel basso Medio Evo (1050 1350) il volgare viene adottato nelle composizioni letterarie. Questa età riceve nel mondo della cultura anche i laici e si compone dovendo rivolgersi ad un pubblico laico, o signorile o poco colto, adotta il linguaggio che quel pubblico conosce: cioè il linguaggio volgare. Il primo volgare ad essere nato nelle composizioni letterarie fu quello d’oil (per le chanson des gestes e per les romans).

   Per la seconda venne adoperata la lingua d’oc (per composizioni liriche), quindi entrò nel campo letterario anche l’italiano, la lingua spagnola (per le romances).

E infine entrò nel campo della letteratura anche l’italiano all’inizio del secolo XIII, ad opera dei siciliani.

   A noi interessa soprattutto il volgare italiano. Nel corso del secolo XIII ogni scrittore componeva nel volgare italiano dialettale che egli parlava, sforzandosi di perfezionarlo alla luce del latino dotto che, salvo gli scrittori più umili, i compositori in genere conoscevano abbastanza bene.

   Dante per la prima volta si propose il problema dell’unità linguistica in Italia. Egli pensava che esistesse una lingua comune in Italia ed è quella parlata dalle persone colte negli ambienti culturalmente più elevati. Perché questa lingua delle persone colte ha vocaboli e forme quasi comuni comunque? Perché tutte le persone colte conoscono  il latino dotto ossia hanno raffinato il dialetto alla luce del sermo doctus? Che cosa vuol dire  affinare un dialetto? Vuol dire conservare del dialetto i termini che si ritrovano in detto vocabolario e sostituirli – con termini dedotti da esso – eliminate le imprecisioni e le approssimazioni nel campo della grammatica e della sintassi, articolando i vocaboli e i periodi in modo da rendere con chiarezza il pensiero nel suo complesso e nelle sue precisazioni particolari.

   Questo lavoro di affinamento, secondo Dante, era stato compiuto in modo lodevole dai siciliani, non in modo tale però che la loro lingua si prestasse pienamente alla esigenza della composizione tragica.

   È per questo motivo che egli preferisce il volgare delle persone colte di tutta Italia che ritiene più ricco, ad un volgare unico, affinato dall’opera di un solo gruppo di scrittori.

La soluzione di Dante non ebbe applicazioni pratiche perché per renderla applicabile sarebbe stato necessario compilare un vocabolario, una grammatica e una sintassi di quel volgare parlato dalle persone colte di tutta Italia.

   Ma ciò non fu fatto; e la soluzione si venne determinando spontaneamente, in forza dei fatti stessi. Il dialetto infatti può diventare lingua nazionale per uno di questi tre motivi: o per la preminenza politica della regione in cui esso viene parlato, ho per concorde decisione degli intellettuali della regione, o per la preminenza degli scrittori che all’inizio della storia della letteratura nazionale hanno adoperato quel dialetto. In Francia ad esempio su tutti i dialetti prende il sopravvento quello dell’Ile de France, per la preminenza politica che questa regione esercitò su tutto il territorio nazionale fin dai primi tempi della storia francese. In Italia fu la Toscana che fin dal Medio Evo raggiunse la preminenza dal punto di vista letterario, su tutte le altre regioni, ad opera di Dante, Petrarca e Boccaccio. Siccome questi tre autori furono letti in tutta Italia e da tutti furono considerati come maestri, la lingua Toscana si affermò in tutti gli ambienti colti della nazione. Alla fine del ‘400 e  agli inizi del ‘500 la questione della lingua si impose nuovamente: allora il Bembo affermò che in Italia esisteva di fatto una lingua unica; quella Toscana era del ‘300, in quanto gli italiani l’avevano presa da tre grandi maestri preferiti: Dante, Petrarca e Boccaccio. Secondo il Bembo dunque, essendosi il dialetto toscano affermato su tutti gli altri, la lingua degli scrittori italiani sarà quella Toscana, e precisamente quella degli scrittori toscani del ‘300.

   Ragionevole è questa soluzione da un punto di vista di concretezza, in quanto propone una lingua che è realmente conosciuta da tutte le persone colte italiane e tiene quindi conto di un fatto storico completo.

   Tuttavia presenta il difetto della fissità, in quanto viene proposta come modello una lingua delimitata dentro confini storici assoluti – la lingua degli autori toscani del ‘300 dovrebbe servire per tutte le generazioni, il che è assurdo in quanto, essendo la lingua un mezzo convenzionale con cui gli uomini esprimono i loro pensieri i loro sentimenti ed essendo le generazioni umane in continua evoluzione, anche la lingua necessariamente deve evolversi.

   Contro la teoria del Bembo, il Trissino afferma che la lingua italiana è quella che parlano le persone colte della penisola. La soluzione del Trissino è identica a quella data dall’Alighieri.

Il medesimo Trissino tradusse e commentò il De vulgari eloquentia. La tesi del Trissino ha il pregio di proporre una lingua viva, ma ha il difetto di proporre una lingua che non è veramente unitaria e quindi è difficile a individuarsi e raccogliersi. È ebbe il sopravvento la teoria del Bembo che fu sostenuta dal gruppo poderoso geniale degli scrittori toscani del tempo (Machiavelli, Varchi, Nardi,ecc. ). Alla fine del secolo XVI l’accademia della Crusca di Siena e iniziò la compilazione del vocabolario omonimo desumendo le voci dalle opere di Dante, Petrarca e Boccaccio.

   Il vocabolario della Crusca fu  considerato come codice infallibile della lingua per tutto il ‘600 e fino alla metà del ‘700 quando l’Accademia dei Pugni di Milano proclamò decaduto il linguaggio antico e propose il l’uso della lingua viva delle persone colte, rinforzata da termini stranieri e da termini creati ex novo dalle persone di genio.

   Fra i demolitori della Crusca e i sostenitori della sua integralità assoluta tennero una via di mezzo i Trasformati di Milano, i quali proposero che il detto vocabolario, pur restando sostanzialmente lo stesso, fosse aggiornato con  l’eliminazione di termini andati in disuso e l’aggiunta di termini desunti dalle opere dei toscani del ‘500.

   Il Romanticismo, propugnando una letteratura viva e moderna nel modo più integrale, propone l’uso della lingua viva, non escluse le forme della lingua familiare. Il Manzoni, seguendo un indirizzo moderato che ebbe nel problema linguistico, affermò che la lingua italiana è quella delle persone colte fiorentine: infatti la lingua fiorentina praticamente è conosciuta in tutta Italia in forza della preminenza degli scrittori toscani su quelli delle altre regioni.

   Tuttavia, siccome per sua natura la lingua è sempre viva, è necessario sostituire il fiorentino trecentesco, ormai morto e di inadatto ad esprimere la portata della spiritualità moderna, con il fiorentino vivo, e precisamente come quello delle persone colte, essendo quello del popolo assai più povero di esso.

   La teoria del Manzoni ebbe la sua applicazione pratica ad opera del Ministero della Pubblica Istruzione che ordinò in tutte le scuole l’insegnamento della lingua fiorentina viva.

Furono compilati vocabolari grammatiche e sintassi di questa lingua e così essa diventò comune a tutti gli scrittori italiani.

Oggi non si può più parlare di lingua viva delle persone colte fiorentine, essendo questa diventata da vari decenni lingua nazionale. E la lingua nazionale ora procede lungo la sua evoluzione, prescindendo ormai dal fiorentino: per cui oggi nella scelta di un vocabolario non si guarda se sia o no in uso solo presso le persone colte di Firenze, ma se sia in uso  nel mondo intellettuale dell’intera nazione.

 

Le espressioni della letteratura romanza in volgare.

     La prima letteratura in volgare fu quella della lingua d’oil o fran­cese che fiorì nei secoli XI° e XII° nella Francia del Nord per opera dei “trovieri”. Le opere scritte in volgare francese sono, in maggior parte, composizioni narrative che, o trattano delle imprese dei paladini di Car­lo Magno, o dei cavalieri del re Artù, o degli eroi classici trasformati in cavalieri medioevali, o delle virtù o dei vizi simboleggiati in uomi­ni, in animali o in piante.

   Ciascuno di questi argomenti è svolto non in un componimento solo, ma in svariati episodi. Varie composizioni che si ispirano ad uno stesso argomento costituiscono un ciclo. Sorgono così in Francia il ciclo Carolingio, il ciclo Bretone, quello dei cavalieri antichi e quello morale.

1 – Ciclo Carolingio.

   Le composizioni di questo ciclo narrano in opere epico-liriche le im­prese di Carlo Magno e del popolo francese in difesa della patria e della fede. A fianco di Carlo e alla testa dei combattenti francesi operano i “Paladini”, ossia gli alti ufficiali del suo palazzo (‘paladino’ deriva da ‘comitem palatium’ = conte palatino).

   Le imprese narrate sono collettive e quindi epiche: ma sull’azione della massa spicca l’eroe o il paladino. Le imprese sono contro gli infedeli aiutati dal demonio. Carlo Magno doveva figurare sempre vittorioso e se talvolta la storia riferisse delle sconfitte la colpa sarà di un paladi­no    traditore o del demonio. Gli ideali per cui si combatte sono la pa­tria e la fede. Il tono della narrazione è serio e rivela che i compo­sitori sono convinti dell’alto ideale che esaltano;  i paladini sono ammi­revoli per spirito religioso e patriottico, per spirito di sacrificio nel compimento del dovere, per lealtà in tutte le loro azioni: l’imperatore Carlo è uomo saggio e venerando,  ottimo capo civile e militare nella Cristianità.

2- Ciclo Bretone.

   Narra le imprese dei cavalieri della Bretagna, capeggiati dal re Artù: i cavalieri sono nobili militari a cavallo che si impegnano con giuramento a difendere i deboli, gli oppressi e la Chiesa. Il cavaliere in genere è innamorato di una dama, e affronta le imprese più rischiose perché lei lo desidera e perché vuol rendersi degno di essere da lei corrisposto.

   Le imprese narrate sono avventure individuali che il cavaliere affronta per dimostrare le sue capacità eroiche, per rispondere lealmente agli im­pegni assunti nel giorno della sua consacrazione e per guadagnarsi la stima e l’amore della sua dama. Le avventure cavalleresche sono spesso ab­bellite e rese più meravigliose dal magico e con l’introduzione delle forze soprannaturali ( incantesimi,     operazioni strabilianti compiute da forze soprannaturali, divine o diaboliche). Il tono di questo ciclo è signorile, appassionato ed eroico: si notano una vivacità ed una spiglia­tezza che rivelano una maggiore cultura e abilità dei compositori. Le narrazioni cavalleresche ebbero il nome di “romans” perché furono scritte in lingua romanza o in volgare, precisamente in volgare d’oil o francese.

   Nei secoli XI° e XII° si usava ancora comporre in latino e quindi gli autori delle narrazioni cavalleresche usando per la prima volta il volgare, si sentirono in dovere di chiamare i loro canti  ‘romanzi’ in forza appunto della lingua adottata (in seguito, anche quando si cessò di narrare avventure cavalleresche, ogni composizione di ispirazione avven­turosa e ricca di spunti sentimentali e fantastici, fu detta romanzo non più per il motivo della lingua, ma del contenuto assai simile a quello dei primi romanzi).

3- Ciclo dei cavalieri antichi.

   Narra le imprese di eroi del mondo classico (particolarmente di Enea e di Ettore) trasformati in cavalieri del Medio Evo La letteratura dell’Eneide e dell’Iliade spinse alcuni letterati a rielaborare,   secondo la mentalità moderna, la vita e le imprese degli eroi che ammiravano in quei gloriosi poemi; gli anacronismi sono spesso ridicoli, ma lo spirito patriottico e l’amore della famiglia sono spesso commoventi. Il tono è ora eroico, ora familiare, ma riflette sempre l’ ammirazione che il compositore sente per i personaggi che descrive.

4- Ciclo morale.

   E’ una descrizione con tono spesso satirico dei vizi e degli inganni a cui si trova esposta la virtù,  simboleggiando il bene e il male nei costumi di certi animali. Il fine che i propositori si proponevano era quello di mettere in ridicolo alcune forme di vita proprie di perso­ne che, dopo essersi impegnate a professare la virtù, troppo facilmente vengono meno ai loro propositi:  talvolta la finalità satirica esula com­pletamente: ed allora si esalta la conquista della virtù realizzata attraverso il sacrificio e la costanza. Quindi i romanzi morali o hanno tono vivacissimo e malizioso,  o, un pò più raramente,  assumono il tono serio e solenne dei poemetti didattici.

Le principali composizioni dei quattro cicli.

      1.  Il ciclo carolingio comprende canzoni di gesta relative alle imprese di Carlo nelle varie parti in cui egli combatté per la fede:  imprese in Spagna che hanno ispirato fra l’altro la famosa “Canzone di Rolando“; imprese in Italia in cui abbiamo fra l’altro la “Canzone d’Aspromonte”; imprese in Palestina di cui è famosa la canzone “Il pellegrinaggio a Gerusalemme”;  imprese contro i Sassoni,  rievocato particolarmente dalla “Canzone dei Sassoni”. Complessivamente si tratta di un gruppo di 95 canzoni. I romantici credettero che autori delle  ‘Chansons’ fossero poeti popola­ri,  sorti su dalla massa come espressione naturale della comune spiritua­lità religioso-patriottica:  oggi si inclina a credere che le canzoni di gesta siano state composte da poeti di una certa cultura,  e precisamente da chierici delle Chiese disseminate lungo le vie dei grandi pelle­grinaggi, e precisamente lungo le vie che portavano a S. Giacomo di Compostella in Spagna,  a Gerusalemme,  a Roma. In quelle chiese che erano luoghi di tappe per i pellegrinaggi, venivano conservati i corpi di san­ti o di eroi; e i monaci dei conventi  annessi a tali chiese illustrava­no, in composizioni scritte in volgare, la vita e le imprese dei santi e degli eroi di cui essi custodivano i corpi ed offrivano ai pellegrini le loro canzoni.

Ciò avvenne particolarmente alla fine del secolo XI° quando fu ripresa la lotta contro l’islamismo con la prima crociata e quando riarse in Spagna la lotta contro gli Arabi (1064 – 1120).  Allora la figura del grande Carlo e quelle dei suoi paladini furono presentate ai fedeli chiamati a combattere contro l’Islam,  come esemplari di fedeltà a Cristo e alla Patria. Da qui si spiega il tono serio e convinto delle canzoni ed anche l’abile tessitura di alcune di esse che rivelano una cultura di certo superiore a quella di un giullare qualsiasi. Siccome i destinatari di queste canzoni sono persone del popolo e dovevano suscitare l’entusiasmo religioso e patriottico nelle masse,  è chia­ro che i compositori,  invece di scrivere in lingua latina,  come si era soliti fare allora, preferirono usare il volgare.

     2. Il ciclo bretone comprende tutti quei romanzi che narrano le avventure di Artù, capo di un gruppo di cavalieri che svolsero le loro imprese nelle Francia del Nord o dell’Inghilterra.  Cristiano di Troyes compose due famosi romanzi: “Ivain” e “Lancilot”; altri romanzi sono: “Tristano ed Isotta” e “La tavola rotonda”e “Percival”. I personaggi più famosi sono:  Artù, Lancilotto, Ginevra,  Tristano, Isotta, Galeotto, Percival. Il mondo a cui questi personaggi appartengono è schiettamente aristocratico, o il loro stile rivela finezza cavalleresca e sensibilità affettiva, le avventure sono quasi sempre ispirate da un motivo amoroso, e rivelano che i compositori hanno mirato ad offrire dei piacevoli libri di lettura ai cavalieri e alle donne delle fiorenti corti del tempo. Nel secolo XII, cioè quando furono composti i romanzi, la Francia del nord aveva vivo spirito cavalleresco a causa soprattutto delle crocia­te;  fu dalla Francia del Nord che partirono i più gloriosi condottieri della seconda crociata.

   La cultura si veniva diffondendo anche nel mondo laico, ed anche le donne si compiacevano di cultura. Maria di Champagne fu in quel tempo la donna più generosa verso i Lancilot. Fu pure una donna Maria di Francia che compose i famosi “Lais” di ispirazione amorosa e sentimentale. Non ci meraviglia perciò trovare nei romanzi una spiritualità assai li­bera, talvolta passionale, ma sempre fine e leale.  Il linguaggio è assai elaborato e specialmente con Cristiano di Trojes, presenta anche forme artificiose. Nel complesso il ciclo Bretone si può definire il ciclo del mondo cavalleresco aristocratico della Francia medievale e come ta­le piacque alle corti nello varie regioni d’Europa. Anche in Italia nel corso del secolo XIII si diffondono i romanzi bretoni specie i tre seguenti: Tristano ed Isotta, Lancilotto e Ginevra, la tavola rotonda.

     3. Il ciclo dei cavalieri antichi comprende tutti quei romanzi che elaborano le leggende classiche specialmente del ciclo troiano. L’autore più famoso è Benedetto Di Saint Maure il quale compose:  “Il romanzo di Enea, di Tebe, di Troia”;  da ricordarsi anche l’ “Infanzia di Ettore”.

   Certamente i compositori furono esperti delle leggende classiche, ammiratori dell’eroismo antico ed entusiasti nello stesso tempo dello sti­le cavalleresco moderno:  solo così si spiega infatti come nelle loro composizioni abbiano trasformato in eroi medievali vecchi eroi classici. Quindi è da supporre che tali romanzi siano sorti in ambiente dotto e nelle stesso tempo aristocratico.

4- Il ciclo morale comprende tutti quei romanzi che espongono sotto forma di favola, i principi e i giudizi morali e insegnano verità filosofiche e scientifiche. La composizione più notevole e più antica di questo ciclo è “Le romans de Renard”; ma più recente è “le romans de la Rose” di Meune. A queste composizioni si possono aggiungere quelle numerosissime di Fabbians o Favolelli,  che hanno ispirazione e tono comico-satirico. I romans sono sorti in ambiente dotto ecclesiastico, i favolelli in ambiente dotto laico perché   rivelano una morale spregiudicata, e satireggiano i costumi degli ecclesiastici.

Conclusione

   La prima letteratura in volgare quindi ci offre esemplari di ispira­zione morale, religiosa, patriottica, da un a parte,  cavalleresca e mon­dana dall’ altra. Non si può certo affermare che le composizioni di ispira­zione profana siano prive di motivi morali e religiosi, ma non si può neanche nascondere che qualche passo dei romans bretoni,  specie del Lan­cilotto, invece di favorire l’educazione morale dei lettori, contribuisce ad alimentare le passioni. E’ per questo che Dante nel canto V dell’infer­no addita come provocatore dell’adulterio il detto romanzo di Cristiano da Trojes. Tutte le composizioni dei vari cicli inoltre rivelano spontaneità di ispirazione e tentativi di creare un linguaggio vivo e fine.

LA SCUOLA PROVENZALE.

      Una scuola poetica è costituita da un gruppo di poeti che si ispira­no presso a poco agli stessi pensieri e sentimenti, e fanno uso dello stile fondamentalmente comune. La scuola provenzale è costituita da un gruppo di poeti lirici in lingue d’oc fioriti nella seconda metà del se­colo XII nelle varie corti della Francia meridionale. I trovadori (così sono detti i poeti in lingua d’oc) sono cavalieri che vivono nelle corti feudali della Francia del sud ed ornano con il loro stile di vita fine e gentile e con la loro attività letteraria gli splendidi ambienti signori­li. Li potremo definire “cavalieri della penna” o “dell’amor fine” esal­tato in rime gentili ed eleganti. Nel secolo XII non v’è corte feudale sia in Francia che altrove, che non accolga il progresso della civiltà, la cui essenza è sintetizzata nella mentalità dello stile cavalleresco: solo nei castelli sperduti in luoghi inaccessibili delle zone montagnose si mantiene un costume rozzo primitivo; ma, ovunque la civiltà è penetrata, i primi ad accogliere le forme di una vita più serena e più decorosa sono gli aristocratici della classe sociale. Numerosi perciò anche presso i vari principi della Francia del sud sono i cavalieri poeti chiamati ad ornare con la loro fine arte la vita della corte. Nell’ambiente corti­giano il personaggio più autorevole è certo il conte,  o il marchese, ma il personaggio più ammirato è la dama,  consorte o figlia del marchese. Il compito del cavaliere poeta è quello di esaltare tutto ciò che fa parte dell’ambiente aulico; la dama che per il suo sesso e per le sue doti par­ticolari,  riassume quanto di più aristocratico offre la corte,  costituisce perciò il soggetto preferito dell’ispirazione del trovadore. L’amore è dunque il motivo più comune nella lirica provenzale,  e dell’amore furono i principi fondamentali in una specie di codice che fu detto appunto “codi­ce d’amore” (31 art.).

