Letteratura italiana.
Appunti dalle lezioni del
Prof. MANCINI don DINO
Fermo . Materiale non ricorretto. Inevitabili alcune brevi ripetizioni. Ci scusiamo.
digitato da Pietro Ciccalè e Albino Vesprini
Quattro domande degli alunni al prof. Mancini:
Che cos’è la letteratura italiana?
La letteratura italiana è l’esposizione dei movimenti letterari che si sono succeduti nella vita culturale della nostra nazione dal Medioevo a oggi. Essa presenta soprattutto le opere dei più grandi autori, nella loro genesi e nel loro valore. La letteratura è l’espressione della spiritualità di una generazione, oltre che dei grandi autori che la creano, e bisogna inquadrare i movimenti letterari e le grandi opere, che ne sono l’espressione, nella spiritualità non solo di questi grandi esponenti, anche in quella della generazione in cui fiorirono.
Si potrebbe esprimere il rapporto tra i fattori che generano i movimenti e le opere letterarie in questi termini: lo spirito di una generazione influenza l’animo dei poeti che di essa fanno parte; lo spirito del poeta si trasfonde nel contenuto e nella forma della sua opera. L’opera d’arte può essere considerata come l’espressione più espressiva della spiritualità, della capacità creativa, del gusto di una determinata generazione.
La storia è un organismo vivo, ove ogni fenomeno è strettamente collegato con l’altro, anche se è differente e opposto adesso, quindi, nella storia della letteratura, i vari movimenti presentano un intimo rapporto fra loro e sono vitalmente congiunti anche se diversi.
Qual è l’origine dei fenomeni letterari?
L’origine dei fenomeni letterari è legato al problema generale dell’origine dei fenomeni storici, perché il fenomeno letterario non è che uno dei tanti fenomeni della vita storica delle generazioni. Si conoscono tre soluzione a questa domanda:
A) La soluzione umanistica si può riassumere così: sono i personaggi eccezionali e geniali che danno origine ai vari indirizzi della storia e della letteratura.
B) La soluzione marxista vuole che ogni fenomeno storico sia causato da un fattore economico. Marx afferma che l’evoluzione della materia-uomo genera bisogni nuovi, i quali causano nuovi modi di produzione, e questi generano nuove strutture sociali politiche, religiose, morali con conseguenti nuovi gusti e nuove forme di letteratura e di arte.
C)- La soluzione cristiana spiega che i fenomeni della storia sono generati dalla libertà e dalle capacità dell’uomo. La provvidenza divina li utilizza per realizzare piani di salvezza che hanno in Gesù Cristo il centro di tutta la storia umana.
La letteratura è creata dalla volontà dei letterati?
Possiamo osservare che nel sorgere e nello svilupparsi dei fenomeni storici non è la sola volontà che crea i fatti (anche letterari). Tutte le facoltà umane (sentimenti, pensieri, atti dello spirito e della volontà) intervengono in questa creazione.
Come è dall’esperienza, gli uomini più dotati dalla natura danno origine a realizzazioni più espressive. Il contatto fra gli uomini determina il diffondersi di nuove conformazioni che divengono patrimonio comune e sono motivo di emulazione per altre persone e per altri popoli.
Quale funzione hanno i movimenti culturali?
Di ogni epoca storica si possono dare un giudizio di funzione ed un giudizio di valore. Con il primo notiamo il ruolo che essa ha per le generazioni nel processo della storia; con il secondo definiamo quale sia il grado di cultura manifestato in un’epoca. Ogni fase delle generazioni eredita la cultura della fase antecedente, la elabora secondo la propria indole e secondo le circostanze storiche, per poi lasciarla alle generazioni successive. Il giudizio di funzione è sempre positivo come avviamento di forme nuove. Senza che esistessero i movimenti di un’epoca, non esisterebbero neanche i successivi.
Il giudizio di valore dipende dal grado di perfezione manifestato dai movimenti culturali. Il progresso tecnico può verificarsi indipendentemente dal progresso spirituale: questo è promosso dall’ansia di percepire i significati della realtà e dalla intensità delle aspirazioni per le finalità ideali.
Dice uno studente: <<Le riflessioni letterarie dei prof. Mancini Dino sono eccellenza della comprensione logica umana>>
ORIGINE DELLA LINGUA ITALIANA
LA LINGUA ITALIANA
La lingua italiana è detta anche volgare perché deriva da quell’unico volgare latino che si diffuse in tutto l’impero occidentale e si frazionò in sei volgari principali durante lo stanziamento dei barbari nell’impero. A Roma, infatti, fin da quando fu fondata la città si parlavano due lingue: quella del popolo e quella dei dotti, tra le due lingue vi erano differenze notevoli, ma non tali che chi parlasse l’una non intendesse l’altra. Intercorreva presso a poco la stessa differenza che passa oggi fra la lingua nazionale e il dialetto locale.
Notiamo anzitutto quali siano in genere le differenze fra la lingua dotta e quella popolare.
Le persone dotte hanno molti più pensieri da esprimere che non il popolo e sentono il bisogno di distinguere tra un concetto e l’altro, tra un atteggiamento dello spirito e l’altro.
Perciò la lingua dei dotti ha queste caratteristiche: l’abbondanza dei vocaboli, di forme grammaticali e sintattiche anche in relazione a proposito della abbondanza dei pensieri da esprimere; costante preoccupazione di distinguere un concetto dall’altro, e quindi abbondanza di forme diverse, in relazione all’esigenza di precisione.
A Roma la lingua dotta si venne formando nell’ambito di quella volgare per queste esigenze delle persone colte; anzitutto perché le persone colte conoscevano cose che non conosceva il popolo – in secondo luogo perché esse dovevano interessarsi di questioni molto più vaste di quelle di cui si interessava il popolo nella vita quotidiana: e quindi avevano bisogno di una lingua più vasta, più ricca più precisa – in terzo luogo perché venivano a contatto con le persone colte di altri paesi e per comunicare con esse avevano bisogno di una lingua che superasse quella locale.
Il volgo tende a eliminare le sillabe finali mute. Elimina in genere la vocale di una sillaba postonica interna. I generi sono soltanto due: maschile e femminile; se i casi erano solo uno per il singolare uno per il plurale come si distinguevano i complementi? Per mezzo delle preposizioni.
Diffusione del volgare.
Da Roma il volgare si diffuse in tutto il Lazio, quindi in tutta Italia e dal primo secolo D.C. si diffuse in tutto l’impero d’occidente ( non in oriente, perché là dominava la civiltà ellenica che era superiore a quella romana).
Diffondendosi in Italia e nelle province il “vulgaris” subì qualche trasformazione dovuta alla diversa conformazione degli organi fonetici delle varie popolazioni e alla persistenza di elementi delle lingue locali.
Tuttavia finché vi fu l’unità politica nell’impero, anche l’unità linguistica non fu compromessa in modo sensibile. Quando nel quinto secolo i barbari si stanziarono nell’impero e sorsero i regni romano barbarici anche la lingua volgare si frazionò notevolmente, cosicché assunse forme notevolmente diverse nei vari regni stessi.
Si ebbero così sei volgari nuovi o lingue romanze o neolatine: portoghese, spagnolo, francese, provenzale, italiano, romeno. Nel seno di ciascun volgare sorsero svariati dialetti a seconda delle condizioni delle circostanze storiche delle varie regioni.
Uso del volgare nelle composizioni letterarie.
Nell’alto Medio Evo (476-1050) la cultura è in decadenza in mezzo ai laici: essa fiorisce soltanto nel mondo ecclesiastico e gli ecclesiastici quando compongono (croniche, prediche, trattati di filosofia, di teologia, di morale, inni religiosi) adottano il sermo doctus nella forma medievale. Il volgare era parlato quotidianamente e veniva usato per le più comuni pratiche scritte (lettere, contratti, testamenti). Solo nel basso Medio Evo (1050 1350) il volgare viene adottato nelle composizioni letterarie. Questa età riceve nel mondo della cultura anche i laici e si compone dovendo rivolgersi ad un pubblico laico, o signorile o poco colto, adotta il linguaggio che quel pubblico conosce: cioè il linguaggio volgare. Il primo volgare ad essere nato nelle composizioni letterarie fu quello d’oil (per le chanson des gestes e per les romans).
Per la seconda venne adoperata la lingua d’oc (per composizioni liriche), quindi entrò nel campo letterario anche l’italiano, la lingua spagnola (per le romances).
E infine entrò nel campo della letteratura anche l’italiano all’inizio del secolo XIII, ad opera dei siciliani.
A noi interessa soprattutto il volgare italiano. Nel corso del secolo XIII ogni scrittore componeva nel volgare italiano dialettale che egli parlava, sforzandosi di perfezionarlo alla luce del latino dotto che, salvo gli scrittori più umili, i compositori in genere conoscevano abbastanza bene.
Dante per la prima volta si propose il problema dell’unità linguistica in Italia. Egli pensava che esistesse una lingua comune in Italia ed è quella parlata dalle persone colte negli ambienti culturalmente più elevati. Perché questa lingua delle persone colte ha vocaboli e forme quasi comuni comunque? Perché tutte le persone colte conoscono il latino dotto ossia hanno raffinato il dialetto alla luce del sermo doctus? Che cosa vuol dire affinare un dialetto? Vuol dire conservare del dialetto i termini che si ritrovano in detto vocabolario e sostituirli – con termini dedotti da esso – eliminate le imprecisioni e le approssimazioni nel campo della grammatica e della sintassi, articolando i vocaboli e i periodi in modo da rendere con chiarezza il pensiero nel suo complesso e nelle sue precisazioni particolari.
Questo lavoro di affinamento, secondo Dante, era stato compiuto in modo lodevole dai siciliani, non in modo tale però che la loro lingua si prestasse pienamente alla esigenza della composizione tragica.
È per questo motivo che egli preferisce il volgare delle persone colte di tutta Italia che ritiene più ricco, ad un volgare unico, affinato dall’opera di un solo gruppo di scrittori.
La soluzione di Dante non ebbe applicazioni pratiche perché per renderla applicabile sarebbe stato necessario compilare un vocabolario, una grammatica e una sintassi di quel volgare parlato dalle persone colte di tutta Italia.
Ma ciò non fu fatto; e la soluzione si venne determinando spontaneamente, in forza dei fatti stessi. Il dialetto infatti può diventare lingua nazionale per uno di questi tre motivi: o per la preminenza politica della regione in cui esso viene parlato, ho per concorde decisione degli intellettuali della regione, o per la preminenza degli scrittori che all’inizio della storia della letteratura nazionale hanno adoperato quel dialetto. In Francia ad esempio su tutti i dialetti prende il sopravvento quello dell’Ile de France, per la preminenza politica che questa regione esercitò su tutto il territorio nazionale fin dai primi tempi della storia francese. In Italia fu la Toscana che fin dal Medio Evo raggiunse la preminenza dal punto di vista letterario, su tutte le altre regioni, ad opera di Dante, Petrarca e Boccaccio. Siccome questi tre autori furono letti in tutta Italia e da tutti furono considerati come maestri, la lingua Toscana si affermò in tutti gli ambienti colti della nazione. Alla fine del ‘400 e agli inizi del ‘500 la questione della lingua si impose nuovamente: allora il Bembo affermò che in Italia esisteva di fatto una lingua unica; quella Toscana era del ‘300, in quanto gli italiani l’avevano presa da tre grandi maestri preferiti: Dante, Petrarca e Boccaccio. Secondo il Bembo dunque, essendosi il dialetto toscano affermato su tutti gli altri, la lingua degli scrittori italiani sarà quella Toscana, e precisamente quella degli scrittori toscani del ‘300.
Ragionevole è questa soluzione da un punto di vista di concretezza, in quanto propone una lingua che è realmente conosciuta da tutte le persone colte italiane e tiene quindi conto di un fatto storico completo.
Tuttavia presenta il difetto della fissità, in quanto viene proposta come modello una lingua delimitata dentro confini storici assoluti – la lingua degli autori toscani del ‘300 dovrebbe servire per tutte le generazioni, il che è assurdo in quanto, essendo la lingua un mezzo convenzionale con cui gli uomini esprimono i loro pensieri i loro sentimenti ed essendo le generazioni umane in continua evoluzione, anche la lingua necessariamente deve evolversi.
Contro la teoria del Bembo, il Trissino afferma che la lingua italiana è quella che parlano le persone colte della penisola. La soluzione del Trissino è identica a quella data dall’Alighieri.
Il medesimo Trissino tradusse e commentò il De vulgari eloquentia. La tesi del Trissino ha il pregio di proporre una lingua viva, ma ha il difetto di proporre una lingua che non è veramente unitaria e quindi è difficile a individuarsi e raccogliersi. È ebbe il sopravvento la teoria del Bembo che fu sostenuta dal gruppo poderoso geniale degli scrittori toscani del tempo (Machiavelli, Varchi, Nardi,ecc. ). Alla fine del secolo XVI l’accademia della Crusca di Siena e iniziò la compilazione del vocabolario omonimo desumendo le voci dalle opere di Dante, Petrarca e Boccaccio.
Il vocabolario della Crusca fu considerato come codice infallibile della lingua per tutto il ‘600 e fino alla metà del ‘700 quando l’Accademia dei Pugni di Milano proclamò decaduto il linguaggio antico e propose il l’uso della lingua viva delle persone colte, rinforzata da termini stranieri e da termini creati ex novo dalle persone di genio.
Fra i demolitori della Crusca e i sostenitori della sua integralità assoluta tennero una via di mezzo i Trasformati di Milano, i quali proposero che il detto vocabolario, pur restando sostanzialmente lo stesso, fosse aggiornato con l’eliminazione di termini andati in disuso e l’aggiunta di termini desunti dalle opere dei toscani del ‘500.
Il Romanticismo, propugnando una letteratura viva e moderna nel modo più integrale, propone l’uso della lingua viva, non escluse le forme della lingua familiare. Il Manzoni, seguendo un indirizzo moderato che ebbe nel problema linguistico, affermò che la lingua italiana è quella delle persone colte fiorentine: infatti la lingua fiorentina praticamente è conosciuta in tutta Italia in forza della preminenza degli scrittori toscani su quelli delle altre regioni.
Tuttavia, siccome per sua natura la lingua è sempre viva, è necessario sostituire il fiorentino trecentesco, ormai morto e di inadatto ad esprimere la portata della spiritualità moderna, con il fiorentino vivo, e precisamente come quello delle persone colte, essendo quello del popolo assai più povero di esso.
La teoria del Manzoni ebbe la sua applicazione pratica ad opera del Ministero della Pubblica Istruzione che ordinò in tutte le scuole l’insegnamento della lingua fiorentina viva.
Furono compilati vocabolari grammatiche e sintassi di questa lingua e così essa diventò comune a tutti gli scrittori italiani.
Oggi non si può più parlare di lingua viva delle persone colte fiorentine, essendo questa diventata da vari decenni lingua nazionale. E la lingua nazionale ora procede lungo la sua evoluzione, prescindendo ormai dal fiorentino: per cui oggi nella scelta di un vocabolario non si guarda se sia o no in uso solo presso le persone colte di Firenze, ma se sia in uso nel mondo intellettuale dell’intera nazione.
Le espressioni della letteratura romanza in volgare
La prima letteratura in volgare fu quella della lingua d’oil o francese che fiorì nei secoli XI° e XII° nella Francia del Nord per opera dei “trovieri”. Le opere scritte in volgare francese sono, in maggior parte, composizioni narrative che, o trattano delle imprese dei paladini di Carlo Magno, o dei cavalieri del re Artù, o degli eroi classici trasformati in cavalieri medioevali, o delle virtù o dei vizi simboleggiati in uomini, in animali o in piante.
Ciascuno di questi argomenti è svolto non in un componimento solo, ma in svariati episodi. Varie composizioni che si ispirano ad uno stesso argomento costituiscono un ciclo. Sorgono così in Francia il ciclo Carolingio, il ciclo Bretone, quello dei cavalieri antichi e quello morale.
1 – Ciclo Carolingio.
Le composizioni di questo ciclo narrano in opere epico-liriche le imprese di Carlo Magno e del popolo francese in difesa della patria e della fede. A fianco di Carlo e alla testa dei combattenti francesi operano i “Paladini”, ossia gli alti ufficiali del suo palazzo (‘paladino’ deriva da ‘comitem palatium’ = conte palatino).
Le imprese narrate sono collettive e quindi epiche: ma sull’azione della massa spicca l’eroe o il paladino. Le imprese sono contro gli infedeli aiutati dal demonio. Carlo Magno doveva figurare sempre vittorioso e se talvolta la storia riferisse delle sconfitte la colpa sarà di un paladino traditore o del demonio. Gli ideali per cui si combatte sono la patria e la fede. Il tono della narrazione è serio e rivela che i compositori sono convinti dell’alto ideale che esaltano; i paladini sono ammirevoli per spirito religioso e patriottico, per spirito di sacrificio nel compimento del dovere, per lealtà in tutte le loro azioni: l’imperatore Carlo è uomo saggio e venerando, ottimo capo civile e militare nella Cristianità.
2- Ciclo Bretone.
Narra le imprese dei cavalieri della Bretagna, capeggiati dal re Artù: i cavalieri sono nobili militari a cavallo che si impegnano con giuramento a difendere i deboli, gli oppressi e la Chiesa. Il cavaliere in genere è innamorato di una dama, e affronta le imprese più rischiose perché lei lo desidera e perché vuol rendersi degno di essere da lei corrisposto.
Le imprese narrate sono avventure individuali che il cavaliere affronta per dimostrare le sue capacità eroiche, per rispondere lealmente agli impegni assunti nel giorno della sua consacrazione e per guadagnarsi la stima e l’amore della sua dama. Le avventure cavalleresche sono spesso abbellite e rese più meravigliose dal magico e con l’introduzione delle forze soprannaturali ( incantesimi, operazioni strabilianti compiute da forze soprannaturali, divine o diaboliche). Il tono di questo ciclo è signorile, appassionato ed eroico: si notano una vivacità ed una spigliatezza che rivelano una maggiore cultura e abilità dei compositori. Le narrazioni cavalleresche ebbero il nome di “romans” perché furono scritte in lingua romanza o in volgare, precisamente in volgare d’oil o francese.
Nei secoli XI° e XII° si usava ancora comporre in latino e quindi gli autori delle narrazioni cavalleresche usando per la prima volta il volgare, si sentirono in dovere di chiamare i loro canti ‘romanzi’ in forza appunto della lingua adottata (in seguito, anche quando si cessò di narrare avventure cavalleresche, ogni composizione di ispirazione avventurosa e ricca di spunti sentimentali e fantastici, fu detta romanzo non più per il motivo della lingua, ma del contenuto assai simile a quello dei primi romanzi).
3- Ciclo dei cavalieri antichi.
Narra le imprese di eroi del mondo classico (particolarmente di Enea e di Ettore) trasformati in cavalieri del Medio Evo La letteratura dell’Eneide e dell’Iliade spinse alcuni letterati a rielaborare, secondo la mentalità moderna, la vita e le imprese degli eroi che ammiravano in quei gloriosi poemi; gli anacronismi sono spesso ridicoli, ma lo spirito patriottico e l’amore della famiglia sono spesso commoventi. Il tono è ora eroico, ora familiare, ma riflette sempre l’ ammirazione che il compositore sente per i personaggi che descrive.
4- Ciclo morale.
E’ una descrizione con tono spesso satirico dei vizi e degli inganni a cui si trova esposta la virtù, simboleggiando il bene e il male nei costumi di certi animali. Il fine che i propositori si proponevano era quello di mettere in ridicolo alcune forme di vita proprie di persone che, dopo essersi impegnate a professare la virtù, troppo facilmente vengono meno ai loro propositi: talvolta la finalità satirica esula completamente: ed allora si esalta la conquista della virtù realizzata attraverso il sacrificio e la costanza. Quindi i romanzi morali o hanno tono vivacissimo e malizioso, o, un pò più raramente, assumono il tono serio e solenne dei poemetti didattici.
Le principali composizioni dei quattro cicli.
1. Il ciclo carolingio comprende canzoni di gesta relative alle imprese di Carlo nelle varie parti in cui egli combatté per la fede: imprese in Spagna che hanno ispirato fra l’altro la famosa “Canzone di Rolando“; imprese in Italia in cui abbiamo fra l’altro la “Canzone d’Aspromonte”; imprese in Palestina di cui è famosa la canzone “Il pellegrinaggio a Gerusalemme”; imprese contro i Sassoni, rievocato particolarmente dalla “Canzone dei Sassoni”. Complessivamente si tratta di un gruppo di 95 canzoni. I romantici credettero che autori delle ‘Chansons’ fossero poeti popolari, sorti su dalla massa come espressione naturale della comune spiritualità religioso-patriottica: oggi si inclina a credere che le canzoni di gesta siano state composte da poeti di una certa cultura, e precisamente da chierici delle Chiese disseminate lungo le vie dei grandi pellegrinaggi, e precisamente lungo le vie che portavano a S. Giacomo di Compostella in Spagna, a Gerusalemme, a Roma. In quelle chiese che erano luoghi di tappe per i pellegrinaggi, venivano conservati i corpi di santi o di eroi; e i monaci dei conventi annessi a tali chiese illustravano, in composizioni scritte in volgare, la vita e le imprese dei santi e degli eroi di cui essi custodivano i corpi ed offrivano ai pellegrini le loro canzoni.
Ciò avvenne particolarmente alla fine del secolo XI° quando fu ripresa la lotta contro l’islamismo con la prima crociata e quando riarse in Spagna la lotta contro gli Arabi (1064 – 1120). Allora la figura del grande Carlo e quelle dei suoi paladini furono presentate ai fedeli chiamati a combattere contro l’Islam, come esemplari di fedeltà a Cristo e alla Patria. Da qui si spiega il tono serio e convinto delle canzoni ed anche l’abile tessitura di alcune di esse che rivelano una cultura di certo superiore a quella di un giullare qualsiasi. Siccome i destinatari di queste canzoni sono persone del popolo e dovevano suscitare l’entusiasmo religioso e patriottico nelle masse, è chiaro che i compositori, invece di scrivere in lingua latina, come si era soliti fare allora, preferirono usare il volgare.
2. Il ciclo bretone comprende tutti quei romanzi che narrano le avventure di Artù, capo di un gruppo di cavalieri che svolsero le loro imprese nelle Francia del Nord o dell’Inghilterra. Cristiano di Troyes compose due famosi romanzi: “Ivain” e “Lancilot”; altri romanzi sono: “Tristano ed Isotta” e “La tavola rotonda”e “Percival”. I personaggi più famosi sono: Artù, Lancilotto, Ginevra, Tristano, Isotta, Galeotto, Percival. Il mondo a cui questi personaggi appartengono è schiettamente aristocratico, o il loro stile rivela finezza cavalleresca e sensibilità affettiva, le avventure sono quasi sempre ispirate da un motivo amoroso, e rivelano che i compositori hanno mirato ad offrire dei piacevoli libri di lettura ai cavalieri e alle donne delle fiorenti corti del tempo. Nel secolo XII, cioè quando furono composti i romanzi, la Francia del nord aveva vivo spirito cavalleresco a causa soprattutto delle crociate; fu dalla Francia del Nord che partirono i più gloriosi condottieri della seconda crociata.
La cultura si veniva diffondendo anche nel mondo laico, ed anche le donne si compiacevano di cultura. Maria di Champagne fu in quel tempo la donna più generosa verso i Lancilot. Fu pure una donna Maria di Francia che compose i famosi “Lais” di ispirazione amorosa e sentimentale. Non ci meraviglia perciò trovare nei romanzi una spiritualità assai libera, talvolta passionale, ma sempre fine e leale. Il linguaggio è assai elaborato e specialmente con Cristiano di Trojes, presenta anche forme artificiose. Nel complesso il ciclo Bretone si può definire il ciclo del mondo cavalleresco aristocratico della Francia medievale e come tale piacque alle corti nello varie regioni d’Europa. Anche in Italia nel corso del secolo XIII si diffondono i romanzi bretoni specie i tre seguenti: Tristano ed Isotta, Lancilotto e Ginevra, la tavola rotonda.
3. Il ciclo dei cavalieri antichi comprende tutti quei romanzi che elaborano le leggende classiche specialmente del ciclo troiano. L’autore più famoso è Benedetto Di Saint Maure il quale compose: “Il romanzo di Enea, di Tebe, di Troia”; da ricordarsi anche l’ “Infanzia di Ettore”.
Certamente i compositori furono esperti delle leggende classiche, ammiratori dell’eroismo antico ed entusiasti nello stesso tempo dello stile cavalleresco moderno: solo così si spiega infatti come nelle loro composizioni abbiano trasformato in eroi medievali vecchi eroi classici. Quindi è da supporre che tali romanzi siano sorti in ambiente dotto e nelle stesso tempo aristocratico.
4- Il ciclo morale comprende tutti quei romanzi che espongono sotto forma di favola, i principi e i giudizi morali e insegnano verità filosofiche e scientifiche. La composizione più notevole e più antica di questo ciclo è “Le romans de Renard”; ma più recente è “le romans de la Rose” di Meune. A queste composizioni si possono aggiungere quelle numerosissime di Fabbians o Favolelli, che hanno ispirazione e tono comico-satirico. I romans sono sorti in ambiente dotto ecclesiastico, i favolelli in ambiente dotto laico perché rivelano una morale spregiudicata, e satireggiano i costumi degli ecclesiastici.
Conclusione
La prima letteratura in volgare quindi ci offre esemplari di ispirazione morale, religiosa, patriottica, da un a parte, cavalleresca e mondana dall’ altra. Non si può certo affermare che le composizioni di ispirazione profana siano prive di motivi morali e religiosi, ma non si può neanche nascondere che qualche passo dei romans bretoni, specie del Lancilotto, invece di favorire l’educazione morale dei lettori, contribuisce ad alimentare le passioni. E’ per questo che Dante nel canto V dell’inferno addita come provocatore dell’adulterio il detto romanzo di Cristiano da Trojes. Tutte le composizioni dei vari cicli inoltre rivelano spontaneità di ispirazione e tentativi di creare un linguaggio vivo e fine.
LA SCUOLA PROVENZALE.
Una scuola poetica è costituita da un gruppo di poeti che si ispirano presso a poco agli stessi pensieri e sentimenti, e fanno uso dello stile fondamentalmente comune. La scuola provenzale è costituita da un gruppo di poeti lirici in lingue d’oc fioriti nella seconda metà del secolo XII nelle varie corti della Francia meridionale. I trovadori (così sono detti i poeti in lingua d’oc) sono cavalieri che vivono nelle corti feudali della Francia del sud ed ornano con il loro stile di vita fine e gentile e con la loro attività letteraria gli splendidi ambienti signorili. Li potremo definire “cavalieri della penna” o “dell’amor fine” esaltato in rime gentili ed eleganti. Nel secolo XII non v’è corte feudale sia in Francia che altrove, che non accolga il progresso della civiltà, la cui essenza è sintetizzata nella mentalità dello stile cavalleresco: solo nei castelli sperduti in luoghi inaccessibili delle zone montagnose si mantiene un costume rozzo primitivo; ma, ovunque la civiltà è penetrata, i primi ad accogliere le forme di una vita più serena e più decorosa sono gli aristocratici della classe sociale. Numerosi perciò anche presso i vari principi della Francia del sud sono i cavalieri poeti chiamati ad ornare con la loro fine arte la vita della corte. Nell’ambiente cortigiano il personaggio più autorevole è certo il conte, o il marchese, ma il personaggio più ammirato è la dama, consorte o figlia del marchese. Il compito del cavaliere poeta è quello di esaltare tutto ciò che fa parte dell’ambiente aulico; la dama che per il suo sesso e per le sue doti particolari, riassume quanto di più aristocratico offre la corte, costituisce perciò il soggetto preferito dell’ispirazione del trovadore. L’amore è dunque il motivo più comune nella lirica provenzale, e dell’amore furono i principi fondamentali in una specie di codice che fu detto appunto “codice d’amore” (31 art.).
Non mancarono tuttavia composizioni liriche di ispirazione civile, religiosa e morale. Le composizioni presentano quasi tutte la forma metrica della canzone la quale, allorché è destinata ad illustrare concetti politici e ad esaltare un personaggio illustre viene detta ” sirventese”. Non mancano lo “albe” (di ispirazione amorosa, sessuale) e le “sestine” (la sestina fu forse inventata da Arnaldo Daniello).
Concetti fondamentali a cui si ispirano i trovadori
A. Concetto dell’amore: l’amore è sensibilità, ammirazione, devozione per la bellezza: non è affetto vero e proprio, ma capacità di percepire il bello e bisogno intimo di cantarlo. Si potrebbe definirlo amore fine, ossia capacità di percepire, ammirare, cantare le cose fini.
B. Concetto di cuore gentile: è chiaro che l’amore inteso così, si trova solo in un cuore educato al gusto e al culto della finezza e, siccome tale educazione l’hanno solo i cavalieri e i nobili in genere, il cuor gentile, in cui suol nascere amore, è la stessa cosa che cuor nobile o aristocratico o cavalleresco.
C. Concetto della donna: la donna dai trovadori è la sintesi di tutte le finezze ammirate nel mondo aristocratico e cavalleresco, le sue forme fisiche ci riassumono i pregi della stirpe da cui lei discende. Preferisce non esporsi al pubblico quasi a dare a questo la sensazione della sua superiorità; e per acuire al trovadore l’ansia di conoscerla si mostra di rado e ci sfuggita in atteggiamenti che colpiscono per eccellenza di gusto e di grazia.
I pregi della donna sono dunque costituiti, oltre che da quelli fisici, anche dall’eleganza dell’abbigliamento, della finezza del parlare, dall’incedere decoroso, dal sorriso e dal guardare, dai frequenti disdegni con i quali investe coloro che non sono in condizione di sostenere la sua presenza o per volgarità o per inesperienza. E’ chiaro che, intesi l’amore e il cuor gentile al modo che si è detto, la donna non poteva essere che la sintesi dell’aristocratismo aulico.
D. Concetto dei rapporti fra amante e madonna: non si tratta di rapporto vero e proprio; il poeta è al servizio di una bellezza e questa si compiace di essere servita pur senza manifestare le sua compiacenza. Il poeta si impegna con tutte le energie a meritare un certo condiscendente dalla signora; ma questa, quasi temendo di venir meno alla sua dignità e di sminuire il concetto sublime che il cavaliere ha di lei, si rende invisibile e assume un compassato atteggiamento di dama venerata. Io stesso rapporto che passa tra il suddito e il suo signore intercorre fra la dama e il cavaliere. Nel linguaggio della poesia provenzale “amore” è espresso col termine”servir” ossia l’amore è servizio cavalleresco, impegno di cuor gentile verso la bellezza. La donna viene chiamata “midons” termine con cui il suddito si rivolge al suo signore feudale. L’impegno che il cavaliere si assume è quello di omaggiare cioè di rendere in poesia quell’omaggio alla bellezza che il suddito rende nei rapporti sociali al signore. Insomma si rispecchia nei rapporti tra il poeta cavaliere e la dama, il sistema dei rapporti che intercorrevano fra signori e sudditi nel regime feudale. E’ spiegabile, perciò come predomini nell’animo del cavaliere il desiderio di rendere omaggio nel miglior modo, perché egli tenti i più ingegnosi artifici, perché egli per quanto rivela alla dama i suoi desideri di sensualità velati di aristocratismo, assuma atteggiamenti di inferiorità. Perciò eccetto alcuni pochi poeti i quali sono ispirati da sentimenti vivi, in quasi tutti i poeti provenzali sono artificiosamente creati e artificiosamente espressi.
E. Concetto degli effetti dell’amore: il cavaliere innamorato, cioè il cavaliere che volontariamente si è assunto il compito di servire, ha il dovere di servire degnamente. Quindi l’amore lo spinge a perfezionare sempre più il suo stile esteriore cioè il suo portamento e il suo linguaggio, e il suo modo di pensare e di sentire, adeguandolo alle forme più peregrine del vivere aristocratico. L’amore è quindi fonte di perfezione, ma si tratta di una perfezione puramente umana, e che spesso è accompagnata da aspirazioni morali poco approvabili. Si può dire infatti che l’amore dei provenzali abbia come oggetto normale la dama sposata, ed è per questo motivo che la chiesa si allarmò al fiorire di questa poesia.
Forma della poesia provenzale.
E’ una forma astratta e spesso elencativa; ossia quando parlano della dama, o esprimono a lei i loro omaggi di elogi, i poeti non ci presentano una figura concreta di donna, ma espongono soltanto i pregi di lei in modo che alla fine il lettore si trova di fronte a un elenco di lodi ma non vede “midons”. Essendo tutta l’ispirazione studiata e non sensitiva, manca la spontaneità, cosicché si trova, raramente, un quadro di vita o uno stato d’animo realmente vissuto dal poeta. Compassata l’ispirazione in forza della disciplina dello stile mentale, compassato anche il modo con cui l’ispirazione viene sviluppata ed espressa.
II linguaggio della poesia provenzale.
Sebbene la poesia trovadorica fiorisca oltre che in Provenza anche in Aquitania e in Linguadoca, l’idioma di cui si servono i trovadori è sempre quello provenzale. Essendo i compositori anche molto esperti nel linguaggio latino è chiaro che la lingua dei poeti è pura da forme dialettali: si tratta insomma di una lingua d’oc dotta e aulica. Avviene però spesso che i trovadori non potendosi differenziare tra loro per l’ispirazione in quanto è modellata sugli stessi principi, tentino di differenziarsi nel linguaggio e nelle forme metriche, vi è quindi una specie di gara tra di essi nella ricerca di espressioni più nuove e più complicate; ed alcuni, per affermarsi, creano espressioni linguistiche così che difficilmente di esse si intende il significato: sono i cosiddetti poeti del “Trobarelus”.
In conclusione i provenzali per finezza di linguaggio e per abilità di tecnica compositiva furono considerati come maestri di poesia lirica da letterati di varie regioni dell’Europa centro occidentale.
I più illustri compositori provenzali.
Il più famoso fra i più antichi trovadori è Mareabruz: poeta che preferì all’ispirazione amorosa, quella morale e spesso religiosa; Bertran de Bom autore di molti “sirventesi” pieni di passione civile e di spirito bellicoso; Arnaldo Daniello (ricordato da Dante nel canto XVI° del Purgatorio) poeta elegantissimo o soave; Rambaldo di Vaqueiras che si dilettò di interpretare anche i sentimenti amorosi della gente umile e del popolo; Jufrè Rudel principe e poeta famoso per la leggenda sorta intorno a un suo amore per una donna lontana, cioè per Melisenda, regina di Tripoli di Siria (leggenda elaborata dal Carducci in”Jufrè Rudel”). Falchetto da Marsiglia nativo di Genova, ma vescovo di Marsiglia, autore di liriche amorose prima della sua assunzione al vescovado, e di liriche religiose e morali dopo l ‘elezione.
Non in Francia soltanto troviamo compositori in lingua d’oc, ma anche fuori di essa; in Italia ad es. è famoso Sordello da Goito di cui è ricordato un sirventese scritto per la morte di Ser Blacatz (principe noto per la sua generosità, del cui cuore Sordello incita a rifarsi i principi europei affinché imparino ad essere anche essi generosi); Dante presenta Sordello nel canto VI° del Purgatorio quale simbolo di amor di patria e di magnanimità morale.
Conclusione.
I trovadori rappresentarono nel secolo XII° e nei primi anni del secolo XIII° gli esemplari della poesia lirica fine ed aristocratica, legata ancora alla mentalità, allo stile di vita del mondo feudale. Furono in genere buoni tecnici di linguaggio, ma raramente seppero esprimere visioni concrete di bellezza o stati d’animo veramente vissuti e tanto meno situazioni psicologiche la cui sostanza interessasse gli uomini di tutti i tempi: la poesia trovadorica è più espressione di una società e di un costume che dell’anima umana colta nelle sue aspirazioni sincere, nelle sue crisi, nella gioia delle sue conquiste; tuttavia come poesia di cavalieri cortigiani ossequienti ed eleganti, ha i suoi pregi, almeno formali, e la sua importanza storica.
LA SCUOLA SICILIANA.
E’ un gruppo di poeti che compongono liriche d’amore in volgare italiano (e precisamente in dialetto siciliano raffinato e colto) e che fanno capo alla corte di Federico II di Svevia, residente in Palermo, durante il primo cinquantennio del secolo XIII°.
I poeti della scuola siciliana non sono tutti nativi dell’isola (ad es. Pier Della Vigna è di Capua, Rinaldo è d’Aquino, Giacomino è della Puglia), ma siccome il regno di Svevia di Federico II comprendeva non solo la Sicilia, ma anche l’Italia meridionale, tutti gli ingegni migliori delle due terre concorrevano a Palermo che era la gloriosa capitale.
Federico II nipote di Federico Barbarossa e figlio di Enrico VI di Svevia, era nello stesso tempo imperatore del Sacro Romano Impero e del vecchio dominio normanno, cioè delle due Sicilie. Influenzato dalle dottrine giuridiche del vecchio mondo classico professate dai molti giuristi che erano alla corte, egli si propose di organizzare il suo regno, secondo il concento della sovranità, proprio del diritto romano; cioè sottopose al controllo degli uomini le attività delle varie zone soggette alla sua giurisdizione. Formò così uno stato forte, ben controllato, fiorente per commerci o ricchezza ed anche per attività intellettuali. Nella prima metà del secolo XIII Palermo fu certo la città più famosa d’Italia e Federico era noto non solo per la sua attività politica, più o meno disgraziata, secondo i momenti, ma anche per il suo ingegno e per la sua generosità verso gli uomini colti.
Nei primi due decenni del secolo XII tramonta la scuola provenzale, sia perché i motivi e le forme ormai si sono esauriti, sia perché, dopo la sconfitta degli Albigesi e dei feudatari che li appoggiavano, inflitta loro dall’esercito della Francia del Nord, venne a mancare ai trovadori protezione ed appoggio. Esauritisi i cicli francesi e la lirica trovadorica, gli intellettuali italiani guardarono a Palermo come al centro della cultura. Gli intellettuali della corte Sveva in genere sono giuristi e quindi la loro spiritualità è troppo positiva e razionale per adeguarsi alle esigenze della poesia che richiede sì vigore di pensiero, ma anche vivacità di sentimenti e capacità fantastica, ed infine buona conoscenza della tecnica dell’espressione linguistica. Non mancano tra i siciliani poeti spontanei e vivaci, ma sono pochissimi e non appartengono mai alla classe dei giuristi.
Caratteristiche della Scuola Siciliana.
A. E’ una scuola di imitazione nel senso che quasi tutti i poeti che ne fanno parte si ispirano a concetti ed a atteggiamenti già comuni nella scuola provenzale. Anche l’amore dei Siciliani infatti è un”servir fine” in quanto è omaggio di persone colte ed esperte delle cortesie auliche ad una donna aristocratica e nota nel circolo della reggia. Cuor gentile, è anche per i Siciliani cuore sensibile alla bellezza: è sensibile perché aristocratico. Anche la donna è un tipo astratto di perfezione aristocratica. Anche i rapporti fra amante e amata sono rapporti di inferiore e superiore. Anche gli effetti dell’amore sono riassunti in un’ansia di raffinamento senza sosta. Le forme dei Siciliani come quelle dei trovadori sono in genere elencative-astratte: il poeta non rappresenta la donna viva e concreta ma solo di tanto in tanto, con sostantivi, aggettivi peregrini e frasi studiate, tenta di definire i pregi esterni ed interni di lei, quando poi parla di sé, cioè del suo stato d’animo, dice con parole quello che egli sente ma non rappresenta mai direttamente e concretamente il suo mondo interiore: ad es. ci dice che egli soffre ma non sa presentare sé stesso come sofferente; ci dice che egli rimane abbagliato dalla finezza della donna, ma non sa presentare sé stesso estasiato di fronte alla bellezza. Insomma molte parole, ma poche visioni complete, o meglio concrete; sa che il linguaggio è influenzato dal gusto dell’artificio già notato nei provenzali: contrasti di concetti, contrasti di parole, equivoci (uso della stessa parola con significato diverso), allitterazioni che rivelano l’aspirazione di apparire ingegnosi ed abili.
B. E’ una scuola di impronta italiana: infatti per quanto presentino gli
stessi atteggiamenti generali della poesia trovadorica, le composizioni siciliane hanno qualche cosa di particolare, di caratteristico che le fa riconoscere italiane. Infatti pur restando l’atteggiamento psicologico tale quale era nei Provenzali, tuttavia i Siciliani introducono qualche motivo più vivo, assumono qualche tono più confidenziale, sono insomma meno compassati e più spigliati. Stati d’animo spontanei, benché non elaborati profondamente alla luce di ideali religiosi, morali, umani vengono espressi con immediatezza specie dai poeti che pur facendo parte della scuola siciliana, ebbero tuttavia limitati rapporti con i giuristi e i poeti di Palermo e precisamente da Giacomino Pugliese e da Rinaldo d’Aquino. Qualche tentativo di elaborare filosoficamente il concetto dell’amore è proprio dei giuristi poeti, ma si tratta di saggi senza impegno. Nel complesso la nostra poesia siciliana manca di concretezza, vitalità affettiva, efficacia rappresentativa.
Importanza storica della scuola siciliana.
Dal punto di vista artistico dunque la produzione dei Siciliani ha un valore molto limitato: grande importanza invece essa ha dal punto di vista storico e linguistico: infatti la scuola siciliana rappresenta la prima espressione di poesia colta in volgare italiano. Fino ai Siciliani vere e proprie composizioni in volgare italiano non si erano mai avute. Il volgare era stato adoperato solo in documenti commerciali o in iscrizioni destinate ad essere conosciute da tutto il pubblico. Le composizioni vere e proprie poetiche o no, erano state scritte in lingua latina medioevale. I Siciliani sono dunque i primi che usano il volgare italiano per esprimere in forma elegante il loro stato d’animo, più o meno poetico e per realizzare le loro velleità artistiche. Il volgare di cui essi fanno uso è il dialetto siciliano, nelle sue forme popolaresche, ma modellato il più possibile alla lingua latina dotta di cui erano espertissimi. Da questa elaborazione del dialetti risulta un linguaggio così fine e così superiore alle forma grezze dalla parlata popolaresca che Dante nel “De volgari eloquentia” esprimerà la sua incondizionata ammirazione per la sapienza linguistica dei Siciliani e anteporrà questi ai poeti della Toscana. L’idioma siciliano è definito da Dante aulico cioè idioma in uso noll’ambiente aristocratico e gentile della corte: “videtur sicilianum volgare sibi famam prae aliis ascisere, eo quod quidquid poetantur Itali sicilianum vocatur, et eo quod perplures doctores indigenos invenimus graviter cecinisse”. I Siciliani dunque hanno avuto il merito di aver elaborato per primi la lingua letteraria italiana. Tuttavia non essendo riuscita la loro opera ad imporsi ai lettori italiani, per mancanza di vera e propria ispirazione poetica, definire la nostra lingua nazionale spetterà a scrittori che sapranno unire insieme ispirazione profonda e viva, forma complessa e originale, linguaggio chiaro e ricco, cioè gli scrittori toscani del secolo XIV°.
Scrittori della scuola siciliana.
Li possiamo distinguere in due gruppi: poeti imitatori e freddi notevoli solo per una cerva eleganza di linguaggio: Federico II, il re Enzo e Manfredi, figli di Federico, Pier della Vigna, Jacopo da Lentini; e poeti che pur uscendo fuori dall’ambiente spirituale della scuola, tuttavia dimostrarono più vivacità e spontaneità: Giacomino Pugliese, Rinaldo d’Aquino, Oddo delle Colonne.
Tramonto della scuola siciliana.
Nel 1250 mori Federico II; nel 1266, a Benevento, in una battaglia contro Carlo d’Angiò morì Manfredi: la Sicilia e l’Italia meridionale passarono sotto il dominio angioino; e così il circolo degli uomini colti che era fiorito intorno agli Svevi si sciolse e scomparve. L’eredità della poesia detta siciliana passa agli uomini colti della Toscana, che nella seconda metà del secolo XIII° è la regione più libera, più agiata, più civile.
Scuola sicilianeggiante in Toscana.
Nella seconda metà del secolo XIII°, mentre si spegne la scuola siciliana, incomincia a fiorire la poesia in Toscana. Guittone d’Arezzo e Bonagiunta Urbicciani da Lucca, seguiti da un discreto numero di discepoli, costituiscono una scuola poetica detta dei “Sicilianeggianti” in Toscana.
Il motivo preferito da questa poesia è ancora l’amore; interpretato secondo la mentalità e lo stile dei Siciliani ma con tentativi di elaborazione filosofica. E poeti Toscani non sono giuristi, ma, in genere, cultori di filosofia e di lettere, e quindi è naturale che abbiano questa tendenza alla ispirazione filosofeggiante. L’amore, più che frutto di sensibilità cavalleresca, è da essi concepito come una esigenza della natura umana che va in cerca del bello e del bene, ma nelle composizioni questo modo istintivo dello spirito verso il bello e il bene non viene rappresentato in forme concrete, perché la poesia viene concepita come settore del più vasto campo della filosofia.
La forma è dunque raziocinante, non ancora rappresentativa, molte parole, generosi tentativi di spiegazioni dotte, ma pochissima vita e pochissimo sentimento. La lingua è il dialetto toscano modellato sul latino dotto (non quelle classico ma quello medioevale). Guittone d’Arezzo capo dei sicilianeggianti, fu da Dante giudicato molto severamente a proposito della lingua, in quanto il suo latineggiare riuscì soltanto a confondere e non ad elevare il dialetto toscano. E difatti, almeno la lingua di Guittone in molte composizioni è veramente aspra ed oscura.
Autori della scuola sicilianeggiante.
Guittone d’Arezzo.
La sua produzione si può distinguere in due parti: liriche composte prima della conversione religiosa, liriche dopo la conversione religiosa. Le prime sono ispirate al motivo dell’amore interpretato in senso tra filosofico-scolastico e cavalleresco. Sono, svolgimenti generici, fioriti di artifici linguistici che rivelano pedanteria. Le seconde, invece, sono di ispirazione morale o civile e sono più ricche di sentimento, perché più concrete ed anche stilisticamente più chiare. Da ricordare la famosa canzone “A Firenze dopo la disfatta di Montaperti”.
Bonagiunta Urbicciani da Lucca.
E’ poeta meno complicato; meno artificioso di Guittone, chiacchiera meno, è più originale e sente con una certa commozione la bellezza.
LA POESIA POPOLARE
La poesia popolare è quel complesso di composizioni che si ispirano a pensieri e a sentimenti del popolo mediocre e di poca cultura, e li esprimono senza alcuna elaborazione complessa, artificiosa o profonda di carattere religioso, morale o civile con un linguaggio che è dialetto leggermente ripulito in forza della espressione linguistica dei poeti. La prima caratteristica di questa letteratura è la spontaneità la quale consiste in una espressione immediata di uno stato d’animo non influenzato da cultura o mentalità dottrinale.
Si potrebbe dire che la poesia popolare sia l’espressione di sentimenti sorti spontaneamente dalla prima espressione e non generati e alimentati dalla espressione dotta ed ideale: ad es. la poesia amorosa esprime quello che il cuore umano, quasi per istinto sente e dice alla persona amata. L’inserzione, invece, del sentimento amoroso nella mentalità e nello stile della cavalleria aristocratica, come avveniva nella scuola provenzale, è caratteristica della poesia di dottrina e di elaborazione. Alla caratteristica della spontaneità va connessa quella della vivacità, la quale consiste nell’esprimere gli stati d’animo con lo stesso ritmo mobile e vario con cui di fatto sono vissuti dal cuore: il ritmo compassato e studiato, indice di uno scrupoloso impegno di apparire eleganti, è ignoto al compositore popolare. Non si preoccupa di apparire lindo ed elegante, ma di prendere contatto immediato con l’anima del lettore. Tuttavia se la composizione popolare è superiore per spontaneità e vivacità alla poesia di scuola, è dall’altra parte inferiore a questa per mancanza di profondità ideale e di buon gusto o decorosità stilistica. Il linguaggio di un cuore vigoroso e sincero ma ancora in una condizione di primitività, piace e commuove chi si contenta di poco, ma non desta l’interesse dei lettori che chiedono alla poesia una interpretazione e una rappresentazione della vita capace di rivelare l’uomo a sé stesso con i misteri della sua psicologia; con le vicende del suo destino, con i complessi rapporti che lo legano ai suoi simili, alle leggi esterne, all’infinito. Disgraziatamente le persone che nel secolo XIII° potevano darci una poesia ricca di ispirazione intelligente ed elegante, cioè le persone di elevata cultura, sdegnarono di comporre in volgare o al massimo dedicarono alle composizioni in volgare solo una parte della loro attività (come avviene per i Siciliani che erano giuristi di professione e poeti di dilettantismo).
Per questo la poesia più spontanea del secolo XIII° è opera di compositori poco forniti di capacità idealizzatrice, di fantasia vigorosa e complessa, e di gusto stilistico.
La poesia popolare è detta poesia dettata dalla natura in quanto esprime i sentimenti dettati dalla natura, non influenzati dalla cultura.
Cause della poesia popolare.
La diffusione della istruzione in mezzo al popolo è dovuta:
a) Alla agiatezza economica.
I compositori popolari sono in genere persone di media cultura; raramente sono dotti che si provano ad esprimere stati d’animo caratteristici della psicologia del popolo con un linguaggio aderente alle forme del dialetto. Nel secolo XIII lo città italiane, specie quelle dell’Italia centrale e settentrionale, fioriscono per agiatezza, per libertà democratica, per attività economiche, artistiche ed anche letterarie. In seguito alla rinascita della civiltà verificatosi nel secolo XI, non solo il clero e gli artisti si appassionarono alla cultura, ma anche tra il popolo si diffonde il desiderio di apprendere almeno a leggere e a scrivere. Così in ogni paese e città, specie in quelli organizzati a regime comunale, persone del popolo gustano la letteratura delle chansons, dei romans francesi tradotti in italiano, e si compiacciono di esercitarsi nella trattazione poetica di argomenti cari alla massa. La religione, il pensiero dell’oltre tomba, l’amore, i divertimenti, la vita giovanile e serena della città, una sciagura collettiva, la morte di un illustre personaggio offrono argomento al poeta popolare che si fa interprete del pensiero e del sentimento comune e con la sua voce esprime le aspirazioni, le preoccupazioni, lo speranze di tutti.
b) All’influsso della chiesa sulla spiritualità del popolo.
I secoli XII o XIII rappresentano il periodo più glorioso della collaborazione fra chiesa e popolo. L’istruzione religiosa delle masse era assai curata, anzi all’inizio del secolo XIII gli ordini Domenicano e Francescano sorgono appunto per erudire le popolazioni delle città e delle campagne nelle verità della fede e per assisterle spiritualmente: presso i vescovadi e le abazie dei conventi in genere fiorivano scuole a cui potevano accedere quelli che lo avessero voluto.
Con la discreta cultura che acquistavano in queste scuole ed in forza del contatto frequente con gli uomini della chiesa alcuni uomini del popolo di ingegno più vivace e desiderosi di affermarsi nel piccolo ambiente in cui vivevano, si dedicavano con passione a comporre intorno agli elementi più svariati.
Varie specie di poesia popolare.
A. Poesia religiosa: S. Francesco e Jacopone da Todi.
Questi due personaggi rappresentano le forme più evidenti del misticismo medievale. S. Francesco è il mistico cattolico che vede nella creatura i riflessi di Dio e si vale delle voci che gli vengono dal creato per trovare la strada al sommo bene e al sommo bello. “Il cantico delle creature” esprime questo misticismo sereno, cordiale, pieno di speranza e di serenità. Di ogni creatura S. Francesco ha colto l’aspetto più significativo per rivelare la sapienza e la bontà di Dio nel circondare l’uomo di fratelli e sorelle utili e belli. Il suo linguaggio è il dialetto umbro leggermente ingentilito dalla modesta cultura del santo compositore.
Fra Jacopone da Todi. E’ un avvocato convertitosi alla professione religiosa francescana in seguito a un drammatico incidente (indosso alla moglie morta durante un ballo trovò un cilicio). L’ispirazione di fra Jacopone è ardente e quasi torrenziale: il misticismo è pazzia d’amore per Dio, è disprezzo delle cose terrene che egli considera come pericoli di rovina spirituale per l’uomo: la sua produzione si può distinguere in due serie: laudi ispirate al suo stato d’animo mistico, laudi che interpretano lo stato d’animo di personaggi sacri del Vangelo o della storia dei santi. Le prime sono più soggettive, più irruenti e quindi più imperfette e rozze dal punto di vista formale, dato che egli non si ora esercitato in giovinezza nella composizione poetica in quanto si ora dedicato all’avvocatura; le seconde sono di ispirazione più oggettiva, più pacata: il poeta contempla il suo soggetto, e si sforza di adeguare il suo stato d’animo alla vita intima di esso e così tace il turbine delle sue passioni personali. Fra Jacopone è insomma un grande poeta in quanto è grande la forza del suo sentimento; ma la sua grandezza è compromessa dal fatto che l’inesperienza della tecnica poetica gli impedisce di fare una espressione adeguata, piena e composta nel suo mondo interiore.
B. Poesia didascalica: insegnamenti morali, religiosi, curiosità scientifiche.
Fra Uguccione da Lodi: “Il libro” fra il morale e il religioso. Bonvesin da Riva: “Cortesia da desco”, “Libro delle tre scritture”. Giacomino da Verona: “De Jerusalem celesti”, “De Babilonia infernali”. Francesco de Barberino: “Documenti d’amore”, “Reggimento e costumi di donna”. Brunetto Latini: “II tesoretto”.
C. Poesia giullaresca: Svolge argomenti svariatissimi in forma popolaresca, cioè ispirandosi a pensieri e sentimenti assai primitivi e istintivi, e usando il linguaggio dialettale con scarsi tentativi di raffinamento.
Le forme della poesia giullaresca sono:
a)-Il contrasto: cioè il contrasto tra l’amante e l’amata (che alla fine sappiamo finisce con l’accordo di ambedue), contrasto tra madre e figlia per dissenso nella scelta del giovane.
b)-Il lamento: lamento per la morte di persona cara, per la morte di un personaggio illustre in città, per un disastro accaduto nel territorio della città, o perché la madre non permette il matrimonio con la persona amata.
c)- Strambotti e rispetti amorosi: lo strambotto è una composizione di otto versi con rima alternata, in uso in Sicilia; il rispetto è anche esso una composizione di otto versi, i primi sei dei quali sono a rima alternata, gli ultimi a rima baciata, in uso in Toscana.
Gli autori delle composizioni giullaresche sono ignoti; si conosce solo l’autore di un contrasto in lingua siciliana attribuito a Cielo D’Alcamo, il quale, uomo colto (come risulta, da alcune espressioni desunte dal latino e dal provenzale), si compiacque di imitare lo spirito e le forme del popolo.
D. Poesia borghese: Sono composizioni che descrivono scene liete di vita cittadina nei vari tempi dell’anno o tipi caratteristici dell’ambiente paesano. Sono noti per composizioni di questo genere Folgore S. Gimiano (autore di dodici sonetti per ciascun mese dell’anno e di sette sonetti per ciascun giorno della settimana) e Rustico di Filippo (autore di bozzetti in cui si delinea alcuni tipi di cittadini notevoli per certe loro stranezze). A Folgore di S. Gimiano, che nei suoi sonetti augurava alle liete brigate beni particolari per ciascun mese dell’anno, rispose Cene Delle Chitarre, augurando alle medesime brigate mali opposti ai beni augurati da Folgore.
E. Poesia realistica: di nota cruda e sentimenti spregiudicati. E’ la poesia che si ispira a sentimenti spregiudicati, a visioni ripugnanti e che rivela nel compositore una specie di gusto nel vedere scandalizzato il lettore. E’ restato famoso in questo genere di poesia Cecco Angiolieri che si vanta di odiare suo padre e sua madre, si compiace di amare una certa Becchina e di far sapere a tutti che egli è giocatore, beone, donnaiolo.
Scuola di transizione.
E’ costituita da un gruppo di compositori fiorentini (tra cui primeggiano Chiaro Davanzati e una scrittrice anonima denominata “Compiuta Donzella”) i quali, pur non giungendo alla concezione dell’amore, dell’arte che ebbero gli stilnovisti, tuttavia preludono al dolce stile. La loro ispirazione, infatti, confrontata con quella dei Siciliani è più originale e più sentita; e la loro forma è più concreta e vivace. Si nota in questi compositori una preziosa tendenza a vedere il reale nei suoi aspetti ideali e a descrivere gli stati d’animo generati da questa visione ingenua e quasi estatica, con sincerità, senza impostazioni né filosofiche né retoriche. Più che la scuola di transizione, come avviamento al dolce stil nuovo si può considerare la poesia popolare, specie la poesia borghese, religiosa.
Dolce stil nuovo
E’ una scuola di poesia lirica, che sorge a Bologna, fiorisce in Toscana nell’ultimo trentennio del secolo XIII° ed ha come motivo predominante l’amore mistico.
Concetti fondamentali del dolce stil nuovo:
1)- Concetto dell’amore: amore è attrattiva che l’animo sente di fronte al bene, esso è gaudio contemplativo e intesa intima, affettuosa fra due anime, non è atteggiamento studiato, cioè uno stato spirituale prodotto con arte, ma è un sentimento spontaneo. Siccome l’anima tende istintivamente al bene sommo, l’amore di Dio è innato nell’uomo (Par. can. 1° vv118-120) ed è il vero amore. Ma come alla conoscenza di Dio si accede attraverso la contemplazione dei riflessi di lui nelle creature, così all’amore di Dio si giunge attraverso l’amore della creatura che maggiormente la riflette. In tal senso si chiarisce meglio il significato dell’amore umano inteso come unione di due anime: infatti l’amante si compiace dei doni di cui è fornita madonna; e questa si compiace di offrire all’amante, a conforto ed elevazione di lui, i beni celesti ricevuti. Così l’amore umano si armonizza con l’amore divino, anzi diventa un ottimo fattore di elevazione dello spirito verso il Bene Sommo. L’incontro tra le due anime, secondo questa concezione, avviene in un piano mistico e soprannaturale, per cui l’amore stesso è detto”mistico”. Questa concezione è propria di Guido Guinizzelli e di Dante, ma anche gli altri stilnovisti concepirono l’amore come incontro di anime in una atmosfera di gentilezza, di bontà e di soavità anche se viene a mancare il motivo soprannaturale. L’amore così inteso non solo non è colpevole, ma addirittura un dovere per le anime che aspirano a un gaudio superiore.
2)-Concetto di cuor gentile: se l’amore è godimento spirituale di bellezze soprannaturali, esso non può sorgere che in un cuor gentile, ossia in un cuore nobile, in un cuore virtuoso. “Al cuor gentil ripara sempre amore”; “amor e cuor gentil sono una cosa” dice Guido Guinizzelli; e Dante soggiunge “è gentilezza dovunque è virtude” (Convivio IV°). I provenzali intendevano gentilezza come sensibilità della finezza aristocratici o reputavano questa capacità emotiva galante come caratteristica esclusiva dell’aristocrazia.
Secondo la concezione stilnovista invece, la gentilezza è sensibilità per tutto ciò che è celestiale, ossia per la bontà soave e pura incarnata in forme di grazia eterea e celestiale. Tale sensibilità non è dote esclusiva dell’aristocratico, ma di qualunque persona la quale per disposizione naturale e per educazione, sia capace di commuoversi di fronte al bene e al bello, e precisamente è propria dell’uomo virtuoso, cioè di colui che sentendo il bisogno di un largo respiro spirituale si eleva al di sopra delle cose meschine e volgari per ascondere verso l’Infinito.
3)- Concetto della donna: Se l’amore è godimento di beni spirituali e soprannaturali e può sorgere soltanto in un cuor virtuoso, consegue che la donna, oggetto di questo amore, non può essere che una sintesi viva di bellezze naturali e soprannaturali, ossia non può essere che un riflesso vivo di Dio, un “angiol venuto dal cielo in terra a miracol mostrare” (Vita Nova); “loda di Dio vera” (Inf. c.II).
Non è più la feudataria che si compiace della sua aristocrazia, che si mette in perfetta posa, che si mostra di rado per farsi desiderare, che non corrisponde per il gusto di veder soffrire l’amante; la donna del dolce stil nuovo è soave, dolce, umile avvolta in una atmosfera di nitida bellezza, di bontà; è una creatura viva i cui occhi, quale riflesso della luce interna, sono luminosi; il cui colore, quale riflesso del candore interno, è come di perla; il cui sorriso e il cui saluto quale riflesso della bontà e della soavità interiore, è l’espressione suprema della gentilezza e della grazia.
Le donne vedono in lei l’esemplare del loro sesso e si compiacciono della sua compagnia. I cittadini la considerano come l’onore e il tesoro più prezioso della loro città e si vantano di lei di fronte agli abitanti dei paesi vicini. E lei, senza orgoglio, volentieri prende parte alle gloriose e gentili adunate delle amiche e quando percorre le vie cittadine luminosa ed ammirata saluta con umile grazia quelli che, bramando di sentire la sua voce, trepidando la salutano. “Midons” era una forma media tra la gentil donna e la principessa barbarica, creata da una fantasia controllata e complimentosa; “madonna” invece è la creazione di un cuore innamorato, ansioso di luce e di bontà. La visione di madonna è troppo bella perché possa durare a lungo sulla terra: gli angeli in cielo non possono sostenere che lei dimori più a lungo tra gli uomini e con insistenza chiedono a Dio che sia richiamata tra essi. Perciò l’incantevole creatura è avvolta da un tenue velo di malinconia in quanto l’attende una morte prematura. Il poeta non può pensare che una simile bellezza sfiorisca miseramente con gli anni: un angelo non può invecchiare e perciò il trapasso di lei da questo mondo deve avvenire mentre la sua età fiorisce in pieno: la morte tuttavia, non solo non deformerà con lo sue orride arti l’angelica donna, bensì avvicinandosi a lei, diventerà lei stessa gentile. Non si deve pensare, che per buona e gentile com’è, lei non assuma, al momento opportuno, forme sdegnose od altere; altrimenti la sua bontà sarebbe ingenuità meschina. Quando il poeta, che si è a lei legato, devia e lascia parlare male di sé, nega il saluto e il sorriso. (Beatrice nega il saluto a Dante a causa della donna dello schermo).
4)- Concetto dei rapporti tra amante e madonna: è un rapporto di vero affetto tanto più intimo, quanto più è spirituale, tanto più ricco di esperienze sublimi, quanto più elevata ed ampia è l’atmosfera in cui l’amore fiorisce. Le due anime si compiacciono l’una dell’altra; il poeta si compiace di contemplare la grazia sempre luminosa e fiorente della madonna e questa si compiace di guidare il suo fedele verso l’alto, di vederlo sempre più perfetto, e di sapere che si dedica al culto di nobili ideali e ad attività utili e decorose. La funzione che la donna esercita nei riguardi del poeta è meravigliosamente espressa da Dante in svariati punti della “Commedia”, ma tre passi in modo particolare, la illustrano con mirabile evidenza. Nel canto XXX del Purgatorio Beatrice che sta rimproverando il poeta di fronte ai personaggi della simbolica processione così afferma:
“Alcun tempo il sostenni col mio volto
mostrando gli occhi giovinetti a lui
meco il menava in dritta parte colto” ( vv. 121-123).
Nel canto I del Paradiso Dante immagina che Beatrice, all’inizio della loro ascensione verso l’alto appuntò lo sguardo verso le eterne rote, ed egli fissando gli occhi in quelli di lei, sia sollevato verso la luce dell’armonia delle sfere celesti.
In fine del canto XXXI del Paradiso riassumendo la missione di Beatrice nei suoi confronti, così Dante dice alla sua donna:
“Tu hai di servo tratto a libertade
per tutte quello vie, per tutti medi
che di ciò fare avevi la potestade” (vv. 85-87).
Nulla di forzato, nulla di drammatico in questi rapporti soavi e religiosi: sono due anime che si comprendono, due anime che percorrono la stessa strada fiorita di verità e di virtù. Nessuno sforzo erculeo è imposto al poeta per guadagnarsi l’affetto della donna, nessun orgoglio da parte di costei nel sentirsi lodare.
Non è da pensare che il tono che domina in questi rapporti freni gli impulsi di una nobile gelosia da parte della donna e, che qualche crisi (che si conclude con qualche pianto purificatore del poeta) non venga a turbare la serena atmosfera quasi col fine di dare maggior chiarezza e serenità alla corrispondenza degli affetti.
In conclusione si tratta di affetti spontanei, gioiosi e sinceri in una atmosfera di elevante spiritualità naturale e soprannaturale.
5)- Concetto dell’affetto e dell’amore: La donna è un angelo e quindi la sua presenza produce gli stessi affetti che produrrebbe la presenza di un essere soprannaturale. Infatti al suo apparire il poeta è quasi folgorato dalla luce e dalla soavità di lei.
“Per occulta virtù che da lei mosse…
tosto che nella vista mi percosse
l’alta virtù che già m’avea trafitto
prima che io fuor di puerizia fosse
volsimi alla sinistra con rispetto
col quale il frontolin corre alla mamma,
quando ha paura o quando è afflitto,
per dire a Virgilio: men che dramma
di sangue m’è rimaso che non tremi:
conosco li segni dell’antica fiamma” (Purg. XXX vv. 38-48).
Tale folgorazione produce nel poeta una specie soave di sbigottimento per cui egli sviene. Alla presenza della donna angelo non è possibile pensare o sentire volgarmente, e tutto il complesso della malvagità, quasi per incanto esce via dal cuore. Lo spirito così purificato inizia la sua ascesa di elevazione verso le forme più ideali del pensare e del sentire per giungere a Dio. Dante dichiara che per effetto dell’amore di Beatrice egli uscì dalla volgare schiera, che per opera di lei superò le miserie terrene:
“Chi dietro iura, e chi ad aforismi
se giva, o chi seguendo sacerdozio
e chi regnar per forza o, per sofismi,
e chi rubare e chi civil negozio;
chi nel diletto della carne involto
s’affaticava e chi si dava all’ozio,
quando da tutte queste coso sciolto,
con Beatrice m’era chiuso in cielo
cotanto gioiosamente accolto” (Par. c. XI° vv. 4.-12).
Mentre dunque gli uomini in basso battono le ali, svolazzano rasente la terra, Dante s’eleva por opera di Beatrice tanto in alto, che volgendo l’occhio sottostante, vide :
“………. questo globo
tal ch’io sorrisi del suo vil sembiante” (Par. XXII° vv. 134-135).
L’amore stilnovistico dunque non incenerisce la vita come l’amore passionale, né rende cascante lo stile dell’uomo né si esaurisce nell’inappuntabile lindura del cavaliere provenzale; ma è sentimento giovanile e dinamico ansioso di verità e di virtù.
Il poeta infatti per rendersi degno della donna non solo si impegna a pensare e a sentire nobilmente, ma anche ad operare generosamente. Per Beatrice Dante esce dalla volgare schiera, per Beatrice egli ancora giovane medita di comporre un’opera che sbaragli la poesia amorosa di tutti i tempi:
“proposi di non dire più di questa benedetta, in fino a tanto che io non potesse più degnamente trattare di lei. E di venire a ciò io studio quanto posso; siccome ella sa e veramente. Si che io spero di dir di lei quello che non fue detto d’alcuno” (Conclusione della “Vita nova”). Beatrice ha elevato Dante allo stile della “magnificenza” cioè al culto dello cose grandi (Par. c. XXXI v. 88). Beatrice ha “vestito a Dante le piume per l’alto volo fino a Dio”; i desideri che lei suscita nel suo fedele “menano ad amare lo bene” (Par. c. XXXI v. 23).
Forma del dolce stile.
a)- Concreta.
A differenza di quella dei provenzali, la forma stilnovistica non è elencativa, elogiativa, astratta, ma rappresentativa e concreta. I provenzali ci dicono tante cose di midons, ma raramente la presentano nella sua realtà. Gli stilnovisti, invece, rappresentano la donna come una creatura viva che pensa, sente, agisce, sorride, beatifica e sgomenta chi la guarda.
b)- Idealizzata.
Ma pur descrivendoci una donna vera il poeta ama presentarla come tipo ideale di angelica bellezza e bontà. L’idealizzazione mistica che raggiunge le sue forme più significative nella forma di Dante e di Guinizzelli, nulla toglie agli ardori degli affetti né alla concretezza della fisionomia della donna; in forza di essa, l’affetto risulta più serio e più impegnativo e la figura della donna risulta più aerea e più celestiale.
c)- Spontanea.
La struttura della composizione stilnovistica è simile a quella di un discorso piano e soave con cui un cuore innamorato voglia presentare la sua donna alle anime gentili che desiderano conoscerla. Il poeta stilnovista non è un erudito e un lindo cavaliere che studia forme e pose per adeguarle a un concetto astratto o a un modello di lusso, ma un innamorato che vagheggia commosso una visione vera di bellezza e di soavità e vuol comunicare agli altri la dolcezza del suo spirito.
d)- Elaborata.
La spontaneità stilnovistica è immediatezza controllata e composta, è forma gentile acquistata e assimilata, non sciatteria sentimentalistica o familiarità alla buona. Il poeta dimostra un evidente senso di responsabilità; temendo di sciupare la creatura del suo cuore e di non riuscire ad innamorare il lettore, egli si impegna in una elaborazione attenta e fine di pensieri di sentimenti e di visioni interiori. Così lo stato d’animo del compositore assume e conserva quel tono di dolcezza e di intelligenza che si addice al soggetto gentile che egli tratta. La figura dello stilnovista che, nell’atteggiamento di soave innamorato, descrive la sua donna con tono dolcissimo e con immagini aeree e delicate, invitando tutti a farle onore, è quanto mai simpatica: poeti di questo genere non possiamo fare a meno di immaginarli perpetuamente giovani.
Il linguaggio del dolce stile
La Toscana ha avuto la fortuna di prestare la sua lingua al discorso dogli stilnovisti. Questi gentili rimatori forniti di elevata cultura, hanno saputo affinare il dialetto toscano in modo da superare nettamente i Siciliani nel tentativo di create la lingua letteraria o aulica. Sono evitati costantemente gli artifici del gioco di parole, di contrasti di pensiero e di espressione, dell’uso intenzionale di forme oscure e chiuse. Si tratta di un linguaggio spontaneo, nitido, pulito con vocaboli, costruzioni, giri di frasi, disposizione di parole sapientemente scelte, per esprimere con efficacia la dolcezza e la grazia dell’ispirazione.
Si tratta di un linguaggio spontaneo ed elaborato nello stesso tempo, caratterizzato di giovani veramente innamorati e resi esperti di tutta la grazia della parola da una cultura letteraria italiana, latina, francese e provenzale, decisamente seria e coscienziosa: si tratta di un linguaggio “aulico” cioè dotto, ma adoperato con la semplicità e la agilità elegante propria di chi parla con il cuore.
Si può dire che la nostra letteratura abbia fatto le sue prime prove meglio riuscite nelle composizioni del dolce stile. Non per nulla Dante nel canto I° dell’Inferno accennando ” al bello stilo” della sua “vita nova”, dichiara d’averlo appreso nientemeno che da Virgilio e si dimostra convinto d’aver fatto una cosa degna d’onore.
Origine della denominazione della scuola.
Dante nel canto XXIV del Purgatorio immagina che Bonagiunta Urbicciani da Lucca sia colui che:
“…….. fore
trasse le nove rime, cominciando:
-Donne che avete intelletto d’amore”-.
E al vecchio sicilianeggiante l’Alighieri risponde:
“Io mi son un, che quando
amor mi spira, noto, e a quel modo
che detta dentro vo’ significando.
O frate issa vegg’io -diss’elli- il modo
che ‘l notaro e Guittone e me ritenne
di qua dal dolce stil novo ch’i ‘odo.
Io veggio bene come le vostre penne
di retro al dittator s’en vanno strette,
che delle nostre certo non s’avvenne:
e qual più a riguardare oltre si mette,
non vede più dall’uno e dall’altro stilo”, (vv. 49-62).
La caratteristica essenziale del dolce stile, dunque, è la spontaneità; ossia la fedeltà dell’espressione all’ispirazione e dell’ispirazione al cuore. Finalmente i poeti italiani hanno imparato a parlare come sentono e a sentire come sogliono sentire cuori veramente e idealmente innamorati.
Lo stile è detto “dolce” per la serenità degli affetti, per la soavità delle immagini, per la grazia e la nitidezza sia dell’ispirazione che del tono e del linguaggio. Inebriato di felicità, tale che “intender non la può chi non la prova”, è il cuore del poeta; deliziosa, pur nella serietà della sua pudicizia, è la giovinetta amata; gentili e cordiali sono gli amici del poeta e la donzella a cui egli confida le gioie del suo amore; ridente e gioiosa è la natura che partecipa con le sue luci e i suoi colori alla festa dell’amore umano; nessun dramma di incomprensione, di invidia, di malignità; tutto è dolcezza, serenità e gentilezza.
In opposizione alla forma che aveva dominato la lirica romanza, dalla scuola provenzale a quella siciliana e a quella sicilianeggiante in Toscana, il dolce stile è detto anche “nuovo”. Esso è lo stile dei poeti giovani, cittadini di un comune democratico, interpreti di un mondo più spontaneo, più sereno più cordiale. I giovani poeti fiorentini sono coscienti di aver trovato la via giusta dell’arte, e sono tanto più soddisfatti della loro innovazione quanto più semplice e nello stesso tempo più efficace è il metodo da essi trovato, cioè il metodo della spontaneità. Ai giovani rimatori i compunti e preziosi cavalieri provenzali, i notai e gli avvocati della Sicilia, i dotti della Toscana sul tipo di Guittone e di Buonagiunta dovevano destare un sorriso di compassione, perché li vedevano troppo impacciati e troppo vecchi, troppo eruditi e troppo poco poeti, troppo legati alle forme studiate di un ambiente aristocratico, o di una mentalità dottrinale, per riuscire simpatici interpreti dell’amore che è un sentimento tutto spontaneità e grazia.
Cause del dolce stile.
Dobbiamo considerare come cause del dolce stile tutti quei fattori i quali hanno contribuito all’affermazione e alla elaborazione dei motivi principali di esso e alla scelta del metodo espressivo della spontaneità.
- I. Misticismo e Tomismo:
Possiamo come primo fattore citare il misticismo medioevale di cui, proprio nella seconda metà del secolo XIII, si ebbe l’espressione più equilibrata e più serena nella conciliazione operata da S. Tommaso tra natura e soprannatura, tra sacro o profano. E’ questo il primo fattore che ha contribuito alla elaborazione dei concetti del dolce stile. Come infatti si giunge alla conoscenza di Dio attraverso i riflessi di Lui nelle creature, così si giunge all’amore della bellezza e della bontà somma attraverso l’associazione intima di due anime che si propongono di elevarsi verso l’infinito in cooperazione reciproca per mezzo della contemplazione gioiosa dei beni finiti e delle bellezze. Il concetto dell’amore che Dante esprime nel Convivio (“Amore è unimento spirituale dell’anima e della cosa amata e l’anima naturalmente desia e vuole essere a Dio unita”) evidentemente deriva dalla filosofia di S.Tommaso. E la dolce affettuosità verso la donna-angelo è strettamente connessa con quell’atteggiamento di simpatia fraterna verso tutte lo creature che è la nota caratteristica del sereno misticismo francescano.
- II. Ambiente democratico.
Il dolce stile si afferma in Toscana cioè in quella regione d’Italia in cui il regime comune essenzialmente democratico, ha la sua massima fiorita. In ambiente comunale, ove tutti i cittadini sono eguali e le distinzioni sono dovute soltanto alla superiorità o inferiorità di merito, lo stile di vita è libero e spontaneo: gli atteggiamenti servili, le pose studiate e forzate sono ignote a cittadini abituati a sentire liberamente e ad esprimersi come sentono. E’ logico quindi che in una atmosfera di libertà, di eguaglianza, di spontaneità civile, anche l’ispirazione e l’espressione della poesia assumono un tono semplice, schietto e cordiale, ed è naturale che l’amore sia concepito come unione gioiosa o serena di animo. In ambiente cittadino democratico non esistono donne preziose, aristocratiche, figure raramente visibili, e fieramente presuntuose, ma giovanette virtuose e belle, angeli soavi che amano il piccolo mondo della famiglia e quello del comune. Queste creature sono conosciute dai giovani, sono da essi vagheggiate od esaltate a gara, da tutti i cittadini sono ammirate e venerate come i più belli ornamenti e il vanto della città. Il tono gioioso e appassionato, giovanile e dotto del dolce stile è espressione di un mondo gaudente e sereno, dinamico e colto, quale ora appunto il mondo dei comuni toscani nella seconda metà del secolo XIII°.
III- Precedenti esperienze poetiche.
L’esperienza insegna e i giovani stilnovisti, esaminando la poesia provenzale e provenzaleggiante, avevano notato che il tono aristocratico e le forme artificiose di esse avevano guadagnato pochi lettori. Essi, invece, desideravano nell’ambiente comunale essere letti da tutti e riuscire simpatici particolarmente ai gruppi di gentili donzelle che più o meno si intendevano d’arte: quindi dovevano, adottare una forma di poesia ricca di sentimento, facile e fine nell’espressione.
I giochi di concetti, di parole, di pensieri e le espressioni, accumulati più col criterio dell’erudizione letteraria e secondo i modi dello stile curiale e dotto, sono inopportuni in un ambiente e in un’età in cui una maggiore libertà politica e spirituale esige e favorisco una spontaneità spigliata e gentile.
Scrittori stilnovisti.
Guido Guinizzclli. Fondatore della scuola nel senso che elabora i concetti essenziali che sostituiscono la base dell’ispirazione, dell’espressione stilnovistica. Egli fu il primo che illustrò il concetto del cuor gentile e illustrò il rapporto della gentilezza con l’amore. A Firenze il gruppo stilnovistico costituito da giovani intelligenti, ricchi di sentimento e colti, è capeggiato da Guido Cavalcanti. Questi sebbene privo di spiritualità soprannaturale, tuttavia mantiene la sua ispirazione in una atmosfera ideale che ben si concilia con il tono generalo della scuola. Intorno a Guido troviamo Lapo Gianni, Gianni Alfani, Dino Frescofaldi, poeti di minore forza di ispirazione, ma nel complesso bravi descrittori. Cino da Pistoia. Poeta appassionato (Petrarca lo chiama “amoroso messer Cino”) poco fedele all’ispirazione mistica, perché assai caldo e pervaso di ardente sensibilità, rappresentò la tendenza mondana nel seno dello stilnovo. Il massimo esponente fu l’Alighieri il quale espresse gli ideali e le forme dello stilnovismo, non solo nella “Vita nova”, ma anche e soprattutto nella “Commedia”, ove i motivi più importanti sono di impronta stilnovistica. Il volo infatti che l’Alighieri compie dalla selva oscura all’Empireo è possibile solo por l’intervento di Beatrice.
LA PROSA DEL ‘200
Le composizioni in prosa del secolo XIII° rivelano negli scrittori poca esperienza non solo della vita, ma anche della lingua. Si tratta in genere di prose didattiche e narrative, molto semplici nell’ispirazione e nell’espressione. Si vede anche chiaro l’influsso di una mentalità e linguaggio volgare che sono caratterizzate dalla forma analitica e semplice, e talvolta, tanto semplici da rasentare la povertà.
Nel secolo XIII° i dotti che scrivono in prosa fanno uso della lingua latina, e se qualche scrittore adopera il volgare è mosso dalla intenzione di farsi leggere dal popolo a cui vuol presentare esempi, storico-inventati, edificanti o istruttivi, o visioni fantastiche che dilettano anime che si contentano di poco.
II linguaggio è caratterizzato dal predominio della coordinazione; gli scrittori, come usa il popolo, non fanno distinzione tra concetti principali e concetti secondari, ma pongono ogni pensiero e ogni sentimento sullo stesso piano e le proposizioni principali si susseguono così in serie ininterrotta. Periodi brevi, proposizioni semplici in cui vengono espressi concetti e osservazioni assai semplici ed elementari, costituiscono la cosiddetta “ingenuità della prosa ducentesca”.
Produzione.
Possiamo dividere le opere in prosa del duecento in due categorie:
A – Prose didattiche.
“Il libro dei sette savi”, anonimo, in cui vengono riferite quindici novelle di cui sette sono narrate da alcuni giudici, sette da una matrigna e una da un figliastro.
“La gemma purpurea” di Guido Fava, che è una raccolta di lettere esemplari da offrire ai lettori affinché se ne servano nelle circostanze in cui debbono trattare per lettera argomenti simili a quelli svolti dallo scrittore.
“Il novellino”. Una raccolta di cento novelle nella quale vengono svolte con ispirazione e forma assai semplice, motivi più o meno educativi tratti dalle leggende antiche e medioevali. “I fioretti di S. Francesco” in cui vengono narrati, in forma fantastica e come mito, con tono semplice e candido, episodi che illustrano le più belle virtù di S. Francesco. L’opera forse fu compiuta in latino da frate Ugolino da Montegiorgio, in italiano da Ugo dei Marignoli.
B)- Prose narrative.
Numerosissime cronache in lingua dialettale, più o meno raffinata, narrano senza grande apparato erudito e senza grandi pretese di giudizio né di interpretazione, i fatti avvenuti nelle varie regione e città italiane durante la lotta tra Guelfi e Ghibellini. Specialmente fatti che avvennero durante la discesa di Carlo d’Angiò in Italia e durante la guerra dei vespri siciliani hanno avuto una abbondante letteratura, cronistica in lingua italiana.
“Il milione” di Marco Polo, il famoso esploratore del mondo asiatico; l’autore scrisse la sua opera in lingua francese: Rustichello da Pisa fece la traduzione dell’opera il lingua italiana.
II racconto di Marco Polo non solo è veritiero, ma è anche attraentissimo per il tono fantastico, quasi di leggenda con il quale egli riferisce le sue avventure nel mondo orientale, considerato allora come il mondo del meraviglioso.
E’ evidente l’intenzione dello scrittore di offrire ai borghesi italiani un quadro delle possibilità commerciali dell’estremo Oriente.
IL MEDIO EVO
ROMANESIMO, GERMANESIMO E CRISTIANESIMO.
In seguito alla fusione dei tre fattori, Romanesimo, Germanesimo e Cristianesimo, sorgono forme nuove di vita nei vari settori dell’attività umana. Si tratta di forme assai inferiori a quelle realizzate dalla civiltà latina, assai inferiori a quelle proposte dalla civiltà cristiana; la primitività barbarica, imponendosi con la forza al mondo latino-cristiano, produsse un abbassamento della temperatura della civiltà, che agli intellettuali del sec. V° e del sec. VI°, particolarmente ai pontefici, memori delle conquiste civili del mondo romano, fecero l’impressione di un crollo disastroso di tutta la struttura dei vivere umano.
Ma sarebbe sciocco pensare che l’inserzione del mondo germanico nei mondo latino abbia costituito soltanto una sciagura storica: nell’organismo della vecchia civiltà latina infatti, ormai esaurita, furono immesse forze giovani, che, per quanto primitive, contribuirono a dare una nuova fisonomia e un nuovo indirizzo all’Europa,
Vediamo come si verifichi la fusione dei tre fattori nei vari campi dell’attività umana e a quali nuove forme di vita essi diano origine.
a)-Nel campo economico:
A potenziare l’economia romana contribuiscono tutti e tre i fattori della ricchezza, cioè agricoltura, industria e commercio. Le varie parti del mondo romano sono allacciate fra loro da rapporti commerciali intensissimi, che sono facilitati dall’uso della moneta. Si tratta, dunque, di una economia integrale e aperta. L’agiatezza è diffusa ovunque, specie nelle città grandi. Tuttavia l’economia romana ha un grave difetto: promuove e utilizza il lavoro, ma lo disprezza come attività da riservare agli schiavi.