   Non mancarono tuttavia composizioni liriche di ispirazione civile, re­ligiosa e morale. Le composizioni presentano quasi tutte la forma metrica della canzone la quale,  allorché è destinata ad illustrare concetti poli­tici e ad esaltare un personaggio illustre viene detta ” sirventese”. Non mancano lo “albe”  (di ispirazione amorosa, sessuale) e le “sestine”  (la sestina fu forse inventata da Arnaldo Daniello).

Concetti fondamentali a cui si ispirano i trovadori

A. Concetto dell’amore: l’amore è sensibilità,  ammirazione, devozione per la bellezza: non è affetto vero e proprio, ma capacità di percepire il bello e bisogno intimo di cantarlo. Si potrebbe definirlo amore fine, ossia capacità di percepire, ammirare,  cantare le cose fini.

B. Concetto di cuore gentile: è chiaro che l’amore inteso così, si trova solo in un cuore educato al gusto e al culto della finezza e, siccome tale educa­zione l’hanno solo i cavalieri e i nobili in genere, il cuor gentile, in cui suol nascere amore, è la stessa cosa che cuor nobile o aristocratico o cavalleresco.

C. Concetto della donna:  la donna dai trovadori è la sintesi di tutte le finezze ammirate nel mondo aristocratico e cavalleresco, le sue forme fisiche ci riassumono i pregi della stirpe da cui lei discen­de. Preferisce non esporsi al pubblico quasi a dare a questo la sensazio­ne della sua superiorità;  e per acuire al trovadore l’ansia di conoscerla si mostra di rado e ci sfuggita in atteggiamenti che colpiscono per eccel­lenza di gusto e di grazia.

   I pregi della donna sono dunque costituiti,  oltre che da quelli fisici, anche dall’eleganza dell’abbigliamento, della finezza del parlare, dall’incedere decoroso, dal sorriso e dal guardare, dai frequenti disdegni  con i quali investe coloro che non sono in condizione di so­stenere la sua presenza o per volgarità o per inesperienza. E’ chiaro che, intesi l’amore e il cuor gentile al modo che si è detto, la donna non poteva essere che la sintesi dell’aristocratismo aulico.

      D. Concetto dei rapporti fra amante e madonna: non si tratta di rappor­to vero e proprio; il poeta è al servizio di una bellezza e questa si compiace di essere servita pur senza manifestare le sua compiacenza. Il poeta si impegna con tutte le energie a meritare un certo condiscendente dalla signora; ma questa, quasi temendo di venir meno alla sua dignità e di sminuire il concetto sublime che il cavaliere ha di lei, si rende invisibile e assume un compassato atteggiamento di dama venerata. Io stesso rapporto che passa tra il suddito e il suo signore intercorre fra la dama e il cavaliere. Nel linguaggio della poesia provenzale “amore” è espresso col termine”servir” ossia l’amore è servizio cavalleresco, im­pegno di cuor gentile verso la bellezza. La donna viene chiamata “midons” termine con cui il suddito si rivolge al suo signore feudale. L’impegno che il cavaliere si assume è quello di omaggiare cioè di rendere in poe­sia quell’omaggio alla bellezza che il suddito rende nei rapporti socia­li al signore. Insomma si rispecchia nei rapporti tra il poeta cavaliere e la dama, il sistema dei rapporti che intercorrevano fra signori e sud­diti nel regime feudale. E’ spiegabile, perciò come predomini   nell’animo del cavaliere il desiderio di rendere omaggio nel miglior modo, perché egli tenti i più ingegnosi artifici, perché egli per quanto rivela alla dama i suoi desideri di sensualità velati di aristocratismo, assuma at­teggiamenti di inferiorità. Perciò eccetto alcuni pochi poeti i quali sono ispirati da sentimenti vivi, in quasi tutti i poeti provenzali so­no artificiosamente creati e artificiosamente espressi.

   E. Concetto degli effetti dell’amore: il cavaliere innamorato, cioè il cavaliere che volontariamente si è assunto il compito di servire, ha il dovere di servire degnamente. Quindi l’amore lo spinge a perfezionare sempre più il suo stile esteriore cioè il suo portamento e il suo linguaggio, e il suo modo di pensare e di sentire,  adeguandolo alle forme più peregrine del vivere aristocratico. L’amore è quindi fonte di perfezione, ma si tratta di una perfezione puramente umana, e che spesso è accompa­gnata da aspirazioni morali poco approvabili.  Si può dire infatti che l’amore dei provenzali abbia come oggetto normale la dama sposata, ed è per questo motivo che la chiesa si allarmò al fiorire di questa poesia.

Forma della poesia provenzale.

   E’ una forma astratta e spesso elencativa;  ossia quando parlano della dama,  o esprimono a lei i loro omaggi di elogi,  i poeti non ci presentano una figura concreta di donna, ma espongono soltanto i pregi di lei in mo­do che alla fine il lettore si trova di fronte a un elenco di lodi ma non vede “midons”. Essendo tutta l’ispirazione studiata e non sensitiva, manca la spontaneità, cosicché si trova, raramente, un quadro di vita o uno stato d’animo realmente vissuto dal poeta.  Compassata l’ispirazione in for­za della disciplina dello stile mentale, compassato anche il modo con cui l’ispi­razione viene sviluppata ed espressa.

II linguaggio della poesia provenzale.

     Sebbene la poesia trovadorica fiorisca oltre che in Provenza anche in Aquitania e in Linguadoca, l’idioma di cui si servono i trovadori è sem­pre quello provenzale. Essendo i compositori anche molto esperti nel lin­guaggio latino è chiaro che la lingua dei poeti è pura da forme dialetta­li: si tratta insomma di una lingua d’oc dotta e aulica. Avviene però spesso che i trovadori non potendosi differenziare tra loro per l’ispira­zione in quanto è modellata sugli stessi principi, tentino di differenzi­arsi nel linguaggio e nelle forme metriche, vi è quindi una specie di gara tra di essi nella ricerca di espressioni più nuove e più complicate; ed alcuni, per affermarsi,  creano espressioni linguistiche così che diffi­cilmente di esse si intende il significato: sono i cosiddetti poeti del “Trobarelus”.

   In conclusione i provenzali per finezza di linguaggio e per abilità di tecnica compositiva furono considerati come maestri di poesia lirica da letterati di varie regioni dell’Europa centro occidentale.

I più illustri compositori provenzali.

    Il più famoso fra i più antichi trovadori è Mareabruz: poeta che preferì all’ispirazione amorosa, quella morale e spesso religiosa; Bertran de Bom autore di molti “sirventesi” pieni di passione civile e di spirito bellicoso; Arnaldo Daniello (ricordato da Dante nel canto XVI° del Purga­torio) poeta elegantissimo o soave; Rambaldo di Vaqueiras che si dilettò di interpretare anche i sentimenti amorosi della gente umile e del popolo; Jufrè Rudel principe e poeta famoso per la leggenda sorta intorno a un suo amore per una donna lontana,  cioè per Melisenda, regina di Tripoli di Siria (leggenda elaborata dal Carducci in”Jufrè Rudel”). Falchetto da Mar­siglia nativo di Genova, ma vescovo di Marsiglia, autore di liriche amo­rose prima della sua assunzione al vescovado,  e di liriche religiose e morali dopo l ‘elezione.

Non in Francia soltanto troviamo compositori in lingua d’oc, ma an­che fuori di essa;  in Italia ad es. è famoso Sordello da Goito di cui è ricordato un sirventese scritto per la morte di Ser Blacatz (principe no­to per la sua generosità, del cui cuore Sordello incita a rifarsi i princi­pi europei affinché imparino ad essere anche essi generosi); Dante presen­ta Sordello nel canto VI° del Purgatorio quale simbolo di amor di patria e di magnanimità morale.

Conclusione.

    I trovadori rappresentarono nel secolo XII° e nei primi anni del secolo XIII° gli esemplari della poesia lirica fine ed aristocratica, legata ancora alla mentalità, allo stile di vita del mondo feudale. Furono in genere buoni tecnici di linguaggio, ma raramente seppero esprimere visioni concrete di bellezza o stati d’animo veramente vissuti e tanto meno situazioni psicologiche la cui sostanza interessasse gli uomini di tutti i tempi: la poesia trovadorica è più espressione di una società e di un cos­tume che dell’anima umana colta nelle sue aspirazioni sincere, nelle sue crisi, nella gioia delle sue conquiste; tuttavia come poesia di cavalieri cortigiani ossequienti ed eleganti, ha i suoi pregi, almeno formali, e la sua importanza storica.

LA SCUOLA SICILIANA.

  E’ un gruppo di poeti che compongono liriche d’amore in volgare italia­no (e precisamente in dialetto siciliano raffinato e colto) e che fanno capo alla corte di Federico II di Svevia, residente in Palermo, durante il primo cinquantennio del secolo XIII°.

   I poeti della scuola siciliana non sono tutti nativi dell’isola (ad es. Pier Della Vigna è di Capua, Rinaldo è d’Aquino,  Giacomino è della Pu­glia), ma siccome il regno di Svevia di Federico II com­prendeva non solo la Sicilia, ma anche l’Italia meridionale,  tutti gli ingegni migliori delle due terre concorrevano a Palermo che era la glo­riosa capitale.

   Federico II nipote di Federico Barbarossa e figlio di Enrico VI di Svevia, era nello stesso tempo imperatore del Sacro Romano Impero e del vecchio dominio normanno, cioè delle due Sicilie.  Influenzato dalle dot­trine giuridiche del vecchio mondo classico professate dai molti giuris­ti che erano alla corte, egli si propose di organizzare il suo regno, secondo il concento della sovranità, proprio del diritto romano;  cioè sottopose al controllo degli uomini le attività delle varie zone sog­gette alla sua giurisdizione. Formò così uno stato forte, ben controlla­to, fiorente per commerci o ricchezza ed anche per attività intellettua­li. Nella prima metà del secolo XIII Palermo fu certo la città più famosa d’Italia e Federico era noto non solo per la sua attività politica, più o meno disgraziata, secondo i momenti, ma anche per il suo ingegno e per la sua generosità verso gli uomini colti.

   Nei primi due decenni del secolo XII tramonta la scuola provenzale,  sia perché i motivi e le forme ormai si sono esauriti, sia perché, dopo la sconfitta degli Albigesi e dei feudatari che li appoggiavano, inflitta loro dall’esercito della Francia del Nord, venne a mancare ai trovado­ri protezione ed appoggio. Esauritisi i cicli francesi e la lirica trovadorica, gli intellettuali italiani guardarono a Palermo come al centro della cultura. Gli intellettuali della corte Sveva in genere sono giu­risti e quindi la loro spiritualità è troppo positiva e razionale per adeguarsi alle esigenze della poesia che richiede sì vigore di pensie­ro, ma anche vivacità di sentimenti e capacità fantastica, ed infine buona conoscenza della tecnica dell’espressione linguistica. Non mancano tra i siciliani poeti  spontanei e vivaci, ma sono pochissi­mi e non appartengono mai alla classe dei giuristi.

Caratteristiche della Scuola Siciliana.

    A. E’ una scuola di imitazione nel senso che quasi tutti i poeti che ne fanno parte si ispirano a concetti ed a atteggiamenti già comuni nella scuola provenzale. Anche l’amore dei Siciliani infatti è un”servir fine” in quanto è omaggio di persone colte ed esperte delle cortesie auliche ad una donna aristocratica e nota nel circolo della reggia. Cuor gentile,  è anche per i Siciliani cuore sensibile alla bellezza: è sensibile perché aristocratico. Anche la donna è un tipo astratto di per­fezione aristocratica. Anche i rapporti fra amante e amata sono rapporti di inferiore e superiore. Anche gli effetti dell’amore sono riassunti in un’ansia di raffinamento senza sosta. Le forme dei Siciliani come quelle dei trovadori sono in genere elencative-astratte: il poeta non rappresenta la donna viva e concreta ma solo di tanto in tanto, con sostantivi, aggettivi peregrini e frasi studiate,  tenta di definire i pregi esterni ed interni di lei, quando poi parla di sé,  cioè del suo stato d’animo, dice con parole quello che egli sente ma non rappresenta mai direttamente e concretamen­te il suo mondo interiore: ad es. ci dice che egli soffre ma non sa pre­sentare sé stesso come sofferente; ci dice che egli rimane abbagliato dalla finezza della donna, ma non sa presentare sé stesso estasiato di fronte alla bellezza. Insomma molte parole, ma poche visioni complete, o meglio concrete;  sa che il linguaggio è influenzato dal gusto dell’ar­tificio già notato nei provenzali: contrasti di concetti,  contrasti di parole, equivoci (uso della stessa parola con significato diverso), allitterazioni che rivelano l’aspirazione di apparire ingegnosi ed abili.

       B. E’ una scuola di impronta italiana: infatti per quanto presentino gli

stessi atteggiamenti generali della poesia trovadorica, le composi­zioni siciliane hanno qualche cosa di particolare, di caratteristico che le fa riconoscere italiane. Infatti pur restando l’atteggiamento psicologico tale quale era nei Provenzali,  tuttavia i Siciliani intro­ducono qualche motivo più vivo, assumono qualche tono più confidenziale, sono insomma meno compassati e più spigliati. Stati d’animo spontanei, benché non elaborati profondamente alla luce di ideali religiosi, mora­li, umani vengono espressi con immediatezza specie dai poeti che pur facendo parte della scuola siciliana, ebbero tuttavia limitati rapporti con i giuristi e i poeti di Palermo e precisamente da Giacomino Pugliese e da Rinaldo d’Aquino. Qualche tentativo di elaborare filosoficamente il concetto dell’amore è proprio dei giuristi poeti, ma si tratta di saggi senza impegno. Nel complesso la nostra poesia siciliana manca di concretezza,  vitalità affettiva, efficacia rappresentativa.

Importanza storica della scuola siciliana.

   Dal punto di vista artistico dunque la produzione dei Siciliani ha un valore molto limitato: grande importanza invece essa ha dal punto di vista storico e linguistico: infatti la scuola siciliana rappresenta la prima espressione di poesia colta in volgare italiano. Fino ai Sici­liani vere e proprie composizioni in volgare italiano non si erano mai avute. Il volgare era stato adoperato solo in documenti commerciali o in iscrizioni destinate ad essere conosciute da tutto il pubblico. Le composizioni vere e proprie poetiche o no, erano state scritte in lingua latina medioevale. I Siciliani sono dunque i primi che usano il volgare italiano per esprimere in forma elegante il loro stato d’animo, più o meno poetico e per realizzare le loro velleità artistiche.  Il volgare di cui essi fanno uso è il dialetto siciliano, nelle sue forme popola­resche, ma modellato il più possibile alla lingua latina dotta di cui erano espertissimi. Da questa elaborazione del dialetti risulta un lin­guaggio così fine e così superiore alle forma grezze dalla parlata popo­laresca che Dante nel “De volgari eloquentia” esprimerà la sua incondi­zionata ammirazione per la sapienza linguistica dei Siciliani e antepor­rà questi ai poeti della Toscana. L’idioma siciliano è definito da Dante aulico cioè idioma in uso noll’ambiente aristocratico e gentile della corte: “videtur sicilianum volgare sibi famam prae aliis ascisere, eo quod quidquid poetantur Itali sicilianum vocatur,  et eo quod perplures doctores indigenos invenimus graviter cecinisse”. I Siciliani dunque hanno avuto il merito di aver elaborato per primi la lingua letteraria italiana. Tuttavia non essendo riuscita la loro opera ad imporsi ai let­tori italiani, per mancanza di vera e propria ispirazione poetica, de­finire la nostra lingua nazionale spetterà a scrittori che sapranno uni­re insieme ispirazione profonda e viva, forma complessa e originale, lin­guaggio chiaro e ricco,  cioè gli scrittori toscani del secolo XIV°.

Scrittori della scuola siciliana.

    Li possiamo distinguere in due gruppi: poeti imitatori e freddi notevoli solo per una cerva eleganza di linguaggio: Federico II, il re Enzo e Man­fredi, figli di Federico, Pier della Vigna,  Jacopo da Lentini; e poeti che pur uscendo fuori dall’ambiente spirituale della scuola, tuttavia dimostrarono più vivacità e spontaneità: Giacomino Pugliese, Rinaldo d’Aquino, Oddo delle Colonne.

Tramonto della scuola siciliana.

     Nel 1250 mori Federico II; nel 1266, a Benevento, in una battaglia contro Carlo d’Angiò morì Manfredi: la Sicilia e l’Italia meridionale passarono sotto il dominio angioino;  e così il circolo degli uomini col­ti che era fiorito intorno agli Svevi si sciolse e scomparve. L’eredità della poesia detta siciliana passa agli uomini colti della Toscana, che nella seconda metà del secolo XIII° è la regione più libera, più agiata, più civile.

Scuola sicilianeggiante in Toscana.

       Nella seconda metà del secolo XIII°, mentre si spegne la scuola sici­liana, incomincia a fiorire la poesia in Toscana. Guittone d’Arezzo e Bonagiunta Urbicciani da Lucca, seguiti da un disc­reto numero di discepoli, costituiscono una scuola poetica detta dei “Sicilianeggianti” in Toscana.

Il motivo preferito da questa poesia è ancora l’amore; interpretato se­condo la mentalità e lo stile dei Siciliani ma con tentativi di elabora­zione filosofica. E poeti Toscani non sono giuristi, ma, in genere, cultori di filosofia e di lettere, e quindi è naturale che abbiano questa tendenza alla  ispirazione filosofeggiante. L’amore, più che frutto di sensibilità cavalleresca, è da essi concepito come una esigenza della natura umana che va in cerca del bello e del bene, ma nelle composizioni questo modo istintivo dello spirito verso il bello e il bene non viene rappresentato in forme concrete,  perché la poesia viene concepita come settore del più vasto campo della filosofia.

   La forma è dunque raziocinante, non ancora rappresentativa, molte parole, generosi tentativi di spiegazioni dotte, ma pochissima vita e pochissimo sentimento. La lingua è il dialetto toscano modellato sul latino dotto (non quelle classico ma quello medioevale). Guittone d’Arezzo capo dei sicilianeggianti, fu da Dante giudicato molto severamente a proposito della lingua, in quanto il suo latineggiare riuscì soltanto a confondere e non ad elevare il dialetto toscano. E difatti, almeno la lingua di Guittone in molte composizioni è veramente aspra ed oscura.

Autori della scuola sicilianeggiante.

      Guittone d’Arezzo.

La sua produzione si può distinguere in due parti: liriche composte prima della conversione religiosa, liriche dopo la conversione religiosa. Le prime sono ispirate al motivo dell’amore    interpretato in senso tra filosofico-scolastico e cavalleresco. Sono, svolgimenti generici, fioriti di artifici linguistici che rivelano pedanteria. Le seconde, invece,  sono di ispirazione morale o civile e sono più ricche di sentimento, perché più concrete ed anche stilisticamente più chiare. Da ricordare la famosa canzone “A Firenze dopo la dis­fatta di Montaperti”.

   Bonagiunta Urbicciani da Lucca.

E’ poeta meno complicato; meno artificioso di Guittone, chiacchiera meno, è più originale e sente con una certa commozione la bellezza.

POESIA POPOLARE.

    La poesia popolare è quel complesso di composizioni che si ispirano a pensieri e a sentimenti del popolo mediocre e di poca cultura, e li esprimono senza alcuna elaborazione complessa, artificiosa o profonda di carattere religioso, morale o civile con un linguaggio che è dialetto leggermente ripulito in forza della espressione linguistica dei poeti. La prima caratteristica di questa letteratura è la spontaneità la quale consiste in una espressione immediata di uno stato d’animo non influen­zato da cultura o mentalità dottrinale.