I Germani, popolazioni primitive, usano procurarsi i mezzi di vita, con la caccia e la guerra, assai raramente con l’esercizio delle attività produttive pacifiche. I capi guerrieri si piazzano nelle ville degli ex-proprietari romani non in qualità di direttori di azienda, ma di sfruttatori del lavoro dei latini ridotti servi della gleba. Vengono meno i commerci interprovinciali, vengono meno le industrie: unica a sopravvivere, benché ridotta ai minimi termini, è l’agricoltura; un misero artigianato a servizio degli ecclesiastici vivacchia nelle città; un più misero artigianato è aggregato alla villa o alla corte del latifondo. Interrotti i rapporti fra città e campagna o contado (=comitatum=terra del conte), nell’ambito dello stesso fondo vengono effettuati scambi non con la moneta, ma col baratto di merci. Economia esclusivamente agricola e chiusa, dunque. L’aristocrazia guerriera vive nell’agiatezza, la popolazione vive, generalmente, nella miseria. Al tempo dei regni romano-barbarici, dunque, la gloriosa economia romana crolla e le attività produttive ristagnano.
A ravvivare la situazione viene la Chiesa. Il Cristianesimo proclama, la santità del lavoro e l’obbligatorietà di esso per tutti. I Benedettini congiungono alle attività dello spirito il lavoro agricolo: le terre monasteriali sono giardini; frati venuti da diverse parti d’Europa diffondono coltivazioni nuove; i conventi delle più lontane regioni si scambiano prodotti. Piccoli proprietari, per sfuggire o al fisco o alle soverchierie dell’aristocrazia barbarica, donano i loro possessi ai conventi e passano al servizio di essi in qualità di coloni liberi. Il lavoro considerato non solo come mezzo di produzione, ma come dovere e come alta espressione di umanità; la tendenza ad allacciare rapporti commerciali con tutto il mondo cristiano; il colonato libero, la diffusione dei contratti enfiteutici che rendono possibile la piccola proprietà, sono fattori di una economia nuova che troverà nel Comune l’ambiente più adatto per affermarsi.
b)-Nel campo giuridico.
Roma considera la legge in un primo tempo (nel periodo repubblicano) come espressione della volontà del popolo; in un secondo tempo (nel periodo imperiale) come espressione della volontà dei principe: quod principi placuit illud legis habet vigorem. La legge è universale, cioè vale per tutte le popolazioni incluse nell’impero. Il diritto romano, benché accolga principi ripugnanti alla ragione (nega, infatti, la personalità allo schiavo; esagera i poteri dello stato), tuttavia è il più ricco e preciso complesso di norme private e pubbliche che la storia ricordi.
Presso i Germani la legge è espressione della volontà degli uomini liberi di questa o quella tribù. Quante sono le tribù, tanti sono i codici; e, nel complesso, si tratta di un diritto assai primitivo: si riduce quasi esclusivamente alle norme penali, che sono basate sul criterio della vendetta e della multa pecuniaria. Nessuna specificazione dei diritti dei cittadini, dei diritti dello stato, dei rapporti reciproci tra i cittadini, dei rapporti fra sudditi e autorità. E’ un diritto che rivela un mondo ristretto in quanto provvede genericamente ai rapporti tra famiglia e famiglia; un diritto che chiaramente riflette la preoccupazione dei casati di salvaguardare le persone e le cose loro.
Nei regni romano-barbarici, per garantire alle famiglie germaniche la possibilità di soddisfare l’ambizione di comandare e di legiferare, specie nell’epoca feudale, si crea una gerarchia infinita di capi e sottocapi (re, duchi o conti, vassalli, valvassini, valvassori) nella quale, venute meno le assemblee popolari, ogni casato possa assicurarsi un posticino direttivo.
La Chiesa afferma che la legge è interpretazione dell’ordine universale creato da Dio; che la legge è uguale per tutti, essendo gli uomini uguali; che l’autorità è voluta da Dio e che da Dio essa ha il potere di obbligare i sudditi; che il governo è un nobile servizio prestato dai migliori alla comunità.
Dalla fusione di queste tre concezioni giuridiche risulta la legge del futuro Comune: essa è definita dall’assemblea delle famiglie, è valida per tutti i cittadini, è garantita da un governo democratico. Ma esistono tanti codici di leggi quanti sono i Comuni; cioè nel campo giuridico, come in tutti gli altri campi, si afferma la varietà nell’unità: la varietà delle leggi, l’unità dei principi che le ispira.
c)-Nel campo sociale.
Le società primitive sono divise in classi profondamente differenziate tra loro, in quanto le famiglie più forti e più ricche godono non solo di tutti i diritti politici e civili, ma anche di privilegi; mentre le altre sono oppresse da gravi pesi.
Anche Roma, all’inizio della sua storia, era passata, attraverso questa fase classista; ma già nel quarto secolo a.C. l’aveva superata. Il diritto romano (salvo la vergognosa eccezione fatta per gli schiavi) aveva affermato l’uguaglianza di tutti di fronte alla legge; e negli ultimi tempi dell’Impero, Romani, Italici, provinciali, barbari federati, tutti godettero della civitas romana.
Con la venuta dei barbari si ritorna indietro. La società è divisa in quattro classi: aristocrazia guerriera, onnipotente nell’ambito della sua giurisdizione; clero, abbastanza sicuro perchè protetto dalla venerabilità della religione; artigiani di città, liberi ma senza diritti politici; servi della gleba, in condizioni di semischiavitù.
Il Cristianesimo, affermando il principio dell’uguaglianza di tutti gli uomini, non riuscì certo ad eliminare la disuguaglianza, ma attenuò la violenza di essa. Diffuse il concetto che il valore dell’uomo non è costituito dalla nobiltà di sangue, né dalla ricchezza, né dalla potenza, ma dal patrimonio delle virtù naturali e soprannaturali; e, alimentando con gli stessi principi lo spirito dei vincitori e dei vinti, alla fine riuscì a creare una società nuova in cui rimasero bensì le classi, ma furono eliminate le distanze fra di esse dal rispetto reciproco, imposto dall’unità della fede religiosa e dalla soggezione alla medesima legge: preparò, così, la società del Comune.
d)- Nel campo politico.
E’ caratteristica delle civiltà elevate la capacità di organizzare vasti complessi politici: la tribù è caratteristica delle civiltà primitive; la nazione è caratteristica delle civiltà medie; gli imperi sono espressione di civiltà elevate. Roma organizza e civilizza il più potente impero della storia: a tutti gli abitanti di esso, con la “Constitutio Antoniniana” (di Caracalla nel 212) viene concessa la cittadinanza romana. Tutte le Provincie possono apportare il loro contributo al benessere comune dell’Imperium e possono dare all’amministrazione di esso magistrati, generali, giuristi. Popoli di svariate nazionalità vengono saldamente collegati col centro, fusi in un’unica civiltà, resi coscienti ed orgogliosi di appartenere al medesimo mondo romano.
I Germani, popolazioni primitive, conoscono solo l’organizzazione politica della tribù: essi sogliono eleggere un re solo in tempo di guerra; in tempo di pace ogni gruppo si amministra da sé. Quando si stabiliscono nel mondo latino hanno un re anche in tempo di pace, ma l’autorità di lui è puramente nominale, perché i duchi lottano vigorosamente per mantenere la loro autonomia. Così il mondo latino occidentale si fraziona in svariati regni, e ogni regno si fraziona in svariati settori amministrativi autonomi: cessa tra le varie regioni dell’occidente la libera circolazione di una vita comune.
La Chiesa è cattolica cioè internazionalista per sua natura, avendo voluto Gesù Cristo organizzare in essa i fedeli di qualsiasi parte del mondo. Roma, venuta meno la sua funzione politica universale, continua ad esercitare la sua missione universalistica nel campo religioso. Il progetto della ricostruzione dell’unità del mondo latino, in nome dell’universalismo romano e cristiano, vagheggiato dai papi da quando i barbari avevano frazionato l’Imperium, viene attuato nell’ 800 per opera di Leone III° e di Carlo Magno. Si giunge così ad una conciliazione fra l’individualismo politico germanico e l’universalismo politico romano-cristiano: sorge la respublica Christiana che accoglie in un unico organismo sociale tutti i fedeli del mondo sotto la vigilanza di una autorità spirituale e di una autorità politica, ambedue universali; ma le singole comunità di questo immenso organismo godono piena autonomia nel campo amministrativo politico (autonomia dei regni e dei feudi) e, benché in forma ridotta, anche nel campo amministrativo religioso.
Riassumendo. Nel campo economico, giuridico, sociale, politico, Roma crea istituzioni e promuove attività di natura complessa, organica e universalistica.
I Germani si presentano con istituzioni a carattere primitivo e individualistico, riducono le attività della vita a solo esercizio di comando militaresco, frazionano l’organismo vasto e solido della Società latina in una infinità di settori e sotto-settori: ma hanno il merito di favorire lo sviluppo della originalità dell’individuo. La Chiesa con i suoi principi e le sue istituzioni a carattere universale e soprannaturale, potenzia ciò che di buono è nella civiltà romana e purifica le fresche energie delle stirpi germaniche.
Si afferma così, da una parte, un universalismo che favorisce l’unificazione spirituale di popoli che prima neanche si conoscevano; dall’altra, un autonomismo individualistico che permette alle energie particolari di trovare la loro strada e di svilupparsi in modo originale.
L’unità nella varietà è la caratteristica fondamentale della nuova civiltà romanza.
e)- Nei campo religioso.
I Romani, che avevano raggiunto elevate forme di civiltà in svariati campi dell’attività umana, quanto alla religione non avevano superato che di poco la mentalità e il culto dei primitivi.
Adoravano le forze misteriose della natura, simboleggiate in personaggi sovrumani che rassomigliavano a signorotti potenti, niente affatto forniti di attributi veramente divini. In essi i romani vedevano i legislatori di questo o quel settore della natura, i vigili custodi di questa o quella attività umana. Ma per una strana contraddizione, gli dei venivano presentati come i contravventori più spregiudicati delle leggi che essi stessi avevano promulgato: il gruppo dei signorotti dell’Olimpo dava troppo spesso indegno spettacolo di accese passionalità e di indecorose baldorie. Sulla terra i mortali invocavano la protezione degli dei per concludere felicemente le loro imprese sia gloriose che volgari: è evidente, in una religione di questo genere, l’intenzione di trovare negli dei i difensori e i giustificatori degli interessi privati e pubblici, e delle umane passioni. La religione classica si riduceva, così, ad una specie di commercio fra gli dei protettori e gli uomini protetti: era del tutto ignoto il concetto dell’amore dell’uomo alle divinità e del dovere che hanno i mortali di imitare le perfezioni divine. E’ per questo motivo che i romani si limitavano a tributare agli dei un culto privato e pubblico assai lussuoso e generoso. I Germani, popolazioni anche in fatto di religione più primitive dei romani sono politeisti rozzi, che considerano gli dei come forze benefiche o malefiche da propiziare o da placare attraverso i riti di un culto più o meno disumano e feroce. La religione è da essi coltivata con un evidente senso di terrore e con una mentalità assai più utilitaristica di quella dei romani: sembrano più seri dei popoli classici, ma sono più chiusi e superstiziosi.
Il Cristianesimo afferma con chiarezza la trascendenza, l’infinità, l’unicità di Dio e formula le più splendide definizioni della divinità: “Dio è l’essere”, “Dio è amore”. L’unica manifestazione autentica di Dio sulla terra è Gesù Cristo. La religione è adesione amorosa di tutto lo spirito della creatura al Creatore, adesione da realizzarsi attraverso la concordanza piena del pensiero, del cuore e della volontà con Gesù Cristo, costituito intermediario fra l’umanità e la divinità. Una società nuova, chiamata dal fondatore “regno di Dio”, propugna una civiltà soprannaturale, in cui le attività terrene o naturali non solo non vengono svalutate, ma sono convogliate verso una meta sublime, cioè verso l’infinito. Gli uomini, in forza della nuova religione, sono tutti fratelli e costituiscono una “Respublica” spirituale senza confini.
Il Cristianesimo eliminò dalla circolazione le varie forme della mentalità e del culto pagano, però accolse dalla civiltà romana le istituzioni amministrative e civili, che si adattavano alle esigenze della amministrazione ecclesiastica, come accolse le forme dell’arte per edificare ed ornare i suoi templi e utilizzò le elaborate ed eleganti forme letterarie dei classici per esprimere in versi e in prosa il suo sentimento. In forza del Cristianesimo Roma diventò la capitale di una comunità religiosa senza confini, vera capitale del mondo in quanto il Cristianesimo non ha confini di razza e di civiltà. Così quando decadde definitivamente l’impero, della vecchia capitale, cervello politico e civile dell’Europa, non restò che la fama; un mondo più vasto di quello contenuto nei vecchi confini della repubblica latina guardò ancora a Roma; ed ebbe motivo quel mondo di guardare a quella città, perché proprio da essa venne la luce di una civiltà che congiungeva le forme della vita soprannaturale e della Grazia con quelle della perfezione naturale e della ragione.
Se il Romanesimo diede al Cristianesimo le forme della attività amministrativa, le forme espressive artistico-letterarie, una capitale gloriosa e famosa, il Cristianesimo alla civiltà latina che si stava esaurendo per la vecchiaia e per soffocamento provocato dal sopravvento dei Germani, diede a sua volta uno spirito nuovo, una missione ed una funzione più elevata ed un universalismo più umano e più vasto a cui è ignota, come dice S. Paolo, la distinzione tra barbari, romani, Greci, Ebrei, la distinzione fra nazione e nazione.
L’attività e l’abilità di pontefici illustri riuscirono a conquistare alla Chiesa tutto il mondo germanico latinizzato e quello germanico puro; cosicché fu possibile realizzare nel Natale dell’800 il sogno di una “Respublica” immensa, a carattere cristiano-romano-germanico (Sacro Romano Impero).
Era naturale, però, che l’evento barbarico, come aveva abbassato con la sua primitività la temperatura del Romanesimo, così abbassasse anche la temperatura del Cattolicesimo. Infatti il cristianesimo germanizzato presentò evidentemente forme primitive: resti di idolatria, superstizioni, rozzezza disciplinare, misticismo esasperato, sopravvento dell’autorità sulla Chiesa abbassarono miseramente il tono della religione cattolica, specie nel periodo che intercorre fra il secolo IX° e la metà del secolo XI°. Tuttavia il cristianesimo, affermando il principio della fratellanza universale, professando ovunque lo stesso complesso di principi e le stesse norme morali, celebrando le sue feste in tempi uguali e con riti identici, usando la medesima lingua (il latino dotto medievale), istituendo monasteri, vescovadi quali centri di cultura e di civiltà, oltre che di vita religiosa, collegando infine tutte le città con Roma, contribuì in modo efficacissimo a creare una spiritualità unitaria e quel che più conta altamente umana in tutto il continente europeo.
E’ certo che se non fosse esistito il Cristianesimo, anche l’influsso del Romanesimo sulla civiltà moderna, sarebbe stato meno sensibile e il sopravvento delle stirpi germaniche, ancora primitive, avrebbe abbassato assai di più il tono della civiltà.
f)- Nel campo della morale e dei costumi.
I Romani avevano realizzato forme di vita esteriori mirabilmente fini ed eleganti: nel costruire edifici, nel lusso privato e pubblico, nel1’organizzare la vita politica, avevano saputo unire l’utile e il bello, la praticità e l’idealità.
Ma, dal punto di vista morale, la spiritualità presentava delle deficienze deplorevoli; il principio “fa tutto quello che la natura ti suggerisce purché usi prudenza e decoro” permise agli uomini del vecchio mondo latino turpitudini morali assai disonorevoli, evidenti perfino nella celebrazione dei riti religiosi.
E’ troppo poco per una morale contentarsi che l’uomo non rechi danno materiale a sé stesso e alla patria e non cada in volgarità esteriori: la vera civiltà è anzitutto razionalità ed ordine spirituale.
Il Cristianesimo ha compiuto questa opera di civilizzazione interiore dell’uomo imponendogli lo stile della razionalità perfetta e uno stile di perfezione soprannaturale il cui precetto essenziale e, per così dire unico, è quello dell’amore di Dio e del prossimo.
Quelle forme di saggezza che nel mondo classico erano riuscite a realizzare solo pochissimi uomini (Aristotele, Socrate, Platone) nel mondo cristiano invece divennero comuni e furono di gran lunga superate dall’esercizio delle tre virtù soprannaturali: Fede, Speranza, Carità.
Se il mondo pagano aveva contato degli eccellenti eroi nel campo civile e militare, il cristianesimo seppe darne in numero incomparabilmente superiore ed eccellenti sotto tutti gli aspetti.
Per questo motivo, mentre i principi della vecchia morale pagana di ispirazione naturalistica, stavano svigorendo la stirpe romana, cosicché Tacito preferiva i barbari della Germania ai suoi concittadini, il Cristianesimo risollevò le sorti civili del mondo romano e riuscì non solo a superare la crisi spirituale dell’Impero, ma ad affrontare trionfalmente l’Opera di civilizzazione delle varie stirpi germaniche, che, per quanto fossero invidiate da Tacito, erano tuttavia anche esse dal punto di vista morale in stato di rozza primitività. Il Cristianesimo conservò la forma di civiltà esteriore creata dai Greci e dai Romani ed aggiunse il fattore che più contava cioè quello di una elevata disciplina interiore.
Il principio del naturalismo pagano secondo il quale è lecito e quasi doveroso dare sfogo a tutti gli impulsi della natura, fu sostituito dal principio cristiano secondo il quale gli impulsi della natura debbono essere assecondati solo in vista e nei limiti dei fini ai quali essi servono. Ne derivò uno stile di vita meno chiassoso e meno spensierato, ma, in compenso, più fattivo e più umano: non si può negare che la disciplina degli istinti sia un potente fattore di elevazione della civiltà.
L’opera del Cristianesimo fu tanto più preziosa in quanto si svolse in un periodo storico in cui i Romani che disprezzavano i barbari come se fossero delle bestie, e i barbari disprezzavano i Romani come se fossero degli effeminati, si trovarono di fronte gli uni gli altri, anzi incominciarono a vivere gli uni al fianco degli altri. Sono note le prodezze di parecchi gruppi germanici allorché si stanziarono nel territorio del ex-impero, nonostante che Papi e Vescovi cercassero di influenzare con la loro autorità i capi delle varie bande barbariche: si può immaginare cosa sarebbe avvenuto se quell’influsso fosse mancato del tutto.
In breve tempo anzi Latini e Germani si affratellano in nome della comune Fede, i loro costumi si fondono e si modellano sui principi della disciplina morale cristiana.
Con questo non si vuol dire che i nuovi costumi benché pervasi dallo spirito cristiano presentino forme eccellenti; la zavorra della barbarie influì assai sensibilmente ad abbassare il tono dello stile di vita privato e pubblico. Vendette personali e familiari, punizioni feroci, sistemi sleali nella lotta, oppressione dei deboli, esplosioni di cruda sensualità, disprezzo generale della cultura, furono espressioni troppo frequenti nella fase di incontro fra la civiltà classica e quella germanica: espressioni di mentalità troppo vicina a quella dei primitivi. Questo abbassamento fu più evidente nei periodi in cui la forza più attiva della nuova civiltà, cioè il Cristianesimo, rallentò la pressione del suo influsso a causa della decadenza del clero; e ciò avvenne specialmente nei secoli IX° e X° fino alla metà dell’XI°, cioè nel periodo in cui i feudatari spadroneggiarono nei vescovadi e nelle abbazie a cui proponevano, in genere, persone ignoranti, rozze e scostumate.
g)- Nel campo della cultura.
Dai II° secolo d. C la cultura romana era venuta decadendo non tanto perché fossero venute meno le scuole (le quali fiorirono fino agli ultimi decenni del secolo V°) quanto perché l’erudizione prevalse sulla genialità e su una salda e robusta formazione spirituale.
Fortunatamente, mentre stava decadendo la letteratura latina profana, sorgeva la letteratura cristiana, la quale, portando un alimento sostanzioso ed inesauribile al contenuto, e adottando le forme più espressive e più belle inventate dai classici, fece rifiorire la prosa e la poesia romana.
I più grandi padri della Chiesa, intelletti dediti alla speculazione teologica e scrittori che non sdegnano di fare uso dei migliori suggerimenti dell’arte classica, riempiono di luce il secolo IV° e V°. Mentre tramonta il pensiero pagano, comincia a risplendere quello cristiano.
Quando nei secoli V° e VI° i barbari si stanziano nelle varie provincie, vengono chiuse le scuole che in esse fiorivano. Il popolo latino ridotto in condizioni di semi-schiavitù, immiserito, escluso dalla vita politica, non ha più né mezzi né voglia di attendere alla cultura. D’altra parte i barbari, uomini primitivi, quindi rozzi e grossolani, non solo non appoggiano la cultura, ma addirittura la disprezzano. Per essi la penna è spregevole e solo la spada è apprezzabile: anche i capi supremi barbari preferiscono l’ignoranza alla cultura. Infine alcuni ecclesiastici, mossi da un inveterato sospetto nei confronti della cultura profana, volentieri vedrebbero la rovina totale e la scomparsa di essa.
Fortunatamente, però, la Chiesa ufficiale e l’ordine religioso dei benedettini, proprio nel momento di maggiore crisi per la cultura classica, si assumono il compito di mantenerne desti la memoria e l’esercizio.
S. Benedetto propone come motto ai suoi monaci: “Ora et labora“; Cassiodoro, fondatore del monastero, del vivaio, interpreta il “labora” anche come obbligo di attività culturale e impone perciò ai suoi monaci l’obbligo di esercitarsi nella cultura classica e di trascrivere le opere dei grandi prosatori e poeti antichi.
Egli scrive le “Institutiones”, una specie di enciclopedia in cui vengono esposte le nozioni essenziali intorno ai più importanti argomenti profani e sacri e in cui vengono indicate le opere dei più famosi scrittori alle quali ricorrere per completare le varie nozioni (una specie di bibliografia).
E siccome la conoscenza del greco in Occidente va man mano decadendo, Severino Boezio si propone di tradurre tutte le opere di Aristotele e di Platone e di commentarle: la morte gli impedisce di realizzare gran parte del suo proposito.
Nei vari monasteri sorgono scuole e sono esse gli unici centri di cultura nelle varie zone del mondo romano-barbarico. I conventi più famosi sono: MONTECASSINO, FARFA, BOBBIO, NONANTOLA, SAN GALLO, FULDA, CLYNY, BANGOR; in questi monasteri vi sono scuole, scrittori (luoghi ove si ricopiano i testi antichi sacri e profani) e biblioteche. Le materie che si insegnano in queste scuole sono: grammatica, dialettica, retorica che costituiscono le arti del trivio. La grammatica è lo studio della lingua latina dotta; la dialettica è lo studio della logica; la retorica è lo studio dell’arte del comporre. L’aritmetica, la geometria, la musica, l’astronomia (che più tardi costituiranno le arti del quadrivio), non vengono coltivate durante il corso dell’alto medioevo.
La lingua che viene adottata nei monasteri e nei vescovadi è quella latina dotta. Dei classici più che le opere intere vengono letti passi scelti, raccolti in “florilegi” o “antologie”, e i brani preferiti sono quelli ricchi di sentenze morali. I copisti dei monasteri trascrivono nei codici anche le opere di scrittori pagani, che lasciano molto a desiderare dal punto di vista della moralità. Ma di queste opere si dà una interpretazione allegorica di senso morale: il vizio presentato in certe opere di Ovidio come trionfante sulla virtù, è allegoricamente interpretato come il demonio che trionfa sull’anima.
E’ bene in questo punto esaminare l’atteggiamento della Chiesa nei confronti della cultura pagana. In un primo tempo la Chiesa si dimostrò ostile verso i classici che rappresentavano gli esponenti di una cultura imbevuta di errori religiosi e morali. In un secondo tempo, e precisamente al tempo degli apologisti del II° e III° secolo, gli intellettuali cristiani, pur combattendo il pensiero pagano, non spregiarono le finezze dello stile dei classici. Nel IV° e V° secolo scrittori cristiani, ecclesiastici e laici, volentieri si appellano all’autorità di scrittori pagani nei loro trattati morali e storici, e volentieri fanno uso della forma elaborata che ha reso gloriose le opere degli scrittori antichi. Lattanzio, S. Girolamo, S. Agostino, S. Ambrogio, adottano uno stile che si avvicina molto a quello dei classici. Ma ciò che più contribuì ad una riconciliazione totale tra i classici profani e il cristianesimo, fu il pensiero di S. Agostino relativo alla illuminazione. L’intelletto umano, dice S. Agostino, si trova di fronte alla verità come un occhio vivo di fronte agli oggetti da vedere; e come la visione dell’occhio non è possibile se non c’è la luce, così non è possibile che l’intelletto veda la verità se non v’è una luce interiore: tale luce viene comunicata dal Verbo, il quale illumina ogni uomo che viene nel mondo e che ha illuminato quindi anche i pensatori pagani.
Tale illuminazione dei pagani ha avuto la sua ragione d’essere nel piano della Provvidenza: Dio attraverso le verità scoperte dai pensatori greci e romani doveva preparare il campo all’avvento della verità assoluta. Da qui l’ansia degli intellettuali cristiani di ritrovare, nelle opere dei classici, spunti che preludessero ai principi filosofici ed etici della Chiesa. Orazio, Lucano, Seneca, lo stesso Ovidio vengono considerati come scrittori morali, spiritualmente molto vicini alla morale cristiana. Virgilio poi viene considerato addirittura come un profeta del cristianesimo, per la famosa predizione della nascita di un fanciullo rigeneratore della umanità, contenuta nella IV° egloga.
Ma l’attenzione dei pochi studiosi del Medioevo era tutta rivolta alla cultura religiosa, cioè alla interpretazione della sacra Scrittura, all’esame dei dogmi, all’oratoria sacra, alla storia ecclesiastica. Quindi le opere più comuni, nell’Alto Medioevo, sono commenti alla sacra scrittura e ai dogmi, cronache e storie di argomento o almeno di ispirazione religiosa, raccolte di prediche o di racconti edificanti.
Questo spirito ecclesiastico pervase, si può dire, tutte le manifestazioni della modesta cultura alto-medievale. Se in questo periodo qualche scrittore laico si dedica alla composizione di qualche opera, sente anche egli il bisogno di inquadrare gli sviluppi dei suoi temi nella spiritualità della Chiesa.
Di laici che si dedichino alla cultura in questo periodo il numero è ben esiguo: dopo la fine del secolo VI°, la prima volta che si rivela un certo interesse per la cultura nel mondo dei laici, è al tempo di Carlo Magno, il quale istituì nella sua corte una “Schola” detta “Palatina”.
Il grande imperatore, pur non avendo una grande cultura letteraria, anzi pur non sapendo neanche scrivere, era amantissimo del sapere e se non poteva egli stesso a causa delle eccessive occupazioni, attendere allo studio, voleva che almeno si erudissero gli uomini della corte: perciò accolse nel suo palazzo di Aquisgrana il monaco inglese Alcuino, Paolo Diacono Longobardo, il tedesco Eginardo. Eginardo scrisse la vita di Carlo; Paolo Diacono, la storia dei Longobardi; Alcuino alcuni commenti critici ad opere classiche e sacre; una nipote di Carlo, di nome Erosvita, scrisse alcune commedie di argomento e di ispirazione religiosa.
La scuola palatina fiorì solo durante la vita di Carlo e poi decadde.
h)-Nel campo artistico.
I pittori e scultori greci e romani avevano preso a modello la natura, proponendosi di riprodurla in forme idealizzate ed eleganti. Gli architetti avevano costruito edifici privati e pubblici, sacri e profani in cui la semplicità e il decoro, la solidità e l’eleganza avevano realizzato un connubio perfetto: la struttura degli edifici classici è condotta col metodo della combinazione tra linee verticali e orizzontali e di un agile gioco di pieni e di vuoti, di luci e di ombre, costituisce un modello perfetto di grazia e di buon gusto. La decorazione si ispira a motivi assai semplici, ma disposti con un perfetto criterio di proporzione e di armonia: né la grandiosità della struttura disperde la decorazione né la decorazione sopraffà le linee della struttura. La norma suprema dell’arte per i Greci e per i Romani è l’armonia che risulta dalla proporzione perfetta delle parti: nell’armonia è l’essenza del bello.
I Germani non conoscono alcuna forma di arte, all’infuori di una cesellatura o di un intaglio assai primitivi con cui sogliono decorare armi o strisce di cuoio. Quando essi si stanziano nel mondo latino normalmente occupano le case private e i palazzi pubblici che essi hanno requisito cacciandone i proprietari. E, in un primo tempo, se costruiscono nuovi edifici, si valgono dell’opera di ingegneri e di artisti latini; in seguito anche qualche germano si dedica alla attività artistica: ma si tratta quasi sempre di soggetti che, entrati in qualche convento benedettino, hanno appreso le norme più elementari del disegno e dell’ornato e hanno incominciato a lavorare nel campo dell’arte religiosa.
Tra i laici latini si formano o continuano ad esistere alcune compagnie di costruttori edili che hanno particolari indirizzi di disegno e di decorazione e segreti di tecnica (da ricordare i soci comacini). Costruttori laici e costruttori monaci, in seguito a progressivo fondersi del gusto latino e di quello germanico, vengono elaborando disegni e decorazioni nei quali si riflettono il proposito classico della semplicità e della linearità e il gusto germanico simpatizzante per le forme piene e pesanti: ad esempio la struttura delle chiese alto-medievali riproduce nel complesso il disegno della vecchia basilica romana, ma rivela influssi germanici nella prevalenza dei pieni sui vuoti, nella decorazione distribuita un po’ a caso e ferma ancora all’imitazione di motivi tratti dalla flora e dalla fauna; la figura umana, riprodotta al massimo in modesti altorilievi, è anzitutto un motivo raro, e in secondo luogo è trattata con modellatura approssimata e rozza. Le prime chiese romaniche e i primi palazzi comunali, con la pienezza della massa murata, con i rari intervalli di vuoti, con i loro portali che sembrano semplici aperture semicircolari nel muro della facciata, esprimono un gusto assai pesante e privo di iniziative.
La Chiesa, impegnata a costruire e a decorare con eleganza sempre più evoluta la casa del Signore, che è nello stesso tempo il luogo di riunione dei fedeli, promuove, agli inizi del basso Medioevo, lo sviluppo del disegno e dell’ornato introducendo motivi simbolici che non solo non guastano la semplicità della struttura, ma arricchiscono di iniziative l’ispirazione degli artisti. Sorgono cosi le gloriose costruzioni romaniche che, pur nella loro massiccia struttura, riescono, in forza di eleganti motivi di decorazione, ad assumere un tono simpatico e spigliato. Al culmine del Medioevo troveremo la più splendida delle arti medievali, quella gotica, la quale è una sintesi perfetta di motivi romani e di motivi germanici. Sia nell’arte romanica che in quella gotica non ritroviamo il puro motivo classico, in quanto struttura e decorazione presentano una straordinaria complessità e procedono con criteri liberissimi: ma nel labirinto delle linee, troviamo sempre il vecchio criterio della proporzione.
LA LETTERATURA LATINA ALTO-MEDIEVALE
Durante il corso dell’alto-medioevo nessuna opera che abbia un certo valore letterario è scritta in lingua volgare. Nel campo delle attività religiose e delle amministrazioni statali, si faceva uso del latino dotto.
Si tratta sempre di un latino che conserva fondamentalmente il vocabolario e le forme grammaticali e sintattiche dell’età repubblicana e imperiale, ma assume vocaboli nuovi, dà significati nuovi a vocaboli vecchi e introduce talvolta anche forme sintattiche nuove: si tratta insomma di un latino che segue l’evoluzione dei tempi e quindi si può chiamare “vivo”. Quelli che usano il latino dotto non si preoccupano di modellare ogni loro espressione su quelle usate nell’età classica, ma, avendo cose nuove da dire, creano forme nuove di linguaggio sempre sullo stampo fondamentale del latino tradizionale. Nelle relazioni private e nella vita quotidiana si usava il volgare nell’Europa occidentale, il tedesco nell’Europa centrale e settentrionale; lo slavo nell’Europa orientale (non è il caso di dire che del volgare, del tedesco e dello slavo esistono svariatissime suddivisioni).
La forma o stile della Letteratura in lingua latina dotta medievale non presenta né originalità, né buon gusto. Dopo il periodo aureo del classicismo, in cui scrittori gloriosi avevano espresso in modo vivace, decoroso, complesso e nitido nello stesso tempo, i motivi della loro ispirazione ricca e profonda, si era formato nel campo letterario lo stile retorico. Dal II° secolo in poi, fino agli inizi del 500 in tutte le Provincie dell’impero fiorirono numerose scuole, in cui i professori di letteratura insegnavano agli alunni l’arte del bello scrivere. Ma siccome l’arte del bello scrivere non s’insegna, perché eccellente scrittore è definito anzitutto dalla sua ricchezza interiore, i vari maestri di retorica si riducono a precettisti più o meno pedanti; alcuni di essi consigliano le sottigliezze concettuali, altri l’espressione metaforica sfavillante e nuova e le allegorie complicate, altri le parole antiquate, le allitterazioni, i periodi ritmati e talvolta legati l’uno all’altro da consonanze.
Le scuole monasteriali ed episcopali dell’alto medioevo, nell’insegnamento della retorica seguono pressappoco lo stesso indirizzo delle scuole imperiali della decadenza. Sorgono così le “artes dictandi” o “cursus” cioè quei complessi di norme che regolano la composizione del periodo e la forma del linguaggio, secondo i diversi indirizzi delle scuole. Famoso, ad esempio, fu nell’alto medioevo il Cursus Isidorianus, usato da S. Isidoro di Siviglia e ricavato dalle sue opere dai maestri di retorici.
La curia papale aveva il suo cursus come lo avevano la curia (o ufficio centrale di amministrazione) del sacro romano impero e quelle dei singoli re d’Europa. Ogni cursus era fondamentalmente uguale agli altri, però aveva anche delle particolarità che lo distinguevano, per cui ad un esperto non era difficile individuare da quale curia un documento diplomatico provenisse.
Le norme artificiose delle artes dictandi non furono applicate soltanto ai documenti curiali, ma a quasi tutte le composizioni in lingua latina dotta, sia di contenuto religioso e morale che di contenuto storico. Quando molto tardi, e cioè agli inizi del secolo III°, in Italia e precisamente alla corte di Sicilia si userà per la prima volta il volgare per composizioni letterarie, si sentirà molto viva l’influenza del cursus o della retorica medievale; e la stessa cosa, poco prima che in Sicilia avverrà in Provenza, poiché anche qui la poesia in volgare fiorirà nelle corti.
Nel complesso la letteratura medievale, oltre ai difetti di linguaggio dovuti all’artificio retorico, scolastico e curiale, presenta anche notevoli deficienze di forma e di contenuto. Il contenuto, infatti, se è religioso non viene quasi mai impostato su basi solide di pensiero né prende quasi mai sviluppi veramente notevoli; se è morale e parenetico (esortativo) troppo spesso viene sviluppato con esempi e racconti ingenui e poco significativi; se è storico assume spesso l’aspetto di cronaca che insiste sui particolari senza individuare il significato e le cause dei fatti.
Numerosissime sono le liriche religiose nel tema e nell’ispirazione: inni a Dio, alla Vergine, ai santi venerati in tutta la Chiesa o in luoghi particolari. Però gli inni veramente belli sono rari (è famoso l’inno che cantavano le sentinelle modenesi che facevano guardia sulle mura durante l’invasione magiara).
L’innografia alto-medievale se non ha grande importanza estetica, ha tuttavia notevole importanza storica, in quanto già presenta alcune particolarità tecniche che preludono alla poesia in volgare, che si affermerà nei secoli XII° e XIII° (tali particolarità sono specialmente due: l’introduzione della metrica accentuativa e della rima).
Nel complesso, dunque la letteratura alto-medievale non ha avuto espressioni notevoli dal punto di vista dell’arte: si tratta di opere che hanno più importanza per la storia della lingua, della tecnica letteraria, dei costumi, della politica e della religione, che per la storia della poesia. Ma è da notare che una civiltà in elaborazione, cioè ancora fanciulla, non può darci che espressioni ancora primitive, ossia ancora ingenue e rozze: non si può pretendere da un mondo che si sta formando, le espressioni adulte e complesse che si chiedono ad un mondo già formato.
Lo stesso abbandono della cultura da parte dei laici, storicamente non poteva non verificarsi, perché una civiltà primitiva quale era quella dei Germani, non poteva apprezzare le lettere e le arti e quindi non poteva favorire la fioritura di esse né privatamente, né pubblicamente. Le vicende storiche, come in tutti i secoli, anche nell’alto Medioevo hanno avuto il loro influsso sullo sviluppo delle lettere e delle arti. Mentre i Germani si stanno stanziando nelle provincie dell’ex-impero, le popolazioni latinizzate, rallentano, ma non cessano la loro attività culturale.
Quando i Germani ormai affermatisi nei territori conquistati, hanno il sopravvento politico, la cultura pubblica muore; quando, con Carlo Magno, si ha una prima espressione di vita unitaria, nell’Europa centro occidentale, una specie di prima coscienza della nuova civiltà che si sta formando, anche la cultura ha la sua manifestazione civile e unitaria nella corte del Sacro Romano Impero, per opera di uomini venuti dalle diverse parti della Respublica Christiana.
Quando, poi, nella seconda metà del secolo IX° e in tutto il secolo X°, l’impero è in crisi, e il feudalesimo, sfruttato e manovrato dalla aristocrazia militare di origine germanica, controlla conventi, vescovadi, parrocchie, la cultura ritorna a languire: i conti e i marchesi, infatti, come i loro vecchi antenati, preferivano l’attività guerresca al culto delle arti liberali e preferivano piuttosto sudditi ignoranti, facili a tenersi soggetti, che sudditi colti, I conventi che erano stati centri di cultura, in questo periodo (eccetto quelli di Germania), decadono. Il secolo X° è appunto detto l’età ferrea della Chiesa, ma si potrebbe dire anche “età ferrea della cultura”.
Alla metà del secolo X° la Chiesa inizia la sua riscossa religiosa e morale, ed allora anche la cultura riprende il suo cammino, che diventerà sempre più glorioso e si concluderà con S. Tommaso, con Giotto, con Dante.
Conclusione
Più che di Italia o Francia o Germania ecc, ossia più che di questa o quella nazione singola, nell’alto Medioevo si può e si deve parlare di Respublica Christiana, cioè di una comunità immensa i cui membri, individui e popoli, professano la stessa fede religiosa e sono amministrati da due autorità supreme, unica e universale ciascuna nel suo campo: dal Papa nel campo spirituale, dall’Imperatore nel campo politico. L’universalismo cristiano riesce a dare una fisionomia spirituale unitaria ad un mondo frazionato in un infinità di famiglie etniche dalle indoli più diverse.
E’ la Chiesa cattolica che fa da madrina e da madre ai popoli che la storia ha unito nell’ambiente della civiltà romanza; è la Chiesa che ispira non solo la loro formazione religiosa, ma anche la loro evoluzione culturale e civile: il Papa da Roma, i vescovi nelle singole diocesi, i conventi nei centri urbani e nelle zone solitarie rurali, promuovono con intelligenza e zelo più o meno intense, più o meno costanti, la graduale ascesa del mondo romanzo dalla temperatura civile assai bassa della fine del V° secolo, a sempre più elevate forme di spiritualità e di espressione.
Si tratta di una Respublica Christiana che dal punto di vista organizzativo presenta deficienze non lievi: basta notare, a questo proposito, che le autonomie locali, sia delle diocesi che dei feudi, svigoriscono l’autorità dei due capi supremi, cioè del Papa e dell’Imperatore. Eppure in tutti i membri di questa immensa comunità è viva la coscienza di appartenere allo stesso organismo spirituale e politico: e questa coscienza è un ottimo fattore di unità spirituale nel mondo delle nascenti nazioni moderne.
In forza di questa fisionomia generale unitaria che assume il mondo europeo, nel periodo sec. V° – sec XIV°, per opera del Romanesimo e del Cristianesimo, possiamo definire “romanza” tutta l’epoca medievale e “romanze” possiamo chiamare tutte le nazioni del Continente senza alcuna distinzione etnica.
Il termine “romanzo” inteso nel suo senso più generico oggi vale lo stesso che “medievale”, appunto perché l’intonazione unitaria alla civiltà dei tre settori dell’Europa fu data dalla Romània, cioè dal settore occidentale, ove dapprima si verificò la fusione dei tre fattori: Romanesimo, Germanesimo, Cristianesimo.
I rinascimentali, gli illuministi, gli scientisti si sono compiaciuti di presentare il medioevo come epoca di nera barbarie, di rozza primitività; e, specie gli illuministi e gli scientisti, hanno volutamente caricato le tinte per denigrare la Chiesa che di quell’epoca fu la maestra e l’assistente. E’ vero che l’alto Medioevo presenta forme primitive di vita, ma bisogna riconoscere che, come i bambini, così anche le nazioni nella fase di formazione non possono esprimersi in forme evolute ed adulte; e, soprattutto bisogna riconoscere che al mondo più caotico che la storia abbia mai presentato, la Chiesa seppe dare almeno una struttura spirituale unitaria e seppe infondere i principi e le energie di una evoluzione ideale di cui anche noi oggi godiamo alcune conseguenze.
BASSO MEDIOEVO
Come gli individui e le singole generazioni hanno la loro fanciullezza, la loro giovinezza, la loro maturità e la loro vecchiaia, così anche le epoche storiche hanno la loro fase di formazione, di maturità e di tramonto. Dall’epoca medievale, il periodo alto è fase di formazione, il periodo basso è fase di maturazione, il periodo in cui a fianco della vecchia civiltà romanza sorge una civiltà nuova (quella del Rinascimento) è fase di tramonto.
Ambiente storico del basso medioevo.
Abbiamo visto come, nell’Alto Medioevo, popoli che non si erano mai conosciuti fra loro si incontrano per la prima volta; e come l’unità religiosa e politica della Respublica Christiana favorì i rapporti e quindi gli scambi, di ordine materiale e spirituale, fra le giovani nazioni romanze.
Il potenziamento della civiltà, avvenuto attraverso questa rete di rapporti che resta ignota alla storia abituata ad annotare i fenomeni più evidenti e più clamorosi, ha la sua espressione giovanile nei secolo XI°.
Questo secolo è denominato secolo della “Rinascita”, perché dalla metà di essa si nota in tutte le nazioni dell’Europa occidentale e centrale un risveglio di attività, che segna l’inizio di un periodo nuovo nella storia del nostro continente. Alcuni hanno favoleggiato che tale risveglio sia da attribuirsi alla mancata fine del mondo, che sino all’anno 1000 le genti del Medioevo avrebbero temuto in base a una espressione mai pronunciata da Cristo: “Mille e non più di mille”: dopo il mille non essendo crollato il mondo, la gente avrebbe ripreso coraggio e avrebbe deciso di svegliarsi. Questo secondo la favola.
La verità, invece, è che, dopo la puerizia e la fanciullezza, l’Europa moderna entrava nella fase della sua giovinezza, per giungere, poi, agli inizi del secolo XIV°, alla maturità.
I fenomeni più importanti che si verificano in questo periodo sono i seguenti:
1)- Aumento della popolazione in ogni parte dell’Europa. Con l’incremento demografico vanno connessi i seguenti fatti:
a)-Diminuiscono le tracce differenziali tra le varie stirpi che si sono fuse nella unità di ogni singola nazione, perché man mano che si susseguono le generazioni, si definisce sempre più chiara la fisionomia delle stirpi fuse e si afferma sempre più la coscienza della nazionalità.
b)-Col crescere delle persone crescono i bisogni, col crescere dei bisogni si inventano nuovi mezzi di produzione e nuovi sistemi di rifornimento: cresce l’attività agricola, si sviluppa l’artigianato e si risveglia il commercio; entrano in uso nuovi contratti agricoli, va scomparendo la servitù delle gleba, si diffondono il colonato libero e la piccola proprietà, si moltiplicano le fiere e le piazze commerciali
c)- Diventano più frequenti i contatti fra città e campagna, fra città e città, tra feudo e feudo: col moltiplicarsi dei contatti si intensifica lo scambio delle idee, delle usanze, dei ritrovati del progresso.
2)- Decadenza del feudo e rinascita delle città. Il sistema ereditario nel regime feudale era duplice: in alcuni feudi vigeva il diritto del maggiorasco per cui l’eredità era riservata al primogenito e in tal caso il patrimonio restava sempre intatto; in altri, invece, l’eredità era divisa fra tutti i figli, e in tal caso, dopo alcune generazioni, il patrimonio era frazionato in modo da non garantire più una potenza temibile o almeno rispettabile all’erede.
E’ chiaro che le zone in cui il frazionamento dei feudi è progressivo sono destinate in breve tempo ad una evoluzione politica e civile addirittura radicale. Infatti la città che, nell’alto medioevo, era stata sotto il dominio e il controllo del conte e si era trovata in condizioni di inferiorità rispetto al castello feudale, ora riprende vigore e sorpassa in importanza e potenza le sedi feudali.
Gli Ottoni, per indebolire la potenza dei feudatari, avevano sottratto il maggior numero possibile di città al controllo dei medesimi, concedendo specialmente a quelle che erano sedi vescovili l’immunità e l’autonomia. Così, passando sotto l’amministrazione del vescovo, la città gode di maggiore libertà e può essere curata meglio, perché chi la governa ha da pensare solo ad essa.
Vengono restaurate le mura, che o sono state abbattute secoli prima dai barbari invasori o sono crollate per trascuranza; vengono organizzati regolari servizi di rifornimento delle merci necessarie alla vita familiare e cittadina; vengono istituite scuole; vengono addestrate ed armate le milizie, insomma la città diventa un piccolo mondo più garantito dal punto di vista della sicurezza, più attivo, più ricco di risorse commerciali, più colto e più civile nei confronti del castello, del conte solitario nella campagna. E’ per questo motivo che i cavalieri ossia i cadetti dei feudi maggiorascali, ed i proprietari dei feudi sminuzzati per eredità universale, abbandonano la campagna e si stabiliscono in città.
Quando in seguito alla riforma di Gregorio VII° vennero cacciati dalle città i vescovi altezzosi e prepotenti, investiti o dall’imperatore o dai re o dai grandi feudatari, e a posto di essi furono eletti uomini degni per santità di costumi e per cultura, le città ebbero allora più libertà e i cittadini stessi dal vescovo che attendeva all’esercizio della sua missione spirituale ebbero il permesso di amministrarsi da sé.
3)- Nascita del Comune. Sorse così il “Comune” cioè regime di amministrazione collettiva della città. Con l’affermarsi di questo regime essenzialmente democratico, si afferma in pieno anche la libertà politica; e siccome la libertà permette a ciascuno di esprimere le proprie energie e favorisce le iniziative private o collettive, si spiega come dalla fine del secolo XI° (tempo in cui sorsero i primi comuni) la civiltà abbia assunto un ritmo più celere e più pieno.
Il fattore che maggiormente contribuì alla formazione spirituale delle giovani repubbliche comunali fu il Cristianesimo.
La Chiesa, durante la riforma gregoriana, contro i vescovi simoniaci e quindi contro i conti, i re e l’imperatore stesso, si era valsa dell’aiuto delle masse, e quindi già fin dalla seconda metà del secolo XI° si era stretta una leale e cordiale collaborazione fra clero rinnovato e popolo.
E’ per questo motivo che i Comuni affermano quasi tutti, nel primo articolo dei loro statuti, la fedeltà al Cristianesimo e alla Chiesa.
Ogni Comune elegge e venera il suo Santo protettore; ogni Comune gareggia, con gli altri nella costruzione di chiese meravigliose; ogni Comune partecipa vivamente alle vicende liete e tristi della Respublica Christiana nel mondo. Questo predominio della religione nella vita del comune si può spiegare col fatto che gli ecclesiastici, dopo la riforma gregoriana, son più zelanti e democratici, sono assai numerosi e lavorano in centri di modesta entità, esercitano solo essi l’educazione del popolo attraverso la predicazione e le scuole (scuole parrocchiali vescovili e monasteriali). Il Comune è una specie di piccola famiglia di cui gli ecclesiastici sono per dir così i padri spirituali:
Fiorenza dentro dalla cerchia antica
ond’ella toglie ancora terza e nona
si stava in pace sobria e pudica (Purga. XV°)
4)- Tendenza associativa. Valendosi del principio della fratellanza la Chiesa promuove lo spirito associativo, le cui espressioni svariatissime non solo costituiscono la forza delle attività economiche, artistiche e religiose, ma rivelano anche una capacità organizzativa assai evoluta.
Si costituiscono anzitutto associazioni di carattere religioso, dette confraternite, le quali hanno finalità pie o di devozione o di assistenza ai bisognosi o di suffragio ai defunti.
I lavoratori dello stesso mestiere costituiscono associazioni che si chiamano corporazioni le quali hanno finalità economiche, assistenziali e talvolta anche didattiche (è chiaro, si tratta solo di istruzione riguardante l’esercizio dell’arte).
Si costituiscono, in fine, associazioni di studenti dette UNIVERSITATES, le quali hanno finalità schiettamente culturali. Sono gli studenti che scelgono i loro insegnanti; e questi considerano somma gloria avere discepoli eccellenti e numerosi che diventino diffusori delle loro teorie e con la loro bravura professionale facciano onore al maestro che li ha formati.
5)- Rinascita della cultura. Gli studenti che frequentano le università non sono più soltanto ecclesiastici, ma sono in gran numero anche laici. Infatti, essendo le scuole parrocchiali e vescovili accessibili a tutti e, con l’aumento del benessere economico, essendosi diffuso anche il desiderio della cultura, molti sono i laici che si dedicano agli studi. Nelle scuola, per cosi dire, media, alle vecchie arti del trivio (grammatica, dialettica, retorica) si aggiungono le arti del quadrivio (aritmetica, geometria, musica, astronomia); negli studi o università si insegnano teologia, filosofia, giurisprudenza, medicina (la facoltà di lettere o retorica non esisteva nelle università del medioevo).
I castelli feudali che fino a questo momento sono stati le rocche-forti della prepotenza ed hanno avuto come caratteristica uno stile militaresco mezzo selvatico ed un oscurantismo cieco, si aprono anche essi alla cultura. Infatti alla fine del secolo XI° ed agli inizi del secolo XII° anche i membri della famiglia feudale imparano a leggere e a scrivere, acquistano familiarità con la cultura e si compiacciono di ospitare bravi giuristi e letterati. Così la corte (cioè lo spazio quadrato al centro del castello) da luogo destinato a parate militari ed a feroci esecuzioni capitali, diventa luogo di festose adunate e centro di gentili costumi. L’aggettivo curtensis (cortese) passò, così, a significare gentilezza sopraffine.
6)- Cavalleria. Ad abbellire e ad ingentilire la vita della corte contribuì moltissimo la cavalleria. Fin dal secolo IX°, cioè fin da quando si era affermato il feudalesimo, i figli cadetti dei conti e dei marchesi, non essendo ammessi all’eredità, si dedicavano al mestiere delle armi. Appoggiati dalla forza dei loro parenti, questi, armati a cavallo spesso riuniti in gruppi, si dedicavano al brigantaggio, molestando i deboli, assalendo i monasteri, rapendo donne. La Chiesa si preoccupò di questa piaga della società e propose di organizzare i cavalieri in una istituzione che li impegnasse a mettere la loro forza a servizio del bene. Sorse così l’istituzione della Cavalleria: il cadetto viene consacrato soldato con una cerimonia suggestiva, al centro della quale è il giuramento che egli d’ora innanzi si servirà delle armi solo per il bene. Il cavaliere diventa così il difensore dei deboli e degli oppressi; invece di perseguitare le donne e i religiosi egli sacrifica le sue migliori energie, a vantaggio delle donne perseguitate e della religione. “Cavaliere” diventò sinonimo di generoso, audace, gentile, insomma sinonimo di uomo senza macchia e senza paura. I cadetti così davano esempio di civiltà ai familiari che erano rimasti al castello; a questi esempi andavano uniti quelli che venivano dalla città in cui fiorivano forme di vita assai più gentili di quelle mezzo selvatiche del castello; ed in fine anche i legami tra la famiglia del feudatario e la Chiesa, resi più stretti dal fatto che alcuni dei cadetti entravano nel ceto ecclesiastico, contribuirono a rendere più frequenti e più intimi i contatti del castello col mondo in cui si affermava uno stile più umano. E’ così che le corti feudali nel secolo XI° quasi tutte si ripuliscono spiritualmente, incominciano a sorridere e parallelamente al sorgere e al fiorire dei comuni, si avviano a diventare anche esse centri di civiltà.
In tali centri il personaggio più gradito come uomo di corte è senza dubbio il cavaliere cioè l’uomo di mondo e d’armi che professa un programma di lealtà, di dedizione generosa alla difesa degli oppressi, di finezza di modi.
7)- Università. Un altro personaggio che alla fine del secolo XI° si afferma nel mondo dei laici è il giurista. Le amministrazioni comunali richiedono persone le quali si intendano di diritto sia civile che penale; lo stesso bisogno sentono le corti feudali maggiori, ove le attività di governo diventano più complesse in seguito al trasformarsi dei feudi stessi in veri e propri regni.
A questo bisogno di giurisperiti vengono incontro le università, le quali appunto sorgono nei primi decenni del secolo XIII° con le facoltà di legge, teologia e filosofia. Nel 1130, ad esempio, sorge a Bologna la facoltà di diritto per opera del giurista Irnerio.
Così giovani intelligenti sia della classe aristocratica che del popolo hanno la possibilità di frequentare le scuole del trivio e del quadrivio negli istituti vescovili o abbaziali; e terminato, per così dire, questo corso medio, possono passare all’università. Anche i castelli feudali, almeno quelli maggiori, in gara con le città istituiscono scuole: così la cultura, osteggiata per secoli e secoli dall’aristocrazia barbarica, viene accolta nelle corti come un fattore necessario all’elevazione e all’ingentilimento della vita.
La scuola della corte viene frequentata da tutti i membri della famiglia feudale sia uomini che donne.
8)- Poesia di scuola. Il cavaliere che nella corte rappresenta il personaggio più fine, ora che i membri della famiglia feudale si erudiscono, sente il bisogno, per non restare indietro, di dedicarsi anche egli alla cultura, anzi di emergere anche in questo campo. Si afferma così il tipo del cavaliere-letterato il quale, per dimostrare la sua gentilezza e la sua capacità di fronte al signore o alla dame, o alle damigelle, compone in lingua volgare le prime liriche, i primi racconti della letteratura europea moderna. Sorge così, a fianco della letteratura dotta in lingua latina, specializzata nel diritto o nella filosofia o nella teologia, e in vigore negli istituti ecclesiastici e nelle università, una letteratura d’arte lirica o narrativa in lingua volgare, talvolta aderente allo spirito religioso-mistico del tempo, talvolta di ispirazione mondana ed alquanto spregiudicata. Anche i giuristi che vivono nelle corti dei re o dei signori feudali si dedicano alla composizione poetica.
Così cavalieri-poeti e giuristi-poeti danno l’avviamento alle prime forme della poesia romanza, costituendo spesso anche scuole, cioè indirizzi letterari intorno ai quali si raggruppano più compositori che seguono un’ispirazione e uno stile comune.
9)- Arte. L’architettura in questo periodo di giovinezza della civiltà si afferma anche essa, in quanto le popolazioni dei comuni e le autorità ecclesiastiche e i signori gareggiano nella costruzione di chiese, di palazzi pubblici e di castelli che si impongano alla ammirazione per la loro complessità e bellezza.
Anche la pittura e la scultura, sebbene in forme rozze e con una tecnica approssimativa, entrano in campo per abbellire le abitazioni di Dio e dell’uomo, cioè chiese, palazzi comunali, castelli.
10)- Poesia e arte popolare. Il regime democratico, che nell’ambiente comunale permette a tutti i cittadini di partecipare alla vita pubblica e di contribuire alle iniziative più svariate con il proprio consiglio e la propria critica, impone anche al popolo il bisogno di erudirsi e nello stesso tempo gli offre la possibilità di affinare la sua mentalità e il suo gusto. Di qui una discreta fioritura di arte popolare, che sebbene modesta nelle forme, tuttavia rivela vivacità e spontaneità. Così la cultura medievale può suddividersi in dottrinale (teologia, filosofia, giurisprudenza, medicina), artistica (scuole poetiche e scuole di architettura e pittura) e popolare (poesia e forme artistiche minori).
11)- Nuove esigenze spirituali e misticismo più umano. L’entrata dei laici nel mondo della cultura e dell’arte genera nuove esigenze e nuovi indirizzi. I laici, infatti, per quanto fedeli alla religione hanno un campo di aspirazioni e di interessi più vasto di quello dei religiosi, i quali, professando i voti, hanno escluso dalla loro sfera spirituale svariati motivi che pur fanno parte della vita vissuta dai più. Ad es., nel campo della giurisprudenza, i giuristi religiosi tendono ad affermare la superiorità della Chiesa in tutti i campi e ad esagerare le applicazioni pratiche di questa superiorità; mentre i giuristi laici sentono il bisogno di affermare che anche il potere civile è sovrano ed ha i suoi diritti indipendentemente dalla Chiesa. La lotta tra giuristi laici e giuristi ecclesiastici esplosa per la prima volta al tempo del contrasto tra Federico Barbarossa ed Alessandro III°. Nel campo letterario vicino alle composizioni mistiche dei religiosi si affermano quelle profane che svolgono i motivi dell’amore e dell’avventura.
Quest’affermarsi delle esigenze dei laici induce gli ecclesiastici, che tengono la direzione del mondo culturale, a preoccuparsi anche dei problemi profani e a conciliare le giuste aspirazioni della natura con la fede e la morale cristiana. In un primo tempo, difensori estremisti della natura o della soprannatura propugnano o un misticismo svalutatore delle esigenze e delle attività naturali dell’uomo a solo vantaggio del soprannaturale o oppongono (non osando negarlo) il soprannaturale al naturale.
Ben presto però, specie nel sec. XIII°, la conciliazione fra il mondo soprannaturale e quello naturale, tra fede e ragione, tra religione e vita si realizza pienamente in quanto i mistici si valgono della natura per ascendere a Dio e i laici si valgono del lume della fede per individuare il vero valore della natura. Sebbene nel mondo della cultura si inseriscano i laici e le soluzioni dei problemi religiosi, morali, giuridici, letterari, debbano assumere un’ampiezza maggiore, cosicché rispondano alle legittime esigenze della natura umana, tuttavia gli ecclesiastici conservano la direzione spirituale della Respublica Christiana e danno a tutte le attività che in questa si svolgono l’impronta religiosa.
La gerarchia ecclesiastica, purificata in seguito alla riforma di Gregorio VII, ripreso il contatto con il popolo e da feudaleggiante diventata democratica, imprime alle sue attività un ritmo dinamico e realizza opere preziose non solo nel campo religioso, ma anche in quello civile. Alla fine del sec. XI°, poco dopo la morte di Gregorio VII°, viene organizzata la prima Crociata: in questa e nelle successive è da vedere non solo un’iniziativa della Chiesa per riconquistare il Santo Sepolcro o per prevenire un attacco dei Turchi alla Respublica Christiana, ma anche un’espressione del rinnovato sentimento religioso nelle varie classi del mondo sociale europeo.
Infatti alle Crociate presero parte imperatori, re, feudatari, cavalieri, popolani; e, pur ammettendo che tutta questa gente si sia mossa da casa e sia andata a penare lontano per motivi economici, come pretendono alcuni storici moderni, tuttavia un fenomeno così imponente non si può spiegare che come effetto di un idealismo religioso intenso e attivo. Oltre che sulle masse, la Chiesa esercitò l’influsso della sua supremazia anche sui sovrani. Gregorio VII° scomunicava Enrico IV°, e con questo provvedimento lo avrebbe eliminato dalla scena politica, se egli non si fosse ravveduto; Alessandro III° si alleava con i Comuni e frenava le ambizioni imperiali del Barbarossa; Innocenzo III°, il papa regale per eccellenza, riscuoteva tributi da tutte le nazioni cristiane e si vantava di educare un futuro imperatore modello: Federico II° (che poi avrebbe dato tanti dispiaceri alla Chiesa).
Quando sorgono i Domenicani e i Francescani (agli inizi del sec. XIII°) le popolazioni delle campagne e delle città, le scuole medie e universitarie sono sotto l’influsso energico dei religiosi.
Le comunità cristiane nelle varie nazioni d’Europa, dal tempo di Gregorio VII° in poi sono strettamente vincolate a Roma, in quanto il pontefice si è riservato il diritto di nominare i vescovi e i primati. Così si realizza in pieno l’unita del mondo cristiano sotto la supremazia del pontefice; e, nello stesso tempo è garantita l’unità dell’indirizzo culturale in tutta la Respublica Christiana.
Fu questo (specie i secoli XII0 e XIII0) il periodo più glorioso della storia della Chiesa e, bisogna riconoscerlo, della storia della civiltà europea nel medioevo. La respublica Christiana al tempo di papa Innocenzo, sebbene per pochi anni, diede veramente l’impressione di un organismo politico spirituale veramente poderoso. II papa è considerato come il supremo direttore spirituale ai cui ordini operano tutte le potenze terrene in difesa e in avanzamento della civiltà cristiana.
All’inizio del secolo XIII° si organizza una crociata contro i Turchi e una contro gli Albigesi. Così la Respublica Christiana è assicurata dagli attacchi interni ed esterni. Le città, particolarmente quelle che si reggono al regime democratico comunale, compiono una meravigliosa avanzata in tutti i campi del progresso. Fioriscono le industrie e i commerci sotto l’impulso delle corporazioni nelle quali le forze del lavoro associate producono con intelligenza, con gusto, ed anche con abbondanza.
Fioriscono anche le arti. Il centennio 1150-1250 si può definire il periodo glorioso dell’architettura romanica ancora semplice di linee, ma ricca di spunti mistici e suggestiva per la sua modestia aggraziata e gentile.
Il centennio 1250-1350 rappresenta il periodo più glorioso dell’architettura ogivale (detta gotica cioè barbarica dai rinascimentisti) la quale si afferma e si impone per la grandiosità della struttura, per la sapienza per cui risolve i problemi della statica, per l’originalità, ricchezza, e la finezza dell’ornato.
La pittura incomincia ad idealizzare con disegno e colorito naturale, visioni di vita umana e visioni religiose.
Cimabue è il primo a farsi onore nel campo della pittura, e Giotto si dimostra così abile e così ricco di risorse nel modellare ed idealizzare le forme secondo criteri di naturalezza e di mistica spiritualità, da meritare giustamente la denominazione di Dante nella pittura.
La scultura nel secolo XIII° inizia anche essa il suo cammino, cimentandosi nella creazione di figure e di scene modellate con naturalezza e con grazia, Giotto, Andrea e Nicola Pisano sono maestri, che, messi a confronto con gli oscuri autori di basso rilievo, rozzi di forma e poveri di ispirazione, dei secoli passati, rivelano una autentica capacità nel concepire e nel plasmare figure isolate e in gruppo, in atteggiamenti che vogliono esprimere ed esprimono di fatto stati d’animo vivaci e spontanei.
La musica, durante il secolo XXII°, abbandona il ritmo, per così dire, sillabico del canto fermo, per assumere le forme sciolte di una melodia che sgorga dal significato delle parole. La tecnica musicale abbandona la notazione gregoriana troppo limitata e statica e adotta quella più naturale più estesa, più mobile di Guido d’Arezzo.
Alla fine lei secolo, l’“ars nova” fiorentina elabora le prime forme dell’armonia e del contrappunto: sorge così la polifonia, la cui tecnica sarà sviluppata dalle scuole musicali fiamminghe e nel secolo XVI° servirà come mezzo di espressione al nostro Pier Luigi da Palestrina.
Sorge e si sviluppa anche la musica strumentale, specialmente nelle città più fiorenti, come ci attesta lo stesso Dante il quale nella Commedia accenna più volte a strumenti a corde e a fiato. Così la vita cittadina è rallegrata dal fervore dell’attività industriale e commerciale, dal fiorire dell’architettura, della scultura, della pittura, dal moltiplicarsi delle feste, dal diffondersi della pittura attraverso l’istituzione di scuole elementari, medie, e universitarie e attraverso circoli letterari.
Alla fine del 1200, cioè al tempo di Dante e Giotto, il Medioevo raggiunge la maturità, caratterizzata da complessità e profondità di ispirazione e da concretezza, naturalezza e gentilezza di forme. Dopo averci dato nel campo della cultura la “Summa Teologica” di S. Tommaso, nel campo della poesia la “Divina commedia” di Dante, nel campo dell’arte gli affreschi e le sculture di Giotto, le cattedrali gotiche, nel campo della musica le prime simpatiche espressioni della polifonia; e nei campi politico, civile e sociale, il Sacro Romano Impero, il Comune, la Corporazione, il Medioevo non poteva darci di più.
Dante chiude l’epoca medievale di cui avverte ormai la crisi e di cui invano si sforza di sostenere il programma spirituale e le strutture organizzative. Gente nuova arricchitasi con l’industria e i commerci (cioè la borghesia) introduce mentalità nuove, aspirazioni nuove, gusti nuovi, costumi nuovi. Qua e là la vita comunale agitata dalle discordie civili viene disciplinata e pacificata dal signore. Il Sacro Romano Impero, dopo il fallito tentativo di Arrigo VII°, decade. Il papato dal 1305 passa all’obbedienza dei re di Francia in Avignone, perde il contatto con l’Italia, perde la fiducia dei fedeli, le nazioni cattoliche che formavano un’unica famiglia, nel seno della Respublica Christiana, iniziano ciascuna una nuova storia ispirata ad un particolarismo estremistico. Gli individui e le nazioni potenziate dal benessere economico, dalla esperienza, politica ed artistica, sentono ormai di poter far da sé e di poter procedere lungo le vie più diverse fidando nelle forze proprie, senza più bisogno di comunità associative, né di carattere religioso, né di carattere politico, né di carattere letterario ed artistico.
Giudizio sul Medioevo – Medioevo e Rinascimento.
Gli uomini del Rinascimento, guardando all’epoca che li aveva preceduti e precisamente all’epoca che intercorre fra il tramonto dell’età classica e quella in cui vivevano essi, ebbero l’impressione di trovarsi di fronte ad una civiltà quasi primitiva: mortificata e semplificata la vita, rozze, semplicistiche e disarmoniche le forme dell’espressione. Un giudizio così negativo pronunciato senza distinzione nei riguardi di tutta l’epoca medievale, e soprattutto, formulato senza fare alcun conto delle circostanze storiche, è ingiusto. Infatti, se è vero che la civiltà fu in ribasso nell’alto Medioevo, non si può fare a meno di riconoscere che nel basso Medioevo, specie al tempo di Dante, essa rivelò una ricchezza e una maturità tali da gareggiare con quella delle epoche più evolute; S. Tommaso, Dante, i templi gotici, Giotto, il Comune, le Corporazioni sono espressioni di una civiltà veramente poderosa e tali da poter sostenere vittoriosamente il paragone con il Rinascimento.
Si può dare un giudizio sul valore della civiltà nei vari momenti della storia, ma è anche doveroso tener presenti i fattori che in ciascuno dei momenti stessi hanno contribuito ad indirizzare lo spirito umano verso una forma piuttosto che verso un’altra; e in tal senso, pur restando vero che l’alto Medioevo non ci ha dato una civiltà di gran valore, tuttavia bisogna riconoscere che anche in quel periodo lo spirito umano si è espresso come poteva esprimersi, e che anche quel periodo ha esercitato una funzione necessaria ed utile nella preparazione e nello sviluppo della civiltà moderna.
Come non sarebbe possibile avere la continuità nello sviluppo delle generazioni, se per ipotesi assurda, si interrompesse la loro serie per un vuoto non colmato, così non avremmo avuto né il Rinascimento né l’età moderna, se la storia post-classica non fosse stata avviata dall’attività nascosta, ma reale ed efficace delle generazioni medievali.
CARATTERISTICHE GENERALI DELLA SPIRITUALITA’ MEDIEVALE
1)- IL MISTICISMO.
Il misticismo è un modo di considerare il reale caratterizzato da una stretta armonia fra natura e soprannatura; è il modo di considerare la realtà naturale alla luce del soprannaturale e di convogliarla verso le esigenze supreme dell’etica e degli ideali religiosi.
Tutte le manifestazioni della vita medioevale sono inquadrate nella visione cristiana e sono promosse e permeate dallo spirito soprannaturale. Basta ricordare manifestazioni già precedentemente elencate per rendercene conto:
– la cavalleria è organizzata dalla Chiesa ed ha fini religiosi;
– le crociate sono guerre religiose;
– l’impero è in funzione della Respublica Christiana;
– i Comuni hanno tutti uno statuto in cui è riconosciuta come religione vera ed unica quella cattolica, apostolica, romana, e i delitti contro la religione vengono considerati come delitti contro il popolo;
– le corporazioni hanno non solo finalità economico-sociali, ma anche finalità religiose quali la formazione spirituale e l’assistenza caritativa dei lavoratori, e nella loro origine si rivelano ispirate al senso dalla fraternità cristiana;
– l’architettura, la scultura, la pittura, la musica sono al servizio della religione
– la letteratura si propone come fine quello di educare moralmente e religiosamente;
– la filosofia è considerata come l’ancella della teologia e le scienze considerate come parti della filosofia, sono indirettamente riallacciate alla teologia;
– tutti gli avvenimenti umani, tutte le cose che cadono sotto i segni dell’esperienza vengono interpretati secondo il pensiero cristiano.
E’ chiaro che dovesse affermarsi un tal modo di intendere la realtà, se ricordiamo che la cultura è in mano della Chiesa e che i laici finora sono semplici scolari degli ecclesiastici; e che i due grandi istituti dei Papato e dell’Impero, talvolta in collaborazione, talvolta segando vie diverse, si sforzano di dare un’impronta cristiana a tutta l’Europa centro-occidentale che è sotto il loro influsso.
2) – UNIVERSALISMO.
Tutte le manifestazioni della vita medievale sono universali in tre sensi:
a)- nell’estensione di rapporto.
b)- nell’estensione di luogo.
c)- nell’estensione di contenuto.
d)- sono estese nel rapporto nel senso che ogni attività è intimamente connessa con numerose altre o almeno con lo spirito che le anima: ciò si verifica particolarmente nel campo della cultura ove la teologia tiene il primato e ad essa si subordinano in stretta collaborazione la filosofia, la scienza, la giurisprudenza.
L’arte non è considerata come pura tecnica, ma trae alimento dalla teologia, dalla filosofia, dalla scienza. Frutti di questa universalità di rapporti nel campo della cultura sono le “SUMMAE”, specie di enciclopedie in cui è raccolto sistematicamente tutto lo scibile del Medioevo.
Esempi di universalità di rapporto si hanno anche nel campo sociale ove le corporazioni, come si è detto, non hanno soltanto funzione economica, ma anche una funzione religiosa, morale, assistenziale.
Nel campo internazionale gli esempi più evidenti sono dati dal tentativo di papi come Innocenzo III° di sottoporre al loro controllo tutte le espressioni della vita nel mondo della Respublica Christiana e il tentativo analogo dell’imperatore allorché risorge il concetto classico della sovranità.
a)- Sono estese nel luogo nel senso che: non vi è un’espressione notevole della vita che, affermatasi in un luogo della Respublica Christiana, non si estenda a tutte la parti di essa.
Le esemplificazioni in questo senso sono numerosissime:
– la teologia e la filosofia scolastica si diffondono in tutti i centri culturali dell’orbe cattolica;
– la giurisprudenza ha impostazioni e principi uguali in tutte le scuole;
– la musica gregoriana è in uso in tutte le chiese per i più svariasi bisogni della liturgia;
– l’architettura romana e gotica si diffondono in tutte le nazioni dell’Europa centro-occidentale e sorgono gloriosi templi nell’uno e nell’altro stile: in Italia (duomo di Milano, di Firenze, di Siena, di Orvieto, di Parma, di Verona, S.Marco di Venezia); in Spagna (cattedrale di Burgos); in Francia (Notre Dame di Parigi, cattedrale di Reims); in Germania (cattedrale di Colonia, di Magonza, di Spira);
– i Comuni non costituiscono un’organizzazione politica cittadina esclusiva dell’Italia, ma fioriscono anche in Francia, nei Paesi Bassi, in Germania, in Inghilterra;
-le scuole letterarie e cicli d’ispirazione non sono limitati dall’ambiente dove sorgono, ma hanno diffusione in tutti gli ambienti culturali dell’Europa ad esempio le Chansons des Gestes e i Romans, sia della “Tavola rotonda”, che del ciclo classico e morale, benché fioriscano nella Francia del nord, sono conosciuti anche In Italia, ove sono letti e imitatati. La scuola Provenzale ha le sue diramazioni in Italia e una specie di filiale nella scuola siciliana.
b)- Sono estese nel contenuto nel senso che non si inquadrano e non si
ispirano soltanto alle esigenze, del luogo in cui fioriscono ma alle aspirazioni, ai bisogni e al pensiero di tutto il mondo cristiano.
Basta a questo proposito addurre l’esempio della Divina Commedia che sarebbe erroneo definire poema italiano perché abbraccia tutta la vita del mondo cristiano.
Gli autori di storie o di cronache in questo periodo pur trattando argomenti locali inquadrano la materia nella storia universale e non sono rari gli esempi di cronisti che si riallacciano alle origini della umanità.
SPIRITO DEMOCRATICO.
Nella società dell’Alto Medioevo, l’elemento attivo è il signorotto feudale o, prima del feudalesimo, il duca barbarico: il popolo è massa che non conta nulla.
Col sorgere dell’istituto comunale il popolo assume la gestione dei suoi interessi e si amministra da sé. E’ chiaro che in ambiente comunale tutte le espressioni della vita pubblica sono frutto della iniziativa collettiva e che gli esponenti della cultura in quell’ambiente riflettono le aspirazioni, gli ideali e le situazioni del popolo.
Le leggi sono frutto di decisioni collettive, come gli statuti comunali riassumono i principi giuridici, morali e religiosi che vivono nella coscienza della comunità.
L’architettura sia religiosa che civile fiorisce per decisione del pubblico che vuole esprimere con belle costruzioni il suo omaggio collettivo alla divinità o al comune; e spesso vuol gareggiare con le città vicine.
Le composizioni letterarie o esprimono sentimenti comuni in mezzo alle masse in forme popolari o (come l’Alighieri nella Divina Commedia) interpretano i bisogni spirituali e correggono i costumi dell’ambiente, inquadrandoli in una visione universalistica.
E’ interessante notare la differenza tra le composizioni letterarie degli ambienti ancora rimasti feudali e quelle degli ambienti comunali.
Le prime (ad es. quelle provenzali) sono al servizio dei signore e del la sua famiglia: e, quindi, se sono molto elaborate nella forma, difettano di spontaneità, di sincerità e si riducono in genere ad eleganti complimenti in versi; le seconde, invece, pur essendo talora prive di finezze tecniche e linguistiche sono tuttavia sincere e vive, e quando intervengono poeti colti, uniscono insieme l’elevatezza e la complessità dell’aspirazione, dell’idealizzazione fine, la delicatezza e l’ardore dei sentimenti e la semplicità decorosa del linguaggio (come avviene ad es. nelle composizioni del “Dolce stil nuovo”).
SPIRITO ASSOCIATIVO.
Non v’è stata un’epoca nella storia della civiltà moderna in cui più che nella medievale si sia affermato lo spirito associativo, e ciò forse dipese dal fatto che lo spirito cristiano, il quale è alimentato dal principio della solidarietà fraterna, permeò e fermentò tutta la società del basso medioevo.
Associazione è il Comune (Commune = neutro di communis significò appunto l’associazione): esso infatti sorse come associazione di tutti i cittadini per la difesa della libertà e degli interessi comuni contro le sopraffazioni del feudatario e di forze irregolari brigantesche. Sorgono le più svariate confraternite religiose con compiti e attività ben definiti.
Le attività artigiane e commerciali si svolgono in cooperazione fra tutti gli individui che esercitano la stessa professione: sorgono così le corporazioni e arti.
Nel seno di ogni corporazione vigeva la più stretta collaborazione fra i PRIORES che erano i direttori di tutta una particolare attività artigiana, i MAGISTRI che erano direttori di lavoro, i SOCI che erano i lavoratori provetti, i DISCIPULI che erano apprendisti.
Gli architetti e i muratori erano associati insieme in SCHOLAE; ogni scola aveva i suoi segreti d’arte e i suoi statuti.
A costruzione finita, sulla lapide, che ricordava gli autori dell’opera, si poneva il nome della “schola” con il nome talvolta del maestro che si era distinto nella preparazione dei disegni.
Similmente sorgono le scuole pittoriche: la scuola di Cimabue, la scuola di Giotto. Cimabue e Giotto sono i creatori di una determinata maniera (cioè di un particolare modo di disegnare e di colorire), ma gli esecutori di moltissime opere a loro attribuite furono i loro discepoli.
Si formarono associazioni anche di studenti (le già ricordate UNIVERSITATES), i quali si scelgono lo studium presso cui recarsi e i maestri da cui apprendere.
Si formano perfino scuole poetiche: cioè più autori si ispirano agli stessi argomenti, agli stessi ideali, alle stesse forme, alla stessa tecnica di stile e di linguaggio. Sono famosi in Francia i cicli Carolingio e Bretone e la scuola Provenzale; sono famose in Italia la scuola Siciliana e quella del “Dolce Stil nuovo”.
Così con l’unione delle forze, la civiltà medievale, sebbene non abbia potenti risorse di tecnica e di tradizione, riesce a realizzare opere meravigliose.
ASPETTI PARTICOLARI DELLA SPIRITUALITA’ DEL MEDIOEVO
- 1. ESIGENZA DI ARMONIA.
A)-ARMONIA TRA NATURA E SOPRANNATURA.
All’inizio del basso Medioevo abbiamo notato una rinascita vigorosa dello spirito cristiano. In alcuni gruppi della massa, o per ignoranza o per interesse, il fervore religioso diventò talvolta fanatismo e le aspirazioni ascetiche giunsero alle forme esasperate della maledizione di tutto ciò che è natura.
I Catari, gli Albigesi, i Flagellanti rappresentarono l’estremismo dell’ascesi. I Catari e gli Albigesi in modo particolare cercarono dì giustificare con teorie pessimistiche, tratte forse dal vecchio manicheismo, il loro disprezzo assoluto del corpo e di tutte le attività terrene: per essi il mondo era una specie di emanazione di Satana.
Pur rimanendo dentro i limiti dalla retta fede, altre espressioni del l’ascetismo raggiunsero forme esagerate. Dall’iniziativa di Pietro l’Eremita, che capeggia gruppi di crociati senza organizzazione e li porta incontro al disastro, all’affermazione dei pensatori della scuola mistica, i quali hanno come motto: “CREDO UT INTELLIGAM” e svalutano totalmente le forze della ragione per esaltare solamente la Fede e la Grazia, all’atteggiamento dei Francescani spirituali che propugnano l’interpretazione rigida del programma di povertà e di ascesi professata da S. Francesco, alle stranezze mistiche di fra Jacopone da Todi, ci troviamo di fronte a manifestazioni di fervore religioso che tentano di varcare i limiti dell’equilibrio.
La fede è talmente radicata nelle anime dei medievali che anche i razionalisti che si notano qua e là in questa epoca (Abelardo, Bacone, Sigieri di Brabante) rispettano le affermazioni della fede ricorrendo magari al principio della doppia verità (cioè affermando che un’asserzione può essere falsa dal punto di vista razionale ma vera dal punto di vista dalla rivelazione).
Ma sia la posizione del misticismo estremista sia quella del razionalismo dualista non rispondevano alle esigenze vere dell’anima cristiana e della natura umana.
La conciliazione fra Fede e ragione, tra Grazia e libertà, viene illustrata e definitivamente affermata dalla scolastica del sec. XIII°.
S. Tommaso riconosce alla ragione la capacità di raggiungere il vero nel campo naturale e di illustrare quei concetti che aiutano il credente a capire il significato delle verità soprannaturali, cioè riconosce alla ragione la funzione di ancella della Fede.
Dante si fa accompagnare da Virgilio (simbolo, della ragione) fino a Beatrice (simbolo della Fede) e da questa fino a Dio. Nessun contrasto dunque tra ragione e fede; nessuna umiliazione inflitta dall’una all’altra, ma collaborazione fra le due guide dell’uomo per condurre questi alla verità assoluta.
Similmente il contrasto fra la libertà dell’uomo e la Grazia di Dio viene risolto con il concetto del libero assoggettamento dell’uomo all’influsso reale e positivo dell’aiuto divino: l’uomo opera liberamente e per questo acquista meriti; ma a condurlo all’azione e a sostenerlo durante il compimento di essa è la Grazia di Dio.
Così l’uomo e il cristiano, cioè l’animale ragionevole e il figlio adottivo di Dio si armonizzano tra loro in modo che la natura umana, senza perdere nulla delle proprie energie, viene potenziata in modo da superare se stessa diventando mezzo per l’esplicazione di attività soprannaturale.
B)- ARMONIA TRA SACRO E PROFANO.
In forza della collaborazione fra ragione e fede, viene affermata una stretta collaborazione anche tra la cultura profana e quella sacra.
Abbiamo già visto come avvenne la riconciliazione fra la Chiesa e gli scrittori pagani all’inizio dell’Alto Medioevo, ma abbiamo visto anche come in questo stesso periodo la cultura profana sia decaduta e l’attività culturale si era dedicata prevalentemente ad argomenti sacri.
Quando nel secolo XI°, con la rifioritura della vita religiosa, con l’affermarsi del predominio morale della Chiesa su tutta l’Europa, risorge la cultura cristiana col proposito di mettersi a servizio di tutti i fedeli che vogliono partecipare al convito della vera sapienza, si impone ai clerici, cioè ai dotti del mondo ecclesiastico, la necessità di allargare il più possibile il campo alle ricerche e di rendere più umane le scienze divine.
L’elemento laico, meno abituato alle dimostrazioni per fede, sente il bisogno di dimostrazioni razionali e, impegnato in attività terrene, oltre che di una cultura religiosa propriamente detta ha bisogno di una cultura umana: perciò i maestri degli “studi” ecclesiastici si sentono in dovere di prendere contatto anche con i grandi pensatori del mondo non cristiano. Perciò non entrano più nelle scuole soltanto la Sacra Scrittura o le opere dei Padri, ma anche Aristotele.
Dante definisce Virgilio il suo maestro e il suo autore ed afferma espressamente di conoscere tutta quanta l’Eneide; e nel canto IV° dell’Inferno riserba un posto speciale nel Limbo (e precisamente in un castello luminoso) ai grandi ingegni del mondo non cristiano.
Catone Uticense, benché suicida, viene proposto alla vigilanza dell’Anti-Purgatorio.
Stazio viene posto nel Purgatorio e afferma di lui che si convertì in forza della luce che gli aveva comunicato Virgilio profetando nella IV° Egloga la venuta del Messia.
Traiano, uno dei più severi persecutori del cristianesimo, viene salvato per merito della sua giustizia e si trova nel cielo di Giove tra i giusti.
Infine miti e leggende del mondo greco e romano vengono accolti e introdotti nella “Commedia” non solo per decorare con rievocazioni classiche le varie scene, ma anche talvolta per rinforzare la dimostrazione di verità cristiane.
Ad esempio non è certo il caso di credere che Dante fosse convinto dell’esistenza di Enea e del suo viaggio nell’oltretomba, tuttavia nel secondo canto dell’Inferno egli considera questo viaggio come voluto dalla Provvidenza per preparare l’avvento della Chiesa.
I nomi degli dei pagani come quelli delle muse, di Apollo, di Giove, sono usati nel senso di poesia, ispirazioni poetiche e Dio. Gli dei inferi pagani e certi mostri della mitologia classica diventano demoni dell’Inferno dantesco.