   Si potrebbe dire che la poesia popolare sia l’espressione di sentimenti sorti  spontaneamente dalla prima espressione e non generati e alimen­tati dalla espressione dotta ed ideale: ad es. la poesia amorosa esprime quello che il cuore umano, quasi per istinto sente e dice alla persona amata.  L’inserzione, invece, del sentimento amoroso nella mentalità e nello stile della cavalleria aristocratica,  come avveniva nella scuola provenzale,  è carat­teristica della poesia di dottrina e di elaborazione. Alla caratteristi­ca della spontaneità va connessa quella della vivacità, la quale consiste nell’esprimere gli stati d’animo con lo stesso ritmo mobile e vario con cui di fatto sono vissuti dal cuore: il ritmo compassato e studiato, indice di uno scrupoloso impegno di apparire eleganti, è ignoto al compositore popolare. Non si preoccupa di apparire lindo ed elegante, ma di prendere contatto immediato con l’anima del lettore. Tuttavia se la com­posizione popolare è superiore per spontaneità e vivacità alla poesia di scuola, è dall’altra parte inferiore a questa per mancanza di profondità ideale e di buon gusto o decorosità stilistica. Il linguaggio di un cuore vigoroso e sincero ma ancora in una condizione di primitività, piace e commuove chi si contenta di poco, ma non desta l’interesse dei lettori che chiedono alla poesia una interpretazione e una rappresentazione della vita capace di rivelare l’uomo a sé stesso con i misteri della sua psico­logia; con le vicende del suo destino, con i complessi rapporti che lo legano ai suoi simili, alle leggi esterne, all’infinito. Disgraziatamente le persone che nel secolo XIII° potevano darci una poesia ricca di ispira­zione intelligente ed elegante,  cioè le persone di elevata cultura,  sde­gnarono di comporre in volgare o al massimo dedicarono alle composizioni in volgare solo una parte della loro attività (come avviene per i Sicilia­ni che erano giuristi di professione e poeti di dilettantismo).

   Per questo la poesia più spontanea del secolo XIII° è opera di compo­sitori poco forniti di capacità idealizzatrice, di fantasia vigorosa e complessa, e di gusto stilistico.

La poesia popolare è detta poesia dettata dalla natura in quanto esprime i sentimenti dettati dalla natura, non influenzati dalla cultura.

Cause della poesia popolare.

 La diffusione della istruzione in mezzo al popolo è dovuta:

a) Alla agiatezza economica.

   I compositori popolari sono in genere persone di media cultura; raramente sono dotti che si provano ad esprimere stati d’animo caratteristici della psicologia del popolo con un linguaggio aderente alle forme del dialetto. Nel secolo XIII lo città italiane, specie quelle dell’Italia centrale e settentrionale, fioriscono per agiatezza, per libertà democratica, per attività economiche, artistiche ed anche letterarie. In seguito alla ri­nascita della civiltà verificatosi nel secolo XI, non solo il clero e gli artisti si appassionarono alla cultura, ma anche tra il popolo si diffonde il desiderio di apprendere almeno a leggere e a scrivere. Così in ogni paese e città,  specie in quelli organizzati a regime comunale, persone del popolo gustano la letteratura delle chansons, dei romans francesi tradotti in italiano, e si compiacciono di esercitarsi nella trattazione poetica di argomenti cari alla massa. La religione, il pen­siero dell’oltre tomba, l’amore, i divertimenti, la vita giovanile e serena della città, una sciagura collettiva, la morte di un illustre per­sonaggio offrono argomento al poeta popolare che si fa interprete del pensiero e del sentimento comune e con la sua voce esprime le aspirazio­ni, le preoccupazioni, lo speranze di tutti.

b) All’influsso della chiesa sulla spiritualità del popolo.

   I secoli XII o XIII rappresentano il periodo più glorioso della collabo­razione fra chiesa e popolo. L’istruzione religiosa delle masse era as­sai curata, anzi all’inizio del secolo XIII gli ordini Domenicano e Fran­cescano sorgono appunto per erudire le popolazioni delle città e delle campagne   nelle verità della fede e per assisterle spiritualmente: pres­so i vescovadi e le abazie dei conventi in genere fiorivano scuole a cui potevano accedere quelli che lo avessero voluto.

Con la discreta cultura che acquistavano in queste scuole ed in forza del contatto frequente con gli uomini della chiesa alcuni uomini del popolo di ingegno più vivace e desiderosi di affermarsi nel piccolo ambiente in cui vivevano, si dedicavano con passione a comporre intorno agli elemen­ti più svariati.

Varie specie di poesia popolare.

     A. Poesia religiosa: S. Francesco e Jacopone da Todi.

Questi due personaggi rappresentano le forme più evidenti del misticismo medievale. S. Francesco è il mistico cattolico che vede nella creatura i riflessi di Dio e si vale delle voci che gli vengono dal creato per trovare la strada al sommo bene e al sommo bello.  “Il cantico delle crea­ture” esprime questo misticismo sereno,  cordiale, pieno di speranza e di serenità. Di ogni creatura S. Francesco ha colto l’aspetto più signifi­cativo per rivelare la sapienza e la bontà di Dio nel circondare l’uomo di fratelli e sorelle utili e belli. Il suo linguaggio è il dialetto um­bro leggermente ingentilito dalla modesta cultura del santo composito­re.

Fra Jacopone da Todi. E’ un avvocato convertitosi alla professione reli­giosa francescana in seguito a un drammatico incidente (indosso alla moglie morta durante un ballo trovò un cilicio). L’ispirazione di fra Jacopone è ardente e quasi torrenziale: il misticismo è pazzia d’amore per Dio, è disprezzo delle cose terrene che egli considera come perico­li di rovina spirituale per l’uomo: la sua produzione si può distingue­re in due serie: laudi ispirate al suo stato d’animo mistico, laudi che interpretano lo stato d’animo di personaggi sacri del Vangelo o della storia dei santi. Le prime sono più soggettive, più irruenti e quindi più imperfette e rozze dal punto di vista formale, dato che egli non si ora esercitato in giovinezza nella composizione poetica in quanto si ora dedicato al­l’avvocatura; le seconde sono di ispirazione più oggettiva, più pacata: il poeta contempla il suo soggetto, e si sforza di adeguare il suo sta­to d’animo alla vita intima di esso e così tace il turbine delle sue passioni personali. Fra Jacopone è insomma un grande poeta in quanto è grande la forza del suo sentimento; ma la sua grandezza è compromessa dal fatto che l’inesperienza della tecnica poetica gli impedisce di fare una espressione adeguata, piena e composta nel suo mondo interiore.

       B. Poesia didascalica: insegnamenti morali, religiosi, curiosità scientifiche.

Fra Uguccione da Lodi: “Il libro” fra il morale e il religioso. Bonvesin da Riva: “Cortesia da desco”,  “Libro delle tre scritture”. Giacomino da Verona:  “De Jerusalem celesti”, “De Babilonia infernali”. Francesco de Barberino:  “Documenti d’amore”,  “Reggimento e costumi di donna”. Brunetto Latini:  “II tesoretto”.

       C. Poesia giullaresca: Svolge argomenti svariatissimi in forma popola­resca,  cioè ispirandosi a pensieri e sentimenti assai primitivi e istintivi, e usando il linguaggio dialettale con scarsi tentativi di raffi­namento.

        Le forme della poesia giullaresca sono:

a)-Il contrasto: cioè il contrasto tra l’amante e l’amata (che alla fine sappiamo finisce con l’accordo di ambedue), contrasto tra madre e figlia per dissenso nella scelta del giovane.

b)-Il lamento: lamento per la morte di persona cara, per la morte di un personaggio illustre in città, per un disastro accaduto nel territo­rio della città, o perché la madre non permette il matrimonio con la persona amata.

c)- Strambotti e rispetti amorosi: lo strambotto è una composizione di otto versi con rima alternata, in uso in Sicilia; il rispetto è anche esso una composizione di otto versi, i primi sei dei quali sono a rima alternata, gli ultimi a rima baciata, in uso in Toscana.

Gli autori delle composizioni giullaresche sono ignoti;  si conosce solo l’autore di un contrasto in lingua siciliana attribuito a Cielo D’Alcamo, il quale, uomo colto (come risulta, da alcune espressioni desunte dal latino e dal provenzale), si compiacque di imitare lo spirito e le forme del popolo.

D. Poesia borghese: Sono composizioni che descrivono scene liete di vita cittadina nei vari tempi dell’anno o tipi caratteristici dell’ambiente paesano. Sono noti per composizioni di questo genere Folgore S. Gimiano (autore di dodici sonetti per ciascun mese dell’anno e di sette sonetti per ciascun giorno della settimana) e Rustico di Filippo (autore di bozzetti in cui si delinea alcuni tipi di cittadini notevoli per certe loro stranezze). A Folgore di S. Gimiano,  che nei suoi sonetti augurava alle liete brigate beni particolari per ciascun mese dell’anno, rispose Cene Delle Chitarre,  augurando alle medesime brigate mali opposti ai beni augurati da Folgore.

E. Poesia realistica: di nota cruda e sentimenti spregiudicati. E’ la poesia che si ispira a sentimenti spregiudicati,  a visioni ripugnanti e che rivela nel compositore una specie di gusto nel vedere scandalizzato il lettore. E’ restato famoso in questo genere di poesia Cecco Angiolieri che si vanta di odiare suo padre e sua madre, si compiace di amare una certa Becchina e di far sapere a tutti che egli è giocatore, beone, donnaiolo.

      Scuola di transizione.

  E’ costituita da un gruppo di compositori fiorentini (tra cui primeg­giano Chiaro Davanzati e una scrittrice anonima denominata “Compiuta Don­zella”) i quali, pur non giungendo alla concezione dell’amore, dell’arte che ebbero gli stilnovisti, tuttavia preludono al dolce stile. La loro ispirazione, infatti,  confrontata con quella dei Siciliani è più originale e più sentita;  e la loro forma è più concreta e vivace. Si nota in questi compositori una preziosa tendenza a vedere il reale nei suoi aspetti ideali e a descrivere gli stati d’animo generati da questa visione ingenua e quasi estatica,  con sincerità,  senza imposta­zioni né filosofiche né retoriche. Più che la scuola di transizione, come avviamento al dolce stil nuovo si può considerare la poesia popo­lare,  specie la poesia borghese, religiosa.

Dolce stil nuovo.

   E’ una scuola di poesia lirica, che sorge a Bologna, fiorisce in Toscana nell’ultimo trentennio del secolo XIII° ed ha come motivo predominante l’amore mistico.

Concetti fondamentali del dolce stil nuovo:

1)- Concetto dell’amore: amore è attrattiva che l’animo sente di fronte al bene, esso è gaudio contemplativo e intesa intima,  affettuosa fra due anime, non è atteggiamento studiato,  cioè uno stato spirituale prodotto con arte, ma è un sentimento spontaneo.  Siccome l’anima tende istintivamente al bene sommo, l’amore di Dio è innato nell’uomo (Par. can. 1° vv118-120) ed è il vero amore. Ma come alla conoscenza di Dio si accede attraverso la contemplazione dei riflessi di lui nelle creatu­re, così all’amore di Dio si giunge attraverso l’amore della creatura che maggiormente la riflette. In tal senso si chiarisce meglio il signi­ficato dell’amore umano inteso come unione di due anime:  infatti l’aman­te si compiace dei doni di cui è fornita madonna;  e questa si compiace di offrire all’amante, a conforto ed elevazione di lui, i beni celesti ricevuti. Così l’amore umano si armonizza con l’amore divino, anzi diventa un ottimo fattore di elevazione dello spirito verso il Bene Sommo. L’incontro tra le due anime, secondo questa concezione, avviene in un piano mistico e soprannaturale, per cui l’amore stesso è detto”mistico”. Questa concezione è propria di Guido Guinizzelli e di Dante, ma anche gli altri stilnovisti concepirono l’amore come incontro di anime in una atmosfera di gentilezza, di bontà e di soavità anche se viene a mancare il motivo soprannaturale. L’amore così inteso non solo non è colpevole, ma addirittura un dovere per le anime che aspirano a un gaudio superiore.

2)-Concetto di cuor gentile: se l’amore è godimento spirituale di bellezze soprannaturali, esso non può sorgere che in un cuor gentile, ossia in un cuore nobile, in un cuore virtuoso. “Al cuor gentil ripara sempre amore”; “amor e cuor gentil sono una cosa” dice Guido Guinizzelli; e Dante soggiunge “è gentilezza dovunque è virtude” (Convivio IV°). I provenzali intendevano gentilezza come sensibilità della finezza a­ristocratici o reputavano questa capacità emotiva galante come caratte­ristica esclusiva dell’aristocrazia.

   Secondo la concezione stilnovista invece, la gentilezza è sensibilità per tutto ciò che è celestiale,  ossia per la bontà soave e pura incarnata in forme di grazia eterea e celestiale. Tale sensibilità non è dote esclusiva dell’aristocratico, ma di qualun­que persona la quale per disposizione naturale e per educazione, sia capace di commuoversi di fronte al bene e al bello,  e precisamente è propria dell’uomo virtuoso,  cioè di colui che sentendo il bisogno di un largo respiro spirituale si eleva al di sopra delle cose meschine e volgari per ascondere verso l’Infinito.

3)- Concetto della donna: Se l’amore è godimento di beni spirituali e soprannaturali e può sorgere soltanto in un cuor virtuoso, consegue che la donna, oggetto di questo amore, non può essere che una sintesi viva di bellezze naturali e soprannaturali, ossia non può essere che un ri­flesso vivo di Dio, un “angiol venuto dal cielo in terra a miracol mo­strare” (Vita Nova);  “loda di Dio vera” (Inf. c.II).

   Non è più la feudataria che si compiace della sua aristocrazia,  che si mette in perfetta posa,  che si mostra di rado per farsi desiderare, che non corrisponde per il gusto di veder soffrire l’amante; la donna del dolce stil nuovo è soave, dolce, umile avvolta in una atmosfera di nitida bellezza, di bontà;  è una creatura viva i cui occhi, quale riflesso della luce interna,  sono luminosi; il cui colore, quale riflesso del candore interno, è come di perla; il cui sorriso e il cui saluto quale ri­flesso della bontà e della soavità interiore, è l’espressione suprema della gentilezza e della grazia.

   Le donne vedono in lei l’esemplare del loro sesso e si compiacciono del­la sua compagnia. I cittadini la considerano come l’onore e il tesoro più prezioso della loro città e si vantano di lei di fronte agli abi­tanti dei paesi vicini. E lei, senza orgoglio, volentieri prende parte alle gloriose e gentili adunate delle amiche e quando percorre le vie cittadine luminosa ed ammirata saluta con umile grazia quelli che, bra­mando di sentire la sua voce,  trepidando la salutano. “Midons” era una forma media tra la gentil donna e la principessa barbarica,  creata da una fantasia controllata e complimentosa;  “madonna” invece è la creazione di un cuore innamorato, ansioso di luce e di bontà. La visione di madonna è troppo bella perché possa durare a lungo sulla terra: gli an­geli in cielo non possono sostenere che lei dimori più a lungo tra gli uomini e con insistenza chiedono a Dio che sia richiamata tra essi. Perciò l’incantevole creatura è avvolta da un tenue velo di malinconia in quanto l’attende una morte prematura. Il poeta non può pensare che una simile bellezza sfiorisca miseramente con gli anni: un angelo non può invecchiare e perciò il trapasso di lei da questo mondo deve avveni­re mentre la sua età fiorisce in pieno: la morte tuttavia, non solo non deformerà con lo sue orride arti l’angelica donna, bensì avvicinandosi a lei, diventerà lei stessa gentile. Non si deve pensare, che per buona e gentile com’è, lei non assuma,  al momento opportuno, forme sdegnose od altere;  altrimenti la sua bontà sarebbe ingenuità meschina. Quando il poeta,  che si è a lei legato, devia e lascia parlare male di sé, ne­ga il saluto e il sorriso.  (Beatrice nega il saluto a Dante a causa del­la donna dello schermo).

4)- Concetto dei rapporti tra amante e madonna: è un rapporto di vero af­fetto tanto più intimo, quanto più è spirituale, tanto più ricco di espe­rienze sublimi, quanto più elevata ed ampia è l’atmosfera in cui l’amore fiorisce. Le due anime si compiacciono l’una dell’altra; il poeta si compiace di contemplare la grazia sempre luminosa e fiorente della madonna e questa si compiace di guidare il suo fedele verso l’alto, di vederlo sempre più perfetto, e di sapere che si dedica al culto di nobili ideali e ad attività utili e decorose. La funzione che la donna esercita nei riguardi del poeta è meravigliosamente espressa da Dante in svariati punti della   “Commedia”, ma tre passi in modo particolare, la illustra­no con mirabile evidenza. Nel canto XXX del Purgatorio Beatrice che sta rimproverando il poeta di fronte ai personaggi della simbolica processione così afferma:

“Alcun tempo il sostenni col mio volto

mostrando gli occhi giovinetti a lui

meco il menava in dritta parte colto” ( vv. 121-123).

Nel canto I del Paradiso Dante immagina che Beatrice, all’inizio della loro  ascensione verso l’alto appuntò lo sguardo verso le eterne rote, ed egli fissando gli occhi in quelli di lei,  sia sollevato verso la luce dell’armonia delle sfere celesti.   

In fine del canto XXXI del Paradiso riassumendo la missione di Beatrice nei suoi confronti,  così Dante dice alla sua donna:

“Tu hai di servo tratto a libertade

per tutte quello vie, per tutti medi

che di ciò fare avevi la potestade”  (vv. 85-87).

Nulla di forzato, nulla di drammatico in questi rapporti soavi e religiosi:  sono due anime che si comprendono, due anime che percorro­no la stessa strada fiorita di verità e di virtù. Nessuno sforzo ercu­leo è imposto al poeta per guadagnarsi l’affetto della donna, nessun orgoglio da parte di costei nel sentirsi lodare.

Non è da pensare che il tono che domina in questi rapporti freni gli impulsi di una nobile gelosia da parte della donna e,  che qualche crisi (che si conclude con qualche pianto purificatore del poeta) non venga a turbare la serena atmosfera quasi col fine di dare maggior chiarezza e serenità alla corrispondenza degli affetti.

In conclusione si tratta di affetti spontanei, gioiosi e sinceri in una atmosfera di elevante spiritualità naturale e soprannaturale.

5)- Concetto dell’affetto e dell’amore: La donna è un angelo e quindi la sua presenza produce gli stessi affetti che produrrebbe la presenza di un essere soprannaturale. Infatti al suo apparire il poeta è quasi folgorato dalla luce e dalla soavità di lei.

“Per occulta virtù che da lei mosse…

tosto che nella vista mi percosse

l’alta virtù che già m’avea trafitto

prima che io fuor di puerizia fosse

volsimi alla sinistra con rispetto

col quale il frontolin corre alla mamma,

quando ha paura o quando è afflitto,

per dire a Virgilio: men che dramma

di sangue m’è rimaso che non tremi:

conosco li segni dell’antica fiamma” (Purg. XXX vv. 38-48).

Tale folgorazione produce nel poeta una specie soave di sbigottimento per cui egli sviene. Alla presenza della donna angelo non è possibile pensare o sentire volgarmente, e tutto il complesso della malvagità, quasi per incanto esce via dal cuore. Lo spirito così purificato inizia la sua ascesa di elevazione verso le forme più ideali del pensare e del sentire per giungere a Dio. Dante dichiara che per effetto dell’amore di Beatrice egli uscì dalla volgare schiera,  che per opera di lei superò le miserie terrene:

“Chi dietro iura, e chi ad aforismi

se giva,  o chi seguendo sacerdozio

e chi regnar per forza o, per sofismi,

e chi rubare e chi civil negozio;

chi nel diletto della carne involto

s’affaticava e chi si dava all’ozio,

quando da tutte queste coso sciolto,

con Beatrice m’era chiuso in cielo

cotanto gioiosamente accolto” (Par. c. XI° vv. 4.-12).

Mentre dunque gli uomini in basso battono le ali,  svolazzano rasente la terra, Dante s’eleva por opera di Beatrice tanto in alto, che volgendo l’occhio sottostante, vide :

    “……….        questo globo

     tal ch’io sorrisi del suo vil sembiante” (Par. XXII°  vv. 134-135).

L’amore stilnovistico dunque non incenerisce la vita come l’amore pas­sionale, né rende cascante lo stile dell’uomo né si esaurisce nell’i­nappuntabile lindura del cavaliere provenzale; ma è sentimento giova­nile e dinamico ansioso di verità e di virtù.

Il poeta infatti per rendersi degno della donna non solo si impegna a pensare e a sentire nobilmente, ma anche ad operare generosamente. Per Beatrice Dante esce dalla volgare schiera, per Beatrice egli anco­ra giovane medita di comporre un’opera che sbaragli la poesia amorosa di tutti i tempi:

“proposi di non dire più di questa benedetta, in fino a tanto che io non potesse più degnamente trattare di lei. E di venire a ciò io studio quanto posso;  siccome ella sa e veramente.  Si che io spero di dir di lei quello che non fue detto d’alcuno” (Conclusione della “Vita nova”). Beatrice ha elevato Dante allo stile della “magnificenza” cioè al culto dello cose grandi (Par. c. XXXI v. 88). Beatrice ha “vestito a Dante   le piume per l’alto volo fino a Dio”; i desideri che lei suscita nel suo fedele “menano ad amare lo bene” (Par. c. XXXI v.  23).

Forma del dolce stile.

a)- Concreta.

A differenza di quella dei provenzali, la forma stilnovistica non è elencativa, elogiativa, astratta, ma rappresentativa e concreta.  I proven­zali ci dicono tante cose di midons, ma raramente la presentano nella sua realtà. Gli stilnovisti, invece, rappresentano la donna come una creatura viva che pensa, sente, agisce, sorride, beatifica e sgomenta chi la guarda.

b)- Idealizzata.

Ma pur descrivendoci una donna vera il poeta ama presentarla come tipo ideale di angelica bellezza e bontà. L’idealizzazione mistica che rag­giunge le sue forme più significative nella forma di Dante e di Guinizzelli, nulla toglie agli ardori degli affetti né alla concretezza della fisionomia della donna; in forza di essa, l’affetto risulta più serio e più impegnativo e la figura della donna risulta più aerea e più cele­stiale.

c)- Spontanea.

La struttura della composizione stilnovistica è simile a quella di un discorso piano e soave con cui un cuore innamorato voglia presentare la sua donna alle anime gentili che desiderano conoscerla. Il poeta stilnovista non è un erudito e un lindo cavaliere che studia forme e pose per adeguarle a un concetto astratto o a un modello di lus­so, ma un innamorato che vagheggia commosso una visione vera di bellezza e di soavità e vuol comunicare agli altri la dolcezza del suo spirito.

d)- Elaborata.

La spontaneità stilnovistica è immediatezza controllata e composta, è forma gentile acquistata e assimilata, non sciatteria sentimentalistica o familiarità alla buona. Il poeta dimostra un evidente senso di respon­sabilità;  temendo di sciupare la creatura del suo cuore e di non riusci­re ad innamorare il lettore, egli si impegna in una elaborazione attenta e fine di pensieri di sentimenti e di visioni interiori. Così lo stato d’animo del compositore assume e conserva quel tono di dolcezza e di intelligenza che si addice al soggetto gentile che egli tratta. La figura dello stilnovista che, nell’atteggiamento di soave innamorato, descrive la sua donna con tono dolcissimo e con immagini aeree e delicate, invi­tando tutti a farle onore,  è quanto mai simpatica: poeti di questo genere non possiamo fare a meno di immaginarli perpetuamente giovani.

Il linguaggio del dolce stile.

   La Toscana ha avuto la fortuna di prestare la sua lingua al discorso dogli stilnovisti. Questi gentili rimatori forniti di elevata cultura, hanno saputo affinare il dialetto toscano in modo da superare nettamente i Siciliani nel tentativo di create la lingua letteraria o aulica. Sono evitati costantemente gli artifici del gioco di parole, di contra­sti di pensiero e di espressione, dell’uso intenzionale di forme oscure e chiuse. Si tratta di un linguaggio spontaneo, nitido, pulito con voca­boli, costruzioni, giri di frasi, disposizione di parole sapientemente scelte, per esprimere con efficacia la dolcezza e la grazia dell’ispira­zione.

   Si tratta di un linguaggio spontaneo ed elaborato nello stesso tempo, caratterizzato di giovani veramente innamorati e resi esperti di tutta la grazia della parola da una cultura letteraria italiana, latina, fran­cese e provenzale, decisamente seria e coscienziosa: si tratta di un linguaggio “aulico” cioè dotto, ma adoperato con la semplicità e la agili­tà elegante propria di chi parla con il cuore.

   Si può dire che la nostra letteratura abbia fatto le sue prime prove meglio riuscite nelle composizioni del dolce stile. Non per nulla Dante nel canto I° dell’Inferno accennando ” al bello sti­lo” della sua “vita nova”, dichiara d’averlo appreso nientemeno che da Virgilio e si dimostra convinto d’aver fatto una cosa degna d’onore.

Origine della denominazione della scuola.

      Dante nel canto XXIV del Purgatorio immagina che Bonagiunta Urbicciani da Lucca sia colui che:

“……..   fore

trasse le nove rime, cominciando:

 -Donne che avete intelletto d’amore”-.

E al vecchio sicilianeggiante l’Alighieri risponde:

“Io mi son un, che quando

amor mi spira, noto,  e a quel modo

che detta dentro vo’ significando.

O frate issa vegg’io -diss’elli- il modo

che ‘l notaro e Guittone e me ritenne

di qua dal dolce stil novo ch’i ‘odo.

Io veggio bene come le vostre penne

di retro al dittator s’en vanno strette,

che delle nostre certo non s’avvenne:

e qual più a riguardare oltre si mette,

non vede più dall’uno e dall’altro stilo”,  (vv. 49-62).

   La caratteristica essenziale del dolce stile, dunque, è la spontaneità; ossia la fedeltà dell’espressione all’ispirazione e dell’ispirazione al cuore. Finalmente i poeti italiani hanno imparato a parlare come sen­tono e a sentire come sogliono sentire cuori veramente e idealmente innamorati.

Lo stile è detto “dolce” per la serenità degli affetti, per la soavità delle immagini, per la grazia e la nitidezza sia dell’ispirazione che del tono e del linguaggio. Inebriato di felicità, tale che “intender non la può chi non la prova”, è il cuore del poeta; deliziosa, pur nella serietà della sua pudicizia, è la giovinetta amata; gentili e cordiali sono gli amici del poeta e la donzella a cui egli confida le gioie del suo amore; ridente e gioiosa è la natura che partecipa con le sue luci e i suoi colori alla festa dell’amore umano; nessun dramma di incompren­sione, di invidia, di malignità;  tutto è dolcezza,  serenità e gentilez­za.

   In opposizione alla forma che aveva dominato la lirica romanza, dalla scuola proven­zale a quella siciliana e a quella sicilianeggiante in Toscana, il dolce stile è detto anche “nuovo”. Esso è lo stile dei poeti giovani, cittadini di un comune democratico, interpreti di un mondo più spontaneo, più sere­no più cordiale. I giovani poeti fiorentini sono coscienti di aver tro­vato la via giusta dell’arte, e sono tanto più soddisfatti della loro innovazione quanto più semplice e nello stesso tempo più efficace è il metodo da essi trovato,  cioè il metodo della spontaneità. Ai giovani rimatori i compunti e preziosi cavalieri provenzali, i notai e gli avvocati della Sicilia, i dotti della Toscana sul tipo di Guittone e di Buonagiunta dovevano destare un sorriso di compassione, perché li vedevano troppo impacciati e troppo vecchi, troppo eruditi e troppo poco poeti, troppo legati alle forme studiate di un ambiente aristocratico, o di una mentalità dottrinale, per riuscire simpatici interpreti dell’a­more che è un sentimento tutto spontaneità e grazia.

Cause del dolce stile.

   Dobbiamo considerare come cause del dolce stile tutti quei fattori i quali hanno contribuito all’affermazione e alla elaborazione dei motivi principali di esso e alla scelta del metodo espressivo della spontaneità.

  1. I.                    Misticismo e Tomismo:

 Possiamo come primo fattore citare il misticismo medioevale di cui, pro­prio nella seconda metà del secolo XIII,  si ebbe l’espressione più equi­librata e più serena nella conciliazione operata da S. Tommaso tra natu­ra e soprannatura, tra sacro o profano. E’ questo il primo fattore che ha contribuito alla elaborazione dei concetti del dolce stile. Come infatti si giunge alla conoscenza di Dio attraverso i riflessi di Lui nelle creature, così si giunge all’amore della bellezza e della bon­tà somma attraverso l’associazione intima di due anime che si propongono di elevarsi verso l’infinito in cooperazione reciproca per mezzo della contemplazione gioiosa dei beni finiti e delle bellezze. Il concetto dell’amore che Dante esprime nel Convivio (“Amore è unimento spirituale dell’anima e della cosa amata e l’anima naturalmente desia e vuole essere a Dio unita”) evidentemente deriva dalla filosofia di S.Tommaso. E la dolce affettuosità verso la donna-angelo è strettamente connessa con quell’atteggiamento di simpatia fraterna verso tutte lo creature che è la nota caratteristica del sereno misticismo francescano.

  1. II.                  Ambiente democratico.

Il dolce stile si afferma in Toscana cioè in quella regione d’Italia in cui il regime comune essenzialmente democratico, ha la sua massima fiorita.  In ambiente comunale,  ove tutti i cittadini sono eguali e le distinzioni sono dovute soltanto alla superiorità o inferiorità di meri­to, lo stile di vita è libero e spontaneo: gli atteggiamenti servili, le pose studiate e forzate sono ignote a cittadini abituati a sentire liberamente e ad esprimersi come sentono. E’ logico quindi che in una atmosfera di libertà, di eguaglianza, di spontaneità civile, anche l’ispirazione e l’espressione della poesia assumono un tono semplice, schietto e cordiale, ed è naturale che l’amore sia concepito come unione gioiosa o serena di animo. In ambiente cittadino democratico non esistono donne preziose,  aristocratiche, figure raramente visibili, e fieramente pre­suntuose, ma giovanette virtuose e belle, angeli soavi che amano il pic­colo mondo della famiglia e quello del comune. Queste creature sono co­nosciute dai giovani, sono da essi vagheggiate od esaltate a gara, da tutti i cittadini sono ammirate e venerate come i più belli ornamenti e il vanto della città. Il tono gioioso e appassionato, giovanile e dot­to del dolce stile è espressione di un mondo gaudente e sereno, dinami­co e colto, quale ora appunto il mondo dei comuni toscani nella seconda metà del secolo XIII°.

III- Precedenti esperienze poetiche.

   L’esperienza insegna e i giovani stilnovisti, esaminando la poesia pro­venzale e provenzaleggiante, avevano notato che il tono aristocratico e le forme artificiose di esse avevano guadagnato pochi lettori. Essi, invece, desideravano nell’ambiente comunale essere letti da tutti e riuscire simpatici particolarmente ai gruppi di gentili donzelle che più o meno si intendevano d’arte: quindi dovevano, adottare una forma di poesia ricca di sentimento, facile e fine nell’espressione.

I giochi di concetti, di parole, di pensieri e le espressioni,  accumula­ti più col criterio dell’erudizione letteraria e secondo i modi dello stile curiale e dotto,  sono inopportuni in un ambiente e in un’età in cui una maggiore libertà politica e spirituale esige e favorisco una spontaneità spigliata e gentile.

Scrittori stilnovisti.

Guido Guinizzclli. Fondatore della scuola nel senso che elabora i concetti essenziali che sostituiscono la base dell’ispirazione, dell’es­pressione stilnovistica. Egli fu il primo che illustrò il concetto del cuor gentile e illustrò il rapporto della gentilezza con l’amore. A Firenze il gruppo stilnovistico costituito da giovani intelligenti, ricchi di sentimento e colti,  è capeggiato da Guido Cavalcanti.  Questi sebbene privo di spiritualità soprannaturale, tuttavia mantiene la sua ispirazione in una atmosfera ideale che ben si concilia con il tono ge­neralo della scuola. Intorno a Guido troviamo Lapo Gianni, Gianni Alfani, Dino Frescofaldi, poeti di minore forza di ispirazione, ma nel complesso bravi descrittori. Cino da Pistoia. Poeta appassionato (Pe­trarca lo chiama “amoroso messer Cino”) poco fedele all’ispirazione mi­stica, perché assai caldo e pervaso di ardente sensibilità, rappresentò la tendenza mondana nel seno dello stilnovo.  Il massimo esponente fu l’Alighieri il quale espresse gli ideali e le forme dello stilnovismo, non solo nella “Vita nova”, ma anche e soprattutto nella “Commedia”,  ove i motivi più importanti sono di impronta stilnovistica. Il volo infatti che l’Alighieri compie dalla selva oscura all’Empireo è possibile solo por l’intervento di Beatrice.

LA PROSA DEL ‘200.

     Le composizioni in prosa del secolo XIII° rivelano negli scrittori poca esperienza non solo della vita, ma anche della lingua. Si tratta in genere di prose didattiche e narrative, molto semplici nell’ispira­zione e nell’espressione. Si vede anche chiaro l’influsso di una menta­lità e linguaggio volgare che sono caratterizzate dalla forma analitica e semplice,  e talvolta,  tanto semplici da rasentare la povertà.

   Nel secolo XIII° i dotti che scrivono in prosa fanno uso della lingua latina,  e se qualche scrittore adopera il volgare è mosso dalla intenzio­ne di farsi leggere dal popolo a cui vuol presentare esempi,  storico-in­ventati,  edificanti o istruttivi, o visioni fantastiche che dilettano anime che si contentano di poco.

II linguaggio è caratterizzato dal predominio della coordinazione; gli scrittori, come usa il popolo, non fanno distinzione tra concetti princi­pali e concetti secondari, ma pongono ogni pensiero e ogni sentimento sullo stesso piano e le proposizioni principali si susseguono così in serie ininterrotta. Periodi brevi, proposizioni semplici in cui vengono espressi concetti e osservazioni assai semplici ed elementari, costitui­scono la cosiddetta “ingenuità della prosa ducentesca”.

Produzione.

     Possiamo dividere le opere in prosa del duecento in due categorie:

A – Prose didattiche.

    “Il libro dei sette savi”, anonimo, in cui vengono riferite quindici no­velle di cui sette sono narrate da alcuni giudici,  sette da una matrigna e una da un figliastro.

     “La gemma purpurea” di Guido Fava, che è una raccolta di lettere esemplari da offrire   ai lettori affinché se ne servano nelle circostanze in cui debbono trattare per lettera   argomenti simili a quelli svolti dallo scrittore.

     “Il novellino”. Una raccolta di cento novelle nella quale vengono svolte con ispirazione e forma assai semplice, motivi più o meno educativi tratti dalle leggende antiche e medioevali. “I fioretti di S. Francesco” in cui vengono narrati, in forma fantastica e come mito, con tono semplice e candido, episodi che illustrano le più belle virtù di S. Francesco. L’opera forse fu compiuta in latino da frate Ugolino da Montegiorgio, in italiano da Ugo dei Marignoli.

B)- Prose narrative.

   Numerosissime cronache in lingua dialettale, più o meno raffinata, narra­no senza grande apparato erudito e senza grandi pretese di giudizio né di interpretazione, i fatti avvenuti nelle varie regione e città italia­ne durante la lotta tra Guelfi e Ghibellini. Specialmente fatti che avvennero durante la discesa di Carlo d’Angiò in Italia e durante la guerra dei vespri siciliani hanno avuto una abbondante letteratura, cronistica in lingua italiana.

   “Il milione” di Marco Polo, il famoso esploratore del mondo asiatico; l’au­tore scrisse la sua opera in lingua francese: Rustichello da Pisa fece la traduzione dell’opera il lingua italiana.

   II racconto di Marco Polo non solo è veritiero, ma è anche attraentissimo per il tono fantastico, quasi di leggenda con il quale egli riferisce le sue avventure nel mondo orientale,  considerato allora come il mondo del meraviglioso.

   E’ evidente l’intenzione dello scrittore di offrire ai borghesi italia­ni un quadro delle possibilità commerciali dell’estremo Oriente.

 

 

    Letteratura italiana.

Quattro domande degli alunni al prof. Mancini:

   Che cos’è la letteratura italiana?

   La letteratura italiana è l’esposizione dei movimenti letterari che si sono succeduti nella vita culturale della nostra nazione dal Medioevo a oggi. Essa presenta soprattutto le opere dei più grandi autori, nella loro genesi e nel loro valore. La letteratura è l’espressione della spiritualità di una generazione, oltre che dei grandi autori che la creano, e bisogna inquadrare i movimenti letterari e le grandi opere, che ne sono l’espressione, nella spiritualità non solo di questi grandi esponenti, anche in quella della generazione in cui fiorirono.

    Si potrebbe esprimere il rapporto tra i fattori che generano i movimenti e le opere letterarie in questi termini: lo spirito di una generazione influenza l’animo dei poeti che di essa fanno parte; lo spirito del poeta si trasfonde nel contenuto e nella forma della sua opera. L’opera d’arte può essere considerata come l’espressione più espressiva della spiritualità, della capacità creativa, del gusto di una determinata generazione.

   La storia è un organismo vivo, ove ogni fenomeno è strettamente collegato con l’altro, anche se è differente e opposto adesso, quindi, nella storia della letteratura, i vari movimenti presentano un intimo rapporto fra loro e sono vitalmente congiunti anche se diversi.

   Qual è l’origine dei fenomeni letterari?

   L’origine dei fenomeni letterari è legato al problema generale dell’origine dei fenomeni storici, perché il fenomeno letterario non è che uno dei tanti fenomeni della vita storica delle generazioni. Si conoscono tre soluzione a questa domanda:

A) La soluzione umanistica si può riassumere così: sono i personaggi eccezionali e geniali che danno origine ai vari indirizzi della storia e della letteratura.

B) La soluzione marxista vuole che ogni fenomeno storico sia causato da un fattore economico. Marx afferma che l’evoluzione della materia-uomo genera bisogni nuovi, i quali causano nuovi modi di produzione, e questi generano nuove strutture sociali politiche, religiose, morali con conseguenti nuovi gusti e nuove forme di letteratura e di arte.

C)-  La soluzione cristiana spiega che i fenomeni della storia sono generati dalla libertà e dalle capacità dell’uomo. La provvidenza divina li utilizza per realizzare piani di salvezza che hanno in Gesù Cristo il centro di tutta la storia umana.

   La letteratura è creata dalla volontà dei letterati?

    Possiamo osservare che nel sorgere e nello svilupparsi dei fenomeni storici non è la sola volontà che crea i fatti (anche letterari). Tutte le facoltà umane (sentimenti, pensieri, atti dello spirito e della volontà) intervengono in questa creazione.

   Come è dall’esperienza, gli uomini più dotati dalla natura danno origine a realizzazioni più espressive. Il contatto fra gli uomini determina il diffondersi di nuove conformazioni che divengono patrimonio comune e sono motivo di emulazione per altre persone e per altri popoli.

Quale funzione hanno i movimenti culturali?

   Di ogni epoca storica si possono dare un giudizio di funzione ed un giudizio di valore. Con il primo notiamo il ruolo che essa ha per le generazioni nel processo della storia; con il secondo definiamo quale sia il grado di cultura manifestato in un’epoca. Ogni fase delle generazioni eredita la cultura della fase antecedente, la elabora secondo la propria indole e secondo le circostanze storiche, per poi lasciarla alle generazioni successive. Il giudizio di funzione è sempre positivo come avviamento di forme nuove. Senza che esistessero i movimenti di un’epoca, non esisterebbero neanche i successivi.

   Il giudizio di valore dipende dal grado di perfezione manifestato dai movimenti culturali. Il progresso tecnico può verificarsi indipendentemente dal progresso spirituale: questo è promosso dall’ansia di percepire i significati della realtà e dalla intensità delle aspirazioni per le finalità ideali.