L’Impero romano, che per ben quattro secoli aveva perseguitato il cristianesimo, viene considerato come Istituzione voluta da Dio per raccogliere, quando ne fosse venuto il tempo, in un organo politico unitario, gli eletti, cioè i cristiani.
Non è il caso di ripetere quello che si è detto circa l’impronta religiosa che caratterizza nel Medioevo le più svariate attività profane (la cavalleria, le crociate, le corporazioni, la vita politica comunale, le arti, la letteratura).
E’ necessario tuttavia insistere su una armonizzazione tra sacro e profano che può sembrare la più ardita, ma che, inquadrata nell’atmosfera mistica del Medioevo, è naturalissima e storicamente rappresenta una delle più fini conquiste dello spirito umano: l’armonizzazione tra l’amore della creatura e quella del creatore.
S. Francesco vede nelle creature i riflessi della potenza, della bontà, della bellezza del Creatore; e alla luce di quei riflessi trova la via per ascendere alla causa prima di tutte le cose.
Le creature non sono espressioni del demonio, ma voci fraterne che invitano alla contemplazione di Dio.
Per gli stilnovisti e particolarmente per Dante la creatura che più delle altre riflette gli attributi di Dio e con voce più efficace invita chi la contempla a sollevarsi verso l’alto è la “DONNA-ANGELO”.
Beatrice è “lada di Dio vera” (Inf. c. II° v. 103): è “l’angiol venuto da cielo in terra a miracol mostrare” (Vita nuova – sonetto “Tanto gentile e tante onesta pare”): Beatrice e colei “che all’alto volo vestì le piume” a Dante ( Parad. c.XV° v. 54): è colei che ha liberato il poeta da tutte le bassezze terrene, lo ha sollevato verso l’alto in modo che da lassù egli domini col suo spirito la realtà finita: “quando da tutte queste cose scio1to – con Beatrice s’era suso in cielo – contento gloriosamente accolto” (Parad. C. XI° vv. 10-12): lei ha tratto il poeta dalla schiavitù alla libertà, lo ha condotto dalla selva oscura al paradiso terrestre, cioè dal peccato alla purificazione servendosi dell’opera di Virgilio, cioè della ragione e dal paradiso terrestre lei lo conduce fino a Dio esercitandolo nel perfezionamento soprannaturale : “tu m’hai di servo tratto a libertade – la tua magnificenza in te custodi” (Parad. c. XXXI° vv. 85-88); perciò amare Beatrice non solo non è una colpa, ma è dovere e sommo interesse spirituale: è colpa quindi non amarla (Purg. c. XXX-XXXI).
In questa armonizzazione tra sacro e profano né il sacro perde della sua dignità, né il profano perde della sua concretezza e del suo fascino: si tratta di una esaltazione e di una elevazione entusiastica di tutto ciò che di bello e di buono ha la terra, non in quanto è frutto della terra, ma in quanto è riflesso della luce divina che “per l’Universo penetra e risplende – in una parte più e meno altrove”(Parad.c.I° vv 2-3).
Dio è il centro di tutto l’universo, ad ogni creatura è stato assegnato un porto da raggiungere, più o meno lontano dal centro e tra le creature all’uomo è stato assegnato come porto l’empireo cioè il luogo ove Dio si manifesta più apertamente in un oceano che “solo amore e luce ha per confine (Parad. c. XXVIII° v. 54).
Affinchè le creature raggiungano il porto a cui sono state destinate, Dio ha infuso in esse un istinto che le porti alla meta: tale istinto nell’uomo è l’amore cioè la tensione verso il bene e precisamente l’aspirazione al bene assoluto: “tutte nature – più al principio lor e men vicine – si movono a diversi porti – per lo gran mar dell’essere ciascuna – con istinto a lei dato che la porti (Parad. c. I° vv. 110-114).
Così secondo la concezione medievale, che è poi la concezione cattolica, le creatore venute da Dio a lui ritornano messe ed attratte da lui stesso.
C)- ARMONIA TRA VITA INTERIORE E VITA ATTIVA.
E’ stato detto che i medievali, tutti intenti alle indagini teoriche, abbiano trascurato la pratica: ma tale giudizio è falso: pensiero ed azione nel Medioevo si armonizzano in un modo perfetto: la speculazione serve ad orientare secondo il vero l’azione, e questa serve a realizzare la verità nel campo della storia individuale e collettiva.
S. Pier Damiani, Gregorio. VII° furono asceti e combattenti nello stesso tempo.
S. Bernardo, sebbene esaltasse la superiorità assoluta dalla vita contemplativa e dimostrasse una certa diffidenza versa quella attiva, pure si dedicò a compiti che richiedevano capacità pratiche e impegnavano lo spirito in una polemica ardente con gli uomini.
S. Domenico, S. Francesco, S. Tommaso sono asceti che vivono io mezzo al mondo e lavorano attivamente alla rigenerazione di esso o con la predicazione o con l’esempio o con gli scritti.
Dante, salito al cielo delle stelle fisse, ritorna con gli occhi per tutte le sette sfere sottostanti,
“e vidi-egli dice-questo globo
tal, ch’io sorrisi del suo vil sembiante;
e quel consiglio per migliore approbo
che l’ha per meno; e chi ad altro pensa
chiamarsi puote veramente probo”
(Par. c. XXII° vv. l34-l38):
e pure l’Alighieri per riportare la felicità ”nell’ “aiuola che ci fa tanto feroci” (Par. c. XXII° v. 151) combatte una battaglia a fondo contro il male e contro i responsabili del male attraverso la sua Commedia.
Egli ha coscienza di essere un profeta mandato da Dio a rigenerare moralmente la umanità e a trattenere dal suo precipitare verso l’abisso la Respublica Christiana.
E’ per questo che egli si permette, col rischio di farsi dei nemici, di dir cose che ” a molti fia sapor da forte agrume” (Par. c. XVII° v. 117); è per questo che egli sdegna di essere “al vero timido amico” (ibidem v. 118); è per questo che Cacciaguida lo esorta al combattimento con le seguenti parole:
“…..coscienza fusca
o della propria o della altrui vergogna
pur sentirà la tua parola brusca.
Ma non dì meno, rimossa ogni menzogna,
tutta tua vision fa manifesta;
e lascia pur grattar dov’è la rogna.
Che se la voce tua sarà molesta
nel primo gusto, vital nutrimento
lascerà poi, quando sarà digesta.
Questo tuo grido farà come vento,
che le più alte cime più percuote”
(Par. c. XVII° vv. 124-134).
Lo stesso S.Pietro, concludendo l’invettiva contro certi papi
responsabili delle sciagure della Respublica Christiana si rivolge a
Dante:
“E tu, figliol che per lo mortal pondo
ancor giù tornerai, apri la bocca,
e non asconder quel che io non ascondo”
(Par. c. XXVII° vv. 64-66).
Alla Respublica Christiana son venute meno le due forze direttrici create da Dio per condurla lungo le vie della felicità temporale ed eterna, cioè l’efficace direzione del papato e dell’impero: perciò Dante, “buon cristiano” (Par. c. XXIV° v. 52), che sente la sua responsabilità sociale, si assume, benché semplice laico, il compito di predicare all’umanità cristiana.
Egli non è né Enea né Paulo (Inf. c. II), ma, terzo dopo Enea e Paulo, egli immagina di essere andato nell’oltretomba per riportare luce, minacce e conforti al mondo a lui contemporaneo.
Anche l’esperienza amorosa, vissuta nelle forme soavi e contemplative del misticismo stil novistico, è per Dante fonte di azione. Egli infatti, per rendersi degno di Beatrice, cioè della considerazione e dell’affetto di una donna sublime, attraverso l’esercizio dell’arte e delle attività speculative e pratiche più gloriose, si sforza di elevarsi fino a lei ( (Inf. c. II° vv. 104-105). “ché non soccorri quei che t‘amò tanto, – ch’uscì per te della volgare schiera?” (Inf.c.II vv.104–105). L’amore dunque è fonte di attività nobile e di perfezionamento instancabile.
Alla passione amorosa, che con il caldo della voluttà inebetisce l’uomo e rende incapace di azione, l’Alighieri oppone la passione per tutto ciò che è sublime ed eleva lo spirito.
Nel canto XIX° del Purgatorio, il poeta immagina di sognare e di vedere una femmina balba (simbolo della voluttà), guardando la quale egli resta incantato e stordito: improvvisamente appare Beatrice la quale si scaglia contro l’ammaliatrice e
“dinanzi l’apria
fendendo i drappi e mostravano il ventre:
quel mi «vegliò col puzzo che n’uscia” (vv. 31-33).
Disingannato cosi da Beatrice, egli immagina tuttavia di rimanere stordito dalla visione, e si fa dir così da Virgilio:
“vedesti quell’antica strega
vedesti come l’uom da lei si slega.
Bàstiti, batti a terra le calcagne!
li occhi rivolgi al logoro che gira
lo rege eterno con le rote magne!”
(vv. 58, 60-63).
Le forme chiuse e affocate della passione, che inebetisce, non sono mai saltate nel Medioevo: lo spirito normalmente cerca di evadere dal piccolo e dal chiuso verso mondi vasti e sereni.
D)-ARMONIA TRA SPECULZIONE TEORICA E ATTIVITA’ PRATICA.
L’uomo che è stato dotato di capacità intellettuali notevoli, sente come dovere sacro il bisogno di sfruttarne a beneficio della umanità; e l’attività quindi, per giungere alla scoperta del vero è considerata come un obbligo per chi è capace di esercitarla.
Nel canto XXVI° dell’Inferno, Dante pone in bocca ad Ulisse la seguente dichiarazione:
“Considerate la vostra semenza
fatti non foste a viver come bruti
ma per seguir virtute e conoscenza” (vv. 118-120).
L’indifferentismo, cioè la comoda neutralità, di fronte ai grandi problemi teorici e pratici, viene condannato dall’Alighieri nel III° canto dell’Inferno, ove la vita è definita azione e lotta ideale, mentre l’inattività e il pacifismo egoistico vengono identificati con la morte.
Similmente viene bandito lo scetticismo, cioè l’atteggiamento di coloro che si accingono alla scoperta della verità o procedono nella scoperta di essa con la persuasione che non si potrà mai raggiungere la certezza in alcun campo e che quindi le più svariate e anche opposte asserzioni intorno al medesimo problema hanno tutte lo stesso valore.
Per S. Tommaso e per Dante la verità è unica e di due affermazioni contraddittorie, se è vera l’una è falsa l’altra.
L’uomo del Medioevo, concependo l’indagine teorica come una missione a vantaggio dell’umanità intera, difficilmente perde tempo nella trattazione di questioni inutili.
Qualche volta, è vero, gli stessi sommi pensatori del Medioevo hanno dato importanza a certe questioncelle che oggi ci sembrano sciocche; ma nel complesso la speculazione medievale ha carattere serio ed è indirizzata ad illuminare la vita pratica.
Tutta la grandiosa e complessa speculazione della ‘”Summa” di S. Tommaso mira a chiarire i rapporti che legano l’uomo a Dio, e a suggerire alla creatura razionale la via sicura per raggiungere il suo Creatore.
L’Alighieri non solo si dedicò ad attività pratiche, accettando incarichi pubblici ed affrontando lotte dalle quali uscì sconfitto, ma ideò e compose, come s’è detto l’opera maggiore con propositi concreti e ben definiti.
Qualcuno (ad esempio il Machiavelli) ha affermato che la speculazione medievale non ha tenuto conto delle esigenze pratiche della vita e che si è perduta dietro alle nuvole: niente di più falso. I ragionamenti dei pensatori medievali partono sempre da una costatazione di fatto, e concludono sempre ad affermazioni di principio che illuminano di luce più viva e più vasta il reale e danno all’uomo la possibilità di orientarsi con più sicurezza.
Se poi si è voluto affermare che i medievali sono andati all’azione con un complesso di principi teorici (o pregiudizi, come li chiamano gli avversari) e non si sono mai permessi di agire senza principi o di definire le norme dell’azione in base ai risultati utilitari dell’azione stessa, si è detta una cosa vera. Ma per i medievali, era mostruoso il tentativo di sostituire l’utile pratico al giusto.
Se l’esagerazione di qualche mistico, che ha svalutato l’azione o l’ha presentata come pericolosa per chi voglia ascendere a Dio ha dato motivo ad alcuni maniaci delle generalizzazioni di affermare che il Medioevo “maledisse all’opre della vita e dell’amore, e delirò atroci congiungimenti in rupi e in grotte”, è da tener presente tuttavia che poche epoche della storia hanno pensato ed operato, hanno lottato e costruito come quella del basso medioevo.
IL CONCETTO DEL LIMITE.
Se i medievali hanno sentito il dovere dell’indagine e dell’azione e come uomini e come cristiani, hanno tuttavia anche sentito il dovere di contenere entro dei limiti la loro attività teorica e pratica.
Tali limiti sono costituiti: nel campo della speculazione teorica dalla legge del buon uso della ragione, dal mistero e dalla tradizione; nel campo dell’attività pratica sono costituiti dalla legge morale e dalla utilità pubblica.
A)- NEL CAMPO TEORICO.
a)- E’ imposto ad ogni uomo il dovere di sfruttare le sua facoltà conoscitive, ma
tale sfruttamento è retto e legittimo solo nel caso che sia indirizzato al fine naturale dell’indagine stessa, cioè al vero e al bene.
Gli abusi più comuni dell’intelligenza sono l’astuzia, la frode e l’artificio: tali abusi sono contrari al fine stesso delle facoltà conoscitive e sono proibiti da Dio:
“più lo’ngegno affreno ch’i’ non soglio,
perchè non corra che virtù non guidi
sicché, se stella bona o miglior cosa
m’ha dato il ben, ch’io stesso nol m’invidi”
(Inf. c. XXVI° vv. 21-24).
b)- Altro limite alle indagini è il mistero, cioè una verità che l’intelletto umano può illustrare, ma giammai dimostrare.
c)- S. Tommaso se illustra, in base ai principi della filosofia aristotelica i misteri della teologia cristiana, non pretende mai tuttavia di dimostrare razionalmente verità che superano le forze conoscitive umane.
Dante riconosce l’impossibilità in cui si trova l’uomo a spiegare certi fatti prodotti dalla onnipotenza divina:
“matto è chi spera che nostra ragione
possa trascorrer la infinita via
che tiene una sustanza in tre persone.
State contenti, umana gente al quia;
che se possuto aveste veder tutto,
mestier non era partorir Maria”
(Purg. c.III° vv. 34-39).
Nel canto XI° del Paradiso il poeta dichiara che la provvidenza governa il mondo con un piano
“nel quale ogni aspetto
creato è vinto pria che rada al fondo” (vv. 29-30).
Nel canto XIX° parlando del mistero della giustizia divina dice:
“Colui che volse il sesto
allo stremo del mondo, e dentro ad esso
distinse tanto occulto e manifesto,
non potè suo valor sì fare impresso
in tutto l’universo, che ‘l suo Verbo
non rimanesse in infinito accesso.
E ciò fa certo che ‘l primo superbo,
che fu la somma d’ogni creatura,
per non aspettar lume, cadde acerbo” (vv. 40-48).
E più oltre conclude
“Or tu chi se‘ che vuò sedere a scranna,
per giudicar di lungi mille miglia
con la veduta corta di una spanna?” (vv. 79-81).
Altro limite all’indagine è costituito da alcune affermazioni storiche considerate come certe, anche se non controllate attraverso una critica documentata.
E’ noto che la teologia, ossia scienza della rivelazione divina, attinge le verità che espone ed illustra, dai libri della Sacra Scrittura e dalla tradizione.
Ambedue queste fonti di verità, nel corso del Medioevo, vengono accettate senza discutere; e l’autorità della Chiesa, considerata come maestra della comunità dei cristiani, non viene mai contestata.
Si protesta talvolta, da parte di qualche cristiano, contro colui che siede sulla cattedra pontificale; ma la protesta non va diretta a lui come maestro, ma come uomo.
Dante nel canto XII° del Paradiso ai versi 87 e 90, distingue tra la sedia, che è sempre simbolo di verità e di giustizia, e “colui che siede, che traligna”.
E quel papa Bonifacio VIII° che è atteso nella bolgia dei simoniaci da Nicolò II° e nel canto XXVII° dell’Inferno è definito “principe dei farisei”, nemico dei cristiani, uomo arso “dalla superba febbre”, “il gran prete”, degno di maledizione, e nel canto XXVII° del Par. è definito da S. Pietro “usurpatore dello loco suo”, è tuttavia considerato da Dante come vicario di Cristo; e in forza della sua “reverenza delle somme chiavi” (Inf. c. XIX° v. 101), protesta contro l’empio gesto di Filippo IV° che in Anagni fece schiaffeggiare il detto pontefice:
“veggio in Alagna intrar lo fiordaliso
e nel vicario suo Cristo esser catto;
veggiolo un’altra volta esser deriso;
veggio rinnovellar l’aceto e il fele,
e tra vivi ladroni esser anciso”
(Purg. c. XX° vv. 86-90).
Non solo è accolta l’autorità della Chiesa e della tradizione cattolica in genere, ma anche la storia nel senso più vasto della parola, spesso mescolata anche a leggenda.
Se il Medioevo abbondò nella serietà speculativa, difettò assai nella critica razionale e storica) e spesso certe affermazioni tradizionali, anche errate, furono accolte senza discussione e limitarono la libertà dell’indagine stessa e l’iniziativa di scoperte, specie nel campo scientifico e geografico.
LIMITE DEL CAMPO DELL’AGIRE
a)- Il limite della legge morale.
L’uomo è libero di fare quel che vuole, ma ha il dovere di fare solo quello che è lecito. Esiste una legge morale, scoperta dalla ragione o comunicata dalla rivelazione, la quale definisce i limiti entro cui può muoversi la volontà umana senza venir meno all’ordine stabilito da Dio.
Ed ancora:
“vegna per noi la pace del tuo regno,
ché noi ad essa non potem da noi
s’ella non vien, con tutto nostro ingegno”.
(Purg. C.XXI vv.6-9)
Per l’intelligenza delle verità soprannaturali è necessario il lume divino, senza del quale ogni luce è ingannevole:
“lume non è, se non vien dal sereno
che non si turba mai; anzi è tenèbra,
o ombra della carne, o suo veleno”
(Par. c. XIX° vv. 64–66 ).
Anche nel campo delle pure attività naturali è sentita dai medievali l’insufficienza della capacità umana. Dante, pur ponendosi sesto fra i grandi poeti del mondo Greco-latino-italiano (Inf. c. IV° v. 102), pur avendo coscienza che al suo poema sacro hanno posto mano e cielo e terra (Par. c. XXV” vv.1-2), riconosce tuttavia, specie nella composizione dell’ultima cantica, la sua incapacità ad esprimere certi concetti e certe visioni: siccome
“la forma non s’accorda
molte fiate all’ intension dell’arte,
perch’ a risponder la materia è sorda”
(Par. c. I° vv. 127-129),
“convien saltar lo sacrato poema,
come chi trova suo cammin reciso”
(Par. c. XXIII° vv. 62-63).
Il poeta, cosciente che il suo omero è troppo debole per sostenere “il ponderoso tema”, non si vergogna di dichiarare al lettore che trema e vacilla sotto il carico eccessivo
(Par. c. XXXIII° vv. 64-66).
Nel primo canto del Paradiso, sul punto di affrontare una materia ardua e superiore alle sue capacità intellettive e fantastiche, Dante oltre che alle Muse, chiede aiuto anche ad Apollo: (cioè si appella a tutte le risorse dell’arte) ma nonostante ciò, egli è convinto che riuscirà appena a manifestare “l’ombra del beato regno’, e si consola al pensiero che la sua opera potrà essere di esempio a chi vorrà far meglio:
“poca favilla gran fiamma seconda:
forse di retro a me con miglior voci
si pregherà perché Cirra risponda”
(Par. c. I° vv. 34-36).
I medievali, dunque, allorché si accingono ad un lavoro a cui li impegna il dovere di uomini e di cristiani, sentono il bisogno di invocare l’aiuto divino e schiettamente dichiarano che non pretendono di esaurire la perfezione, ma di fare quanto di meglio dettano loro la coscienza morale e le capacità tecniche.
CONCETTO DI PERFEZIONE.
Secondo la concezione cristiana, quindi secondo la concezione medievale, l’uomo non è solo un animale che ragiona, ma è anche figlio adottivo della divinità.
La perfezione, secondo la concezione aristotelica accettata da S. Tommaso, consiste nella realizzazione integrale della propria natura: essendo quindi il cristiano natura e soprannatura, la sua perfezione consisterà nel realizzare tutte le risorse della razionalità e della Grazia.
Ma, essendo la soprannatura superiore alla natura, anche se talvolta manca il perfezionamento integrale delle facoltà naturali, si può dichiarare un uomo perfetto, qualora in lui si attui lo sviluppo pieno della Grazia e delle virtù teologali (fede-speranza-carità).
Quindi l’uomo ideale del Medioevo è il santo.
Tuttavia, in forza della armonia già accennata tra natura e soprannatura, tra profano e sacro, tra umano e divino, anche la sola perfezione delle facoltà naturali costituisce un titolo al rispetto e alla venerazione dell’uomo medievale.
A questo proposito basta ricordare quello che già si è detto intorno alla stima e al rispetto dimostrato da Dante per Virgilio, per i grandi del Limbo, per Traiano e per Rifeo Troiano.
E’ chiaro, però, che il massimo della perfezione si realizza allorché si attuano, in ogni individuo, lo sviluppo pieno delle facoltà naturali e quello della soprannatura.
E, siccome la perfezione naturale raggiunge il massimo nell’affermazione della razionalità, consegue che l’uomo sapiente e santo nello stesso tempo, incarna il tipo superlativo della perfezione nel mondo cristiano.
Dante aspirò alla gloria di poeta filosofo e sognò un riconoscimento generoso dei suoi meriti di uomo sapiente anche da parte dei Fiorentini che avevano infamato il suo nome.
Ma il motivo di maggiore gloria per lui non è tanto quello che proviene dalla sapienza umana, quanto quello che proviene dal possesso della pratica delle virtù soprannaturali.
Nei canti XXIV° – XXV° – XXVI° del Par. si fa esaminare nella fede, nella speranza e nella carità dai tre apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni.
Alla domanda di san Pietro, che lo esamina nella fede, se egli possegga la moneta di questa virtù, risponde:
“sì, ho, sì lucida e sì tonda,
che nel suo conio nulla mi s’inforsa”
(Par. c. XXIV° vv. 86-87).
A san Giacomo, che gli domanda se possegga la speranza, risponde per lui Beatrice:
“la Chiesa militante alcun figliuolo
non ha con più speranza, com’è scritto
nel sol che raggia tutto nostro stuolo:
però gli è conceduto che d’Egitto
venga in Ierusalemme per vedere,
anzi che il militar li sia prescritto” (Par. c. XXV° vv. 52-57).
A san Giovanni, che gli domanda se egli senta le attrattive dell’amore divino, risponde:
“…..tutti quei morsi
che posson far lo cor volgere a Dio,
alla mia caritade son concorsi;
ché l’esser del mondo è l’esser mio,
la morte ch’El sostenne perch’io viva,
e quel che spera ogni fedel com’ io,
con la predetta conoscenza viva,
tratto m’hanno del mar dell’amor torto,
e del diritto m’han posto alla riva.
Le fronde onde s’infronda tutto l’orto
de l’ortolano eterno, am’io cotanto
quanto da lui a lor di bene è porto”.
(Par. c. XXVI° vv. 55-66).
Le espressioni che abbiamo riferite non sono vanterie dell’Alighieri, ma aperte dichiarazioni di uno spirito cristiano che si gloria non del possesso di beni e di capacità terrene, ma di tesori soprannaturali.
Per questo motivo, non ci fa mistero della sua devozione alla Vergine:
“il nome del bel fiore ch ‘io invoco
e mane e sera…” (Par. e. XXIII° vv. 88-89),
e che, nel parlare del Cristo, adotti le espressioni più grandiose: lo chiama infatti:
“Colui che in terra addusse
la verità che tanto ci sublima”
(Par. c. XXII° vv. 41-42);
e altrove:
“…….la sapienza e’ la possanza
ch’aprì le strade tra ‘l cielo e la terrà”
(Par. c. XXII° vv. 106-108).
L’uomo, secondo la concezione medievale, è tanto più perfetto quanto più elevato è il motivo delle sue operazioni, quanto più integrale è la conquista della sua libertà.
La perfezione naturale è garantita dal sopravvento della ragione su tutto il complesso irrazionale che costituisce parte della nostra natura: l’uomo, esercitato nella pratica del vero, è libero dagli influssi delle tendenze smoderate, e può muoversi con agilità e sicurezza in tutti i settori dell’agire umano.
La perfezione soprannaturale è garantita dal sopravvento dell’amore di Dio sulla stessa ragione: operar bene per obbedire alla voce della ragione è umano; operar bene per amore all’Essere infinito è sovrumano.
Dante, dopo aver compiuto la sua purificazione attraverso l’Inferno e il Purgatorio, ove, sotto l’influsso del timore delle pene eterne ha reintegrato il suo spirito, sgravandolo dal peccato e inquadrandolo nelle esigenze della perfetta razionalità, si fa rivolgere da Virgilio (cioè dalla ragione che lo ha accompagnato nel cammino della purificazione) le seguenti parole:
“il temporal foco e l’eterno
veduto hai, figlio; e se’ venuto in parte
dov’io per me più oltre non discerno.
Tratto t’ho qui con ingegno e con arte;
lo tuo piacere omai prendi per duce:
fuor se’ de l’erte vie, fuor se’ de l’arte.
Purg. c.XXVII vv.127-132)
Non aspettar mio dirpiù né mio cenno:
libero, dritto e sano è tuo arbitrio,
e fallo fora non fallo a suo senno:
per ch’io te sopra te corono e mitrio.”
(Purg. c. XXVII° vv. 139-142)
Eliminato l’irrazionale, cioè le cattive tendenze e il peccato, ristabilito il dominio della ragione nel suo mondo spirituale, il poeta é finalmente libero, ossia padrone di se stesso: egli è in grado di autogovernarsi, e di procedere con facilità lungo la via del bene.
Siamo ancora nel campo della perfezione razionale, il cui stile è dall’Alighieri stesso descritto sobriamente, oltreché nelle annotazioni relative al carattere e al modo di fare di Virgilio anche nelle forme solenni con cui presenta “gli spiriti magni” del Limbo:
“genti v’eran con occhi tardi e gravi,
di grande autorità ne’ lor sembianti;
parlavan rado, con voci soavi” (Inf. c. IV° vv. 112-114).
Ci troviamo di fronte a tipi ideali di saggezza e di perfezione umana: ma la perfezione a sui aspira l’uomo del Medioevo è ben più elevata: una volontà mossa e regolata dalla ragione per il cristiano non è una volontà veramente perfetta; ma una libertà dal male non è la realizzazione perfetta della libertà.
La volontà giunge alla sua perfezione suprema quando, oltreché per motivi razionali, opera per amore e precisamente per concordare con la volontà dell’essere supremo.
In tale armonizzazione della volontà umana con quella divina, trova la sua soddisfazione piena non solo l’intelletto ma anche il cuore.
La libertà raggiunge la sua perfezione quando non solo è purificazione dal male, ma volontario e positivo inquadramento dello spirito nell’ordine morale che è espressione della volontà divina. La spontanea ed affettuosa adesione all’ordine universale, cioè alla volontà divina, si chiama amore. Ed è appunto l’amore di Dio che eleva al più alto grado di nobiltà lo spirito umano.
Nel Purgatorio e nel Paradiso Dante realizza una progressiva adesione di tutto il suo “spirito al vero, e al bene sommo fino all’adeguazione integrale della sua volontà alla volontà divina:
“all’alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disiro e ‘l velle,
sì come ruota ch’igualmente è mossa
l’amor che move il sole e l’altre stelle” (“Par. c. XXXIII° vv. 142-145).
Con l’aiuto di Virgilio, cioè della ragione, si giunge all’autonomia razionale; con l’aiuto di Beatrice, cioè della fede, si giunge all’adesione amorosa di tutto lo spirito all’Infinito.
In questa amorosa adesione al bene sommo, l’uomo si trasumana, il suo spirito si effonde fuori di sé nell’oceano infinito del vero e del buono. Tutti i grandi problemi, tutte le più alte visioni diventano l’alimento del suo spirito, l’uomo assume forme ideali che realizzano un tipo di perfezione suprema.
Nel canto XXXII° del Par. Dante ci presenta, in visione generale ma sufficientemente concreta, lo stile dei cittadini della città celeste, cioè di coloro che hanno realizzato la perfezione soprannaturale, che hanno assimilato cioè le forme della vita di Dio che è amore:
“vedea di carità visi suadi,
d’altrui lume fregiati e di suo riso,
e atti ornati di tutte onestadi” (Par. c. XXXI° vv. 49-51).
La perfezione naturale e quella soprannaturale realizzano ogni ideale a cui aspira l’ansia umana e mistica del medioevo: il santo, la donna-angelo, il cittadino giusto e il cristiano ricco di fede, di speranza e di carità, sono le incarnazioni di quell’ideale sulla terra.
Dante ci presenta un esemplare di questa perfezione naturale e soprannaturale nel suo antenato Cacciaguida; e vagheggia la Firenze antica come la città giusta, pacifica, sobria e pudica.
Ma alla fine del sec. XIII°, cioè al tempo dell’Alighieri, all’ideale della perfezione cristiana viene sostituendosi un ideale di perfezione terrena, ristretto alle capacità naturali dell’uomo e caratterizzato da una abilità eccellente in tutte le espressioni della vita temporale.
Dante, che avvertì la deviazione del mondo cristiano, tentò di opporsi alla avanzata degli ideali terrestri e, come un profeta, richiamò la Respublica Christiana agli ideali umani e divini, la cui realizzazione riesce a soddisfare le aspirazioni del cuore e o garantire la felicità terrena e quella celeste.
PENSIERI DEL PECCATO E DELLE PENE ETERNE.
E’ stato detto, esagerando, che i medievali fossero sotto l’incubo continuo del peccato e delle pene eterne; e che quindi lo spirito medievale non abbia mai goduto della vera libertà d’azione, d’iniziativa e di movimento, essendo di continuo impacciata da preoccupazioni morali e dalla paura di punizioni misteriose.
La visione di un Medioevo in terrore per i giudizi divini, l’affermazione troppo comune che i medievali conoscessero Dio solo come giudice e non come padre non corrispondono alla verità storica: san Domenico, san Francesco, san Tommaso d’Aquino, Dante Alighieri non sono certo i personaggi rappresentativi di generazioni terrorizzate da incubi morali e religiosi.
Una cosa è certa però, che i medievali, avendo una coscienza morale viva e sensibile, e conoscendo lo fragilità della natura umana, trepidavano di fronte alla tentazione e al peccato; come è certo che in generale l’uomo del Medioevo, caduto nel peccato, sente il disagio del suo disastro morale, si preoccupa delle eventuali punizioni divine, si affretta a far penitenza e a ripararle.
Frequenti sono i richiami degli scrittori dell’epoca, alla meditazione dei Novissimi (morte, giudizio, Inferno o Paradiso), cioè della morte, dei castighi e dei premi dell’oltretomba; frequenti sono e orride le descrizioni dell’Inferno e del Purgatorio per scuotere i peccatori. Bonvesin de la Riva (nel “Libro delle tre scritture”); Giacomino da Verona (nel suo “De Jerusalem coelesti et de babilonia infernali”); e lo stesso Alighieri presentano le visioni dell’oltretomba con l’intento di richiamare i lettori alla realtà di un futuro eternamente infelice o beato e di distoglierli così dalla colpa o confermarli nell’esercizio della virtù.
I predicatori usavano insistere su fosche descrizioni delle pene dell’Inferno e del Purgatorio, su ripugnanti visioni della morte e su drammatici esempi di peccatori puniti dalla giustizia di Dio o salvati dalla sua misericordia. (Notevoli sono a questo proposito le prediche di Jacopo Passavanti contenute nello “Specchio della vera penitenza”).
Frequenti erano le pubbliche dimostrazioni di penitenza con processioni, canti lamentosi, abbigliamenti umilianti e talvolta con flagellazioni.
In alcuni settori del popolo cristiano penetrò una vera mania della penitenza e della umiliazione: si ebbero ad es. famose espressioni di fanatismo, quali quelle delle compagnie dei “FLAGELLANTI”.
Con tono più moderno e con intenzioni più serie fecero della povertà e dell’umiltà e della penitenza programma di vita i Domenicani e i Francescani.
In ogni città non erano rari i casi di peccatori e di peccatrici, noti a tutti, che in circostanze più o meno drammatiche, o perché giunti all’età
“….ove ciascun dovrebbe
calar le vele e raccoglier le sarte”
(Inf. c. XXVII° vv. 80-81),
si davano, con grande edificazione di tutti, ad una vita di penitenza e di riparazione.
Nel Medioevo ci furono peccatori robusti e spregiudicati, come ci furono e ci sono in tutti i tempi: in quell’epoca, però, chi peccava era dal pubblico considerato come peccatore e, quasi sempre prima di morire, colui che aveva dato scandalo, riparava pubblicamente.
A rendere più vivo l’orrore delle colpe, e particolarmente di certe forme di ribellione alla Chiesa, l’autorità religiosa ricorreva spesso a scomuniche e punizioni inflitte in vita e in morte.
Errerebbe però chi pensasse che nel Medioevo non si facessero che processioni di penitenza, che non si predicassero se non i terribili giudizi divini; che la Chiesa si compiacesse di scomunicare e di punire, che le anime fossero oppresse di continuo da incubi religiosi e morali.
La penitenza, intesa come tortura del corpo avente fine à sé stessa, come umiliazione per l’umiliazione, è aliena dalla concezione che di essa ha la Chiesa. La vera penitenza consiste nella riprovazione del male e in un esercizio faticoso e costante dello spirito, per addomesticarlo al vero e al bene che nel tempo del peccato sono stati ripudiati e misconosciuti.
La pena corporale è un castigo, che il penitente infligge a sé stesso, o che accoglie umilmente dall’autorità, per punire la sua ribellione alla legge.
Nel Purgatorio Dante presenta le anime più che altro in questo atteggiamento di commossa adesione al vero e al bene, un giorno da essi disprezzati; allora il martirio diventa un:
“Io dico ‘pena’ e dovrei dir sollazzo
ché quella voglia alli alberi ci mena
che menò Cristo lieto a dire ‘Eli
quando ne libero con la sua vena”
(Purg. c. XXIII° vv. 73-75).
E’ evidente in questo passo che la penitenza è il “buon dolor ch’a Dio ne rimarita” (ibidem v. 8l): ossia è frutto dell’amore che riconosce e testimonianza della fedeltà che si rinnova.
La povertà e l’umiltà di san Francesco sono vivificate dall’amor di Dio; e nello stesso Jacopone da Todi la mania della penitenza è spiegabile:
“con l’amor de caritade”: “quando iubilo ha preso lo cor enamorato, la gente l’ha en deriso”.
Quanto alle pene spirituali e corporali inflitte dalla Chiesa ai fedeli indisciplinati l’Alighieri, pur riconoscendone la legittimità, ne critica l’abuso da parte dell’autorità ecclesiastica: la quale troppo spesso ad esse ricorre per spuntarla contro avversari politici:
“già si solea con le spade far guerra;
ma or si fa togliendo or qui, or quivi
lo pan che ‘l pio Padre a nessun serra”
(Par. c. XVIII° vv. 127-129).
E Manfredi, morto scomunicato, ma ritornato a Dio nell’ultimo istante dice: “Per lor maledizion sì non si perde,
che non possa tornar l’eterno amore
mentre che la speranza ha fior del verde.
Vero è che quale in contumacia more
di Santa Chiesa, ancor ch’al fin sì penta
star li convien da questa ripa in fore”
(Purg. c. III° vv. 133-138).
La scomunica dunque, per quanto inflitta ingiustamente, ha la sua efficacia nel campo disciplinare anche nell’oltretomba, ma la salvezza non è pregiudicata dalla punizione qualora sopravvenga un atto di resipiscenza nel cristiano indisciplinato.
Perciò, se nel Medioevo ci furono delle anime piccine che fecero della penitenza, dell’umiliazione e degli incubi dell’oltretomba delle forme di vita aventi fine a se stesse; il pensiero ufficiale della Chiesa, però, e quello dei grandi spiriti, come san Tommaso e Dante, considerarono quelle forme come mezzi per riaccendere o accrescere l’amor di Dio.
L’umiltà, del resto, non impedì alle anime grandi di assumere atteggiamenti regali di fronte alle supreme autorità: l’Alighieri si compiace di presentare san Francesco in nobile atteggiamento di fronte al più signore dei papi, cioè di fronte ad Innocenzo III° :
“Nè gli gravò viltà di cor le ciglia
per esser fi’ di Pietro Bernardone,
né per parer dispetto a maraviglia;
ma regalmente sua dura intenzione
ad Innocenzio aperse”
(Par. c. XI° vv. 88-92).
A tutti poi è noto l’atteggiamento fiero che l’Alighieri assunse nei confronti dei titolari delle potestà supreme: egli le criticò; inveì contro di esse con la franchezza del cittadino libero e con l’autorità quasi di profeta.
Basterebbe, dunque, pensare all’Alighieri, cristiano coscienzioso e libero disciplinato e magnanimo, per smentire l’affermazione che gli spiriti del Medioevo fossero vittime di una umiltà fatta di viltà, di servilismo e di paura.
VALUTAZIONE DEI BENI TERRENI.
I beni della terra sono mezzi concessi da Dio all’uomo, perché questi ne usi per perfezionare il suo fisico e il suo spirito. Nell’armonia fra natura e soprannatura, realizzata dalla spiritualità medievale, i beni temporali (la salute, la bellezza, la ricchezza, la fama) non sono considerati come cause di dannazione, ma come risorse da sfruttare per rendere più facile e più sicura l’ascesa dello spirito verso Dio.
Il male, nell’uso dei beni terreni, si ha quando l’anima o ama beni proibiti o ama troppo i beni finiti, o ama poco il bene infinito. La stima giusta e l’uso moderato dei beni temporali sono caratteristiche dell’uomo saggio ed equilibrato.
L’ascesi, a cui l’Alighieri sembra aspirare nel canto XI° del Par. (ove si esalta la figura di san Francesco e quindi vengono celebrate la povertà e l’umiltà), non è che un superamento della frenesia con la quale gli uomini si appassionano nelle loro attività terrene ed aspirano alle ricompense umane: non è affatto svalutazione del lavoro, del travaglio e della lotta per realizzare il perfezionamento proprio e quello altrui.
L’Alighieri amò là bellezza e la cantò come mai nessuno è riuscito a fare: ma considerò la bellezza umana come riflesso di quella divina. Rimproverò gli avari e i prodighi per il cattivo uso fatto da essi, in modi opposti, della ricchezza. Chiamò la fama:
“Non è il mondan romore altro che fiato
Di vento, ch’or vien quinci e or vien quindi,
e muta nome perché muta lato”
(Purg. c. XI° vv. 100-102):
Eppure egli riservò ai benemeriti della civiltà umana, agli uomini virtuosi, le più alte espressioni della glorificazione; ed aspirò egli stesso ad una fama che lo compensasse delle dure fatiche affrontate nel comporre il suo poema e lo confortasse nella sua attività svolta a vantaggio del mondo cristiano.
Che gli uomini del Medioevo amassero anch’essi l’eleganza del vestire, le feste rallegrate da liete compagnie, suoni e fiori; che i giovani prendessero parte con entusiasmo a cavalcate di gala lo dimostrano le descrizioni che della vita cittadina (specie nel sec. XIII°) ci hanno lasciato svariati poeti, da quelli popolari a quelli dello “stil novo”.
Che i medievali amassero le belle costruzioni e fossero orgogliosi di un’edilizia cittadina, che s’imponesse all’ammirazione, lo dimostrano gli innumerevoli edifici sacri e civili, che sorsero in tutte le città italiane, specie nel corso del sec. XIII°.
Nel complesso, dunque, lo spirito medievale non rifiuta il godimento delle cose terrene, ma, nello stesso tempo, si sforza di non lasciarsi sopraffare dalla preoccupazione di esse; e, quando lo richiede un ideale superiore, è disposto anche a sacrificarle.
Dante esalta Daniello che “dispregiò cibo ed acquistò savere“; esalta il Battista che nel deserto si nutrì di
“mèle e locustefuron le vivande
Che nudriro il Batista nel deserto
perch’elli è glorioso e tanto grande
quanto per l’Evangelio v’è aperto” (Purg.c.XXII vv. 153-154);
e l’Alighieri stesso dichiara di aver sofferto di essere “per più anni magro” per condurre a termine
“il poema sacro,
al quale ha posto mano e cielo e terra”
(Par. c. XXV° vv. 1-2).
Insomma lo spirito medievale, ricco com’è di sensibilità morale, considera i beni terreni come mezzi per la conquista di beni superiori: perciò, anzitutto fugge la “dismisura” (Pur. c. XXII° v. 35) nel godimento di essi, e si attiene al principio che l’amore dei beni
“mentre ch’egli è ne’ primi ben diretto,
e ne’ secondi sé stesso misura,
esser non può cagion di mal diletto;
ma quando al mal si torce, o con più cura
o con men che non dee corre nel bene,
contra ‘l fattore adovra sua fattura”
(Purg. c. XVII° vv. 97-102);
in secondo luogo esalta coloro che, per rispondere alle esigenze di una missione superiore, sposano, come san Francesco e san Domenico, la povertà e l’umiltà.
Ci furono, è vero, nel corso dei Medioevo varie sette ereticali che, rinnovando la mentalità manichea, considerarono le cose terrene come espressione di Satana e propugnarono il disprezzo e la distruzione dei beni terreni (Albigesi-Catari-Valdesi), ma il pensiero ufficiale e la prassi comune dei cattolici (il che vuol dire della stragrande maggioranza) si guardò bene dal seguire simili proposte di ascetismo fanatico e furioso.
CONCETTO DELL’ARTE.
L’arte, secondo la concezione dei medievali, consiste nell’esprimere bene, o con la parola, o con il colore, o con altra mezzo, quello che di un determinato soggetto costituisce il significato morale più profondo.