Dice uno studente: <<Le riflessioni letterarie dei prof. Mancini Dino sono eccellenza della comprensione logica umana>>

LA LINGUA ITALIANA

  La lingua italiana è detta anche volgare perché deriva da quell’unico volgare latino che si diffuse in tutto l’impero occidentale e si frazionò in sei volgari principali durante lo stanziamento dei barbari nell’impero. A Roma, infatti, fin da quando fu fondata la città si parlavano due lingue: quella del popolo e quella dei dotti, tra le due lingue vi erano differenze notevoli, ma non tali che chi parlasse l’una non intendesse l’altra. Intercorreva presso a poco la stessa differenza che passa oggi fra la lingua nazionale e il dialetto locale.

Notiamo anzitutto quali siano in genere le differenze fra la lingua dotta e quella popolare.

Le persone dotte hanno molti più pensieri da esprimere che non il popolo e sentono il bisogno di distinguere tra un concetto e l’altro, tra un atteggiamento dello spirito e l’altro.

Perciò la lingua dei dotti ha queste caratteristiche: l’abbondanza dei vocaboli, di forme grammaticali e sintattiche anche in relazione a proposito della abbondanza dei pensieri da esprimere; costante preoccupazione di distinguere un concetto dall’altro, e quindi abbondanza di forme diverse, in relazione all’esigenza di precisione.

A Roma la lingua dotta si venne formando nell’ambito di quella volgare per queste esigenze delle persone colte; anzitutto perché le persone colte conoscevano cose che non conosceva il popolo – in secondo luogo perché esse dovevano interessarsi di questioni molto più vaste di quelle di cui si interessava il popolo nella vita quotidiana: e quindi avevano bisogno di una lingua più vasta, più ricca più precisa – in terzo luogo perché venivano a contatto con le persone colte di altri paesi e per comunicare con esse avevano bisogno di una lingua che superasse quella locale.

Il volgo tende a eliminare le sillabe finali mute. Elimina in genere la vocale di una sillaba postonica interna. I generi sono soltanto due: maschile e femminile; se i casi erano solo uno per il singolare uno per il plurale come si distinguevano i complementi? Per mezzo delle preposizioni.
Diffusione del volgare.

     Da Roma il volgare si diffuse in tutto il Lazio, quindi in tutta Italia e dal primo secolo D.C. si diffuse in tutto l’impero d’occidente ( non in oriente, perché là dominava la civiltà ellenica che era superiore a quella romana).

   Diffondendosi in Italia e nelle province il “vulgaris” subì qualche trasformazione dovuta alla diversa conformazione degli organi fonetici delle varie popolazioni e alla persistenza di elementi delle lingue locali.

   Tuttavia finché vi fu l’unità politica nell’impero, anche l’unità linguistica non fu compromessa in modo sensibile. Quando nel quinto secolo i barbari si stanziarono nell’impero e sorsero i regni romano barbarici anche la lingua volgare si frazionò notevolmente, cosicché assunse forme notevolmente diverse nei vari regni stessi.

   Si ebbero così sei volgari nuovi o lingue romanze o neolatine: portoghese, spagnolo, francese, provenzale, italiano, romeno. Nel seno di ciascun volgare sorsero svariati dialetti a seconda delle condizioni delle circostanze storiche delle varie regioni.

Uso del volgare nelle composizioni letterarie.

     Nell’alto Medio Evo (476-1050) la cultura è in decadenza in mezzo ai laici: essa fiorisce soltanto nel mondo ecclesiastico e gli ecclesiastici quando compongono (croniche, prediche, trattati di filosofia, di teologia, di morale, inni religiosi) adottano il sermo doctus nella forma medievale. Il volgare era parlato quotidianamente e veniva usato per le più comuni pratiche scritte (lettere, contratti, testamenti). Solo nel basso Medio Evo (1050 1350) il volgare viene adottato nelle composizioni letterarie. Questa età riceve nel mondo della cultura anche i laici e si compone dovendo rivolgersi ad un pubblico laico, o signorile o poco colto, adotta il linguaggio che quel pubblico conosce: cioè il linguaggio volgare. Il primo volgare ad essere nato nelle composizioni letterarie fu quello d’oil (per le chanson des gestes e per les romans).

   Per la seconda venne adoperata la lingua d’oc (per composizioni liriche), quindi entrò nel campo letterario anche l’italiano, la lingua spagnola (per le romances).

E infine entrò nel campo della letteratura anche l’italiano all’inizio del secolo XIII, ad opera dei siciliani.

   A noi interessa soprattutto il volgare italiano. Nel corso del secolo XIII ogni scrittore componeva nel volgare italiano dialettale che egli parlava, sforzandosi di perfezionarlo alla luce del latino dotto che, salvo gli scrittori più umili, i compositori in genere conoscevano abbastanza bene.

   Dante per la prima volta si propose il problema dell’unità linguistica in Italia. Egli pensava che esistesse una lingua comune in Italia ed è quella parlata dalle persone colte negli ambienti culturalmente più elevati. Perché questa lingua delle persone colte ha vocaboli e forme quasi comuni comunque? Perché tutte le persone colte conoscono  il latino dotto ossia hanno raffinato il dialetto alla luce del sermo doctus? Che cosa vuol dire  affinare un dialetto? Vuol dire conservare del dialetto i termini che si ritrovano in detto vocabolario e sostituirli – con termini dedotti da esso – eliminate le imprecisioni e le approssimazioni nel campo della grammatica e della sintassi, articolando i vocaboli e i periodi in modo da rendere con chiarezza il pensiero nel suo complesso e nelle sue precisazioni particolari.

   Questo lavoro di affinamento, secondo Dante, era stato compiuto in modo lodevole dai siciliani, non in modo tale però che la loro lingua si prestasse pienamente alla esigenza della composizione tragica.

   È per questo motivo che egli preferisce il volgare delle persone colte di tutta Italia che ritiene più ricco, ad un volgare unico, affinato dall’opera di un solo gruppo di scrittori.

La soluzione di Dante non ebbe applicazioni pratiche perché per renderla applicabile sarebbe stato necessario compilare un vocabolario, una grammatica e una sintassi di quel volgare parlato dalle persone colte di tutta Italia.

   Ma ciò non fu fatto; e la soluzione si venne determinando spontaneamente, in forza dei fatti stessi. Il dialetto infatti può diventare lingua nazionale per uno di questi tre motivi: o per la preminenza politica della regione in cui esso viene parlato, ho per concorde decisione degli intellettuali della regione, o per la preminenza degli scrittori che all’inizio della storia della letteratura nazionale hanno adoperato quel dialetto. In Francia ad esempio su tutti i dialetti prende il sopravvento quello dell’Ile de France, per la preminenza politica che questa regione esercitò su tutto il territorio nazionale fin dai primi tempi della storia francese. In Italia fu la Toscana che fin dal Medio Evo raggiunse la preminenza dal punto di vista letterario, su tutte le altre regioni, ad opera di Dante, Petrarca e Boccaccio. Siccome questi tre autori furono letti in tutta Italia e da tutti furono considerati come maestri, la lingua Toscana si affermò in tutti gli ambienti colti della nazione. Alla fine del ‘400 e  agli inizi del ‘500 la questione della lingua si impose nuovamente: allora il Bembo affermò che in Italia esisteva di fatto una lingua unica; quella Toscana era del ‘300, in quanto gli italiani l’avevano presa da tre grandi maestri preferiti: Dante, Petrarca e Boccaccio. Secondo il Bembo dunque, essendosi il dialetto toscano affermato su tutti gli altri, la lingua degli scrittori italiani sarà quella Toscana, e precisamente quella degli scrittori toscani del ‘300.

   Ragionevole è questa soluzione da un punto di vista di concretezza, in quanto propone una lingua che è realmente conosciuta da tutte le persone colte italiane e tiene quindi conto di un fatto storico completo.

   Tuttavia presenta il difetto della fissità, in quanto viene proposta come modello una lingua delimitata dentro confini storici assoluti – la lingua degli autori toscani del ‘300 dovrebbe servire per tutte le generazioni, il che è assurdo in quanto, essendo la lingua un mezzo convenzionale con cui gli uomini esprimono i loro pensieri i loro sentimenti ed essendo le generazioni umane in continua evoluzione, anche la lingua necessariamente deve evolversi.

   Contro la teoria del Bembo, il Trissino afferma che la lingua italiana è quella che parlano le persone colte della penisola. La soluzione del Trissino è identica a quella data dall’Alighieri.

Il medesimo Trissino tradusse e commentò il De vulgari eloquentia. La tesi del Trissino ha il pregio di proporre una lingua viva, ma ha il difetto di proporre una lingua che non è veramente unitaria e quindi è difficile a individuarsi e raccogliersi. È ebbe il sopravvento la teoria del Bembo che fu sostenuta dal gruppo poderoso geniale degli scrittori toscani del tempo (Machiavelli, Varchi, Nardi,ecc. ). Alla fine del secolo XVI l’accademia della Crusca di Siena e iniziò la compilazione del vocabolario omonimo desumendo le voci dalle opere di Dante, Petrarca e Boccaccio.

   Il vocabolario della Crusca fu  considerato come codice infallibile della lingua per tutto il ‘600 e fino alla metà del ‘700 quando l’Accademia dei Pugni di Milano proclamò decaduto il linguaggio antico e propose il l’uso della lingua viva delle persone colte, rinforzata da termini stranieri e da termini creati ex novo dalle persone di genio.

   Fra i demolitori della Crusca e i sostenitori della sua integralità assoluta tennero una via di mezzo i Trasformati di Milano, i quali proposero che il detto vocabolario, pur restando sostanzialmente lo stesso, fosse aggiornato con  l’eliminazione di termini andati in disuso e l’aggiunta di termini desunti dalle opere dei toscani del ‘500.

   Il Romanticismo, propugnando una letteratura viva e moderna nel modo più integrale, propone l’uso della lingua viva, non escluse le forme della lingua familiare. Il Manzoni, seguendo un indirizzo moderato che ebbe nel problema linguistico, affermò che la lingua italiana è quella delle persone colte fiorentine: infatti la lingua fiorentina praticamente è conosciuta in tutta Italia in forza della preminenza degli scrittori toscani su quelli delle altre regioni.

   Tuttavia, siccome per sua natura la lingua è sempre viva, è necessario sostituire il fiorentino trecentesco, ormai morto e di inadatto ad esprimere la portata della spiritualità moderna, con il fiorentino vivo, e precisamente come quello delle persone colte, essendo quello del popolo assai più povero di esso.

   La teoria del Manzoni ebbe la sua applicazione pratica ad opera del Ministero della Pubblica Istruzione che ordinò in tutte le scuole l’insegnamento della lingua fiorentina viva.

Furono compilati vocabolari grammatiche e sintassi di questa lingua e così essa diventò comune a tutti gli scrittori italiani.

Oggi non si può più parlare di lingua viva delle persone colte fiorentine, essendo questa diventata da vari decenni lingua nazionale. E la lingua nazionale ora procede lungo la sua evoluzione, prescindendo ormai dal fiorentino: per cui oggi nella scelta di un vocabolario non si guarda se sia o no in uso solo presso le persone colte di Firenze, ma se sia in uso  nel mondo intellettuale dell’intera nazione.

 

Le espressioni della letteratura romanza in volgare.

     La prima letteratura in volgare fu quella della lingua d’oil o fran­cese che fiorì nei secoli XI° e XII° nella Francia del Nord per opera dei “trovieri”. Le opere scritte in volgare francese sono, in maggior parte, composizioni narrative che, o trattano delle imprese dei paladini di Car­lo Magno, o dei cavalieri del re Artù, o degli eroi classici trasformati in cavalieri medioevali, o delle virtù o dei vizi simboleggiati in uomi­ni, in animali o in piante.

   Ciascuno di questi argomenti è svolto non in un componimento solo, ma in svariati episodi. Varie composizioni che si ispirano ad uno stesso argomento costituiscono un ciclo. Sorgono così in Francia il ciclo Carolingio, il ciclo Bretone, quello dei cavalieri antichi e quello morale.

1 – Ciclo Carolingio.

   Le composizioni di questo ciclo narrano in opere epico-liriche le im­prese di Carlo Magno e del popolo francese in difesa della patria e della fede. A fianco di Carlo e alla testa dei combattenti francesi operano i “Paladini”, ossia gli alti ufficiali del suo palazzo (‘paladino’ deriva da ‘comitem palatium’ = conte palatino).

   Le imprese narrate sono collettive e quindi epiche: ma sull’azione della massa spicca l’eroe o il paladino. Le imprese sono contro gli infedeli aiutati dal demonio. Carlo Magno doveva figurare sempre vittorioso e se talvolta la storia riferisse delle sconfitte la colpa sarà di un paladi­no    traditore o del demonio. Gli ideali per cui si combatte sono la pa­tria e la fede. Il tono della narrazione è serio e rivela che i compo­sitori sono convinti dell’alto ideale che esaltano;  i paladini sono ammi­revoli per spirito religioso e patriottico, per spirito di sacrificio nel compimento del dovere, per lealtà in tutte le loro azioni: l’imperatore Carlo è uomo saggio e venerando,  ottimo capo civile e militare nella Cristianità.

2- Ciclo Bretone.

   Narra le imprese dei cavalieri della Bretagna, capeggiati dal re Artù: i cavalieri sono nobili militari a cavallo che si impegnano con giuramento a difendere i deboli, gli oppressi e la Chiesa. Il cavaliere in genere è innamorato di una dama, e affronta le imprese più rischiose perché lei lo desidera e perché vuol rendersi degno di essere da lei corrisposto.

   Le imprese narrate sono avventure individuali che il cavaliere affronta per dimostrare le sue capacità eroiche, per rispondere lealmente agli im­pegni assunti nel giorno della sua consacrazione e per guadagnarsi la stima e l’amore della sua dama. Le avventure cavalleresche sono spesso ab­bellite e rese più meravigliose dal magico e con l’introduzione delle forze soprannaturali ( incantesimi,     operazioni strabilianti compiute da forze soprannaturali, divine o diaboliche). Il tono di questo ciclo è signorile, appassionato ed eroico: si notano una vivacità ed una spiglia­tezza che rivelano una maggiore cultura e abilità dei compositori. Le narrazioni cavalleresche ebbero il nome di “romans” perché furono scritte in lingua romanza o in volgare, precisamente in volgare d’oil o francese.

   Nei secoli XI° e XII° si usava ancora comporre in latino e quindi gli autori delle narrazioni cavalleresche usando per la prima volta il volgare, si sentirono in dovere di chiamare i loro canti  ‘romanzi’ in forza appunto della lingua adottata (in seguito, anche quando si cessò di narrare avventure cavalleresche, ogni composizione di ispirazione avven­turosa e ricca di spunti sentimentali e fantastici, fu detta romanzo non più per il motivo della lingua, ma del contenuto assai simile a quello dei primi romanzi).

3- Ciclo dei cavalieri antichi.

   Narra le imprese di eroi del mondo classico (particolarmente di Enea e di Ettore) trasformati in cavalieri del Medio Evo La letteratura dell’Eneide e dell’Iliade spinse alcuni letterati a rielaborare,   secondo la mentalità moderna, la vita e le imprese degli eroi che ammiravano in quei gloriosi poemi; gli anacronismi sono spesso ridicoli, ma lo spirito patriottico e l’amore della famiglia sono spesso commoventi. Il tono è ora eroico, ora familiare, ma riflette sempre l’ ammirazione che il compositore sente per i personaggi che descrive.

4- Ciclo morale.

   E’ una descrizione con tono spesso satirico dei vizi e degli inganni a cui si trova esposta la virtù,  simboleggiando il bene e il male nei costumi di certi animali. Il fine che i propositori si proponevano era quello di mettere in ridicolo alcune forme di vita proprie di perso­ne che, dopo essersi impegnate a professare la virtù, troppo facilmente vengono meno ai loro propositi:  talvolta la finalità satirica esula com­pletamente: ed allora si esalta la conquista della virtù realizzata attraverso il sacrificio e la costanza. Quindi i romanzi morali o hanno tono vivacissimo e malizioso,  o, un pò più raramente,  assumono il tono serio e solenne dei poemetti didattici.

Le principali composizioni dei quattro cicli.

      1.  Il ciclo carolingio comprende canzoni di gesta relative alle imprese di Carlo nelle varie parti in cui egli combatté per la fede:  imprese in Spagna che hanno ispirato fra l’altro la famosa “Canzone di Rolando“; imprese in Italia in cui abbiamo fra l’altro la “Canzone d’Aspromonte”; imprese in Palestina di cui è famosa la canzone “Il pellegrinaggio a Gerusalemme”;  imprese contro i Sassoni,  rievocato particolarmente dalla “Canzone dei Sassoni”. Complessivamente si tratta di un gruppo di 95 canzoni. I romantici credettero che autori delle  ‘Chansons’ fossero poeti popola­ri,  sorti su dalla massa come espressione naturale della comune spiritua­lità religioso-patriottica:  oggi si inclina a credere che le canzoni di gesta siano state composte da poeti di una certa cultura,  e precisamente da chierici delle Chiese disseminate lungo le vie dei grandi pelle­grinaggi, e precisamente lungo le vie che portavano a S. Giacomo di Compostella in Spagna,  a Gerusalemme,  a Roma. In quelle chiese che erano luoghi di tappe per i pellegrinaggi, venivano conservati i corpi di san­ti o di eroi; e i monaci dei conventi  annessi a tali chiese illustrava­no, in composizioni scritte in volgare, la vita e le imprese dei santi e degli eroi di cui essi custodivano i corpi ed offrivano ai pellegrini le loro canzoni.

Ciò avvenne particolarmente alla fine del secolo XI° quando fu ripresa la lotta contro l’islamismo con la prima crociata e quando riarse in Spagna la lotta contro gli Arabi (1064 – 1120).  Allora la figura del grande Carlo e quelle dei suoi paladini furono presentate ai fedeli chiamati a combattere contro l’Islam,  come esemplari di fedeltà a Cristo e alla Patria. Da qui si spiega il tono serio e convinto delle canzoni ed anche l’abile tessitura di alcune di esse che rivelano una cultura di certo superiore a quella di un giullare qualsiasi. Siccome i destinatari di queste canzoni sono persone del popolo e dovevano suscitare l’entusiasmo religioso e patriottico nelle masse,  è chia­ro che i compositori,  invece di scrivere in lingua latina,  come si era soliti fare allora, preferirono usare il volgare.

     2. Il ciclo bretone comprende tutti quei romanzi che narrano le avventure di Artù, capo di un gruppo di cavalieri che svolsero le loro imprese nelle Francia del Nord o dell’Inghilterra.  Cristiano di Troyes compose due famosi romanzi: “Ivain” e “Lancilot”; altri romanzi sono: “Tristano ed Isotta” e “La tavola rotonda”e “Percival”. I personaggi più famosi sono:  Artù, Lancilotto, Ginevra,  Tristano, Isotta, Galeotto, Percival. Il mondo a cui questi personaggi appartengono è schiettamente aristocratico, o il loro stile rivela finezza cavalleresca e sensibilità affettiva, le avventure sono quasi sempre ispirate da un motivo amoroso, e rivelano che i compositori hanno mirato ad offrire dei piacevoli libri di lettura ai cavalieri e alle donne delle fiorenti corti del tempo. Nel secolo XII, cioè quando furono composti i romanzi, la Francia del nord aveva vivo spirito cavalleresco a causa soprattutto delle crocia­te;  fu dalla Francia del Nord che partirono i più gloriosi condottieri della seconda crociata.

   La cultura si veniva diffondendo anche nel mondo laico, ed anche le donne si compiacevano di cultura. Maria di Champagne fu in quel tempo la donna più generosa verso i Lancilot. Fu pure una donna Maria di Francia che compose i famosi “Lais” di ispirazione amorosa e sentimentale. Non ci meraviglia perciò trovare nei romanzi una spiritualità assai li­bera, talvolta passionale, ma sempre fine e leale.  Il linguaggio è assai elaborato e specialmente con Cristiano di Trojes, presenta anche forme artificiose. Nel complesso il ciclo Bretone si può definire il ciclo del mondo cavalleresco aristocratico della Francia medievale e come ta­le piacque alle corti nello varie regioni d’Europa. Anche in Italia nel corso del secolo XIII si diffondono i romanzi bretoni specie i tre seguenti: Tristano ed Isotta, Lancilotto e Ginevra, la tavola rotonda.