L’arte, perciò, è anzitutto interpretazione filosofico-religioso-morale del soggetto, cioè individuazione del vero significato umano e sovrumano di esso ed è poi capacità di esprimere tale significato in forme concrete e vive, le quali forme sono veramente artistiche quando imitano perfettamente la realtà, cioè quando sono verosimili.
E’ da distinguere la riproduzione pura e semplice del reale dalla produzione del verosimile: la prima è copiatura della realtà, tentativo di creare un doppione inutile di essa; la seconda è creazione vera e propria della fantasia, condotta sul modello delle realtà sperimentali.
I medievali accolgono il concetto dell’arte elaborato da Aristotele, cioè il concetto che l’arte è “mimesi”, o imitazione, o creazione del verosimile. Dante esprime questa concezione nel canto XI° dell’Inferno:
“Fìlosofia….a chi la ‘ntende,
nota non pur in una sola parte,
come natura lo suo corso prende
da divino intelletto e da sua arte;
e se tu ben la tua Fisica note,
tu troverai, non dopo molte carte,
che l’arte vostra quella, quanto pote,
segue, come ‘l maestro fa il discente;
sì che vostr’arte a Dio quasi è nepote” ( vv. 97-105).
La prima artista, dunque, è la natura, la quale imita Dio che è archetipo, o esemplare di tutte le cose create: il secondo artista è l’uomo che, valendosi della fantasia creatrice e compositrice, e servendosi di una sapiente tecnica rappresentativa, gareggia con la natura nel produrre forme viste dall’idea.
La natura è artista per eccellenza perché sa imitare in modo perfetto l’esemplare divino: e alla natura si avvicinano i grandi ingegni quando sanno imprimere alle loro creazioni atteggiamenti vivi ed eloquenti.
Le figurazioni che l’Alighieri immagina scolpite nel primo girone del Purgatorio sono perfette perché imitano, con verosimiglianza integrale, il vero:
“morti li morti e i vivi parean vivi:
non vide mai di me chi vide il vero,
quant’io calcai, fin che chinato givi”
(Purg. c. XII° vv. 67-69).
La naturalezza, dunque, l’adeguazione perfetta alle forme fisiche, alla psicologia e alla mimica dell’uomo sono i fattori essenziali della buona tecnica d’arte.
Quando l’imitazione artistica è così naturale che i sensi e la fantasia dello spettatore hanno l’impressione di essere di fronte ad una realtà vera, si può esser certi che quell’imitazione è perfetta. Ad esempio nel primo girone del Purgatorio, l’altorilievo nel quale è rappresentata l’annunciazione, presenta, l’angelo “sì verace” che “giurato si saria ch‘el dicesse ‘Ave’ “ (Purg. c. X° v.40); i due cori che circondano l’arca santa, ben riprodotti nell’atto di cantare, fanno dir ai due sensi dell’Alighieri:
“l’un ‘No’, l’altro ‘Si’, canta” ( ibidem v. 60):
è per questo motivo che quelle figurazioni sono chiamate dal poeta così perfette: “che non pur Policleto,
ma la natura li avrebbe scorno” (ibidem vv. 32-33).
L’evidenza e la vivezza dell’imitazione non sono fine a se stesse: non si tratta di gioco di tecnica destinato o rivelare aridità tecnica e a provocare l’applauso; l’eloquenza della forma è un mezzo per comunicare al lettore e allo spettatore l’interpretazione che l’autore ha dato della vita intima del suo soggetto.
Il vero della rappresentazione è un mezzo per esprimere il vero dell’ispirazione, cioè del pensiero e del sentimento che si vogliono comunicare al lettore.
L’arte, dunque, è strettamente unita al vero, inteso non solo come verosimiglianza, ma anche come contenuto dell’ispirazione: è per questo che san Tommaso chiama l’arte “splendore del vero”, cioè presentazione attraente e suggestiva della verità.
E Dante, nel primo canto del Paradiso, fa capire che attende fama di grande poeta e dalla materia che tratterà, cioè dalle alte verità teologiche e scientifiche che esporrà, e dall’ispirazione, cioè dalla passione con la quale egli incarnerà in forme concrete il suo pensiero:
“ venir vedrà ‘mi al tuo diletto legno
e coronarmi allor di quelle foglie
che la materia e tu mi farai degno” (Apollo)
(Par. c. I° v. 25-27);
e nel canto XXXI° del Paradiso fa capire che i soggetti alti esigono ricchezza di immaginazione e ricchezza di parola:
“E s‘ io avessi in dir tanta divizia
quanta ad immaginar, non ardirei……” (vv. 136-137).
Il poeta, secondo la concezione medievale, non è un vagheggiatore di belle forme, ma un educatore di anime, cioè un maestro di verità teologiche, filosofiche, morali, che conosce l’arte di giungere all’intelletto e alla volontà dei lettori, attraverso la loro fantasia e il loro cuore.
L’arte per l’arte, cioè la poesia fine a sé stessa, è ignota al Medioevo: in quell’età non si concepiva nessuna attività che non fosse al servizio dello vita; e fra le attività umane una delle più efficaci per elevare lo spirito del popolo cristiano era considerato quella artistico. I Padri della Chiesa consideravano la pittura sacra, come una predica perpetua ai cristiani che, entrando nel tempio, volgessero lo sguardo alle figurazioni che ne decoravano le pareti.
E’ chiaro che, assegnando all’arte una funzione pedagogica, non si intendeva rinunciare alle finalità estetiche, ma al contrario si mirava ad un magistero più efficace attraverso forme estetiche perfette il più possibile: insomma, i fattori estetici erano considerati come mezzi per la realizzazione di un fine altamente umano e non come fini che dovessero esaurire tutto l’ impegno dell’artista. E’ evidente, infatti, che un discorso sarà tanto più persuasivo quanto più sarà bello, e che una pittura sarà tanto più eloquente e commovente quanto più sarà perfetta nell’ispirazione, nel disegno e nella coloritura.
Nessuna apposizione, dunque, tra estetica e finalità educativa; ma, mentre la finalità educativa favorisce la serietà del contenuto di un’opera, l’impegno estetico ne favorisce la ricchezza e l’efficacia espressiva.
L’arte non è destinata ad un piccolo gruppo di intenditori, ad una cerchia ristretta di dotti, ma ad in pubblico tanto vasto quanto è vasta l’umanità. Dante si era impegnato nel “Convivio” a trattare argomenti scientifici in lingua volgare per poter essere utile al maggior numero possibile di lettori: nella “Divina Commedia” egli si pone il fine di portar “vital nutrimento” alle anime dei contemporanei e ai posteri, e di esaltare l’infinita grandezza di Dio, cosicché gli uomini, attraverso i suoi versi, si rigenerino moralmente e aspirino all’infinito:
“o somma luce …….
…………………
fa la lingua mia tanto possente.
ch’una favilla sol della tua gloria
possa lasciare alla futura gente;
ché, per tornar alquanto a mia memoria
e per sonare un poco in questi versi,
più si conceperà di tua vittoria”
(Par. c. XXXIII° vv. 70-75).
L’Alighieri, mentre scrive, immagina se stesso come nocchiero di una nave che percorre un oceano grandioso e che è seguita da un’infinità di “picciolette barche” desiderose di giungere, dietro la sua guida, alle mete incantevoli del vero, del buono e del bello (Par. c. II° vv. 1-3).
La Divina Commedia, che è l’enciclopedia poetica della cultura medievale, è anche la espressione più viva delle aspirazioni, delle ansie, dei problemi del popolo cristiano (specie quello d’Italia) alla fine del sec. XIII° e agli inizi del sec. XIV°.
Il fervore mistico aperto alle più vive aspirazioni soprannaturali, le ansie per i destini delle città dilaniate dalle discordie, le polemiche roventi circa i rapporti fra potere temporale e potere spirituale, la preoccupatone per l’avanzata di una mentalità mondana e di uno stile paganeggiante di vita non commuovevano lo spirito dell’Alighieri, ma la grande massa della Respublica Christiana. E’ per questo che Dante nella sua Commedia cercò di scendere, il più possibile, al livello dell’intelligenza del popolo: cioè (come direbbe il Berchet) in tutti coloro che, quando leggono o sentono leggere, capiscono e si commuovono: al popolo inteso in questo senso egli porse le prime due cantiche, riservando ai dotti la terza. Per farsi meglio intendere, nella sua grande opera, egli lasciò da parte il volgare illustre e adottò il dialetto fiorentino; né sdegnò di desumere paragoni ed espressioni dall’ambiente popolare.
Il poeta medievale, insomma, se sì compiace di ispirazioni e forme elevate, care ai dotti, aspirava però anzitutto a farsi interprete e maestro delle masse.
Perciò i rappresentanti più illustri del mondo letterario medievale mai si compiacquero di artifici, di imitazioni ingegnose, ma preferirono sempre un’originalità che, per quanto talvolta primitiva, era tuttavia espressione immediata ed efficace di uno spirito ricco di ideali e di nobili passioni.
Con ciò non si vuol negare che certe espressioni della letteratura medievali (specie in Provenza e in Sicilia) presentino forme artificiose e ingegnose che rivelano l’ambizione dello scrittore di apparire un tecnico raffinato del linguaggio. E possiamo anche aggiungere certi sistemi di artificio (quali ad es. quelli proposti dalle “Artes dictandi”, cioè da quelle norme retoriche che insegnavano a costruire il periodo ritmico e cadenzato per la redazione dei documenti curiali o aulici in latino) erano, oltreché inutili, anche abbastanza meschini. Ma il Medioevo non è rappresentato né dai giochi di parole di certi Siciliani, né dagli stilisti delle curie: il vero Medioevo è quello dei grandi.
Un fenomeno interessante della tendenza medievale a considerare la lingua come mezzo e non come fine di chi scrive, cioè a considerarla come un complesso di forme convenzionali per esprimere il pensiero e il sentimento e non come ingegnosa architettura di parole, destinate a rivelare l’abilità tecnica dell’artista, è la libertà con cui i dotti maneggiano la lingua latina.
Nell’alto Medioevo si compose sempre in latino dotto; nel basso Medioevo, accanto alle composizioni in volgare (che in Italia hanno inizio solo nel sec. XIII°), continua a vivere la composizione latina. La giurisprudenza, la teologia, la filosofia, l’amministrazione civile ed ecclesiastica fanno uso del latino. Si tratta di una lingua che segue la grammatica e la sintassi latina come modelli generali che non impegnano affatto ad un’ osservanza stretta delle loro regole. Vocaboli nuovi, fonie grammaticali e sintattiche nuove, dovuti all’evoluzione della civiltà, vengono creati sul modello del vocabolario, della grammatica e della sintassi dell’età classica.
Il latino medievale così è vero latino perché segue le forme di questa lingua, ma è un latino vivo perché aderisce e risponde alle esigenze dell’evoluzione della civiltà: esso era uno strumento duttile, capace di perfezionarsi all’infinito e di esprimere tutte le forme dello spirito umano.
San Tommaso e Dante ci presentano un latino che all’occhio di un classicista pedante può apparire spregiudicato e barbarico, ma si rivela intelligente ed anche di buon gusto a chi consideri la lingua come mezzo dell’espressione, adeguata e perfetta del pensiero.
La concezione e la prassi artistica del Medioevo sono, dunque, orientate verso una concretezza di contenuto e di forma, verso finalità utili ed estetiche nello stesso tempo, e presentano un’originalità così schietta e libera che smentiscono l’accusa di barbarie, ripetuta contro di esse dagli umanisti esclusivisti delle varie epoche della nostra storia letteraria: quando agli inizi del sec. XIX° i nostri scrittori s’impegneranno a creare una letteratura per il popolo, sostanziosa, concreta e semplice, ritorneranno ai modelli del Medioevo, cioè all’età romanza, e, proprio per questa simpatia, saranno chiamati romantici.
CONCLUSIONE
Il Medioevo può essere benissimo considerato, come vollero gli umanisti, un’epoca di passaggio; ma non è il caso di considerarlo come un’epoca su cui bisogna passar sopra; quasi che non presenti nulla di lodevole e accettabile.
Fu il periodo in cui si elaborò la civiltà moderna, cioè una civiltà che fondamentalmente è romana, cristiana e germanica; e fu il periodo in cui questa civiltà giovane, entusiasta e schietta, diede le prime prove della sua profondità di pensiero, della sua umanità di sentimento, del suo gusto decoroso e sensato.
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DANTE ALIGHIERI
(1265-1321)
Il Paradiso dantesco
Nella Divina Commedia, Il Paradiso tratta di molti aspetti di filosofia, di teologia e di scienza, soprattutto in senso scolastico-tomista. La scienza procedeva con la filosofia e con la teologia, mentre noi siamo abituati al procedimento scientifico induttivo-matematico. Si presenta il problema sollevato da Francesco De Sanctis, che per primo ha svalutato la poesia del Paradiso, pensando che tra la poesia e la dottrina ci sia una opposizione inconciliabile. Per il De Sanctis e per i romantici la forma letteraria di trasmettere il pensiero ed il sentimento deve essere fantastica. Nel Paradiso Dantesco predomina la forma sapienziale, e il critico non vi nota le forme fantastiche robuste, come quelle di Farinata di degli Uberti e di Capaneo o del conte Ugolino: ragion per cui il De Santis dice che manca la poesia. Le immagini umane dei personaggi sono soffuse in una luce che è tipica dei beati, e varia solo di intensità, ma praticamente li rende tutti uguali. I colloqui del poeta con gli spiriti avvengono con un tono sapienziale; mentre le interpretazioni psicologiche, e le magistrali figurazioni, tanto frequenti nell’Inferno e nel Purgatorio, si diradano molto nel Paradiso.
Il giudizio del De Sanctis è stato ripreso da Benedetto Croce, il quale afferma che la poesia del Paradiso si può ridurre complessivamente ad uno o due canti. Il presupposto filosofico del Croce è che le attività dello Spirito sono distinte in teoretiche (sono l’arte e la filosofia), e pratiche (sono l’economia e la morale). Fra queste quattro attività secondo lui non c’è nessun rapporto; quando si fa l’arte, non si fa né filosofia, né economia, né morale e viceversa. L’arte deve essere intuizione pura, liricamente espressa. L’arte è fine a sé stessa, quindi ogni finalità didattica o formativa, di per sé stessa è non poetica (impoetica).
Inoltre ogni poesia in cui sono inseriti motivi non poetici, (chiamati allotrici), perde il valore poetico, in proporzione di questi elementi allotrici. Tali concetti sono stati applicati al Paradiso di Dante in uno studio crociano intitolato “La poesia di Dante”, nel quale, non solo viene negata la poeticità del Paradiso, ma vengono svalutate anche le altre due cantiche proprio per la loro finalità didascalica, espressa dall’autore: secondo Croce ‘per allotria’.
Il de De Sanctis e l’estetica del romanticismo esaltavano le grandi passioni, le sublimazione potenti. Peraltro proprio i romantici affermavano, contro i classicisti, che nessun motivo o tema, nessuna realtà può essere considerata non poetica; mentre in pratica essi consideravano poetici i motivi forti. Ogni soggetto, in sé e per sé, non è né poetico né impoetico, per cui ogni soggetto può essere “poetabile”. La poesia è costituita esclusivamente dal modo con cui questo viene svolto. Per la teoria del Croce, ci si domanda: “Che cosa esprime un poeta se non la sua spiritualità? E una spiritualità da che cosa è costituita, se non da pensieri (che possono essere filosofici, economici, morali e altro) e da sentimenti? “. Il Croce confonde il modo di esprimersi nella poesia, con il contenuto di questa. Non si può essere d’accordo sul concetto che è un qualsiasi tema, filosofico, economico, morale, non possa essere trattato con stile poetico.
Importanza della Terza Cantica, secondo Dante
Delle tre cantiche della Commedia, il poeta reputava superiore la terza. All’inizio di questa, invoca non solo le Muse, anche Apollo, cioè l’ispirazione. La materia secondo il poeta, costituisce un fattore di alta poesia, quando essa è elevata. Nel secondo canto egli invita i lettori che per tempo si sono privati “del pane degli angeli” (sapienza) ad interrompere la lettura del suo poema, perché non sarebbero capaci di seguirla
“Minerva spira, e conducemi o Apollo,
e nove Muse mi dimostran l’Orse. (Paradiso II, 8-9)
“ poema sacro
al quale ha posto mano e cielo e terra (Paradiso XXV, 2-3)
Dante ha avuto un concetto alto della sua terza cantica perché nel medioevo la poesia più elevata era quella sapienzale. Virgilio è il suo maestro di dottrina, prima che il maestro di poesia e Dante lo prende per guida nel viaggio.
Dottrina e poesia nel Paradiso
Dante ha tradotto il pensiero teologico filosofico scientifico in termini poetici. La sua poesia è discorso caldo, su ogni argomento; è lirica. Dante ama la sapienza, sente una vera passione per la verità. Don solo il pensiero, anche la fantasia e il cuore da questa traggono alimento. Nella “Lettera all’amico fiorentino” afferma che, se il ritorno in patria non gli sarà concesso, egli continuerà a vivere in esilio ugualmente contento, perché nessuno gli impedirà di contemplare le dolci verità.
I dotti si distinguono in due categorie: quelli che percepiscono la verità, ma la circoscrivono nel solo intelletto; e quelli che hanno il pregio di alimentare con il ‘vero’ della sapienza anche la loro fantasia e il sentimento, e sono capaci di tradurre in termini affettivi le loro idee. Il discorso dei primi è arido e razionale; quello dei secondi è ricco di immagini, caldo ed appassionante.
Dante ha superato le aridità della materia dottrinale, anzitutto a motivo del suo amore per la sapienza. Un secondo motivo è nel fatto che la tesi dottrinale nel Paradiso è congiunta alla vita futura dell’umanità: l’impostazione delle tesi, lo scopo a cui la dimostrazione tende, sono in genere coordinati ad una finalità concreta, di carattere morale, o politico, o religioso. Dante, nel comporre il Paradiso e in generale nella Commedia, ebbe la persuasione di svolgere una missione profetica, con il compito di richiamare l’umanità cristiana sulla retta via. Profeta nel senso che parla in nome di Dio. Nel secondo canto dell’Inferno, si considera, dopo Enea e Paolo, il terzo, a cui Dio ha affidato una missione provvidenziale. Nel canto XVII Cacciaguida lo esorta a riferire tutto ciò che nel viaggio attraverso l’inferno, il purgatorio e il paradiso, egli ha venduto; e S. Pietro, dopo l’invettiva contro i papi simoniaci, afferma:
“E tu figliuol, che per il mortal pondo,
ancor giù tornerai, apri la bocca,
e non asconder quello ch’io non ascondo. (Paradiso XXVII, 64-66)
In forza di questa persuasione Dante si preoccupa di collegare costantemente la dottrina con la vita storica dell’umanità cristiana. Così la dottrina assume la funzione di criterio per giudicare le responsabilità ed i meriti delle persone umane; ed offre, nel medesimo tempo, l’occasione al poeta per quelle veementi invettive, così numerose nel Paradiso, che costituiscono temi di potente lirica.
Un altro motivo che permette a Dante di tradurre la dottrina in termini poetici, è il fatto che egli affida l’incarico di trattare i vari argomenti a una determinata anima beata, che in terra ha avuto un particolare affetto per il tema che svolge. Spesso la maestra di sapienze è Beatrice; pertanto le verità vengono esposte con l’affetto e con la grazia di una donna intelligente e sicuramente innamorata. La dottrina diviene così affettuosa, gradita anche a coloro che hanno poca familiarità con essa. Nel Paradiso tutto è verità e amore, dei quali Dio è signore. Da qui l’entusiasmo e la cordialità con cui la dottrina paradisiaca viene esposta.
È da tener presente inoltre che Dante parla per immagini, è capace di tradurre quasi sempre il pensiero sapienziale o dottrinale in immagini. Talora egli si diletta dello stile scolastico, forse per esercitare i suoi lettori nel ragionamento astruso, non solo in modi facili e piacevoli, anche nei modi disadorni e severi propri della scienza pura. Dopo il discorso fatto dal poeta, nella mente del lettore si delinea un’immagine. E nel Paradiso Dante ha la straordinaria capacità di creare visioni vaste e sublimi, facendo seguito ad un discorso sapienziale. Nell’Inferno e nel Purgatorio egli usa il racconto, e la fantasia del lettore intuisce le immagini che il poeta evoca; nel Paradiso offre sapienza oltre che raccontare, e nella mente dell’uditore rimane una visione grandiosa generata dal pensiero dottrinale.
Ad esempio, nel primo canto, il poeta prende lo spunto dal suo trascendere i corpi ‘lievi’ per illustrare l’ordine dell’universo. La spiegazione è affidata a Beatrice, che, nel suo discorso, accenna ad alcune immagini capaci di offrire al lettore lo spunto per costruire il quadro finale. In questo si vedono: l’immenso mare dell’essere, e i porti più o meno luminosi a cui le cose approdano. In fondo si vede il porto più luminoso di tutti, che l’Empireo glorioso, a cui si dirigono tutte le persone, mosse da una forza intima. In questa visione sublime si inserisce un particolare tragico: alcune persone, benché mosse dalla forza intima, deviano dal cammino che le condurrebbe al porto luminoso e si disperdono nelle passioni terrene. Il poeta nel dire questo, apre lo spunto per costruire la visione: Le immagini sono degne dell’alta la materia che il poeta illustra.
Poesia sublime. La poesia del Paradiso viene definita, oltre che dottrinale e sapienziale, anche poesia sublime. Il sublime consiste nella grandiosità delle visioni, nell’armonia e nella elevatezza di essa. Dicono i romantici che è sublime ciò che fa venire le vertigini per la sua grandiosità ed innamora per la sua perfezione. La nota del sublime è costante nella terza cantica dantesca. L’impostazione generale del Paradiso è luce e amore; i discorsi che si fanno sono sostanzialmente di alta verità e di sincera carità; aleggia dappertutto lo spirito della signoria di Dio, fonte di verità e di amore. I personaggi che parlano sono avvolti nella luminosità e di essi il poeta riferisce soltanto l’intensità dell’affetto e dell’entusiasmo per il loro ideale, annotando l’intensificarsi della luce. Il passato, il presente e il futuro, la storia umana e i progetti della Provvidenza divina sono armoniosamente collegati fra loro ed illuminati dalla luce della verità più sublime che esprime la sapienza di Dio sulla terra.
A questo materiale sublime, si congiunge la sublimità del tono con cui l’autore svolge costantemente il discorso poetico; tono elevato, rigoroso, che si concretizza in un frasario complesso e talvolta arduo ed in immagini tratte dal repertorio dottrinale. Anche il ritmo dei versi nelle terzine del Paradiso assume uno sviluppo ampio e grandioso; pare di sentire il ritmo di un grande maestro che, cosciente della materia che svolge, parla con ampiezza di respiro, secondo il ritmo di frasi logiche, complesse e profonde. Lo spirito lirico coinvolge le strutture del ritmo sapienziale, affettuoso e travolgente, con il sostegno di un’intensa passione e spesso di un tono profetico carico di sdegno e di ardore. Il ritmo generale della terza cantica è solenne e intenso. Ma, nei particolari, le variazioni sono numerosissime, e sono adeguate all’argomento o tema svolto.
Per comprendere bene la poesia del Paradiso sono necessarie tre cose: anzitutto capire bene il senso letterale che spesso è complesso e arduo nel linguaggio sapienziale; poi cogliere gli spunti offerti con cui costruire l’immagine generale del canto dantesco; infine eseguire la lettura del canto, seguendo il ritmo non solo della parola, anche e soprattutto dello spirito del poeta.
IL PURGATORIO DI DANTE
Il Purgatorio è il luogo dove gli spiriti espiano la pena temporale che non hanno voluto espiare in vita ed acquistano la mentalità delle virtù. È il luogo della penitenza, intesa non solo come espiazione, anche nel senso evangelico di cambiamento di mentalità. Le anime, prima di separarsi dal corpo, hanno riconosciuto di avere sbagliato e quindi si sono salvate; ma si sono trovate, nell’altra vita, senza la mentalità della virtù, che non hanno esercitato bene. Ecco le note che caratterizzano la psicologia del Purgatorio:
1 — riconoscono di avere sbagliato;
2 – accettano umilmente la pena inflitta;
3 – meditano sulle irrazionalità dei vizi e sulla bellezza della virtù;
4 – sono sostenute dalla speranza e dall’amore di Dio.
Il tono generale della psicologia del Purgatorio è la serenità nel soffrire: i discorsi sono seri e dolci nello stesso tempo. Anche l’ambiente materiale risponde alla tonalità psicologica: in una montagna aspra illuminata dal sole
Che cosa acquistano le anime del Purgatorio?
Qui gli spiriti conquistano la libertà. Il poeta lo afferma nel primo canto.
Libertà va cercando, ch’è sì cara
come sa chi per lei vita rifiuta (Purgatorio I, 71-72)
La libertà giunge come conseguenza della razionalizzazione totale dello spirito, a cui le anime giungono attraverso la meditazione sulla virtù e sul vizio. Bisogna ricordare che, in generale, la liberazione dell’anima (precisamente di quella di Dante) dal male, avviene attraverso due fasi:
1 . attraverso la paura delle pene eterne dell’interno;
2 – attraverso la persuasione razionale in purgatorio.
Nel Purgatorio il poeta pertanto ci fa ascoltare dagli spiriti i discorsi e saggi sulla stoltezza del vizio a cui si abbandonarono in vita, e sul decoro e sulla beatitudine che sono connessi con la virtù. Sono questi, forse, i passi più commoventi della seconda cantica, che, dal punto di vista psicologico, è certo la meglio riuscita. Infatti, mentre nell’Inferno la psicologia del dannato spesso è evidente; nel Purgatorio, invece la psicologia del convertito è resa nel modo più perfetto.
Parti del Purgatorio:
Il Purgatorio è una montagna che si trova nel centro dell’emisfero australe tutto acqueo, agli antipodi di Gerusalemme che è al centro dell’emisfero boreale, opposto. La montagna si è formata nel seguente modo: in un primo tempo la parte abitata della terra era l’emisfero australe. Ma, quando Lucifero cadde dal cielo, dalla parte dell’emisfero australe, la terra per non aver contatto con lui, si ritirò nell’emisfero boreale (rimaneva coperto d’acqua l’emisfero australe). Lucifero penetrò fino al centro della terra e il suo corpo stava, per metà nell’emisfero australe e per l’altra metà in quello boreale. La terra scavata del foro, attraverso cui egli era passato, si è trasferita verso la superficie, per non aver contatto con lui, e si è ammassata in modo da formare questa montagna la quale si divide in tre parti principali: Anti -Purgatorio, Purgatorio, e Paradiso terrestre in cima.
1 – Anti-Purgatorio dove rimangono, in attesa, le anime per il tempo in cui hanno differito la loro conversione all’estremo momento della vita. I luoghi di percorso sono: la spiaggia; il primo balzo; il secondo balzo, e la valletta amena.
2 – Purgatorio propriamente detto, si divide in sette gironi, quanti sono i vizi capitali che sono connessi per amore errato, secondo Dante: o per amore di “malo” oggetto, o per amore sbagliato di “buon” oggetto.
I peccati per amore di “malo” oggetto sono:
== la superbia che fa amare all’uomo un grado di importanza che non è il suo;
== l’invidia che fa amare il male altrui;
== l’ira che fa amare la vendetta.
I peccati per amore di “buon” oggetto si distinguono in peccati per mancanza di amore; e peccati per eccesso di vigore nell’amore:
== l’accidia è la negligenza (difetto) nell’amore di Dio infinito.
I peccati per eccesso di vigore nell’amare un oggetto sono:
== l’avarizia come amore eccessivo di quel bene che il denaro.
== La gola, amore eccessivo dei cibi e delle bevande.
== La lussuria, amore eccessivo dei piaceri sensuali.
3 – Il Paradiso terrestre è costituito da una selva “spessa e viva” con da due fiumi che sgorgano dalla fontana perenne. Il fiume Letè ha le acque dolci che cancellano il ricordo dei peccati; il fiume Eunoè ha le acque che ravvivano il ricordo del bene compiuto.
Dal Paradiso Terrestre il viaggio Dantesco porta al Paradiso.
Dante Alighieri – la spiritualità.
La spiritualità di una persona è costituita dal suo modo di intendere, di sentire, di vivere la vita. Parlando della spiritualità dell’Alighieri è necessario che esaminiamo le sue facoltà, che ne osserviamo le potenzialità naturale e lo sviluppo che ha saputo dare ad esse il poeta.
1 L’intelletto e la cultura dell’Alighieri
Dante ebbe un’intelligenza chiara, capace di affrontare molti problemi, ansiosa di approfondirli e di risolverli per dare solide basi al pensiero e all’azione. Egli accolse in pieno la concezione del reale e della vita che fu propria dello spirito medievale. Il centro di tutta la realtà è Dio e le creature muovono verso di lui spinte da una forza che potrebbe dirsi “istinto della Mèta”, l’Empireo, destinato all’uomo, dove Dio si manifesta più immediatamente e più chiaramente alle sue creature. Per attrarre a sé l’uomo a sé Dio si serve di vari mezzi:
a – dell’amore istintivo al sommo Bene, per cui lo spirito umano, pur compiacendosi dei beni finiti, sente l’insufficienza e la limitatezza di questi ed anela alla conquista dell’Assoluto.
b – della Grazia, degli aiuti concessi gratuitamente all’intelletto e alla volontà dell’uomo affinché costui veda con chiarezza la verità (o la ritrovi dopo essersi smarrito nella selva oscura del peccato) e si decida a tradurla in azione. Dante, nel secondo canto dell’Inferno, immagina che l’iniziativa della sua salvezza sia presa da Maria, simbolo della Grazia preveniente coadiuvata da Lucia, simbolo della grazia illuminante, che si avvale della collaborazione di Beatrice e di Virgilio simbolo della ragione.
c – della luce della fede, resa accessibile dalla teologia.
d – della luce della ragione, resa accessibile e chiara dalla filosofia.
e – della morale, cioè dei principi fondamentali dell’agire che indicano all’uomo la via migliore e più sicura per realizzare il suo perfezionamento naturale e soprannaturale.
f – della scienza, la quale rivela l’ordine e la grandiosità dell’universo, insieme rivela la sapienza e la potenza del “Motore immobile” delle cose.
g – dell’amore della donna-Angelo, che Dio manda dal cielo in terra per dare un raggio della sua bellezza e della sua bontà e per fare innamorare del buono e del bello Assoluto gli spiriti soverchiati dalla forza degli istinti deviati da false immagini di bene.
h – dell’arte, che presentando il vero e il buono in forme splendide, ed attraenti educa ed eleva lo spirito.
i – della Chiesa, che è la società in cui vengono organizzati e nutriti spiritualmente i cristiani.
l – dell’impero, che è la società in cui i cristiani sono organizzati ed assistiti nel raggiungimento dei loro fini terreni, ed avviati attraverso la pace e il benessere temporale, verso i fini soprannaturali.
Questi due ultimi mezzi muovono l’uomo dall’esterno, con la disciplina religiosa e politica che gli impongono esternamente, così lo aiutano a saper ben valersi di tutti gli altri mezzi che operano dall’interno. In forza di questa concezione che riallaccia a Dio la vita dell’uomo e rapporta al problema religioso e morale tutti gli altri problemi, gli intellettuali del Medioevo, particolarmente Dante, si occupano di filosofia, di teologia e di tutte le altre attività dello spirito che hanno rapporto con la filosofia e la teologia.
È raro perciò trovare, nel Medioevo, un intellettuale che non abbia una buona cultura letteraria, scientifica, giuridica, filosofica e teologica. Non fa meraviglia che Dante abbia rivolto la sua attenzione a svariati problemi e di essi si sia interessato non con la superficialità di un dilettante, ma con l’impegno serio di chi sa che non avrà una formazione spirituale sufficiente finché non avrà risolto i problemi più importanti riguardanti la vita umana. Perciò l’Alighieri si preoccupò dei problemi teologici, filosofici, giuridici, politici, morali, scientifici, psicologici, letterari, e lo soddisfacevano le soluzioni date ad essi dal pensiero contemporaneo, specialmente dal tomismo. Inoltre egli ha cercato:
a – di chiarire le varie questioni fino ad eliminare, nei limiti delle sue possibilità, ogni dubbio, cosicché nel suo intelletto tutto fosse chiaro, tanto nel campo della ragione che in quello della fede; né si trova nel suo spirito alcuna traccia di scetticismo o di incertezza.
b – di approfondire i vari problemi cogliendone i motivi fondamentali ed osservandone l’estensione ai vari aspetti della vita individuale e collettiva, cosicché evita il superficialismo caratteristico dei dilettanti che fanno un po’ di tutto; ma non sanno fare, bene, niente.
c – di elaborare le cognizioni in modo che diventino persuasioni, convinzioni che alimentino lo spirito e non restino alle condizioni di pura erudizione ornamentale, fredda e priva di ogni funzione vitale.
d – di dare unità alle soluzioni dei vari problemi, rapportandoli a Dio, cioè unificando la sua cultura in un inquadramento religioso di tutto il reale.
Riassumendo le caratteristiche della cultura di Dante, si notano la vastità, la chiarezza, la profondità e serietà, la convinzione e l’unità.
2) Il mondo affettivo dell’Alighieri.
Il temperamento dell’Alighieri è impulsivo e veemente, il suo cuore sente con ardore tutti gli svariati affetti. Sarebbe stato un uomo affettivo turbinoso e scomposto, se non fosse venuto a disciplinarlo e ad illuminarlo l’intelletto con il suo vigore e la serietà razionale.
Nell’animo dell’Alighieri si verifica una intercomunicazione meravigliosa fra intelletto e sentimento, le idee passano nel mondo affettivo e diventano convinzioni appassionate, gli affetti sono illuminati dalla luce dell’intelletto e diventano passioni ideali. Così la verità è professata con entusiasmo e con ardore, e la vigoria del temperamento impulsivo viene incanalata verso il vero e il bene ed è messa a servizio delle idealità superiori.
Il poeta sentì in modo vivace e intelligente l’amore mistico e anche l’amore sensuale per la donna “pietra”(simbolo), sentì odio per i malvagi e per i suoi nemici personali (ad esempio Bonifacio ottavo) e provò disprezzo per i vili, i vanitosi e gli ignavi (Filippo Argento); sentì pietà per le sciagure materiali e morali dell’uomo (Paolo e Francesca; Ciacco; Pier della Vigne); sentì la gioia della verità e del bene, come sentì anche il disagio della vita nel peccato. Fu comprensivo ed intollerante, superbo ed umile, vagheggiatore appassionato di tutte le forme di virtù, ed esperto delle debolezze umane. Insomma il mondo affettivo dell’Alighieri è vastissimo e densissimo: i più svariati sentimenti del cuore umano furono da lui vissuti con virile intensità.
I momenti dell’evoluzione del suo mondo affettivo sono principalmente tre: anzitutto la giovinezza riscaldata ed illuminata dal sole dolcissimo di Beatrice, piena di gaudi sereni nell’amore e di soddisfazioni nell’arte di cui è espressione la “Vita Nova”; poi il periodo tempestoso delle lotte politiche esterne e delle passioni intime, (periodo della “selva oscura”) durante il quale rivela la sua impulsività e la sua fierezza quasi barbarica; ed infine il periodo dell’esperienza matura, dell’ascesi meditativa ed eroica durante il quale rivive, con mentalità superiore, i ricordi del passato ed esercita il suo spirito nell’acquisizione di uno stile che lo prepari alla vita fra i Beati nella “candida rosa”.
Così dalla gentile e luminosa spiritualità giovanile, passa a quella tempestosa e tenebrosa della prima virilità, e giunge a quella pacata, seria e ardente degli ultimi anni di vita, nei quali compose la divina Commedia. In tutti le tre fasi troviamo la caratteristica della “affettività vigorosa e lucida”.
3) L’energia volitiva
In forza dell’agile intercomunicazione tra le sue facoltà dello spirito, l’Alighieri non poteva arrestare la passione nel mondo del sentimento, ma la trasferiva immediatamente nella vita vissuta e ne faceva programma per la sua indomita volontà.
Il vero e il buono non sono stati oggetti di pura contemplazione intellettuale, né di ozioso sentimentale vagheggiamento affettivo, ma costituiscono programmi di azione per la volontà, nella quale va a confluire tutto il moto dello spirito. L’Alighieri ebbe dalla natura una volontà indomita con cui servì eroicamente l’ideale, opponendosi anzitutto alle meschinerie ed alle riluttanze della sua natura ed alla malignità degli uomini o all’avversità della fortuna.
Si troverà, in seguito, nel Petrarca, l’uomo che vuole e non vuole, l’uomo che non sa decidersi; e nell’Alighieri troviamo l’uomo d’acciaio, il lottatore. Negli ultimi anni della sua vita, egli ebbe la sensazione di essere una specie di profeta mandato da Dio a illuminare l’umanità cristiana in crisi. Di questa missione e gli si fa dare l’investitura dell’eroico Cacciaguida e da san Pietro, e per essa egli è deciso ad affrontare le reazioni della parte avversa dell’umanità.
4) L’azione
Tanta è l’energia, nella spiritualità dell’Alighieri, che il programma, una volta formulato, non resta nel mondo dei progetti. È naturale che come uomo dall’intelletto vivace e sicuro, dal sentimento ardente, dalla volontà vigorosa, egli sia anche l’uomo d’azione.
L’ Alighieri nel periodo della giovinezza, da stilnovista, partecipava a due imprese militari: alla battaglia di Campaldino e all’assedio del castello di Caprona. Dal 1295 egli era iscritto all’arte degli speziali; nel 1300 fu priore della città di Firenze; nel 1301 fu ambasciatore a Roma ove conobbe Bonifacio ottavo e trattò con lui; nel 1302 fu bandito in esilio e fino al 1304 insieme con altri fuoriusciti fiorentini, prese parte a numerosi tentativi per ritornare in patria; e da questo anno 1304 si distaccò dalla “compagnia malvagia e scempia “ e andò vagando, fino alla morte, attraverso varie parti dell’Italia e provò “ quanto sa di sale lo pane altrui e come è duro calle lo scendere e il salire l’altrui scale” (Paradiso XXII, 58-60). Quando nel 1310 scese in Italia Arrigo VII, con il proposito di restaurare l’autorità imperiale, Dante cercò in vari modi, con gli scritti e con l’azione, di appoggiare l’opera del pacificatore nel quale vedeva una garanzia di felicità per l’Italia discorde e tempestosa. Il programma di Arrigo fallì e allora l’Alighieri pensò di contribuire alla rinascita della “ respublica christiana” e specialmente dell’Italia con la sua Commedia che fu la più efficace e la più gloriosa delle imprese di Dante.
Dall’esercizio della vita attiva e specie dall’esperienza dell’esilio l’Alighieri trasse i seguenti vantaggi:
a ) Ebbe modo anzitutto di sperimentare direttamente la psicologia umana e di rendersi conto in modo tangibile dei bisogni spirituali dei suoi contemporanei; conobbe varie forme di vita e fu in grado di descriverle con concretezza ed evidenza.
b ) Rafforzò i suoi ideali e le sue decisioni, o li corresse a contatto con una realtà che suggeriva maggiore prudenza e calma; smorzò le angolosità aspre di certi suoi atteggiamenti spirituali.
c ) Imparò ad essere intransigente contro i maligni, ma comprensivo con i deboli; intollerante con gli egoisti, e pietoso con i generosi soverchiati talvolta dalle passioni.
d ) Ampliò gli orizzonti del suo spirito e le finalità dei suoi programmi, superò i limiti della sua vita individuale, quelli della città di provenienza, e venne a contatto con l’umanità intera.
L’esilio, distaccandolo dalla famiglia e da Firenze, lo rese profeta di tutta la “ respublica christiana.“ Sotto questo aspetto si può dire, che nella vita di Dante, l’esilio gli sia stato provvidenziale. Comprese la necessità di principi religiosi, morali e politici ben definiti, su cui basare la vita pratica individuale e collettiva: Comprese come si inseriscono le soluzioni teoriche nelle esigenze concrete della storia. La meditazione filosofica, teologica e politica non costituiva solo un rifugio ideale per lui esule, ma un alimento sostanzioso della sua azione. Pensiero ed azione formavano il binomio inscindibile del programma dell’Alighieri: l’ideale e il reale diventavano una cosa sola e la poesia dell’Alighieri ebbe il grande vantaggio di poter esprimere pensiero, passione e vita in una sintesi lucida e concreta, più unica che rara.
In conclusione, la spiritualità dell’Alighieri è la più complessa ed unitaria, è la più illuminata ed appassionata che sia stata registrata nella storia della letteratura italiana. L’espressione di questa spiritualità è la “Commedia” in cui i motivi e i problemi più svariati sono svolti con ispirazione chiara, con ardore di sentimento, di fantasia ricca e concreta, con linguaggio pieno ed efficace.
La Divina Commedia.
L’Unità dell’opera “la Divina Commedia”
Con il pretesto di descrivere il suo viaggio ultramondano – dice qualche critico – l’Alighieri ci ha parlato di quel che ha voluto. Sebbene egli si sia sforzato di dare un certo ordine esteriore ai vari argomenti, tuttavia manca nella Commedia una vera e propria unità; cioè manca un fulcro di ispirazione a cui si riallaccino i vari motivi trattati, una sorgente da cui emanino, sebbene in modi diversi, i singoli episodi e le svariate rievocazioni in cui si articola la materia dell’immaginario viaggio.
A questa osservazione di critica si può rispondere:
1) Il poeta ha voluto rappresentare i tre regni dell’oltretomba, cioè ha voluto darci di essi un’idea esatta il più possibile: ebbene, al termine della lettura delle singole cantiche, noi abbiamo un concetto assai vivo e completo di ognuno dei tre regni ultramondani. Questa unità ci indica che il poeta ha svolto bene le tre parti del suo poema. Ad esempio, se l’Alighieri ci dà un’idea dell’Inferno sufficiente o addirittura esatta, a noi interessa poco di quali mezzi egli si sia servito (viaggio o altro) basta che il fine sia stato raggiunto. Come dire che se un critico, per trattare gli stessi termini, sa proporre un mezzo più efficace, ossia più idoneo a realizzare l’unità della composizione, si provi a far meglio di Dante.
2) Il tema vero della Commedia non è né il viaggio di Dante, né la descrizione dei tre regni ultramondani, ma è la vita umana osservata e giudicata da un punto di vista extra temporale, eterno e assoluto, cioè la storia umana interpretata con la mentalità mistica del Medioevo. I personaggi dell’oltretomba danno al poeta l’occasione di rievocare e di giudicare la vita terrena, e la concretezza della storia dà più verosimiglianza alla materia oltremondana: il vero soggetto del poema è, quindi, l’umanità, e il tema del viaggio con i suoi spunti descrittivi non sono che mezzi per illustrare poeticamente quel tema.
3) Qualcuno afferma che l’unità della Commedia è garantita dal personaggio principale del poema che è l’Alighieri stesso, il quale è sempre presente in tutti i momenti dello sviluppo con la sua costante fisionomia spirituale. Ma questo argomento non sembra assai probativo, perché è la stessa osservazione dei critici, ripetuta senza confutarli. Infatti, se i critici dicono che il motivo di un viaggio non dà unità ad episodi, a rievocazioni, a considerazioni slegate e senza rapporto di struttura fra loro, non è legittimo rispondere che l’unità sia garantita dal fatto che il relatore del viaggio è la stessa persona che ha udito e veduto quello che è narrato. Tanto meno è opportuno considerare come fattore di legame l’unità di tono, cioè l’immutabile mentalità e lo stile del poeta protagonista. L’unità di tono non è l’unità di contenuto. Si tratta di due cose che per quanto connesse fra loro, sono tuttavia distinte.
Dante poeta nazionale.
Per poeta nazionale intendiamo lo scrittore il quale sia esponente della mentalità, degli interessi, della civiltà del popolo a cui appartiene. In questo senso Dante è poeta nazionale per vari motivi:
a) Dante, come ha interpretato i bisogni di tutta la “respublica christiana”, ha particolarmente sentito la preoccupazione dei bisogni dell’Italia da lui definita “giardino dell’impero”.
Egli vede la causa delle sciagure dell’Italia nelle discordie, vedi la causa delle discordie nei vizi umani e particolarmente in “superbia, avarizia, invidia” e vede la causa del diffondersi di questi vizi nel fatto che l’imperatore trascura il suo compito di reggere i popoli cristiani e specialmente il popolo prescelto da Dio a collaborare con l’autorità suprema, cioè il popolo cristiano; inoltre la causa nel fatto che il potere spirituale è profanato dal pontefice con impegni temporali e cupidigie terrene: “pensa ‘n terra non è chi governa
onde si svia l’umana famiglia”.
(Parad. C.XXVII vv.140-141)
L’invettiva del canto sesto del Purgatorio contro l’insensatezza degli italiani, contro l’invadenza mondana del pontefice e contro la neghittosità dell’imperatore, è indice della passione patriottica dell’Alighieri. Egli ha dinanzi a sé il quadro di tutta l’umanità cristiana, tuttavia Firenze e l’Italia lo angustiano fino ad essere per lui una specie di incubo:
E se già fosse, non sarìa per tempo:
così foss’ei, da che pur esser dee!
Ché più mi graverà com’ più m’attempo.” Inferno XXVI vv.10-12
b) Gli episodi, le rievocazioni, gli esempi della Commedia sono in gran parte tratti dalla storia italiana, cosicché il poema potrebbe definirsi un commento poetico alla storia della nostra vita nazionale nel Medioevo.
c) Dante, come poeta, è stato il primo grande maestro di rettitudine, di giustizia e di magnanimità al popolo nostro sia con la parola, sia con l’esempio. In una lettera in cui egli esorta gli Italiani ad accogliere, come esige la disciplina civica della “respublica christiana”, l’imperatore Arrigo, dopo aver ricordato loro che essi sono i cittadini imperiali per eccellenza, dice che debbono adottare nella loro vita uno stile imperiale, cioè di disciplina, di nobile passione per il bene privato e pubblico. I rimproveri sdegnosi e talvolta crudi che egli rivolge ai suoi connazionali non sono dettati dal disprezzo, ma dall’amarezza del suo cuore onesto, disgustato dalle lotte inutili e sanguinose in cui gli italiani si disonorano e si rovinano.
d) Dante è stato il primo e il più geniale elaboratore della nostra lingua, nel senso che ha raffinato e arricchito il dialetto fiorentino, valendosi della sua ottima conoscenza del latino, del provenzale, del francese e della lingua aulica dei Siciliani e dei tentativi linguistici dei Guittoniani, in modo tale che ha fornito agli scrittori successivi un patrimonio linguistico per esprimere gli atteggiamenti più svariati dello spirito.
Non si nega che gli scrittori posteriori a Dante, specie il Petrarca e il Boccaccio, abbiano contribuito efficacemente ad arricchire e a perfezionare la nostra lingua, ma il più grandioso esperimento linguistico è stato, senza dubbio, quello dell’Alighieri. Più tardi gli umanisti fanatici cultori della lingua latina aulica, spregiano la lingua di Dante; ma il fatto che i lettori, anche di modeste conoscenze linguistiche, sono riusciti nel passato e riescono oggi ad intendere il senso letterale (almeno delle due prime cantiche) sta a testimoniare che la lingua dell’Alighieri è la lingua adatta per la gran parte degli italiani, e il fatto che i dotti trovino ancora nella lingua del Paradiso forme elevate e geniali, sta a testimoniare che la Divina Commedia può offrire il piacere di un linguaggio complesso e artistico anche alle persone più esigenti.
e) L’Alighieri è espressione tipica del genio della nostra stirpe caratterizzata dall’armonia tra profondità e facilità, tra complessità e chiarezza, tra intelletto e fantasia. Il genio latino, e quindi quello italiano, è famoso per l’equilibrio delle facoltà interiori, con evidente tendenza alla praticità, cioè a porre tutte le attività interiori al servizio della vita vissuta.
La perfetta intercomunicazione tra l’intelletto, il sentimento, la volontà e l’azione nell’Alighieri, è indice della sua armonia spirituale. Quanto alla tendenza pratica della sua mentalità e della sua arte, basta ricordare che egli scrisse non tanto per dilettare i lettori, né per dimostrare la sua bravura letteraria, ma per portare “vital nutrimento” alle animi. La Divina Commedia, sintesi perfetta di pensiero e di vita, di logica intellettuale e di vigoria fantastica, è l’espressione più significativa della concretezza ottimale del genio latino
L’Alighieri, inoltre, anche come cittadino si sente schiettamente italiano: ricco di passioni e nello stesso tempo ragionevole, acceso di risentimento contro i suoi concittadini e sdegnoso contro le loro offerte umilianti per un suo ritorno, eppure capace di dichiarare apertamente che sente la nostalgia del “bell’ovile ove dormì agnello” e che desidera la corona d’alloro nel suo “bel S. Giovanni”. Egli segue le sciagure di Firenze con trepidazione quasi di incubo. E il disordine e il malcostume della città natale lo preoccupano come se si trattasse del suo stesso onore. Questo stile civico di deplorare e di criticare aspramente i concittadini, non per malevolenza, né per vendetta, ma per amore della patria che vorrebbe perfetta e vede invece compromessa e rovinata dalla malvagità di pochi, sarà caratteristico della patriottismo italiano, da Dante al Petrarca, al Machiavelli, al Parini, al Foscolo, al Leopardi, al Carducci.
Dante può essere considerato come espressione genuina della nostra stirpe per l’universalismo della sua spiritualità. Gli italiani, per l’influsso della tradizione universalistica di Roma, e in modo particolare per la mentalità cattolica che permea la loro civiltà e la loro storia, sono tra i popoli d’Europa i più inclini a ideare e propugnare gli organismi sociali a carattere internazionale e a collaborare con tutti i popoli per il progresso della comune civiltà.
Dante fu il poeta di tutta l’umanità, in quanto fu il poeta della Chiesa e dell’Impero, cioè dei due istituti che egli considerava creati dalla divina Provvidenza per affratellare, pacificare e potenziare i popoli cristiani.
È appunto questa visuale vasta che, oltre ai motivi eternamente attuali in essa contenuti, fa della sua Commedia un’opera che interessa non solo gli italiani, ma l’umanità in generale.
Dal “Convivio” alla “Commedia”.
L’Alighieri nei primi tre anni dell’esilio, per risollevare la dignità della sua persona umiliata dalla sventura, si propose di dar saggio della sua cultura e delle sue capacità artistiche e decise di comporre il “Convivio”, un complesso di trattati costituiti, ciascuno, di una canzone e di un commento a questa in prosa, in cui fossero esposte le teorie più comuni intorno ai più importanti problemi di filosofia e di scienza. Tuttavia, arrivato al quarto trattato, l’Alighieri interruppe il suo lavoro, e lo fece, con molta probabilità, perché il Convivio, così come era stato ideato, non lo soddisfaceva. Infatti il convivio presentava i seguenti difetti:
1) l’opera risultava slegata, in quanto fra l’uno e l’altro trattato non v’era alcun legame né interiore, né esteriore;
2) l’esposizione rimaneva nel campo teorico e non prendeva contatto con la vita dell’umanità;
3) la forma rimaneva costretta nello stile arido del didascalismo: le verità erano sviluppate come in un ragionamento in versi; era reso quasi impossibile l’intervento della fantasia e del sentimento;
4) non poteva realizzare la promessa, fatta al termine della sua opera “Vita nova”, di esaltare Beatrice in modo degno della beatissima;
5) in una esposizione didascalica più o meno oggettiva e impersonale, il poeta non poteva presentarsi direttamente con il complesso delle sue passioni, delle sue aspirazioni, dei suoi programmi di rigenerazione personale e universale; non poteva rivendicare il suo onore umiliato dagli avversari e messo in dubbio da chi ancora non lo conosceva a fondo.
Insoddisfatto dal “Convivio”, il poeta ideò allora la sua “Commedia” la quale veniva benissimo incontro alle esigenze della sua spiritualità quale gli era venuta maturando in seguito alle esperienze e alle meditazioni dell’esilio, da quando aveva imparato a pensare concretamente, a cogliere l’ideale nel reale, a rapportare la vita alla verità, ad inquadrare i suoi problemi personali nel grandioso complesso dei problemi dell’umanità. La “Commedia” offriva all’Alighieri innumerevoli vantaggi dal punto artistico:
1) Anzitutto presentando il quadro dell’umanità che ha rifiutato la verità e il bene assoluto nell’Inferno, il quadro dell’umanità che pigramente si è dedicata al servizio del vero e del bene nel Purgatorio, e il quadro dell’umanità che con slancio ha militato sotto la bandiera dell’Assoluto nel Paradiso, il poeta ha modo di illustrare la storia terrena, rievocata nel mondo extra temporale, con la luce delle verità teologiche, morali, filosofiche, scientifiche.
Così i problemi inscritti in questi tre quadri della vita umana, (fuori dalla loro astrattezza) vengono ricollegarti concretamente alla vita vissuta; così la sapienza cessa di essere erudizione per passare al servizio della vita; così gli ideali religiosi e morali sono colti nel loro sviluppo storico, nelle loro crisi e nelle loro vittorie; e si evita la solitaria meditazione in un mondo astrattamente dottrinale.
2) L’esposizione delle verità può assumere le forme più svariate, tutte le forme, eccetto quella “raziocinativa” astratta: la verità è trasfusa nelle descrizioni dei luoghi, nella psicologia dei personaggi, nella distribuzione delle pene e dei premi, negli accenti vivaci delle invettive, nelle rievocazioni storiche e in quelle leggendarie. E il poeta penetra nell’intelligenza del lettore attraverso le vie della fantasia e del cuore.
3) Beatrice promuove la salvezza del suo fedele e lo eleva fino a Dio, diventa maestra di alta sapienza, attira lo spirito del poeta dall’atmosfera soffocante della terra e lo conduce a spaziare nelle regioni della verità e dell’amore, delle quali ella conosce i segreti e nelle quali si muove con sicurezza ed agilità.
Così l’Alighieri, divenuto edotto, può soddisfare le esigenze del suo cuore che brama vagheggiare sì la donna bella, ma soprattutto vivace di spirito e sapiente; così il sentimento dell’amore diventa sapienza e la sapienza diventa amabile quasi ripetendo la vecchia concezione di Platone.
4) Incontrandosi con i personaggi che concordano con le sue idee o sono a lui avversi, il poeta ha la possibilità di mettere in evidenza il suo modo di pensare, le sue aspirazioni, i suoi odi, le sue simpatie, ed ha possibilità di rivendicare l’onore della sua persona umiliata dalle condanne. La sua liberale comprensibilità, la sua vivace fierezza, la sua magnanimità sdegnosa, i suoi entusiasmi, le sue sublimi aspirazioni possono essere messe bene in evidenza in colloqui che assumono i toni ora aggressivi, ora solenni, o estatici. Da Brunetto, da Cacciaguida, da san Pietro, da san Giacomo, da san Giovanni si fa elogiare come perfetto cittadino e come perfetto cristiano, e spesso, incontrandosi con i cittadini di Firenze e parlando della patria sua, mette chiaramente in luce la sua innocenza, la sua rettitudine, e il suo amor di patria.
Dante nei tre regni.
La Divina Commedia descrive il viaggio di purificazione e di elevazione compiuto dall’Alighieri dalla selva oscura fino a Dio.
La purificazione avviene attraverso tre gradi:
1)- l’orrore del peccato suscitato dalla visione della tremenda punizione a cui sono sottoposti i peccatori;
2)- la detestazione dello stile del peccato che si rivela, ad un dato momento. Come stile irrazionale e meschino;
3)- l’assimilazione di uno stile razionale, la conquista della libertà interiore, l’armonia delle facoltà.
La fase della purificazione comprende due momenti: uno negativo nell’Inferno in cui il poeta concepisce orrore della colpa per la paura della pena; un secondo momento positivo nel Purgatorio, quando il poeta smentisce il peccato come irrazionalità, si libera da esso come da un impaccio che affatica e logora la vita, aderisce spontaneamente e sinceramente alla virtù.
Nell’inferno Dante compie il primo passo della purificazione in quanto concepisce l’orrore del peccato, alla vista delle tremende pene con cui esso è punito.
Nel Purgatorio ascolta le anime che sconfessano le forme irrazionali e deplorevoli della loro vita terrena, e allora egli smentisce certe forme deplorevoli della sua vita personale, a cui per irrazionalità è attaccato; e nello stesso tempo ascolta le anime che esaltano la virtù ed anelano a soffrire per poter realizzare la loro unione con Dio. Dante acquista un criterio di valutazione delle cose umane del tutto improntato alla saggezza, alla prudenza, alla nobiltà. Così al termine del Purgatorio viene proclamato da Virgilio re e pontefice di se stesso, persona libera.
“Tratto t’ho qui con ingegno e con arte;
lo tuo piacere omai prendi per duce:
for se’ dell’erte vie for se’ delle arte.”
(Purgatorio XXVII vv, 130.132)
“Non aspettar mio dir più né mio cenno;
Libero, dritto e sano è tuo arbitrio,
e fallo fora non fare a suo senno:
perch’io te sopra te corono e mitrio.” ( Ivi vv. 139-142)
Il poeta che andava cercando la libertà finalmente è riuscito a liberarsi da tutte le forme dell’irrazionalità sotto la guida di Virgilio. Allo stile irrazionale della mente e del cuore e della volontà, ora subentra una forma spirituale di interiore chiara razionalità, che permette allo stesso poeta di aderire al bene senza difficoltà, cioè con libertà piena. Il mondo interiore del poeta, purificato, è sistemato in armonia: la ragione indica la strada, il cuore la intraprendente con entusiasmo, la volontà lo percorre con decisione: ogni moto interiore è agile e pronto.
Virgilio può quindi annunciare con piacere al suo discepolo, nell’atto di lasciarlo, che ormai egli è re e pontefice di sé stesso e non ha più bisogno di guida; ossia che egli, e in forza della sua razionalizzazione, è divenuto “persona”, cioè uomo capace di dirigere il suo mondo interiore, senza risentire più di alcun influsso deviante. Così si compie il perfezionamento “naturale” del poeta, in quanto egli realizza la sua vera natura di uomo che è la razionalità. È da ricordare che tale perfezionamento avviene sotto la guida di Virgilio che è simbolo della ragione e quindi della filosofia. L’elevazione si realizza attraverso:
a) la conoscenza della grandiosità del reale alla luce della sapienza divina;
b)- inoltre attraverso l’amore di Dio, cioè la concordanza dello spirito umano con il bene sommo.
Nel Paradiso, a colloquio con i beati che tutto sanno perché vedono in Dio ogni genere di verità, il poeta è illuminato specialmente da Beatrice, dolce e cara guida. E Dante spazia con l’intelletto nel mondo vastissimo dell’essere, ne scorge l’ordine, si sente inondato da una gioia ineffabile, non cura più la terra che gli pare “globo dal vil sembiante”, non vede l’ora di completare il suo cammino terreno per cenare alle “nozze dell’agnello”.
Infine dopo aver spaziato per lo “gran mare” dell’essere finito, egli può fissare il suo occhio nell’essere infinito in cui scorge il mistero della Trinità e dell’incarnazione. A questa visione suprema dell’intelletto è connessa una tale infusione dell’amore che egli, al termine della visione, si sente investito da quel ritmo grandioso di ordine e di armonia con cui si muove l’universo che è l’espressione più evidente di Dio nel creato.
“Ma già volgeva il mio desio e il velle,
sì come rota ch’igualmente è mossa,
l’amore che move il sole e l’altre stelle.
(Paradiso XXXIII, 143-145).
Come la razionalizzazione della volontà cioè la conquista del dominio di se stesso o l’affermazione della personalità, ha costituito il termine del perfezionamento naturale, sotto la guida di Virgilio, così la trasumanazione della volontà per opera dell’amore divino che permea e vivifica lo spirito del poeta, costituisce il termine del perfezionamento soprannaturale sotto la guida di Beatrice. Come si vede, tanto il perfezionamento naturale, quanto quello soprannaturale, si concludono nella volontà la quale è mossa dalla ragione al termine della prima fase, e parimenti è mossa dalla grazia al termine della seconda fase. Nella volontà, infatti, cioè nell’azione (secondo San Tommaso e Dante) si conclude ogni moto dello spirito; e ciò sta ad indicare che la sapienza filosofica (simboleggiata da Virgilio e acquistata nelle fasi di purificazione e di razionalizzazione attraverso l’Inferno e il Purgatorio), e la sapienza teologica (simboleggiata da Beatrice e acquistata nella fase di elevazione soprannaturale attraverso il Paradiso) non hanno fine a se stesse ma sono al servizio della vita.
È in conclusione Dante nell’Inferno concepisce orrore del peccato per paura delle pene; nel Purgatorio deplora il peccato come stile irrazionale, ed acquisisce lo stile della virtù. Nel Paradiso, libero da impacci irrazionali, spazia per l’infinito ed acquisisce lo stile del pensiero e della volontà che sono propri dei cittadini del regno di Dio, cioè stile soprannaturale.
La Divina Commedia – contenuti.
La “Divina Commedia” di Dante Alighieri è un poema narrativo, lirico, didascalico in cui vengono presentati i tre regni dell’oltretomba che il poeta stesso immagina di aver visitati.
Secondo quanto lo stesso Dante scrive nel “De Vulgari Eloquentia” la sua opera è intitolata “Commedia” perché la narrazione inizia con visioni tristi, paurose, e termina con visioni liete e consolanti, inoltre perché essa presenta varietà di motivi, e di toni sia nell’ispirazione che nel linguaggio, motivi tristi e lieti, tragici e comici, orridi e sereni, toni patetici e sdegnosi, solenni e umili, gioviali e appassionati.
Il linguaggio è il volgare ilustre e il volgare popolare.
Secondo l’Alighieri, ogni narrazione che abbia inizio triste e fine lieto è variata nei motivi, nei toni, nel linguaggio e da lui viene definita “commedia”. Inoltre l’aggettivo “divina” fu attribuito, a questa opera dantesca, dal Boccaccio nel trattatello intitolato “In laude di Dante”. E le prime edizioni a stampa, del secolo XVI, alla parola “Commedia” aggiunsero “divina”.
Contenuto.
1 ) La Commedia è il poema in cui viene esaltato Dio, come centro di tutto il reale e vengono illustrati i mezzi di cui si avvale la sua Provvidenza per attrarre a sé le creature umane.
Nell’Inferno, nel Purgatorio, nel Paradiso, sulla terra e nei cieli, si sentono l’onnipotenza, la sapienza, la giustizia e la bontà di Dio il quale, come “Motore immobile”, luce inaccessibile, dirige, dal suo sublime Mistero, il movimento del reale con uno stile grandioso e perfettissimo, sia quando effonde il suo sdegno contro i ribelli, sia quando inonda di dolcezza e di luce i fedeli.
La Provvidenza ha disposto vari e meravigliosi mezzi per attrarre a sé l’uomo. Di essi alcuni operano dall’interno, altri dall’esterno.
Forze che operano dall’interno. Impulsi e le luci vengono allo spirito dell’uomo direttamente da Dio per mezzo della grazia preveniente ed illuminante. Sono luci che rivelano il bene sommo e il rapporto che lo legano all’uomo, provengono dalla Rivelazione elaborata e resa accessibile dalla teologia, di cui è simbolo Beatrice. Altre luci vengono all’uomo dalla ragione rettamente sistemata entro le forme della filosofia, di cui è simbolo Virgilio. E altre luci, infine, vengono all’uomo dalla scienza, che gli rivela l’ordine mirabile dell’universo materiale, opera della sapienza creatrice dell’altissimo.
Le inclinazioni naturali e le norme morali orientano l’uomo nel cammino che più direttamente e più facilmente va verso il suo ‘porto’ che è l’Empireo. Queste luci intellettuali e norme morali non sono sufficienti a sollevare l’uomo a Dio. Il sollevamento è opera dell’amore e la donna-Angelo, come Beatrice, guida “le ali per l’alto volo”(Paradiso XXV,50).
L’Arte fonde (nella parola o nel colore o nelle forme o nel suono) la luce del vero ed il caldo dell’amore. Essa, in forma intuitiva, sintetizza le energie nascoste nelle mirabili realtà provvidenziali, solleva lo spirito umano ad un’atmosfera ideale, lo “trasumana”, in quanto rende visibile all’uomo l’infinito nel finito.
Forze che operano dall’esterno. Dio ha costituito la Chiesa come guida autorevole delle anime e questa associa sulla terra i figli di Dio in una organizzazione in cui essi trovano gli alimenti soprannaturali e le sollecitazioni per camminare diretti verso la Meta ultima.
In collaborazione con la Chiesa, ma in una sfera tutta propria, c’è l’Impero, a cui è affidato il compito di reprimere i vizi che sono le cause di tutte le sciagure individuali e collettive. L’Impero garantisce la pace e la felicità terrena dei cristiani attraverso l’uso della legge e della forza. Le creature umane, difese ed aiutate dall’Impero, hanno la possibilità di attendere con impegno e con calma alle più belle attività naturali e soprannaturali.
La Grazia, la teologia, la filosofia, la scienza, la morale, l’amore alla donna-Angelo, l’arte, l’Impero, la Chiesa sono i motivi più superbi e più appassionati della celebrazione magnifica del piano della Provvidenza.
2 ) La Commedia contiene il passaggio nei tre regni ultramondani: nell’inferno oscuro e orrido; nel purgatorio sereno, ma aspro; nel paradiso tutto luce.
3 ) Nel contenuto dell’opera si notano le condizioni degli uomini che hanno compiuto il cammino della vita e sono giunti in uno dei tre luoghi: o al luogo dove sono tutti i mali dell’universo, in quanto nel periodo della prova i dannati hanno scelto l’errore e il male, rifiutando il vero e il bene; o al luogo ove, attraverso l’espiazione e la meditazione, i salvati assimilano quello stile soprannaturale che hanno trascurato di acquisire quando erano in vita, oppure sono beati, giunti al porto dell’umanità che è la felicità dell’Empireo.
4 ) Nella Commedia Dante fa le rievocazioni di episodi storici, di leggende connesse con il ricordo dei vari personaggi che incontra nei tre regni. Per il poeta le rievocazioni non sono solo l’occasione per dar prova delle sue capacità descrittive, soprattutto gli danno motivo per giudicare e per interpretare, alla luce delle verità religiose e morali e dei principi di umanità, le azioni o turpi o lodevoli, compiute dai personaggi della storia a lui contemporanea e di quella passata o da personaggi mitologici. Non si tratta, dunque, di rievocazioni pittoriche o decorative, ossia di rievocazioni limitate a pura arte descrittiva, ma di storie e di leggende richiamate ed interpretate nel loro significato più intimo cioè nel loro significato morale ed umano.
5 ) La Commedia contiene, inoltre, il processo che l’Alighieri, spirito severo ed appassionato di giustizia, (cristiano convinto della legittimità e della bontà delle due istituzioni, del Papato e dell’Impero) intentò alle supreme autorità del mondo cristiano responsabili della rovinosa decadenza della respubblica christiana (Papi, Imperatori, Principi):
“Questo tuo grido farà come il vento,
che le più alte cime più percuote”
(Paradiso XVII, 133s)
Numerosi sono gli spunti di critica spregiudicata contro le negligenze e le cattiverie dei capi del popolo cristiano. Famosa nel canto VI del Purgatorio è l’invettiva contro il Papa e contro l’Imperatore, responsabili dei mali dell’Italia. Terribile nel canto XXVII del Paradiso l’invettiva di San Pietro contro i pontefici Bonifacio VIII, Clemente V e Giovanni XII che avviliscono la santità della Chiesa. Ma si tratta soltanto di invettive contro i titolari dei supremi poteri, perché l’autorità, in quanto tale, viene rispettata dall’Alighieri, anzi venerata come sacra. Il poeta, nel canto XIX del Purgatorio, si inginocchia davanti al papa Adriano V: ”per vostra dignitade”.(Purgatorio XIX 131) Similmente nel Purgatorio al canto XX in Bonifacio VIII, perseguitato dal re di Francia, fa riconoscere Cristo. E nel canto XXI del Paradiso, dopo aver celebrato la potestà imperiale come espressione della volontà divina e come oggetto di cure particolari da parte della Provvidenza, inveisce contro i Guelfi e contro i Ghibellini che non si vergognano di esautorarla.
Nell’antipurgatorio riserva ai principi negligenti il soggiorno nella valletta amena tra erbe e fiori per rispetto all’autorità che essi rivestirono in vita.
6 ) La Commedia contiene anche l’espressione più piena dello “stil nuovo” e si potrebbe perciò definire il poema anche “stilnovistico”, in quanto Beatrice, benché entri in azione solo negli ultimi canti del Purgatorio, è il personaggio che muove, in nome di Dio, tutta all’azione destinata a salvare il suo fedele: è lei che invia Virgilio, è lei che garantisce la riuscita del difficile viaggio e ritempra le speranze del buon duca nei momenti disperati; è lei che dà le ali a Dante per “l’alto volo” e lo conduce fino all’Empireo.
Tutti i motivi più belli e più soavi, già svolti nella “Vita Nova “, ora nella ”Commedia” vengono rielaborati, vengono interpretati alla luce di un’esperienza più profonda e più vasta e di una cultura più seria e più solida, vengono inquadrati in una visione, più serena e più completa, delle realtà umane, naturali e soprannaturali. Beatrice non è soltanto la donna che beatifica con il suo sorriso e con il saluto, è anche colei che salva il poeta che l’ama tanto (Inferno II,104). “Tu m’hai di servo tratto a libertà” (Paradiso XXXI,85). E’ la donna sapiente che insegna verità naturali e soprannaturali; la donna saggia che si è impegnata ormai al trionfo della verità e del bene cioè del regno di Dio, lei alimenta e fortifica in Dante la preoccupazione di impegnarsi per il risanamento della “respublica christiana”; lei è, infine, madre pietosa,
“ond’ella, appresso d’un pio sospiro,
li occhi drizzò ver me con quel sembiante
che madre fa sovra figlio deliro” (Paradiso I, 100-102).
Tuttavia la caratteristica fondamentale di Beatrice resta sempre quella di donna innamorata, di donna bella, affettuosa, la cui visione attrae, come in un’estasi, il poeta ansioso (dopo tante esperienze tempestose) di godere le ineffabili gioie dell’amore mistico, gustate nella giovinezza.
Il poeta avverte la presenza di lei nel paradiso terrestre, e sente lo sgomento che lo invade da quando giovanetto, si trovava a lei vicino; da lei si fa rimproverare come bambino cattivo rimproverato severamente dalla madre; come un amante traditore è rimproverato dalla sua donna onesta e fedele; ed egli si compiace di piangere sotto la sferza dell’aspra parola della donna giustamente risentita.
Dante, dotto in filosofia, teologia, scienza, arte, politica si compiace di ascoltare, estasiato, le spiegazioni che la sapientissima donna illustra con “sorrise parole”: la scienza e l’amore realizzano il loro luminoso connubio nella Beatrice della Commedia. E siccome è fiamma che sorge dall’idea, l’espressione più piena e più intima dei rapporti rinnovati fra Dante e Beatrice è costituita dai frequenti deliziosissimi incontri degli occhi innamorati:
“poscia rivolsi gli occhi a gli occhi belli” (Paradiso XXII, 154);
per che tornar con li occhi a Beatrice
nulla vedere ed amor mi costrinse.
Se quanto in fino a qui di lei si dice
fosse conchiuso tutto in una loda
poco sarebbe a fornir questa vice
La bellezza ch’io vidi si trasmoda
non pur di là da noi, ma certo io credo
che solo il suo fattor tutta la goda “ (Paradiso XXX, 14-21)
. “poscia rivolsi a la mia donna il viso,
e quindi e quindi stupefatto fui;
ché dentro a li occhi suoi ardea un riso
tal, ch’io pensai co’ miei toccar lo fondo
della mia grazia e del mio paradiso” (Paradiso XV, 32-36)
Anche lo stile e il linguaggio con cui nella Commedia viene espressa l’ispirazione amorosa sono molto più ricchi e molto più agili che nella “Vita nova.”
7 ) Dante nella Commedia è il personaggio principale: è lui che compie il viaggio immaginario nell’oltretomba di cui il poema non è che la relazione.
Nel suo viaggio il poeta conserva tutte le caratteristiche dell’uomo preoccupato da svariati problemi, agitato dalle passioni più ardenti, ricco delle esperienze più vive, oppresso dal peso morale di un esilio non meritato e dalla vergogna di dover mangiare il pane altrui e di dover scendere e salire per le altrui scale.
È naturale quindi che la sua Commedia debba essere considerata anche come poema lirico, se per lirismo intendiamo l’espressione immediata dei sentimenti dell’autore: tanto è vero che alcuni hanno detto che la Commedia potrebbe essere chiamata addirittura “Danteide”.
Il poeta ci rivela le sue simpatie e i suoi odi, la sua magnanimità, la sua elevata concezione della vita, le sue miserie morali, le sue fatiche durissime, le sue umiliazioni, le sue incertezze e le sue speranze. Ma due cose, soprattutto, egli vuol mettere in evidenza riguardo a se stesso:
a – che i suoi concittadini hanno condannato ingiustamente l’uomo più degno di Firenze, e che essendo essi deplorevoli sotto ogni aspetto, non potevano fare a meno di cacciare in esilio un discendente ormai unico, più che raro, della santa semente dei Romani. Perciò egli ha il diritto di dichiararsi “esule immerito”, “Fiorentino di nazione non di abitudini” e di affermare orgogliosamente che considera per sé un onore l’esilio datogli.
Egli approfitterà di tutte le occasioni che gli offriranno gli incontri con i più svariati personaggi per mettere in luce la sua rettitudine, il suo amor di patria, la sua innocenza, la sua dignitosa e decorosa fermezza contro i “colpi di ventura”. Più volte egli immagina di incontrarsi con i più illustri e stimati uomini di Firenze, ancor vivi nei ricordi dei loro concittadini, e ogni incontro è un confronto di sé con essi e da ogni incontro egli esce superiore, sia per la vivacità della sua personalità, sia per il suo senso di umanità, sia per la sua rettitudine, sia per il suo amor di patria.
Ma egli non è soltanto il cittadino di Firenze, è il cittadino della Chiesa e dell’Impero cioè della ‘res publica christiana’, perciò, specie nell’ultima cantica, l’ Alighieri si presenta ai lettori e a tutto il popolo, e particolarmente alle supreme autorità della ‘resa publica christiana’, come profeta inviato dalla Provvidenza divina a rigenerare, con il suo grido di rettitudine e di giustizia, l’umanità credente che sta declinando verso le forme di civiltà riprovevoli sia dal punto di vista naturale che soprannaturale.
Brunetto Latini, il suo vecchio maestro, lo rassicura che seguendo “sua stella non può fallire al glorioso porto”. Cacciaguida, per eliminare ogni sua incertezza, per incoraggiarlo ad affrontare le durezze dell’esilio e le reazioni delle coscienze fosche, gli preannuncia l’immortalità e gli fa vedere l’importanza morale e politica della sua opera; gli fa considerare quanto sia onorevole colpire con vento impetuoso le cime più alte.
Nel canto XXVII del Paradiso Dante si fa affidare da San Pietro l’incarico di smascherare le colpe degli ecclesiastici e di invitare le alte gerarchie della Chiesa ad attendere con piena dedizione alla guida del popolo cristiano:
“ e tu, figliuol, che per lo mortal pondo
ancor giù tornerai, apri la bocca,
e non asconder quello ch’io non ascondo.” (64-66)
b – L’Alighieri, inoltre, spirito sincero e forte, più volte nella Commedia si confessa pubblicamente, si critica e si umilia, con la stessa magnanimità con cui riconosce le straordinarie doti di natura e i doni della Grazia a lui concessi:
“ non pur per ovra delle rote magne,
ma per larghezza di grazie divine
questi fu tal nella sua vita nova
virtualmente, ch’ogni alito destro
fatto avrebbe in lui mirabil prova .
(Purgatorio XXX, 109\112;115\117)
“ o gloriose stelle, o lume pregno
di gran virtù, dal quale io riconosco
tutto, qual che si sia, il mio ingegno” (Paradiso XXII, 112\114)
“se per questo ceco
carcere vai per altezza d’ingegno” (Inferno X, 58-59)
“o Muse, o alto ingegno, ora m’aiutate” (Inferno II, v.7)
“all’alta fantasia qui mancò possa”
(Paradiso XXXIII,142)
Nel canto IV dell’Inferno immagina di essere accolto amorevolmente dai grandi poeti dell’antichità a far parte del gruppo loro, sicché si dice “sesto tra cotanto senno” (v.102). Con la stessa franchezza con cui egli dichiara le sue doti, confessa anche le sue colpe:
“ le presenti cose
col falso lor piacer volser miei passi,
tosto che il vostro viso si nascose”
(Purgatorio XXXI, 34-36)
Egli riconosce di essere superbo e già prevede che nel Purgatorio dovrà fare lunga sosta nel girone dei superbi:
“ tuo vero dir m’incora
Bona umiltà, e gran tumor m’appiani” (Purgatorio XI, 118-119)
“ Troppa è più la paura ond’è sospesa
l’anima mia del tormento di sotto,
che già lo ‘ngarco di la giù mi pesa”
(Purgatorio XIII, 136-138)
In tutto il Purgatorio il poeta assume gli atteggiamenti interiori ed esteriori del penitente contrito ed umiliato: egli riconosce di essere uno schiavo che va cercando libertà.
Se, infine, il poeta riconosce di avere le tre virtù teologali: fede, speranza e carità (Paradiso XXIV- XXV- XXVI) dichiara anche che tale possesso è da attribuirsi alla grazia di Dio.
L’Alighieri, specie quando ideò la Commedia e ne condusse la composizione con una dedizione veramente eroica, ebbe la sensazione di essere un prediletto di Dio, un figlio di grazia, prescelto ad un’opera gloriosa a vantaggio dell’umanità cristiana:
“Poi che per grazia vuol che tu t’affronti
lo nostro imperatore, anzi la morte,
nell’aula più segreta co’ suoi conti,
sì che , veduto il ver di questa corte,
la spene, che di là giù bene innamora
in te e in altrui di ciò conforti.” (Paradiso XXV 40-45)
Così il carattere dell’Alighieri si rivela ammirevole e simpatico, perché cosciente dei suoi difetti e dei suoi pregi, della sublimità della sua missione e delle gravi responsabilità che la Provvidenza gli affida, umile e generoso, egli offre il contributo della sua opera al benessere della “ Res publica christiana.”
8 ) La Commedia, infine, contiene le trattazioni di numerosi problemi teologici, filosofici, scientifici, politici che in un primo tempo il poeta si era proposto di illustrare nel “Convivio”. Il fatto che Dante interruppe il Convivio significa che egli si propose di svolgere quegli stessi argomenti in un’opera che gli avesse permesso di inquadrarli in una visione piena dell’universo e in cui egli potesse presentare Beatrice come maestra di alta sapienza. Specie nell’ultima cantica, il poeta si impegna in una poesia altamente dottrinale, cosicché all’inizio si sente in dovere di avvertire i lettori di saggiar bene le loro forze prima di avventurarsi dietro la navicella del suo ingegno:
“O voi che siete in piccioletta barca,
“desiderosi di ascoltar, seguiti
“dietro al mio legno che cantando varca,
“tornate a riveder li vostri liti:
“non vi mettete in pelago, ché, forse,
“perdendo me rimarreste smarriti.
“L’acqua ch’io prendo già mai non si corse:
“Minerva spira, e conduce Apollo
“e nove Muse mi dimostran l’Orse.
“Voi altri pochi che drizzaste il collo
“per tempo al pane delli angeli, del quale
“vivesi qui, ma non sen vien satollo,
“metter potete ben per l’alto sale
“vostro navigio, servando mio solco,
“dinanzi all’acqua che ritorna equale” (Paradiso II, 1-15).
FRANCESCO PETRARCA
(1304-1374)
SPIRITUALITÀ DEL PETRARCA
Spiritualità in crisi.
L’Alighieri riassume e conclude l’epoca medioevale; dopo di lui ha inizio l’epoca che viene denominata rinascimento: ad una spiritualità mistica o religiosa, succede una spiritualità naturalistica; ad una visione soprannaturale della vita succede una visione umana; ad un programma di coinvolgimento dell’attività terrena verso il fine ultimo, cioè verso Dio, succede un programma di utilizzazione edonistica di tutte le risorse dalla terra per garantire all’uomo un soggiorno piacevole, il più possibile, in quella che i mistici avevano definito “valle di lacrime”.
L’uomo dell’epoca nuova non considera più sé stesso come pellegrino incamminato verso la patria celeste, né come combattente che si disciplina per superare gli attacchi e le resistenze del male e meritare così di partecipare alla vita divina; ma considera sé stesso come essere privilegiato cui la natura ha fornito tutte le capacità per individuare le energie della terra e utilizzarle ai fini del suo potenziamento fisico e spirituale.
Di qui lo stile meditativo e idealista, l’ansia di perfeziona, il tono vigoroso e appassionato del genio medioevale da una parte; e lo stile concreto e utilitarista e la mentalità spregiudicata, il costume elegante e vivace del genio rinascimentale dall’altra.
Non è detto che la fase religiosa della civiltà romanza cessi improvvisamente dopo la scomparsa dell’Alighieri, come non è detto che la nuova fase, cioè quella umana, della stessa civiltà si affermi in pieno con tutte le sue caratteristiche subito appena sorta: è normale procedimento della natura che tra le forme di vita che si esauriscono a quelle che da esse rinascono non vi sia soluzione di continuità o di distacco netto.
Evidentemente in quel punto della storia in cui avviene la giuntura tra la spiritualità vecchia che tramonta e la spiritualità nuova che sorge, è fatale che si verifichi una crisi, un contrasto, appunto perché due anime diverse e forse opposte, l’una senile e quindi pensierosa e preoccupata, l’altra giovanile e quindi spensierata, gaia, vengono a trovarsi di fronte.
Normalmente in questi periodi di passaggio troviamo spiritualità in cui vivono due anime in evidente contratto fra loro, incapace l’una di superare l’altra. Spiritualità di questo genere non si può dire che non abbiano una fisionomia definita, perché hanno ben chiara la forma della crisi, del dramma, e dell’incertezza. Esistono spiritualità unitarie e spiritualità in crisi o intimamente contraddittorie: non si può dire che solo le prime abbiano una fisionomia ben definita solo perché essa è più evidente e più impressionante; e che le seconde non abbiano fisionomia perché il loro mondo è in continua oscillazione: la contraddizione è anch’essa una forma spirituale ben definita e vitale quanto quella a struttura unitaria.
Secondo alcuni, la spiritualità della crisi conterrebbe energia più vivace di quelle della spiritualità unitaria; senza far discussioni del più o del meno, ci basti dire che la vita può raggiungere la sua pienezza sia quando è convogliata in direzione unitaria, sia quando si fraziona in sé stessa; l’essenziale è che nell’uno e nell’altro caso non manchino le energie attive le quali costituiscono la sorgente di tutti i motivi vitali.
Spiritualità in dissidio.
Il Petrarca è la tipica espressione tra il modo di pensare, di sentire e di esprimersi del Medioevo, tutto ispirato ad una concezione religiosa della vita, e il modo di pensare, di sentire e di esprimersi del Rinascimento, tutto ispirato ad una concezione umana della realtà e della vita: il Petrarca presenta evidentissima la fisionomia spirituale dell’uomo in crisi; si potrebbe dire che nel suo mondo interiore vivano in contraddizione perpetua due Petrarca: quello religioso e quello laico, quello mistico e quello mondano.
Tutta le opere del Petrarca, essendo espressione di un’anima che parla di continuo con sé stessa, si esamina, si rimprovera, si conforta, costituiscono il più prezioso documento per individuare la storia del suo mondo interiore; ma soprattutto il “Secretum” in prosa e il “Canzoniere” in versi, costituiscono il riflesso più completo e più sincero della sua fisionomia spirituale.