     3. Il ciclo dei cavalieri antichi comprende tutti quei romanzi che elaborano le leggende classiche specialmente del ciclo troiano. L’autore più famoso è Benedetto Di Saint Maure il quale compose:  “Il romanzo di Enea, di Tebe, di Troia”;  da ricordarsi anche l’ “Infanzia di Ettore”.

   Certamente i compositori furono esperti delle leggende classiche, ammiratori dell’eroismo antico ed entusiasti nello stesso tempo dello sti­le cavalleresco moderno:  solo così si spiega infatti come nelle loro composizioni abbiano trasformato in eroi medievali vecchi eroi classici. Quindi è da supporre che tali romanzi siano sorti in ambiente dotto e nelle stesso tempo aristocratico.

4- Il ciclo morale comprende tutti quei romanzi che espongono sotto forma di favola, i principi e i giudizi morali e insegnano verità filosofiche e scientifiche. La composizione più notevole e più antica di questo ciclo è “Le romans de Renard”; ma più recente è “le romans de la Rose” di Meune. A queste composizioni si possono aggiungere quelle numerosissime di Fabbians o Favolelli,  che hanno ispirazione e tono comico-satirico. I romans sono sorti in ambiente dotto ecclesiastico, i favolelli in ambiente dotto laico perché   rivelano una morale spregiudicata, e satireggiano i costumi degli ecclesiastici.

Conclusione

   La prima letteratura in volgare quindi ci offre esemplari di ispira­zione morale, religiosa, patriottica, da un a parte,  cavalleresca e mon­dana dall’ altra. Non si può certo affermare che le composizioni di ispira­zione profana siano prive di motivi morali e religiosi, ma non si può neanche nascondere che qualche passo dei romans bretoni,  specie del Lan­cilotto, invece di favorire l’educazione morale dei lettori, contribuisce ad alimentare le passioni. E’ per questo che Dante nel canto V dell’infer­no addita come provocatore dell’adulterio il detto romanzo di Cristiano da Trojes. Tutte le composizioni dei vari cicli inoltre rivelano spontaneità di ispirazione e tentativi di creare un linguaggio vivo e fine.

LA SCUOLA PROVENZALE.

      Una scuola poetica è costituita da un gruppo di poeti che si ispira­no presso a poco agli stessi pensieri e sentimenti, e fanno uso dello stile fondamentalmente comune. La scuola provenzale è costituita da un gruppo di poeti lirici in lingue d’oc fioriti nella seconda metà del se­colo XII nelle varie corti della Francia meridionale. I trovadori (così sono detti i poeti in lingua d’oc) sono cavalieri che vivono nelle corti feudali della Francia del sud ed ornano con il loro stile di vita fine e gentile e con la loro attività letteraria gli splendidi ambienti signori­li. Li potremo definire “cavalieri della penna” o “dell’amor fine” esal­tato in rime gentili ed eleganti. Nel secolo XII non v’è corte feudale sia in Francia che altrove, che non accolga il progresso della civiltà, la cui essenza è sintetizzata nella mentalità dello stile cavalleresco: solo nei castelli sperduti in luoghi inaccessibili delle zone montagnose si mantiene un costume rozzo primitivo; ma, ovunque la civiltà è penetrata, i primi ad accogliere le forme di una vita più serena e più decorosa sono gli aristocratici della classe sociale. Numerosi perciò anche presso i vari principi della Francia del sud sono i cavalieri poeti chiamati ad ornare con la loro fine arte la vita della corte. Nell’ambiente corti­giano il personaggio più autorevole è certo il conte,  o il marchese, ma il personaggio più ammirato è la dama,  consorte o figlia del marchese. Il compito del cavaliere poeta è quello di esaltare tutto ciò che fa parte dell’ambiente aulico; la dama che per il suo sesso e per le sue doti par­ticolari,  riassume quanto di più aristocratico offre la corte,  costituisce perciò il soggetto preferito dell’ispirazione del trovadore. L’amore è dunque il motivo più comune nella lirica provenzale,  e dell’amore furono i principi fondamentali in una specie di codice che fu detto appunto “codi­ce d’amore” (31 art.).

   Non mancarono tuttavia composizioni liriche di ispirazione civile, re­ligiosa e morale. Le composizioni presentano quasi tutte la forma metrica della canzone la quale,  allorché è destinata ad illustrare concetti poli­tici e ad esaltare un personaggio illustre viene detta ” sirventese”. Non mancano lo “albe”  (di ispirazione amorosa, sessuale) e le “sestine”  (la sestina fu forse inventata da Arnaldo Daniello).

Concetti fondamentali a cui si ispirano i trovadori

A. Concetto dell’amore: l’amore è sensibilità,  ammirazione, devozione per la bellezza: non è affetto vero e proprio, ma capacità di percepire il bello e bisogno intimo di cantarlo. Si potrebbe definirlo amore fine, ossia capacità di percepire, ammirare,  cantare le cose fini.

B. Concetto di cuore gentile: è chiaro che l’amore inteso così, si trova solo in un cuore educato al gusto e al culto della finezza e, siccome tale educa­zione l’hanno solo i cavalieri e i nobili in genere, il cuor gentile, in cui suol nascere amore, è la stessa cosa che cuor nobile o aristocratico o cavalleresco.

C. Concetto della donna:  la donna dai trovadori è la sintesi di tutte le finezze ammirate nel mondo aristocratico e cavalleresco, le sue forme fisiche ci riassumono i pregi della stirpe da cui lei discen­de. Preferisce non esporsi al pubblico quasi a dare a questo la sensazio­ne della sua superiorità;  e per acuire al trovadore l’ansia di conoscerla si mostra di rado e ci sfuggita in atteggiamenti che colpiscono per eccel­lenza di gusto e di grazia.

   I pregi della donna sono dunque costituiti,  oltre che da quelli fisici, anche dall’eleganza dell’abbigliamento, della finezza del parlare, dall’incedere decoroso, dal sorriso e dal guardare, dai frequenti disdegni  con i quali investe coloro che non sono in condizione di so­stenere la sua presenza o per volgarità o per inesperienza. E’ chiaro che, intesi l’amore e il cuor gentile al modo che si è detto, la donna non poteva essere che la sintesi dell’aristocratismo aulico.

      D. Concetto dei rapporti fra amante e madonna: non si tratta di rappor­to vero e proprio; il poeta è al servizio di una bellezza e questa si compiace di essere servita pur senza manifestare le sua compiacenza. Il poeta si impegna con tutte le energie a meritare un certo condiscendente dalla signora; ma questa, quasi temendo di venir meno alla sua dignità e di sminuire il concetto sublime che il cavaliere ha di lei, si rende invisibile e assume un compassato atteggiamento di dama venerata. Io stesso rapporto che passa tra il suddito e il suo signore intercorre fra la dama e il cavaliere. Nel linguaggio della poesia provenzale “amore” è espresso col termine”servir” ossia l’amore è servizio cavalleresco, im­pegno di cuor gentile verso la bellezza. La donna viene chiamata “midons” termine con cui il suddito si rivolge al suo signore feudale. L’impegno che il cavaliere si assume è quello di omaggiare cioè di rendere in poe­sia quell’omaggio alla bellezza che il suddito rende nei rapporti socia­li al signore. Insomma si rispecchia nei rapporti tra il poeta cavaliere e la dama, il sistema dei rapporti che intercorrevano fra signori e sud­diti nel regime feudale. E’ spiegabile, perciò come predomini   nell’animo del cavaliere il desiderio di rendere omaggio nel miglior modo, perché egli tenti i più ingegnosi artifici, perché egli per quanto rivela alla dama i suoi desideri di sensualità velati di aristocratismo, assuma at­teggiamenti di inferiorità. Perciò eccetto alcuni pochi poeti i quali sono ispirati da sentimenti vivi, in quasi tutti i poeti provenzali so­no artificiosamente creati e artificiosamente espressi.

   E. Concetto degli effetti dell’amore: il cavaliere innamorato, cioè il cavaliere che volontariamente si è assunto il compito di servire, ha il dovere di servire degnamente. Quindi l’amore lo spinge a perfezionare sempre più il suo stile esteriore cioè il suo portamento e il suo linguaggio, e il suo modo di pensare e di sentire,  adeguandolo alle forme più peregrine del vivere aristocratico. L’amore è quindi fonte di perfezione, ma si tratta di una perfezione puramente umana, e che spesso è accompa­gnata da aspirazioni morali poco approvabili.  Si può dire infatti che l’amore dei provenzali abbia come oggetto normale la dama sposata, ed è per questo motivo che la chiesa si allarmò al fiorire di questa poesia.

Forma della poesia provenzale.

   E’ una forma astratta e spesso elencativa;  ossia quando parlano della dama,  o esprimono a lei i loro omaggi di elogi,  i poeti non ci presentano una figura concreta di donna, ma espongono soltanto i pregi di lei in mo­do che alla fine il lettore si trova di fronte a un elenco di lodi ma non vede “midons”. Essendo tutta l’ispirazione studiata e non sensitiva, manca la spontaneità, cosicché si trova, raramente, un quadro di vita o uno stato d’animo realmente vissuto dal poeta.  Compassata l’ispirazione in for­za della disciplina dello stile mentale, compassato anche il modo con cui l’ispi­razione viene sviluppata ed espressa.

II linguaggio della poesia provenzale.

     Sebbene la poesia trovadorica fiorisca oltre che in Provenza anche in Aquitania e in Linguadoca, l’idioma di cui si servono i trovadori è sem­pre quello provenzale. Essendo i compositori anche molto esperti nel lin­guaggio latino è chiaro che la lingua dei poeti è pura da forme dialetta­li: si tratta insomma di una lingua d’oc dotta e aulica. Avviene però spesso che i trovadori non potendosi differenziare tra loro per l’ispira­zione in quanto è modellata sugli stessi principi, tentino di differenzi­arsi nel linguaggio e nelle forme metriche, vi è quindi una specie di gara tra di essi nella ricerca di espressioni più nuove e più complicate; ed alcuni, per affermarsi,  creano espressioni linguistiche così che diffi­cilmente di esse si intende il significato: sono i cosiddetti poeti del “Trobarelus”.

   In conclusione i provenzali per finezza di linguaggio e per abilità di tecnica compositiva furono considerati come maestri di poesia lirica da letterati di varie regioni dell’Europa centro occidentale.

I più illustri compositori provenzali.

    Il più famoso fra i più antichi trovadori è Mareabruz: poeta che preferì all’ispirazione amorosa, quella morale e spesso religiosa; Bertran de Bom autore di molti “sirventesi” pieni di passione civile e di spirito bellicoso; Arnaldo Daniello (ricordato da Dante nel canto XVI° del Purga­torio) poeta elegantissimo o soave; Rambaldo di Vaqueiras che si dilettò di interpretare anche i sentimenti amorosi della gente umile e del popolo; Jufrè Rudel principe e poeta famoso per la leggenda sorta intorno a un suo amore per una donna lontana,  cioè per Melisenda, regina di Tripoli di Siria (leggenda elaborata dal Carducci in”Jufrè Rudel”). Falchetto da Mar­siglia nativo di Genova, ma vescovo di Marsiglia, autore di liriche amo­rose prima della sua assunzione al vescovado,  e di liriche religiose e morali dopo l ‘elezione.

Non in Francia soltanto troviamo compositori in lingua d’oc, ma an­che fuori di essa;  in Italia ad es. è famoso Sordello da Goito di cui è ricordato un sirventese scritto per la morte di Ser Blacatz (principe no­to per la sua generosità, del cui cuore Sordello incita a rifarsi i princi­pi europei affinché imparino ad essere anche essi generosi); Dante presen­ta Sordello nel canto VI° del Purgatorio quale simbolo di amor di patria e di magnanimità morale.

Conclusione.

    I trovadori rappresentarono nel secolo XII° e nei primi anni del secolo XIII° gli esemplari della poesia lirica fine ed aristocratica, legata ancora alla mentalità, allo stile di vita del mondo feudale. Furono in genere buoni tecnici di linguaggio, ma raramente seppero esprimere visioni concrete di bellezza o stati d’animo veramente vissuti e tanto meno situazioni psicologiche la cui sostanza interessasse gli uomini di tutti i tempi: la poesia trovadorica è più espressione di una società e di un cos­tume che dell’anima umana colta nelle sue aspirazioni sincere, nelle sue crisi, nella gioia delle sue conquiste; tuttavia come poesia di cavalieri cortigiani ossequienti ed eleganti, ha i suoi pregi, almeno formali, e la sua importanza storica.

LA SCUOLA SICILIANA.

  E’ un gruppo di poeti che compongono liriche d’amore in volgare italia­no (e precisamente in dialetto siciliano raffinato e colto) e che fanno capo alla corte di Federico II di Svevia, residente in Palermo, durante il primo cinquantennio del secolo XIII°.

   I poeti della scuola siciliana non sono tutti nativi dell’isola (ad es. Pier Della Vigna è di Capua, Rinaldo è d’Aquino,  Giacomino è della Pu­glia), ma siccome il regno di Svevia di Federico II com­prendeva non solo la Sicilia, ma anche l’Italia meridionale,  tutti gli ingegni migliori delle due terre concorrevano a Palermo che era la glo­riosa capitale.

   Federico II nipote di Federico Barbarossa e figlio di Enrico VI di Svevia, era nello stesso tempo imperatore del Sacro Romano Impero e del vecchio dominio normanno, cioè delle due Sicilie.  Influenzato dalle dot­trine giuridiche del vecchio mondo classico professate dai molti giuris­ti che erano alla corte, egli si propose di organizzare il suo regno, secondo il concento della sovranità, proprio del diritto romano;  cioè sottopose al controllo degli uomini le attività delle varie zone sog­gette alla sua giurisdizione. Formò così uno stato forte, ben controlla­to, fiorente per commerci o ricchezza ed anche per attività intellettua­li. Nella prima metà del secolo XIII Palermo fu certo la città più famosa d’Italia e Federico era noto non solo per la sua attività politica, più o meno disgraziata, secondo i momenti, ma anche per il suo ingegno e per la sua generosità verso gli uomini colti.

   Nei primi due decenni del secolo XII tramonta la scuola provenzale,  sia perché i motivi e le forme ormai si sono esauriti, sia perché, dopo la sconfitta degli Albigesi e dei feudatari che li appoggiavano, inflitta loro dall’esercito della Francia del Nord, venne a mancare ai trovado­ri protezione ed appoggio. Esauritisi i cicli francesi e la lirica trovadorica, gli intellettuali italiani guardarono a Palermo come al centro della cultura. Gli intellettuali della corte Sveva in genere sono giu­risti e quindi la loro spiritualità è troppo positiva e razionale per adeguarsi alle esigenze della poesia che richiede sì vigore di pensie­ro, ma anche vivacità di sentimenti e capacità fantastica, ed infine buona conoscenza della tecnica dell’espressione linguistica. Non mancano tra i siciliani poeti  spontanei e vivaci, ma sono pochissi­mi e non appartengono mai alla classe dei giuristi.

Caratteristiche della Scuola Siciliana.

    A. E’ una scuola di imitazione nel senso che quasi tutti i poeti che ne fanno parte si ispirano a concetti ed a atteggiamenti già comuni nella scuola provenzale. Anche l’amore dei Siciliani infatti è un”servir fine” in quanto è omaggio di persone colte ed esperte delle cortesie auliche ad una donna aristocratica e nota nel circolo della reggia. Cuor gentile,  è anche per i Siciliani cuore sensibile alla bellezza: è sensibile perché aristocratico. Anche la donna è un tipo astratto di per­fezione aristocratica. Anche i rapporti fra amante e amata sono rapporti di inferiore e superiore. Anche gli effetti dell’amore sono riassunti in un’ansia di raffinamento senza sosta. Le forme dei Siciliani come quelle dei trovadori sono in genere elencative-astratte: il poeta non rappresenta la donna viva e concreta ma solo di tanto in tanto, con sostantivi, aggettivi peregrini e frasi studiate,  tenta di definire i pregi esterni ed interni di lei, quando poi parla di sé,  cioè del suo stato d’animo, dice con parole quello che egli sente ma non rappresenta mai direttamente e concretamen­te il suo mondo interiore: ad es. ci dice che egli soffre ma non sa pre­sentare sé stesso come sofferente; ci dice che egli rimane abbagliato dalla finezza della donna, ma non sa presentare sé stesso estasiato di fronte alla bellezza. Insomma molte parole, ma poche visioni complete, o meglio concrete;  sa che il linguaggio è influenzato dal gusto dell’ar­tificio già notato nei provenzali: contrasti di concetti,  contrasti di parole, equivoci (uso della stessa parola con significato diverso), allitterazioni che rivelano l’aspirazione di apparire ingegnosi ed abili.

       B. E’ una scuola di impronta italiana: infatti per quanto presentino gli

stessi atteggiamenti generali della poesia trovadorica, le composi­zioni siciliane hanno qualche cosa di particolare, di caratteristico che le fa riconoscere italiane. Infatti pur restando l’atteggiamento psicologico tale quale era nei Provenzali,  tuttavia i Siciliani intro­ducono qualche motivo più vivo, assumono qualche tono più confidenziale, sono insomma meno compassati e più spigliati. Stati d’animo spontanei, benché non elaborati profondamente alla luce di ideali religiosi, mora­li, umani vengono espressi con immediatezza specie dai poeti che pur facendo parte della scuola siciliana, ebbero tuttavia limitati rapporti con i giuristi e i poeti di Palermo e precisamente da Giacomino Pugliese e da Rinaldo d’Aquino. Qualche tentativo di elaborare filosoficamente il concetto dell’amore è proprio dei giuristi poeti, ma si tratta di saggi senza impegno. Nel complesso la nostra poesia siciliana manca di concretezza,  vitalità affettiva, efficacia rappresentativa.

Importanza storica della scuola siciliana.

   Dal punto di vista artistico dunque la produzione dei Siciliani ha un valore molto limitato: grande importanza invece essa ha dal punto di vista storico e linguistico: infatti la scuola siciliana rappresenta la prima espressione di poesia colta in volgare italiano. Fino ai Sici­liani vere e proprie composizioni in volgare italiano non si erano mai avute. Il volgare era stato adoperato solo in documenti commerciali o in iscrizioni destinate ad essere conosciute da tutto il pubblico. Le composizioni vere e proprie poetiche o no, erano state scritte in lingua latina medioevale. I Siciliani sono dunque i primi che usano il volgare italiano per esprimere in forma elegante il loro stato d’animo, più o meno poetico e per realizzare le loro velleità artistiche.  Il volgare di cui essi fanno uso è il dialetto siciliano, nelle sue forme popola­resche, ma modellato il più possibile alla lingua latina dotta di cui erano espertissimi. Da questa elaborazione del dialetti risulta un lin­guaggio così fine e così superiore alle forma grezze dalla parlata popo­laresca che Dante nel “De volgari eloquentia” esprimerà la sua incondi­zionata ammirazione per la sapienza linguistica dei Siciliani e antepor­rà questi ai poeti della Toscana. L’idioma siciliano è definito da Dante aulico cioè idioma in uso noll’ambiente aristocratico e gentile della corte: “videtur sicilianum volgare sibi famam prae aliis ascisere, eo quod quidquid poetantur Itali sicilianum vocatur,  et eo quod perplures doctores indigenos invenimus graviter cecinisse”. I Siciliani dunque hanno avuto il merito di aver elaborato per primi la lingua letteraria italiana. Tuttavia non essendo riuscita la loro opera ad imporsi ai let­tori italiani, per mancanza di vera e propria ispirazione poetica, de­finire la nostra lingua nazionale spetterà a scrittori che sapranno uni­re insieme ispirazione profonda e viva, forma complessa e originale, lin­guaggio chiaro e ricco,  cioè gli scrittori toscani del secolo XIV°.

Scrittori della scuola siciliana.

    Li possiamo distinguere in due gruppi: poeti imitatori e freddi notevoli solo per una cerva eleganza di linguaggio: Federico II, il re Enzo e Man­fredi, figli di Federico, Pier della Vigna,  Jacopo da Lentini; e poeti che pur uscendo fuori dall’ambiente spirituale della scuola, tuttavia dimostrarono più vivacità e spontaneità: Giacomino Pugliese, Rinaldo d’Aquino, Oddo delle Colonne.

Tramonto della scuola siciliana.

     Nel 1250 mori Federico II; nel 1266, a Benevento, in una battaglia contro Carlo d’Angiò morì Manfredi: la Sicilia e l’Italia meridionale passarono sotto il dominio angioino;  e così il circolo degli uomini col­ti che era fiorito intorno agli Svevi si sciolse e scomparve. L’eredità della poesia detta siciliana passa agli uomini colti della Toscana, che nella seconda metà del secolo XIII° è la regione più libera, più agiata, più civile.

Scuola sicilianeggiante in Toscana.

       Nella seconda metà del secolo XIII°, mentre si spegne la scuola sici­liana, incomincia a fiorire la poesia in Toscana. Guittone d’Arezzo e Bonagiunta Urbicciani da Lucca, seguiti da un disc­reto numero di discepoli, costituiscono una scuola poetica detta dei “Sicilianeggianti” in Toscana.

Il motivo preferito da questa poesia è ancora l’amore; interpretato se­condo la mentalità e lo stile dei Siciliani ma con tentativi di elabora­zione filosofica. E poeti Toscani non sono giuristi, ma, in genere, cultori di filosofia e di lettere, e quindi è naturale che abbiano questa tendenza alla  ispirazione filosofeggiante. L’amore, più che frutto di sensibilità cavalleresca, è da essi concepito come una esigenza della natura umana che va in cerca del bello e del bene, ma nelle composizioni questo modo istintivo dello spirito verso il bello e il bene non viene rappresentato in forme concrete,  perché la poesia viene concepita come settore del più vasto campo della filosofia.

   La forma è dunque raziocinante, non ancora rappresentativa, molte parole, generosi tentativi di spiegazioni dotte, ma pochissima vita e pochissimo sentimento. La lingua è il dialetto toscano modellato sul latino dotto (non quelle classico ma quello medioevale). Guittone d’Arezzo capo dei sicilianeggianti, fu da Dante giudicato molto severamente a proposito della lingua, in quanto il suo latineggiare riuscì soltanto a confondere e non ad elevare il dialetto toscano. E difatti, almeno la lingua di Guittone in molte composizioni è veramente aspra ed oscura.

Autori della scuola sicilianeggiante.

      Guittone d’Arezzo.

La sua produzione si può distinguere in due parti: liriche composte prima della conversione religiosa, liriche dopo la conversione religiosa. Le prime sono ispirate al motivo dell’amore    interpretato in senso tra filosofico-scolastico e cavalleresco. Sono, svolgimenti generici, fioriti di artifici linguistici che rivelano pedanteria. Le seconde, invece,  sono di ispirazione morale o civile e sono più ricche di sentimento, perché più concrete ed anche stilisticamente più chiare. Da ricordare la famosa canzone “A Firenze dopo la dis­fatta di Montaperti”.

   Bonagiunta Urbicciani da Lucca.

E’ poeta meno complicato; meno artificioso di Guittone, chiacchiera meno, è più originale e sente con una certa commozione la bellezza.

POESIA POPOLARE.

    La poesia popolare è quel complesso di composizioni che si ispirano a pensieri e a sentimenti del popolo mediocre e di poca cultura, e li esprimono senza alcuna elaborazione complessa, artificiosa o profonda di carattere religioso, morale o civile con un linguaggio che è dialetto leggermente ripulito in forza della espressione linguistica dei poeti. La prima caratteristica di questa letteratura è la spontaneità la quale consiste in una espressione immediata di uno stato d’animo non influen­zato da cultura o mentalità dottrinale.

   Si potrebbe dire che la poesia popolare sia l’espressione di sentimenti sorti  spontaneamente dalla prima espressione e non generati e alimen­tati dalla espressione dotta ed ideale: ad es. la poesia amorosa esprime quello che il cuore umano, quasi per istinto sente e dice alla persona amata.  L’inserzione, invece, del sentimento amoroso nella mentalità e nello stile della cavalleria aristocratica,  come avveniva nella scuola provenzale,  è carat­teristica della poesia di dottrina e di elaborazione. Alla caratteristi­ca della spontaneità va connessa quella della vivacità, la quale consiste nell’esprimere gli stati d’animo con lo stesso ritmo mobile e vario con cui di fatto sono vissuti dal cuore: il ritmo compassato e studiato, indice di uno scrupoloso impegno di apparire eleganti, è ignoto al compositore popolare. Non si preoccupa di apparire lindo ed elegante, ma di prendere contatto immediato con l’anima del lettore. Tuttavia se la com­posizione popolare è superiore per spontaneità e vivacità alla poesia di scuola, è dall’altra parte inferiore a questa per mancanza di profondità ideale e di buon gusto o decorosità stilistica. Il linguaggio di un cuore vigoroso e sincero ma ancora in una condizione di primitività, piace e commuove chi si contenta di poco, ma non desta l’interesse dei lettori che chiedono alla poesia una interpretazione e una rappresentazione della vita capace di rivelare l’uomo a sé stesso con i misteri della sua psico­logia; con le vicende del suo destino, con i complessi rapporti che lo legano ai suoi simili, alle leggi esterne, all’infinito. Disgraziatamente le persone che nel secolo XIII° potevano darci una poesia ricca di ispira­zione intelligente ed elegante,  cioè le persone di elevata cultura,  sde­gnarono di comporre in volgare o al massimo dedicarono alle composizioni in volgare solo una parte della loro attività (come avviene per i Sicilia­ni che erano giuristi di professione e poeti di dilettantismo).

   Per questo la poesia più spontanea del secolo XIII° è opera di compo­sitori poco forniti di capacità idealizzatrice, di fantasia vigorosa e complessa, e di gusto stilistico.

La poesia popolare è detta poesia dettata dalla natura in quanto esprime i sentimenti dettati dalla natura, non influenzati dalla cultura.

Cause della poesia popolare.

 La diffusione della istruzione in mezzo al popolo è dovuta:

a) Alla agiatezza economica.

   I compositori popolari sono in genere persone di media cultura; raramente sono dotti che si provano ad esprimere stati d’animo caratteristici della psicologia del popolo con un linguaggio aderente alle forme del dialetto. Nel secolo XIII lo città italiane, specie quelle dell’Italia centrale e settentrionale, fioriscono per agiatezza, per libertà democratica, per attività economiche, artistiche ed anche letterarie. In seguito alla ri­nascita della civiltà verificatosi nel secolo XI, non solo il clero e gli artisti si appassionarono alla cultura, ma anche tra il popolo si diffonde il desiderio di apprendere almeno a leggere e a scrivere. Così in ogni paese e città,  specie in quelli organizzati a regime comunale, persone del popolo gustano la letteratura delle chansons, dei romans francesi tradotti in italiano, e si compiacciono di esercitarsi nella trattazione poetica di argomenti cari alla massa. La religione, il pen­siero dell’oltre tomba, l’amore, i divertimenti, la vita giovanile e serena della città, una sciagura collettiva, la morte di un illustre per­sonaggio offrono argomento al poeta popolare che si fa interprete del pensiero e del sentimento comune e con la sua voce esprime le aspirazio­ni, le preoccupazioni, lo speranze di tutti.

b) All’influsso della chiesa sulla spiritualità del popolo.

   I secoli XII o XIII rappresentano il periodo più glorioso della collabo­razione fra chiesa e popolo. L’istruzione religiosa delle masse era as­sai curata, anzi all’inizio del secolo XIII gli ordini Domenicano e Fran­cescano sorgono appunto per erudire le popolazioni delle città e delle campagne   nelle verità della fede e per assisterle spiritualmente: pres­so i vescovadi e le abazie dei conventi in genere fiorivano scuole a cui potevano accedere quelli che lo avessero voluto.

Con la discreta cultura che acquistavano in queste scuole ed in forza del contatto frequente con gli uomini della chiesa alcuni uomini del popolo di ingegno più vivace e desiderosi di affermarsi nel piccolo ambiente in cui vivevano, si dedicavano con passione a comporre intorno agli elemen­ti più svariati.

Varie specie di poesia popolare.

     A. Poesia religiosa: S. Francesco e Jacopone da Todi.

Questi due personaggi rappresentano le forme più evidenti del misticismo medievale. S. Francesco è il mistico cattolico che vede nella creatura i riflessi di Dio e si vale delle voci che gli vengono dal creato per trovare la strada al sommo bene e al sommo bello.  “Il cantico delle crea­ture” esprime questo misticismo sereno,  cordiale, pieno di speranza e di serenità. Di ogni creatura S. Francesco ha colto l’aspetto più signifi­cativo per rivelare la sapienza e la bontà di Dio nel circondare l’uomo di fratelli e sorelle utili e belli. Il suo linguaggio è il dialetto um­bro leggermente ingentilito dalla modesta cultura del santo composito­re.

Fra Jacopone da Todi. E’ un avvocato convertitosi alla professione reli­giosa francescana in seguito a un drammatico incidente (indosso alla moglie morta durante un ballo trovò un cilicio). L’ispirazione di fra Jacopone è ardente e quasi torrenziale: il misticismo è pazzia d’amore per Dio, è disprezzo delle cose terrene che egli considera come perico­li di rovina spirituale per l’uomo: la sua produzione si può distingue­re in due serie: laudi ispirate al suo stato d’animo mistico, laudi che interpretano lo stato d’animo di personaggi sacri del Vangelo o della storia dei santi. Le prime sono più soggettive, più irruenti e quindi più imperfette e rozze dal punto di vista formale, dato che egli non si ora esercitato in giovinezza nella composizione poetica in quanto si ora dedicato al­l’avvocatura; le seconde sono di ispirazione più oggettiva, più pacata: il poeta contempla il suo soggetto, e si sforza di adeguare il suo sta­to d’animo alla vita intima di esso e così tace il turbine delle sue passioni personali. Fra Jacopone è insomma un grande poeta in quanto è grande la forza del suo sentimento; ma la sua grandezza è compromessa dal fatto che l’inesperienza della tecnica poetica gli impedisce di fare una espressione adeguata, piena e composta nel suo mondo interiore.

       B. Poesia didascalica: insegnamenti morali, religiosi, curiosità scientifiche.

Fra Uguccione da Lodi: “Il libro” fra il morale e il religioso. Bonvesin da Riva: “Cortesia da desco”,  “Libro delle tre scritture”. Giacomino da Verona:  “De Jerusalem celesti”, “De Babilonia infernali”. Francesco de Barberino:  “Documenti d’amore”,  “Reggimento e costumi di donna”. Brunetto Latini:  “II tesoretto”.

       C. Poesia giullaresca: Svolge argomenti svariatissimi in forma popola­resca,  cioè ispirandosi a pensieri e sentimenti assai primitivi e istintivi, e usando il linguaggio dialettale con scarsi tentativi di raffi­namento.

        Le forme della poesia giullaresca sono:

a)-Il contrasto: cioè il contrasto tra l’amante e l’amata (che alla fine sappiamo finisce con l’accordo di ambedue), contrasto tra madre e figlia per dissenso nella scelta del giovane.

b)-Il lamento: lamento per la morte di persona cara, per la morte di un personaggio illustre in città, per un disastro accaduto nel territo­rio della città, o perché la madre non permette il matrimonio con la persona amata.

c)- Strambotti e rispetti amorosi: lo strambotto è una composizione di otto versi con rima alternata, in uso in Sicilia; il rispetto è anche esso una composizione di otto versi, i primi sei dei quali sono a rima alternata, gli ultimi a rima baciata, in uso in Toscana.

Gli autori delle composizioni giullaresche sono ignoti;  si conosce solo l’autore di un contrasto in lingua siciliana attribuito a Cielo D’Alcamo, il quale, uomo colto (come risulta, da alcune espressioni desunte dal latino e dal provenzale), si compiacque di imitare lo spirito e le forme del popolo.

D. Poesia borghese: Sono composizioni che descrivono scene liete di vita cittadina nei vari tempi dell’anno o tipi caratteristici dell’ambiente paesano. Sono noti per composizioni di questo genere Folgore S. Gimiano (autore di dodici sonetti per ciascun mese dell’anno e di sette sonetti per ciascun giorno della settimana) e Rustico di Filippo (autore di bozzetti in cui si delinea alcuni tipi di cittadini notevoli per certe loro stranezze). A Folgore di S. Gimiano,  che nei suoi sonetti augurava alle liete brigate beni particolari per ciascun mese dell’anno, rispose Cene Delle Chitarre,  augurando alle medesime brigate mali opposti ai beni augurati da Folgore.

E. Poesia realistica: di nota cruda e sentimenti spregiudicati. E’ la poesia che si ispira a sentimenti spregiudicati,  a visioni ripugnanti e che rivela nel compositore una specie di gusto nel vedere scandalizzato il lettore. E’ restato famoso in questo genere di poesia Cecco Angiolieri che si vanta di odiare suo padre e sua madre, si compiace di amare una certa Becchina e di far sapere a tutti che egli è giocatore, beone, donnaiolo.

      Scuola di transizione.

  E’ costituita da un gruppo di compositori fiorentini (tra cui primeg­giano Chiaro Davanzati e una scrittrice anonima denominata “Compiuta Don­zella”) i quali, pur non giungendo alla concezione dell’amore, dell’arte che ebbero gli stilnovisti, tuttavia preludono al dolce stile. La loro ispirazione, infatti,  confrontata con quella dei Siciliani è più originale e più sentita;  e la loro forma è più concreta e vivace. Si nota in questi compositori una preziosa tendenza a vedere il reale nei suoi aspetti ideali e a descrivere gli stati d’animo generati da questa visione ingenua e quasi estatica,  con sincerità,  senza imposta­zioni né filosofiche né retoriche. Più che la scuola di transizione, come avviamento al dolce stil nuovo si può considerare la poesia popo­lare,  specie la poesia borghese, religiosa.

Dolce stil nuovo.

   E’ una scuola di poesia lirica, che sorge a Bologna, fiorisce in Toscana nell’ultimo trentennio del secolo XIII° ed ha come motivo predominante l’amore mistico.

Concetti fondamentali del dolce stil nuovo:

1)- Concetto dell’amore: amore è attrattiva che l’animo sente di fronte al bene, esso è gaudio contemplativo e intesa intima,  affettuosa fra due anime, non è atteggiamento studiato,  cioè uno stato spirituale prodotto con arte, ma è un sentimento spontaneo.  Siccome l’anima tende istintivamente al bene sommo, l’amore di Dio è innato nell’uomo (Par. can. 1° vv118-120) ed è il vero amore. Ma come alla conoscenza di Dio si accede attraverso la contemplazione dei riflessi di lui nelle creatu­re, così all’amore di Dio si giunge attraverso l’amore della creatura che maggiormente la riflette. In tal senso si chiarisce meglio il signi­ficato dell’amore umano inteso come unione di due anime:  infatti l’aman­te si compiace dei doni di cui è fornita madonna;  e questa si compiace di offrire all’amante, a conforto ed elevazione di lui, i beni celesti ricevuti. Così l’amore umano si armonizza con l’amore divino, anzi diventa un ottimo fattore di elevazione dello spirito verso il Bene Sommo. L’incontro tra le due anime, secondo questa concezione, avviene in un piano mistico e soprannaturale, per cui l’amore stesso è detto”mistico”. Questa concezione è propria di Guido Guinizzelli e di Dante, ma anche gli altri stilnovisti concepirono l’amore come incontro di anime in una atmosfera di gentilezza, di bontà e di soavità anche se viene a mancare il motivo soprannaturale. L’amore così inteso non solo non è colpevole, ma addirittura un dovere per le anime che aspirano a un gaudio superiore.

2)-Concetto di cuor gentile: se l’amore è godimento spirituale di bellezze soprannaturali, esso non può sorgere che in un cuor gentile, ossia in un cuore nobile, in un cuore virtuoso. “Al cuor gentil ripara sempre amore”; “amor e cuor gentil sono una cosa” dice Guido Guinizzelli; e Dante soggiunge “è gentilezza dovunque è virtude” (Convivio IV°). I provenzali intendevano gentilezza come sensibilità della finezza a­ristocratici o reputavano questa capacità emotiva galante come caratte­ristica esclusiva dell’aristocrazia.

   Secondo la concezione stilnovista invece, la gentilezza è sensibilità per tutto ciò che è celestiale,  ossia per la bontà soave e pura incarnata in forme di grazia eterea e celestiale. Tale sensibilità non è dote esclusiva dell’aristocratico, ma di qualun­que persona la quale per disposizione naturale e per educazione, sia capace di commuoversi di fronte al bene e al bello,  e precisamente è propria dell’uomo virtuoso,  cioè di colui che sentendo il bisogno di un largo respiro spirituale si eleva al di sopra delle cose meschine e volgari per ascondere verso l’Infinito.

3)- Concetto della donna: Se l’amore è godimento di beni spirituali e soprannaturali e può sorgere soltanto in un cuor virtuoso, consegue che la donna, oggetto di questo amore, non può essere che una sintesi viva di bellezze naturali e soprannaturali, ossia non può essere che un ri­flesso vivo di Dio, un “angiol venuto dal cielo in terra a miracol mo­strare” (Vita Nova);  “loda di Dio vera” (Inf. c.II).

   Non è più la feudataria che si compiace della sua aristocrazia,  che si mette in perfetta posa,  che si mostra di rado per farsi desiderare, che non corrisponde per il gusto di veder soffrire l’amante; la donna del dolce stil nuovo è soave, dolce, umile avvolta in una atmosfera di nitida bellezza, di bontà;  è una creatura viva i cui occhi, quale riflesso della luce interna,  sono luminosi; il cui colore, quale riflesso del candore interno, è come di perla; il cui sorriso e il cui saluto quale ri­flesso della bontà e della soavità interiore, è l’espressione suprema della gentilezza e della grazia.

   Le donne vedono in lei l’esemplare del loro sesso e si compiacciono del­la sua compagnia. I cittadini la considerano come l’onore e il tesoro più prezioso della loro città e si vantano di lei di fronte agli abi­tanti dei paesi vicini. E lei, senza orgoglio, volentieri prende parte alle gloriose e gentili adunate delle amiche e quando percorre le vie cittadine luminosa ed ammirata saluta con umile grazia quelli che, bra­mando di sentire la sua voce,  trepidando la salutano. “Midons” era una forma media tra la gentil donna e la principessa barbarica,  creata da una fantasia controllata e complimentosa;  “madonna” invece è la creazione di un cuore innamorato, ansioso di luce e di bontà. La visione di madonna è troppo bella perché possa durare a lungo sulla terra: gli an­geli in cielo non possono sostenere che lei dimori più a lungo tra gli uomini e con insistenza chiedono a Dio che sia richiamata tra essi. Perciò l’incantevole creatura è avvolta da un tenue velo di malinconia in quanto l’attende una morte prematura. Il poeta non può pensare che una simile bellezza sfiorisca miseramente con gli anni: un angelo non può invecchiare e perciò il trapasso di lei da questo mondo deve avveni­re mentre la sua età fiorisce in pieno: la morte tuttavia, non solo non deformerà con lo sue orride arti l’angelica donna, bensì avvicinandosi a lei, diventerà lei stessa gentile. Non si deve pensare, che per buona e gentile com’è, lei non assuma,  al momento opportuno, forme sdegnose od altere;  altrimenti la sua bontà sarebbe ingenuità meschina. Quando il poeta,  che si è a lei legato, devia e lascia parlare male di sé, ne­ga il saluto e il sorriso.  (Beatrice nega il saluto a Dante a causa del­la donna dello schermo).

4)- Concetto dei rapporti tra amante e madonna: è un rapporto di vero af­fetto tanto più intimo, quanto più è spirituale, tanto più ricco di espe­rienze sublimi, quanto più elevata ed ampia è l’atmosfera in cui l’amore fiorisce. Le due anime si compiacciono l’una dell’altra; il poeta si compiace di contemplare la grazia sempre luminosa e fiorente della madonna e questa si compiace di guidare il suo fedele verso l’alto, di vederlo sempre più perfetto, e di sapere che si dedica al culto di nobili ideali e ad attività utili e decorose. La funzione che la donna esercita nei riguardi del poeta è meravigliosamente espressa da Dante in svariati punti della   “Commedia”, ma tre passi in modo particolare, la illustra­no con mirabile evidenza. Nel canto XXX del Purgatorio Beatrice che sta rimproverando il poeta di fronte ai personaggi della simbolica processione così afferma:

“Alcun tempo il sostenni col mio volto

mostrando gli occhi giovinetti a lui

meco il menava in dritta parte colto” ( vv. 121-123).

Nel canto I del Paradiso Dante immagina che Beatrice, all’inizio della loro  ascensione verso l’alto appuntò lo sguardo verso le eterne rote, ed egli fissando gli occhi in quelli di lei,  sia sollevato verso la luce dell’armonia delle sfere celesti.   

In fine del canto XXXI del Paradiso riassumendo la missione di Beatrice nei suoi confronti,  così Dante dice alla sua donna:

“Tu hai di servo tratto a libertade

per tutte quello vie, per tutti medi

che di ciò fare avevi la potestade”  (vv. 85-87).

Nulla di forzato, nulla di drammatico in questi rapporti soavi e religiosi:  sono due anime che si comprendono, due anime che percorro­no la stessa strada fiorita di verità e di virtù. Nessuno sforzo ercu­leo è imposto al poeta per guadagnarsi l’affetto della donna, nessun orgoglio da parte di costei nel sentirsi lodare.

Non è da pensare che il tono che domina in questi rapporti freni gli impulsi di una nobile gelosia da parte della donna e,  che qualche crisi (che si conclude con qualche pianto purificatore del poeta) non venga a turbare la serena atmosfera quasi col fine di dare maggior chiarezza e serenità alla corrispondenza degli affetti.

In conclusione si tratta di affetti spontanei, gioiosi e sinceri in una atmosfera di elevante spiritualità naturale e soprannaturale.

5)- Concetto dell’affetto e dell’amore: La donna è un angelo e quindi la sua presenza produce gli stessi affetti che produrrebbe la presenza di un essere soprannaturale. Infatti al suo apparire il poeta è quasi folgorato dalla luce e dalla soavità di lei.

“Per occulta virtù che da lei mosse…

tosto che nella vista mi percosse

l’alta virtù che già m’avea trafitto

prima che io fuor di puerizia fosse

volsimi alla sinistra con rispetto

col quale il frontolin corre alla mamma,

quando ha paura o quando è afflitto,

per dire a Virgilio: men che dramma

di sangue m’è rimaso che non tremi:

conosco li segni dell’antica fiamma” (Purg. XXX vv. 38-48).

Tale folgorazione produce nel poeta una specie soave di sbigottimento per cui egli sviene. Alla presenza della donna angelo non è possibile pensare o sentire volgarmente, e tutto il complesso della malvagità, quasi per incanto esce via dal cuore. Lo spirito così purificato inizia la sua ascesa di elevazione verso le forme più ideali del pensare e del sentire per giungere a Dio. Dante dichiara che per effetto dell’amore di Beatrice egli uscì dalla volgare schiera,  che per opera di lei superò le miserie terrene:

“Chi dietro iura, e chi ad aforismi

se giva,  o chi seguendo sacerdozio

e chi regnar per forza o, per sofismi,

e chi rubare e chi civil negozio;

chi nel diletto della carne involto

s’affaticava e chi si dava all’ozio,

quando da tutte queste coso sciolto,

con Beatrice m’era chiuso in cielo

cotanto gioiosamente accolto” (Par. c. XI° vv. 4.-12).

Mentre dunque gli uomini in basso battono le ali,  svolazzano rasente la terra, Dante s’eleva por opera di Beatrice tanto in alto, che volgendo l’occhio sottostante, vide :

    “……….        questo globo

     tal ch’io sorrisi del suo vil sembiante” (Par. XXII°  vv. 134-135).

L’amore stilnovistico dunque non incenerisce la vita come l’amore pas­sionale, né rende cascante lo stile dell’uomo né si esaurisce nell’i­nappuntabile lindura del cavaliere provenzale; ma è sentimento giova­nile e dinamico ansioso di verità e di virtù.

Il poeta infatti per rendersi degno della donna non solo si impegna a pensare e a sentire nobilmente, ma anche ad operare generosamente. Per Beatrice Dante esce dalla volgare schiera, per Beatrice egli anco­ra giovane medita di comporre un’opera che sbaragli la poesia amorosa di tutti i tempi:

“proposi di non dire più di questa benedetta, in fino a tanto che io non potesse più degnamente trattare di lei. E di venire a ciò io studio quanto posso;  siccome ella sa e veramente.  Si che io spero di dir di lei quello che non fue detto d’alcuno” (Conclusione della “Vita nova”). Beatrice ha elevato Dante allo stile della “magnificenza” cioè al culto dello cose grandi (Par. c. XXXI v. 88). Beatrice ha “vestito a Dante   le piume per l’alto volo fino a Dio”; i desideri che lei suscita nel suo fedele “menano ad amare lo bene” (Par. c. XXXI v.  23).

Forma del dolce stile.

a)- Concreta.

A differenza di quella dei provenzali, la forma stilnovistica non è elencativa, elogiativa, astratta, ma rappresentativa e concreta.  I proven­zali ci dicono tante cose di midons, ma raramente la presentano nella sua realtà. Gli stilnovisti, invece, rappresentano la donna come una creatura viva che pensa, sente, agisce, sorride, beatifica e sgomenta chi la guarda.

b)- Idealizzata.

Ma pur descrivendoci una donna vera il poeta ama presentarla come tipo ideale di angelica bellezza e bontà. L’idealizzazione mistica che rag­giunge le sue forme più significative nella forma di Dante e di Guinizzelli, nulla toglie agli ardori degli affetti né alla concretezza della fisionomia della donna; in forza di essa, l’affetto risulta più serio e più impegnativo e la figura della donna risulta più aerea e più cele­stiale.

c)- Spontanea.

La struttura della composizione stilnovistica è simile a quella di un discorso piano e soave con cui un cuore innamorato voglia presentare la sua donna alle anime gentili che desiderano conoscerla. Il poeta stilnovista non è un erudito e un lindo cavaliere che studia forme e pose per adeguarle a un concetto astratto o a un modello di lus­so, ma un innamorato che vagheggia commosso una visione vera di bellezza e di soavità e vuol comunicare agli altri la dolcezza del suo spirito.

d)- Elaborata.

La spontaneità stilnovistica è immediatezza controllata e composta, è forma gentile acquistata e assimilata, non sciatteria sentimentalistica o familiarità alla buona. Il poeta dimostra un evidente senso di respon­sabilità;  temendo di sciupare la creatura del suo cuore e di non riusci­re ad innamorare il lettore, egli si impegna in una elaborazione attenta e fine di pensieri di sentimenti e di visioni interiori. Così lo stato d’animo del compositore assume e conserva quel tono di dolcezza e di intelligenza che si addice al soggetto gentile che egli tratta. La figura dello stilnovista che, nell’atteggiamento di soave innamorato, descrive la sua donna con tono dolcissimo e con immagini aeree e delicate, invi­tando tutti a farle onore,  è quanto mai simpatica: poeti di questo genere non possiamo fare a meno di immaginarli perpetuamente giovani.

Il linguaggio del dolce stile.

   La Toscana ha avuto la fortuna di prestare la sua lingua al discorso dogli stilnovisti. Questi gentili rimatori forniti di elevata cultura, hanno saputo affinare il dialetto toscano in modo da superare nettamente i Siciliani nel tentativo di create la lingua letteraria o aulica. Sono evitati costantemente gli artifici del gioco di parole, di contra­sti di pensiero e di espressione, dell’uso intenzionale di forme oscure e chiuse. Si tratta di un linguaggio spontaneo, nitido, pulito con voca­boli, costruzioni, giri di frasi, disposizione di parole sapientemente scelte, per esprimere con efficacia la dolcezza e la grazia dell’ispira­zione.

   Si tratta di un linguaggio spontaneo ed elaborato nello stesso tempo, caratterizzato di giovani veramente innamorati e resi esperti di tutta la grazia della parola da una cultura letteraria italiana, latina, fran­cese e provenzale, decisamente seria e coscienziosa: si tratta di un linguaggio “aulico” cioè dotto, ma adoperato con la semplicità e la agili­tà elegante propria di chi parla con il cuore.

   Si può dire che la nostra letteratura abbia fatto le sue prime prove meglio riuscite nelle composizioni del dolce stile. Non per nulla Dante nel canto I° dell’Inferno accennando ” al bello sti­lo” della sua “vita nova”, dichiara d’averlo appreso nientemeno che da Virgilio e si dimostra convinto d’aver fatto una cosa degna d’onore.

Origine della denominazione della scuola.

      Dante nel canto XXIV del Purgatorio immagina che Bonagiunta Urbicciani da Lucca sia colui che:

“……..   fore

trasse le nove rime, cominciando:

 -Donne che avete intelletto d’amore”-.

E al vecchio sicilianeggiante l’Alighieri risponde:

“Io mi son un, che quando

amor mi spira, noto,  e a quel modo

che detta dentro vo’ significando.

O frate issa vegg’io -diss’elli- il modo

che ‘l notaro e Guittone e me ritenne

di qua dal dolce stil novo ch’i ‘odo.

Io veggio bene come le vostre penne

di retro al dittator s’en vanno strette,

che delle nostre certo non s’avvenne:

e qual più a riguardare oltre si mette,

non vede più dall’uno e dall’altro stilo”,  (vv. 49-62).

   La caratteristica essenziale del dolce stile, dunque, è la spontaneità; ossia la fedeltà dell’espressione all’ispirazione e dell’ispirazione al cuore. Finalmente i poeti italiani hanno imparato a parlare come sen­tono e a sentire come sogliono sentire cuori veramente e idealmente innamorati.

Lo stile è detto “dolce” per la serenità degli affetti, per la soavità delle immagini, per la grazia e la nitidezza sia dell’ispirazione che del tono e del linguaggio. Inebriato di felicità, tale che “intender non la può chi non la prova”, è il cuore del poeta; deliziosa, pur nella serietà della sua pudicizia, è la giovinetta amata; gentili e cordiali sono gli amici del poeta e la donzella a cui egli confida le gioie del suo amore; ridente e gioiosa è la natura che partecipa con le sue luci e i suoi colori alla festa dell’amore umano; nessun dramma di incompren­sione, di invidia, di malignità;  tutto è dolcezza,  serenità e gentilez­za.

   In opposizione alla forma che aveva dominato la lirica romanza, dalla scuola proven­zale a quella siciliana e a quella sicilianeggiante in Toscana, il dolce stile è detto anche “nuovo”. Esso è lo stile dei poeti giovani, cittadini di un comune democratico, interpreti di un mondo più spontaneo, più sere­no più cordiale. I giovani poeti fiorentini sono coscienti di aver tro­vato la via giusta dell’arte, e sono tanto più soddisfatti della loro innovazione quanto più semplice e nello stesso tempo più efficace è il metodo da essi trovato,  cioè il metodo della spontaneità. Ai giovani rimatori i compunti e preziosi cavalieri provenzali, i notai e gli avvocati della Sicilia, i dotti della Toscana sul tipo di Guittone e di Buonagiunta dovevano destare un sorriso di compassione, perché li vedevano troppo impacciati e troppo vecchi, troppo eruditi e troppo poco poeti, troppo legati alle forme studiate di un ambiente aristocratico, o di una mentalità dottrinale, per riuscire simpatici interpreti dell’a­more che è un sentimento tutto spontaneità e grazia.

Cause del dolce stile.

   Dobbiamo considerare come cause del dolce stile tutti quei fattori i quali hanno contribuito all’affermazione e alla elaborazione dei motivi principali di esso e alla scelta del metodo espressivo della spontaneità.

  1. I.                    Misticismo e Tomismo:

 Possiamo come primo fattore citare il misticismo medioevale di cui, pro­prio nella seconda metà del secolo XIII,  si ebbe l’espressione più equi­librata e più serena nella conciliazione operata da S. Tommaso tra natu­ra e soprannatura, tra sacro o profano. E’ questo il primo fattore che ha contribuito alla elaborazione dei concetti del dolce stile. Come infatti si giunge alla conoscenza di Dio attraverso i riflessi di Lui nelle creature, così si giunge all’amore della bellezza e della bon­tà somma attraverso l’associazione intima di due anime che si propongono di elevarsi verso l’infinito in cooperazione reciproca per mezzo della contemplazione gioiosa dei beni finiti e delle bellezze. Il concetto dell’amore che Dante esprime nel Convivio (“Amore è unimento spirituale dell’anima e della cosa amata e l’anima naturalmente desia e vuole essere a Dio unita”) evidentemente deriva dalla filosofia di S.Tommaso. E la dolce affettuosità verso la donna-angelo è strettamente connessa con quell’atteggiamento di simpatia fraterna verso tutte lo creature che è la nota caratteristica del sereno misticismo francescano.

  1. II.                  Ambiente democratico.

Il dolce stile si afferma in Toscana cioè in quella regione d’Italia in cui il regime comune essenzialmente democratico, ha la sua massima fiorita.  In ambiente comunale,  ove tutti i cittadini sono eguali e le distinzioni sono dovute soltanto alla superiorità o inferiorità di meri­to, lo stile di vita è libero e spontaneo: gli atteggiamenti servili, le pose studiate e forzate sono ignote a cittadini abituati a sentire liberamente e ad esprimersi come sentono. E’ logico quindi che in una atmosfera di libertà, di eguaglianza, di spontaneità civile, anche l’ispirazione e l’espressione della poesia assumono un tono semplice, schietto e cordiale, ed è naturale che l’amore sia concepito come unione gioiosa o serena di animo. In ambiente cittadino democratico non esistono donne preziose,  aristocratiche, figure raramente visibili, e fieramente pre­suntuose, ma giovanette virtuose e belle, angeli soavi che amano il pic­colo mondo della famiglia e quello del comune. Queste creature sono co­nosciute dai giovani, sono da essi vagheggiate od esaltate a gara, da tutti i cittadini sono ammirate e venerate come i più belli ornamenti e il vanto della città. Il tono gioioso e appassionato, giovanile e dot­to del dolce stile è espressione di un mondo gaudente e sereno, dinami­co e colto, quale ora appunto il mondo dei comuni toscani nella seconda metà del secolo XIII°.

III- Precedenti esperienze poetiche.

   L’esperienza insegna e i giovani stilnovisti, esaminando la poesia pro­venzale e provenzaleggiante, avevano notato che il tono aristocratico e le forme artificiose di esse avevano guadagnato pochi lettori. Essi, invece, desideravano nell’ambiente comunale essere letti da tutti e riuscire simpatici particolarmente ai gruppi di gentili donzelle che più o meno si intendevano d’arte: quindi dovevano, adottare una forma di poesia ricca di sentimento, facile e fine nell’espressione.

I giochi di concetti, di parole, di pensieri e le espressioni,  accumula­ti più col criterio dell’erudizione letteraria e secondo i modi dello stile curiale e dotto,  sono inopportuni in un ambiente e in un’età in cui una maggiore libertà politica e spirituale esige e favorisco una spontaneità spigliata e gentile.

Scrittori stilnovisti.

Guido Guinizzclli. Fondatore della scuola nel senso che elabora i concetti essenziali che sostituiscono la base dell’ispirazione, dell’es­pressione stilnovistica. Egli fu il primo che illustrò il concetto del cuor gentile e illustrò il rapporto della gentilezza con l’amore. A Firenze il gruppo stilnovistico costituito da giovani intelligenti, ricchi di sentimento e colti,  è capeggiato da Guido Cavalcanti.  Questi sebbene privo di spiritualità soprannaturale, tuttavia mantiene la sua ispirazione in una atmosfera ideale che ben si concilia con il tono ge­neralo della scuola. Intorno a Guido troviamo Lapo Gianni, Gianni Alfani, Dino Frescofaldi, poeti di minore forza di ispirazione, ma nel complesso bravi descrittori. Cino da Pistoia. Poeta appassionato (Pe­trarca lo chiama “amoroso messer Cino”) poco fedele all’ispirazione mi­stica, perché assai caldo e pervaso di ardente sensibilità, rappresentò la tendenza mondana nel seno dello stilnovo.  Il massimo esponente fu l’Alighieri il quale espresse gli ideali e le forme dello stilnovismo, non solo nella “Vita nova”, ma anche e soprattutto nella “Commedia”,  ove i motivi più importanti sono di impronta stilnovistica. Il volo infatti che l’Alighieri compie dalla selva oscura all’Empireo è possibile solo por l’intervento di Beatrice.

LA PROSA DEL ‘200.

     Le composizioni in prosa del secolo XIII° rivelano negli scrittori poca esperienza non solo della vita, ma anche della lingua. Si tratta in genere di prose didattiche e narrative, molto semplici nell’ispira­zione e nell’espressione. Si vede anche chiaro l’influsso di una menta­lità e linguaggio volgare che sono caratterizzate dalla forma analitica e semplice,  e talvolta,  tanto semplici da rasentare la povertà.

   Nel secolo XIII° i dotti che scrivono in prosa fanno uso della lingua latina,  e se qualche scrittore adopera il volgare è mosso dalla intenzio­ne di farsi leggere dal popolo a cui vuol presentare esempi,  storico-in­ventati,  edificanti o istruttivi, o visioni fantastiche che dilettano anime che si contentano di poco.

II linguaggio è caratterizzato dal predominio della coordinazione; gli scrittori, come usa il popolo, non fanno distinzione tra concetti princi­pali e concetti secondari, ma pongono ogni pensiero e ogni sentimento sullo stesso piano e le proposizioni principali si susseguono così in serie ininterrotta. Periodi brevi, proposizioni semplici in cui vengono espressi concetti e osservazioni assai semplici ed elementari, costitui­scono la cosiddetta “ingenuità della prosa ducentesca”.

Produzione.

     Possiamo dividere le opere in prosa del duecento in due categorie:

A – Prose didattiche.

    “Il libro dei sette savi”, anonimo, in cui vengono riferite quindici no­velle di cui sette sono narrate da alcuni giudici,  sette da una matrigna e una da un figliastro.

     “La gemma purpurea” di Guido Fava, che è una raccolta di lettere esemplari da offrire   ai lettori affinché se ne servano nelle circostanze in cui debbono trattare per lettera   argomenti simili a quelli svolti dallo scrittore.

     “Il novellino”. Una raccolta di cento novelle nella quale vengono svolte con ispirazione e forma assai semplice, motivi più o meno educativi tratti dalle leggende antiche e medioevali. “I fioretti di S. Francesco” in cui vengono narrati, in forma fantastica e come mito, con tono semplice e candido, episodi che illustrano le più belle virtù di S. Francesco. L’opera forse fu compiuta in latino da frate Ugolino da Montegiorgio, in italiano da Ugo dei Marignoli.

B)- Prose narrative.

   Numerosissime cronache in lingua dialettale, più o meno raffinata, narra­no senza grande apparato erudito e senza grandi pretese di giudizio né di interpretazione, i fatti avvenuti nelle varie regione e città italia­ne durante la lotta tra Guelfi e Ghibellini. Specialmente fatti che avvennero durante la discesa di Carlo d’Angiò in Italia e durante la guerra dei vespri siciliani hanno avuto una abbondante letteratura, cronistica in lingua italiana.

   “Il milione” di Marco Polo, il famoso esploratore del mondo asiatico; l’au­tore scrisse la sua opera in lingua francese: Rustichello da Pisa fece la traduzione dell’opera il lingua italiana.

   II racconto di Marco Polo non solo è veritiero, ma è anche attraentissimo per il tono fantastico, quasi di leggenda con il quale egli riferisce le sue avventure nel mondo orientale,  considerato allora come il mondo del meraviglioso.

   E’ evidente l’intenzione dello scrittore di offrire ai borghesi italia­ni un quadro delle possibilità commerciali dell’estremo Oriente.

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