Vediamo in che cosa consiste questo dissidio fra i due Petrarca e come si svolge la logica di questo contrasto.
– a) Dissidio fra l’amore a Dio e l’amore alla creatura.
Il Petrarca è convinto che Dio è sommo Bene e somma Bellezza, che l’anima umana può solo in lui trovare l’appagamento dalla sua ansia di infinito.
Nello stesso tempo è convinto che le creature per quanto abbiano di bontà e di bellezza costituiscono valori limitati e caduchi e che nessuno di esse può garantire la felicità al cuore umano.
Nonostante queste convinzioni il Petrarca, come tutti i poveri mortali sente l’attrattiva delle creature che si vedono che non l’attrattiva di Dio che non si vede. Senza dubbio anche per il Petrarca, ciò che di bene e di bello è nelle creature, è opera di Dio; ma quel bene e quel bello esercitano nello spirito del poeta, avido di godimento, un’attrattiva così potente che lo assorbono tutto e concentrano su le stesse tutte lo sue aspirazioni, in modo che lo distolgono dal risalire alla fonte di ogni bontà e di ogni bellezza. L’Alighieri vede in Beatrice un esemplare dell’immagine divina, ma la copia è per lui solo un mezzo per intravvedere qualche cosa della perfezione del Bene Sommo; per il Petrarca la copia diventa una specie di entità autonoma, la quale invece di inviare a Dio accentra su di sé lo spirito di chi la contempla. E’ per questo motivo che la Beatrice di Dante è tutta angelica e celestiale e compie la funzione di collegare l’uomo a Dio; mentre la Laura del Patriarca è tutta grazia e signorilità umana e invece di promuovere nell’uomo affetti ed aspirazioni soprannaturali, ammalia il suo spirito e lo costringe a godere e a soffrire di sé. Laura può essere definita donna estetica a differenza di Beatrice che possiamo definire donna mistica; nell’una si sintetizza quanto di più fine, di più armonico, di più decoroso abbia la terra; nell’altra si sintetizza quanto di soavità e di candore soprannaturali possa accogliere in sé una creatura mortale; l’una è il più splendido esemplare della perfezione terrena, l’altra il più splendido esemplare di perfezione di natura o di soprannatura mirabilmente unite.
Laura non ha dunque una fisionomia celestiale e mistica, tuttavia non ha neanche la fisionomia della donna di mondo, esperta delle comuni arti femminili: lei è la bellezza, ossia l’armonia, che ha origine celeste, ma dimora terrena. Si tratta di armonia di linee nel corpo, di armonia tra le facoltà dello spirito, di armonia tra corpo e spirito; questa bellezza è pura e chi ama questa bellezza coltiva la più fine e la più gentile delle idealità terrene. Quest’amore estetico esclude qualunque forma di passionalità volgare; e quindi, di per sé non genera alcun turbamento né alcuna crisi in un’anima di sensibilità religiosa comune.
Eppure il Petrarca è in continua crisi di coscienza a causa del suo amore per Laura. Infatti, benché la bellezza della donna da lui vagheggiata sia opera del Creatore, tuttavia appare elaborata da uno studio di singolarità che la caratterizza più forma terrena che visione celestiale: insomma Laura è più donna che angelo; e il Petrarca cosciente dell’esigenza della vera religiosità, cioè della necessità di aderire a Dio senza compromessi e riserve, ha l’impressione di precludersi la strada che lo conduce a Dio, qualora si soffermi a vagheggiare e a sospirare quella bellezza, Laura non avvia a Dio né allontana da Lui, ma tiene fermo il cuore che lo ama a mezza strada tra l’Empireo e l’Inferno, in un mondo che soddisfa il povero mortale perché gli offre lo spettacolo dell’armonia, ma nello stesso tempo non lo appaga, perché si tratta di una entità finita e mortale.
Confrontato con l’amore di Dio, quello per Laura, appare troppo imperioso ed esigente, per lasciar tranquilla una coscienza che abbia ancora il senso esatto dei valori: il Petrarca, avverte di amare senza misura un bene che, per quanto fine e prezioso, è tuttavia secondario e caduco.
“O Dei, che ascolto?… Nel mio amore non ci fu nulla di disonesto e sconveniente; soltanto fu senza misura. Anzi, costei allontanò il mio animo giovanile da tutte le bassezze e lo spinse verso l’alto”. Così risponde il Petrarca a S. Agostino, cioè il Petrarca esteta al Petrarca asceta, il quale gli rimprovera di essersi lasciato vincere dalla passione amorosa.
“Infelice! Meglio è tacere che dire tali cose. A che non potevi tu riuscire se costei con gli allettamenti della sua bellezza non ti fosse stata di ostacolo! Quello che tu sei te lo ha dato la bontà della natura, quello che potevi essere, costei te lo ha tolto… costei non ti fa mesti o lieti i giorni secondo la pace.. . Sei uno schiavo! quando la tua donna morirà, allora ti vergognerai di aver piegato l’anima immortale ad un debole capriccio e ricorderai con rossore la strana ostinazione che ti muove a scusare le tue colpe”, così S. Agostino, cioè il Petrarca asceta, critica e controbatte la giustificazione speciosa del Petrarca esteta.
Evidentemente qui si delinea una frattura fra il buono e il bello assoluto e il buono e il bello finito: la preziosa e simpatica armonia tra finito e infinito tra natura e soprannatura, tra vita del cuore e vita religiosa, così bene specializzata nella fase matura del Medioevo, appare ormai definitivamente compressa. Petrarca ammira il cielo, ma predilige la terra, vagheggia la perfezione, la fede religiosa, ma preferisce i soavi affanni dall’amore terreno, si dichiara in errore perché si lascia suggestionare dalla creatura, ma è convinto che senza quell’errore, cioè senza quella suggestione, non riuscirebbe a vivere.
A questo contrasto tra l’amore di Dio e l’amore di Laura va connesso, dunque, il contrasto fra la coscienza di peccare e il bisogno di peccare, fra l’ansia di liberarsi dai legami terreni che impediscono di elevarsi verso il cielo o il bisogno di intrecciare il più possibile legami di affetti umani sulla terra. Egli sa che se esiste un solo Dio, eppure sente il bisogno di una dea che sostenga con la sua grazia la sua anima assetata di dolci emozioni, ma egli avverte la sua posizione quasi di idolatria e se ne dispiace; anzi, quando parla al vero Dio, si compiace di manifestare i difetti dell’idolo terreno.
Tuttavia sente che se Dio col suo aiuto lo liberasse dalla suggestione di quella dea terrena, egli più che ricevere una grazia, sarebbe colpito da una disgrazia: “Ti assicuro che la tua coscienza ti ha commosso spesso fino alle lacrime, ma non ti ha veramente fatto mutar di proposito. Tu non hai pregato umilmente; e sempre poi hai riservato un po’ di spazio alla passione che cercavi di tirare in lungo con le tue preghiere: concedimi la purezza, ma non ora, lascia passar la giovinezza; allora ci sarà modo di allontanarsi dal vizio, quando sarà meno sensibile a questo cose per l’età invecchiata”.
Petrarca dunque vede ed approva la perfezione e segue ciò che è imperfetto; non si tratta di un contrasto intellettuale, cioè di dubbio per impossibilità di scoprire il vero, ma di un contrasto fra due aspirazioni opposte del cuore, cioè di un contrasto affettivo che la volontà debole non riesce a definire. Infatti il Petrarca, sebbene pretenda di giustificare certi suoi atteggiamenti spirituali di tono mondano, pur vede con chiarezza l’infinita superiorità dei valori soprannaturali rispetto a quelli terreni; quel che, invece, non riesce a controllare e regolare è la capricciosità del suo cuore, il quale, talvolta è tutto di Dio talvolta è tutto della creatura, e quasi sempre è tra Dio e la creatura. La volontà debole, più che imporre una disciplina al cuore, subisce la sua tirannide. Potremmo aggiungere che anche l’intelletto, per quanto veda chiaro nella cerchia dei valori, tuttavia per condiscendenza allo esigenze del cuore si sforza, come già si è detto, di trovare motivi per persuadersi che in fondo nel culto dei valori umani non c’è nulla di peccaminoso. Il cuore vuol fare a suo piacere; la volontà non riesce ad imporgli una disciplina; l’intelletto mentre deplora la necessità dell’uno o la debolezza dell’altra, pare che sia disposto a benevola comprensione, quasi che sia umanamente impossibile frenare quella eccessività o curare quella debolezza.
Possiamo riassumere così questo complicato contrasto interiore: il cuore vuole tutto, sia il cielo che la terra, ma non li vuole insieme, perché gli piace gustare il cielo senza affezioni terrene, e gli piacerebbe gustare la terra senza preoccupazioni soprannaturali; per concludere in fine col barcamenarsi tra l’uno e l’altra.
La volontà sta a guardar il cuore che non trova pace, l’intelletto disapprova il cuore e la volontà, ma è disposto a compatire. Psicologia fiacca, dunque, nel complesso; ma questo non vuol dire che non sia una psicologia poetica; c’è anche una poesia della debolezza nella quale si avvertono più i valori che tengono in agitazione il cuore, perché le cose proibite o impossibili appaiono sempre le più attraenti e provocano di più il cuore umano.
Il Petrarca stesso, forse, si compiace di questo stato d’animo, perché nella crisi e nel disagio egli aveva la sensazione di vivere: l’inerzia del cuore(“taedium”), cioè una vita interiore senza contrasti, a lui, avido di emozioni, doveva apparire come una specie di diminuzione o esaurimento del suo esistere. Egli ha orrore del “taedium vitae” e cerca di tener desto il suo cuore con tutte le emozioni più robuste e più serie, accogliendo con una certa voluttà specie quelle che sono, in contrasto tra loro, perché da questo urto egli si sente scosso, tenuto desto, costretto alle lacrime e allo sfogo poetico.
E’ vero, dunque, che il Petrarca non riuscì a risolvere il suo dissidio interiore per debolezza di volontà, ma è legittimo sospettare che egli non l’abbia risolto anche per esigenze vitali della sua natura psicologica. A lui l’abbandono del mondo, per aderire nell’intimità ascetica a Dio, appariva un gesto eroico e magnifico, ma avvertiva che esso avrebbe inaridito i giorni del suo cuore; vivere senza Laura, senza la compagnia dei grandi scrittori latini, senza lo amicizie, gloriose, senza il plauso degli ammiratori, era per lui un sacrificio troppo duro, una specie di morte morale.
D’altra parte vivere senza Dio, rinunciare alla tranquillità e alla sicurezza della vita soprannaturale, abbandonare le altezze per svolazzare rasoterra, appariva a lui stoltezza, empietà e forma di morte più pericolosa e peggiore della precedente? Mosso da un’indomita brama di vivere, egli lotta contro l’una e l’altra forma di morte, ma finisce col combinare insieme le esperienze terrene e quelle soprannaturali in una forma di accomodamento di cui egli avverte l’impossibilità e il tragico rischio, ma, siccome la lotta e il disagio aumentano in lui la sensazione del vivere, finisce col compiacersi del suo stato pur tra le deplorazioni e le lacrime.
Il Petrarca è, dunque, un pover’uomo che tenta di conciliare l’inconciliabile, cioè lo spirito religioso e il peccato, e, cosciente della propria debolezza di fronte agli impegni sublimi della coscienza cristiana, cerca di barcamenarsi tra i pentimenti e i propositi vani.
E’ facile per noi comprendere una psicologia tribolata e nello stesso tempo facile a consolarsi come quella del Petrarca, se osserviamo la nostra stessa psicologia, la quale è caratterizzata da una incertezza continua tra il male e il bene, tra il meglio e il meno bene, e dallo sforzo di giustificare la nostra debolezza con l’intenzione di non scontentare il cielo e di godere nello stesso tempo i doni della terrà.
Evidentemente una psicologia di questo genere avrebbe ripugnato all’Alighieri, volitivo e deciso come era, sapeva armonizzare la natura con la soprannatura, le attività profane con quelle religiose, la vita temporale con la vita eterna.
Se il Petrarca non riesce più a conciliare l’uomo ed il cristiano, vuol dire che egli non ha i concetti chiari circa la natura e la soprannatura, o, pur vedendo chiaro, non ha la forza sufficiente per decidersi a realizzare una conciliazione non solo possibile, ma facile e feconda di vaste aperture spirituali, come dimostrava l’esempio dell’Alighieri. Ma il Petrarca ci si rivela troppo intelligente perché noi, possiamo pensare che egli non abbia veduto chiaro circa i rapporti tra natura o soprannatura; ma sarà meglio pensare che egli abbia di proposito insistito sulla confusione tra religiosità o ascetismo monacale o sulla debolezza della natura umana per avere il pretesto di giustificare e deplorare nello stesso tempo la sua incertezza spirituale, per acquietare la coscienza e rimproverarla ad un tempo.
Il Petrarca sotto questo aspetto sembra incarnare quel tipo di cristiano che non sentendosela, di accogliere con integralità coscienziosa tutte le conseguenze di una adesione piena alla religione, esagera a bella posta le richieste del soprannaturale per aver motivo di dichiararsi incapace a soddisfarle, senza tuttavia pretendere di aver ragione, anzi riconoscendo esplicitamente e umilmente di essere nel torto.
Come si vede questa è la forma psicologica della debolezza che si accusa e cerca pietà e perciò appare anche simpatica. Possiamo definire, dunque, la psicologia del Petrarca psicologia di debolezza, e la sua poesia: poesia della debolezza.
Nel motivo del contrasto tra spiritualità umana e’ spiritualità religiosa è interessante notare un modo di vivere nuovo la religione: non è più tutto lo spirito ad essere investito del senso religioso, cosicché l’intelligenza percepisca le realtà soprannaturali, il cuore le ami appassionatamente, la volontà si sforzi di riprodurle nel mondo della storia individuale e collettiva, ma è una facoltà solo di esso, il cuore, ad essere impegnato, nell’esercizio della religiosità.
Evidentemente siccome il cuore, quando non è illuminato dal pensiero e non è disciplinato dalla volontà cambia facilmente atteggiamento a seconda della potenza di attrazione delle cose, la religiosità di sentimento è per sé stessa vaga e fluttuante.
Ha inizio col Petrarca quel modo di sentire la religione che possiamo chiamare estetico o per attrattiva , caratterizzato, senz’altro da intensità e sincerità affettiva, ma soggetto troppo ad un soggettivismo che ha da fare i conti con la debolezza umana e che quindi si permette di scendere a facili concordati con le esigenze pratiche della vita.
Per l’Alighieri la religione è fedele amore e la religiosità è vita indirizzata direttamente e decisamente verso gli ideali soprannaturali e sostenuta da un costante ardore di entusiasmo e di coraggio; per il Petrarca e i Rinascimentali la religione è attività e sensibilità per certi aspetti veramente belli del Cristianesimo, e religiosità è sentimento del soprannaturale senza impegni precisi, ma piuttosto con la tendenza ad accogliere motivi mondani, a pretendere di conciliarli con quelli della fede.
Siamo di fronte ad un indirizzo religioso che si compiace di evitare teorie e leggi per vantarsi di essere concreto e sincero in quanto aderisce alle esigenze del cuore, ma che non può nascondere la reale intenzione di giustificare e di accogliere col pretesto del cuore tutto ciò che al cuore piace: siamo cioè di fronte ad un inizio di soggettivismo religioso che avrà la sua conclusione nel protestantesimo.
Questo modo di vivere la religione nel cuore, in forme ricche di sentimento fu proprio di S. Agostino e Petrarca appassionato cultore e ammiratore di S. Agostino imparò da questi il colloquio continuo con Dio, con le creature, con se stesso, colloquio in cui esalta con entusiasta ammirazione la sublimità e la bellezza del soprannaturale, si lamenta con le creature che abbiano troppa forza per ammaliarlo, accusa e compiange la propria miseria. Evidentemente il richiamo a S. Agostino vale soltanto per il modo di vivere la religione non certo per l’indirizzo soggettivo e per il tono fiacco che il mondo affettivo assume nel Petrarca.
– b) Dissidio fra l’avidità di vivere con pienezza e la sensazione della vanità e della caducità della vita.
Il Petrarca è un innamorato della vita di cui vorrebbe fare tutte le esperienze; come quello di S. Agostino anche il suo cuore è in cerca dell’infinito sulla terra tuttavia non solo non riesce mai a trovare l’infinito, ma deve, momento per momento, costatare che ogni conquista esige sofferenza e si rivolge in delusione, perché anche la cose terrene più elevate non hanno alcuna capacità di saziare il cuore dopo che siano state conseguite, esse interessano quando sono vagheggiate da lontano, ma quando arrivano e vengono superate, appaiono meschine; hanno, si può dire, la sola funzione di tormentare il cuore finché esso è in ansia di raggiungerle. Il Petrarca è cosciente di questa nullità e di questa sofferenza insita nelle nostre aspirazioni: tuttavia non può fare a meno di sognare e quindi di soffrire: il sogno, la sofferenza, la delusione, il bisogno di procedere sempre a nuove esperienze se tengono agitato il cuore lo tengono almeno occupato. Il Petrarca ha bisogno di riempire i suoi giorni, ha paura della noia: attraverso la sofferenza egli percepisce di vivere, cadendo nella noia, egli teme di perdere la coscienza di sé stesso. Per questo motivo pur deplorando gli affanni della vita, egli piange allorché tramonta un giorno, si dispera quando tramonta un anno e più ancora quando tramonta una intera fase della vita, come la giovinezza o la maturità e .si avvicina la vecchiaia.
Ha orrore della morte, pur accogliendo le speranze cristiane, il pensiero di venir meno alle bellezze della terra, alle attività quotidiane, per quanto affliggenti, lo sconvolge e lo angoscia.
– c) Contrasto, fra ideale e reale.
Il Petrarca, sensibilissimo e fine, educato dalla religione e dalla cultura classica, vagheggia una esistenza perfetta, in cui natura e soprannatura possano esprimersi con pienezza e intima armonia fra loro.
Ma in pratica egli vede sfumare il suo sogno e per la debolezza della sua volontà a cui non sa quale rimedio approntare e per le difficoltà che un programma di perfezione naturale e soprannaturale presenta anche a persone eroiche e decise come sono i santi.
Egli vagheggia una vita quieta e decorosa, e in verità dalla fortuna è favorito nel suo sogno, ma per la mancanza di pace interiore egli non può gustare il piacere delle sua agiatezza.
Vagheggia un’Italia unita entro i suoi confini naturali, organizzata a regime repubblicano con Roma capitale, con cittadini simili in virtù agli uomini della Roma repubblicana; ma in pratica. deve assistere alla visione di un’Italia divisa, funestata da lotte fratricide, incosciente della sua dignità e della sua missione.
Abbiamo definito l’amore del Petrarca “amore estetico” cioè amore alla bellezza pura; ma non dobbiamo pensare né che a tale amore non tentasse di mescolarsi la passione né che esso si accontentasse di vagheggiamenti interiori senza bisogno di soddisfazioni sensibili; Laura però non può né permettere manifestazioni intemperanti e focose, né può posare di continuo come modello dinanzi agli occhi del suo vagheggiatore.
A ciò si aggiunge il fatto che ogni amore e travagliato dal dubbio della corrispondenza, e si capirà bene perché il sentimento dell’amore che è il più intenso e il più costante del cuore del Petrarca sia anche il più tormentoso. Infatti, allorché Laura teme che le imprudenze del suo innamorato possano nuocere al suo onore, si sente in dovere di eclissarsi per placarne l’ardore. Quando Laura è lontana il cuore del Petrarca, suggestionato dalla lontananza stessa e dalla privazione, si strugge di rivederla e invano cerca di pascersi con immagini, che le rassomigliano; quando Laura viva gli si presenta nel piano della sua bellezza, egli pensa con accoramento che quella magnifica fioritura presto o tardi sfiorirà.
“Quando la tua donna morirà… allora ti vergognerai di aver piegato l’anima immortale a un debole corpicciolo e ricorderai con rossore la strana ostinazione che ti muove a scusare le tue colpe. Già anche ora la leggiadria delle sue membra è scemata per le malattie e i frequenti parti; ad esse non hanno già più il primitivo vigore” (Secretum).
Basta che la donna assuma un atteggiamento più riservato del solito perché egli si accori e si senta disfatto cosicché la dolcezza dei suoi sogni d’amore si tramuti in amarezza sconsolata.
“E costei non ti fa mesti o lieti i giorni secondo che le piace? Se ella compare risplende il sole, se parte torna la lotta; se cambia il suo volto muta anche il suo animo; ti fa lieto o mesto secondo che essa ti tratta.” (Secr.).
Così l’ideale contemplazione sognata e bramata con tanta ansia e trepidazione, si trasforma in sofferenza che, per quanto dolce, dà tuttavia al poeta l’impressione di essere un povero naufrago cui è impossibile raggiungere mai la riva.
” Pace non trovo e non ho da far guerra; – e temo e spero; et ardo e sono un ghiaccio; – e volo sopra il cielo e giaccio in terra; – e nulla stringo e tutto il mondo abbraccio”.
Egli aspira a realizzare nella sua vita una forma perfetta per armonia e eleganza. Organizza i suoi ritiri di Valchiusa, di Selvapiana, di Arquà, secondo un ideale di decorosità classica in cui austerità e eleganza siano combinati insieme. Coltiva amicizie illustri; con riserbo ma anche con decisione aspira alla fama e la ottiene: tuttavia, in questo mondo che ha architettato con ingegnoso buon gusto e con felici risultati, non trova la soddisfazione del suo spirito: dopo che l’ha costruito lo vede troppo piccolo, troppo caduco, solo sente sfuggire troppo rapidamente per trovare in esso la sua vera compiacenza.
Sembra che il destino del Petrarca sia quello di creare facendo appello a tutto le risorse del buon gusto, della cultura classica, della sua cultura mistica, i castelli più luminosi e più armonici; di contemplarli solo per breve attimo in deliziosa pace; di scorgere troppo spesso in essi aspetti insoddisfacenti, disarmonie inconciliabili e soprattutto di scorgere la fragilità delle loro fondamenta: sono fondati sul tempo e il tempo influisce di continuo come fiume inarrestabile.
Egli potrebbe utilizzare un’infinità di fattori ideali per rendere piena e perfetta la sua vita, ma è cosciente dalla sua miseria e della sua tendenza più a sciupare che a valorizzare gli elementi di perfezione che la natura e la soprannatura gli offrono.
Di fronte alle sue creazioni ideali; egli, ammaestrato dall’esperienza, teme sempre di esorbitare, di apparire volgare, di esser troppo vile per servire con adeguato decoro i più sublimi valori della vita.
Il Petrarca vagheggia dunque una vita piena, si sforza di costruirla utilizzando tutti i motivi naturali o soprannaturali, ma non riesce. mai a gustarla con tranquilla soddisfazione: il dissidio inconciliabile tra i motivi naturali o quelli soprannaturali, la sensazione che il tempo logora anche le cose più sublimi, che la noia rende vili anche le cose più belle dopo che siano state sperimentate, che la limitatezza di tutto il reale affievolisce qualsiasi entusiasmo inducono il Petrarca a commiserare i suoi sogni e a piangerli dove si piangono le cose più care e preziose allorché sfuggono.
– d) Contrasto fra l’aspirazione a maggiore libertà spirituale e la paura di abusarne.
Il Petrarca, figlio di una generazione che non è più capace di sopportare i limiti della disciplina cristiana, perché avida di godere la vita, sente il bisogno di libertà interiore: ha bisogno che gli si conceda qualche divagazione mondana e si rallenti la tensione di una spiritualità mistica troppo esigente.
Tuttavia egli stesso ha paura della libertà a cui aspira, perché non si sente sicuro di poterne fare uso moderato. Si vede che l’anima non è sicura di sé, che sente il bisogno della disciplina e della libertà ed ha nello stesso tempo paura dell’una e dell’altra; dell’una perché è difficile a moderarsi e rischia di esaurire, di avvilire e di sprecarsi i doni più preziosi della natura e della soprannatura.
Perché il Petrarca non risolve mai il suo dissidio interiore?
I motivi si possono riassumere così:
a – Perché gli manca la forza della volontà per superare sé stesso. Egli in tutto le sue opere si confessa e il motivo centrale delle sue confessioni è questo: “io sono un debole” e la sua poesia si può definire poesia della debolezza.
b – Perché nella perenne alternativa tra l’Assoluto e il finito si realizza una forma di vita che al poeta piace e non piace nello stesso tempo; e che si adatta perfetta alle sue possibilità limitate volitive. Per ogni uomo c’è una forma di vita che gli si adatta per naturale costituzione, sia per responsabile elezione a scelta.
Al Petrarca, timido e incerto per natura, oscillante per colpevole debolezza si adattano le forme delle alternative incessanti.
c – Perché il Petrarca si accorge di vivere solo se soffre e siccome la sofferenza è generata dal dissidio, sente che per vivere a lui è necessario perpetuare quel dissidio. Vivendo da cristiano ha l’impressione di non poter vivere da uomo; vivendo da uomo ha l’impressione di non poter vivere da cristiano. Arida sembra a lui la vita senza la bella fioritura degli ideali terreni, pericolosa e vana sembra a lui la vita senza la fioritura degli ideali soprannaturali.
Non rinuncia alle gioie terrene per non morire nel tempo, non rinuncia agli impegni soprannaturali per non morire nell’eternità.
d – Perché si illude che concedendo alla terra qualche cosa di più di quanto non sia stato fatto nel passato, si possono meglio conciliare le aspirazione delle generazioni nuove al godimento con le esigenze della spiritualità religiosa tradizionale: egli ha la sensazione pur tra le apparenti proteste della sua coscienza, di essere un uomo nuovo iniziatore di una spiritualità cristiana più aperta, più liberale, più umana, meno teologica, meno fratesca.
E realmente Petrarca nella storia della spiritualità italiana rappresenta il primo esemplare di un cristianesimo romantico sentimentale, in cui la forza dei principi si affievolisce e quel che conta non sono i fatti, ma le aspirazioni sincere anche se mai realizzate.
e – Perché il dissidio contribuisce a sentire più vivamente gli ideali. Sembra quasi che il Petrarca per sentire più potentemente Dio abbia bisogno di esaurire il suo cuore in dispersioni mondane e che per sentire con più intensità la suggestione colorita e accorata delle cose terrene abbia il bisogno di astenersi per un certo tempo da queste rifugiandosi in un ritiro ascetico di tipo monacale. Laura non gli appare mai così bella come quando si sforza di staccarsene; Dio non è mai da lui sentito con tanta ansia e tanto accoramento come quando se ne è allontanato.
La stessa caducità delle cose terrene è potente fattore di suggestione. Come le cose che amiamo ci appaiono infinitamente più belle e le sentiamo infinitamente più care allorché vi si delinea il pericolo di perderle, o allorché sono ferite, così la bellezza, l’amore, l’arte, la fama, l’amicizia, l’agiatezza, la salute, allorché sembrano impallidire o addirittura spegnersi in forza di una meditazione realistica sulle loro caducità, diventano tanto care che perderle significa morire.
Di qui si spiega l’intensità della suggestione esercitata sullo spirito del Petrarca da quelle realtà terrene di cui egli così spesso sembra mettere in evidenza le miserie e le vanità con eroico compiacimento.
f – Perché il poeta è persuaso che se venisse meno quel dissidio verrebbe meno, anche la parte della sua poesia. Infatti la poesia. è l’espressione della vitalità dello spirito; e lo spirito del Petrarca trova la pienezza della sua vitalità nel dolce-amaro o amaro-dolce, del suo dissidio interiore. Egli stesso più volte dichiara che il pianto gli è dolce, il suo stato dolente lo appaga. E in realtà il motivo centrale e più vitale della poesia Petrarchesca è innegabilmente il dissidio.
Spiritualità armonica.
Sembrerebbe una contraddizione parlare di armonia nei riguardi del Petrarca che abbiamo delineato come l’uomo in perpetuo dissidio interiore. Tuttavia la contraddizione scompare allorché si precisi il senso vero di armonia. L’armonia nasce dal rapporto proporzionato tra svariati motivi: questi motivi nella loro varietà possono essere tutti diretti verso lo stesso senso o possono anche essere in contraddizione tra loro; l’essenziale è che nell’uno e nell’altro caso essi contribuiscano a generare una intonazione unitaria dello spirito, ossia a creare una fisionomia ben definita della personalità di un uomo.
Orbene, nonostante le contraddittorietà dei motivi, il Petrarca ha una fisionomia spirituale ben definita: egli è il tipo del cristiano in crisi cosciente e dolente del suo stato di crisi.
Come si vede la contraddizione non solo non nuoce alla unitarietà della fisionomia spirituale del Petrarca; ma costituisce la sostanza di essa. Non è detto che debba essere considerata armonica ad esempio solo la spiritualità dell’Alighieri, in cui tutti i motivi sono convogliati verso una meta unica, cioè verso Dio; è unitaria anche la spiritualità del Petrarca, in cui i motivi più opposti concorrono a creare uno stile spirituale ed artistico di indubbia nitidezza.
Il Petrarca, come tutti i geni, riesce a controllare il suo mondo interiore, cioè ad individuare tutti i moti del suo animo, a viverli con maggiore o minore intensità, a seconda del loro significato e del loro valore, a raccoglierli e a comporli in unità. Egli praticamente, infatti, sebbene con intensità diversa, sento l’amore di Dio e l’amore di Laura, la bellezza delle cose terrene e la loro vanità, la sua felicità e la sua infelicità, le esigenze e i richiami della natura e quelli della soprannatura.
Si tratta di un mondo interiore in oscillazione in cui ogni elemento componente è al suo posto, in stretto rapporto con gli altri, anche se il rapporto è di contraddizione. Abbiamo visto infatti, come l’attaccamento alla terra contribuisce a rendere più viva l’ansia del cielo, e come il culto dell’Assoluto e dell’Eterno, rendendo obbligatorio, nella mentalità del Petrarca, l’abbandono della terra, contribuisca a rendere più accesa e più accorata la nostalgia della bellezza caduca.
Questo rapporto reciproco fra i vari motivi genera l’armonia della contraddizione e quest’armonia, viene a costituire il fattore sostanziale dell’unità spirituale del Petrarca. Se si potesse esprimere questa situazione con una formula, si potrebbe dire che il Petrarca “sa vivere e sa cantare la contraddizione”.
Dal rapporto proporzionato dei motivi risulta l’armonia; dall’armonia l’unità; dall’unità la compostezza. L’anima dal Petrarca è veramente un mare effervescente a causa delle forze intime in contrasto che lo sommuovono: ma non si notano né fieri contrasti di venti, né paurosi cavalloni, né si deplorano tragici naufragi. Pur agitato da un’intensa ed assidua pena il poeta non grida mai, non prende né drammatiche decisioni da disperato, né eroiche risoluzioni da convertito, non freme; tanto meno ruggisce: sospira soltanto. Di qui il tono pacato di ogni sua espressione e quella specie di compiacimento con cui osserva, analizza e rappresenta il guazzabuglio del suo mondo interiore. E’ stato detto che il Petrarca è il primo dei romantici italiani; e chi ha detto ciò ha inteso identificare Romanticismo con “crisi” e “malinconia”.
Ma se si dovesse accogliere questa identificazione, si dovrebbe concludere che il 90% dei poeti sia costituito da Romantici. Nei riguardi del Petrarca poi non è proprio il caso di parlare di Romanticismo: questi infatti, almeno, nella sua forma più generale, è caratterizzato dal proposito di utilizzare ai fini dell’arte anche la disarmonia e la dispersione.
Spiritualità malinconica.
La malinconia è quell’atteggiamento di abbandono che assume lo spirito allorché viene privato di una cosa che era entrata a far parte della sua vita o è trattenuta dal raggiungere una meta a cui ansiosamente aspira. La malinconia è un sentimento incerto fra il dolore e il compiacimento per uno stato che si approva e si disapprova nello stesso tempo, fra il buon desiderio del meglio e la sensazione che la conquista del meglio è impossibile, tra la volontà di fare e il compiacimento del non fare.
Il Petrarca può ripetere l’espressione di Ovidio: “video bona proboque, deteriora sequor” e non avendo il coraggio di decidersi assume l’atteggiamento degli incerti, cioè vive in perpetua malinconia.
L’espressione della malinconia è il sospiro. Il Petrarca è l’uomo senza pace (Cfr. La canzone. “Ne la stagion che il ciel rapido inchina”):
Sebbene S. Agostino, cioè la fede gli ripeta che lo spirito suo può trovare quiete solo in Dio, tuttavia non ha la forza di ascendere in questa fonte inesauribile e malinconicamente si ferma a metà strada tra il finito e l’Assoluto.
Spiritualità solitaria.
E’ caratteristica delle anime tormentate, specie di quelle che per indole sono inclini alla timidezza e al riserbo, la cura di evitare la compagnia umana. Sono anime convinte che, non essendo riuscite in sé stesse a trovare un rimedio alla loro situazione, ogni contatto con gli uomini non ha alcun fine utile, anzi non servirebbe che a far conoscere al pubblico indiscreto una situazione di cui non sono soddisfatte e che quindi vogliono celare soprattutto a coloro che non sanno comprendere e compatire.
Il Petrarca preferisce vivere nella solitudine a contatto solo con sé stesso per conoscersi, per deplorarsi, per compatirsi ed anche per vagheggiarsi. Non è contento di sé, però nel complesso si compiace di sé, perché la intensa vitalità interiore e sopratutto la capacità di esprimerla in accurate forme d’arte, gli danno la sensazione di bastare a sé stesso e di essere lontano quanto mai dal volgo. Non solo per evitare il “manifesto accorrere delle genti”, o per pascersi in segreto della dolcezza delle sue lacrime, il Petrarca evita il pubblico, ma anche perché nella solitudine egli trova un ottimo fattore che favorisce le sue meditazioni.
Egli non è uno spirito capace di pensare e tanto meno di poetare nel tumulto della vita e della azione: la sua poesia trae alimento dal suo dramma segreto e il suo dramma è di tono pacato e delicato; perciò deve stare in ascolto di sé e per percepirsi ha bisogno di non esser distratto dalle cose esterne.
Dante era capace di far poesia nel frastuono della vita perché egli traeva ispirazione dal mondo che la circondava, e le vibrazioni del suo cuore erano talmente intense che per percepirle non era affatto necessario ritirarsi in solitudine.
Petrarca invece ha bisogno di raccogliersi per sentire con intensità le cose; egli infatti ha bisogno di trasfigurare la realtà, di darle la forma del suo spirito per coglierne il significato; e per compiere questa trasformazione deve suggestionarsi; e per suggestionarsi ha bisogno di solitudine; il modo con cui reagisce alla realtà lo spirito di Dante si potrebbe definire “immediato” e il modo con cui reagisce il Petrarca si può definire “immediato e ammorbidito”.
La realtà per il Petrarca è tutta nell’intimo del suo cuore perciò, affinché la percepisca e la senta, è necessario che si ritiri nel segreto.
Qui, lontano dalle cose, è nella condizione migliore per idealizzare quella realtà che osservata invece da vicino, gli apparirebbe o insignificante o meno suggestiva. Laura nel sogno della meditazione solitaria diventa infinitamente più bella: i ricordi diventano più accesi e le immagini diventano più vive.
Nel segreto egli ascolta più distintamente i palpiti del suo cuore turbato, ha la possibilità di vedere più nitidamente sé stesso, e di compiangersi e di vagheggiarsi nella sua dolce sofferenza. Egli non è capace di pensare e di sentire quando è a contatto con il mondo: la presenza delle cose e degli uomini è per lui fattore di dispersione e di divagazione.
Tuttavia il fascino della solitudine diventa ben presto incubo: infatti quel sé stesso da cui non può separarsi, con le sue pene lo affligge e non gli da pace. Quella sua crisi ineffabile e perpetua, che nella solitudine vi appare più grave, lo angoscia: il Petrarca, cristiano, nel silenzio del raccoglimento, si fa più austero e più impietoso, rimprovera ed esige con implacabile durezza; il Petrarca mondano, avido di sensazioni e di divagazione, non può tollerare a lungo lo parole scandite e severe del mistico, né può resistere alle attrattive dei volti femminili, dai circoli degli amici e dei dotti, dagli applausi dei suoi ammiratori che lo attendono fuori del suo rifugio. Quella Laura, la cui immagine nella solitudine lo suggestiona, lo invita a uscire fuori affinché possa, magari per un attimo, contemplarla direttamente.
Di qui il continuo alternarsi nella vita del Petrarca di apparizioni nel mondo e di ritiri nella solitudine; sembra quasi che un misterioso istinto lo spinga a compiere con foga trepida e timida il maggior numero di sensazioni possibili, durante le brevi ma intense soste nel mondo; e di nuovo lo spinga nella solitudine per rielaborare in atmosfera di sogno e di suggestione quanto ha captato nelle sue escursioni mondane.
Non possiamo fare a meno di paragonarlo all’ape, che, dopo aver raccolto il nettare dai fiori, lo elabora nel segreto della sua celletta dividendo così il suo tempo tra il volo e la quiete laboriosa.
Spiritualità idillica.
La cameretta è il normale porto-rifugio del Petrarca in cerca di quiete per meditare e piangere. Ma egli nella sua cameretta non può parlare che con sé stesso, non può sfogare che piangendo e poetando.
Quando, invece “solo e pensoso i più deserti campi va misurando a passi tardi e lenti”, ha la possibilità di parlare con “monti e piagge e fiumi e selve”. Egli immagina che la natura ascolti le sue parole, comprenda il suo stato d’animo, compianga le sue pene. Il paesaggio non è solo uno sfondo in cui si muove la figura del poeta, ma è soprattutto un amico con il quale il poeta può sfogare il suo cuore. Inoltre, la bellezza delle visioni che si presentano allo sguardo del poeta, esercita un benefico influsso mitigatore delle sue pene; le innumerevoli voci che, come da un coro complesso e delicato, giungono al suo cuore dai ruscelli, dai verdi margini, dai boschetti, dalle rupi, dagli uccelli, sono voci di amici che lo distraggono e lo invitano a sorridere.
In fine il poeta considera la natura come ispiratrice di immagini soavi e gentili per ornare l’immagine della sua donna. Egli sembra invitare gli alberi, i fiori, le acque a far festa a colei che riassume in sé tutte le più fini bellezze della terra.
Spiritualità estetizzante.
Il Petrarca in tutte le sue espressioni rivela uno studio costante e geniale di signorilità e di grazia.
Non essendo riuscito a conciliare la terra e il cielo in sede teologica ed oggettiva (come vi era riuscito Dante), il Petrarca tenta la conciliazione in sede estetica: ossia si sforza di cogliere nella terra gli aspetti più ideali e più graziosi e di sintetizzarli in una visione complessa, armonica e unitaria di bellezza, cosicché il culto della cose terrene troppo in contrasto con le sue aspirazioni soprannaturali, e la sua coscienza possa in qualche modo rassicurarsi col pensiero, che, in fin dei conti, amando la bellezza pura, non solo non rischia di involgarire, ma è su una strada che può condurre al cielo o almeno non allontana troppo dalla strada del cielo.
A S. Agostino che gli rimprovera l’amore per Laura, egli, per giustificarsi risponde che in quell’amor, ha trovato la forza per tenersi lontano dalla volgarità in cui suole cadere la maggior parte degli uomini; afferma infatti che egli ha amato nella sua donna solo la bellezza, non altro. Tuttavia S. Agostino gli dimostra che pur rimanendo in un piano puramente estetico, quell’amore è stato eccessivo e quindi ha intenerito la vigoria del vero amore, cioè dell’amore di Dio. Questa eccessività preoccupa il Petrarca, tuttavia, come già si è visto, non ha la forza di moderarla.
Quasi per attenuare dunque la colpevolezza di questa e eccessività, egli si sforza di dare alla terra lo forme ideali del cielo.
Lo sforzo è lodevole, ma i risultati sono insoddisfacenti. Infatti, egli non parte dal proposito di mettere in luce i riflessi del cielo in una creatura (come li vede Dante in Beatrice), ma dal proposito di rendere la creatura il più possibile uguale al Creatore. E’ così, che nella foga della suggestione e della idealizzazione, gli sfugge, al proposito di Laura, la parola “dea”. Francesco Petrarca è un signore pacato e gentile creatore e adoratore quasi maniaco del bello. Il suo cuore è avido di vita e per lui come per tutte le anime sensibili e delicate, non è possibile la vita senza bellezza e soprattutto senza la compagnia affettuosa di una creatura che con la grazia delle forme allieti i sensi e lo spirito e con la comprensione gentile e affettuosa sappia alleviare la pene segrete. E’ per questo che egli in Laura sintetizza il complesso delle perfezioni che rendono piacevole la dimora terrena e riempiono i giorni che pur trascorrono così rapidamente.
Egli non chiede alla sua donna quel che chiedono lo anime volgari alle loro amanti, perché troppo aristocratico o troppo gentile è il suo animo per turbare la creatura graziosa vagheggiata dal suo cuore e per smentire, con una impulsività sfrenata, lo stile nitido e fine che si è proposto di eseguire nella vita.
Ma neanche chiede a lei, perché è cosciente di non poterlo chiedere, che lo sollevi alla contemplazione delle altre verità e ispiri a lui la forza per affrontare lo lotte di una vita dinamica e attiva, come poteva chiedere Dante a Beatrice. Egli vorrebbe, che Laura gli fosse sempre dinanzi perché possa contemplare lo sue forme fini ed eleganti, i suoi capelli d’oro, i suoi occhi innamorati, il suo collo candido come neve, le sue mani morbide e delicate, i suoi gesti delicati, il suo abbigliamento di buono gusto, perché possa sentire la sua voce soave esprimente una sola parola d’affetto e sappia che lei comprende le sue pene interiori e anche ammira le sue capacità artistiche.
Non solo il Petrarca idealizza Laura, ma tutto ciò che lo circonda: i paesaggi sono belli; con criteri di nitidezza e di grazia sono composti i suoi ritiri di Valchiusa, Selvapiana, Arquà; fotografata, per così dire, in atteggiamenti è la sua persona che egli contempla nelle pose più svariate; bello è perfino il guazzabuglio del suo mondo interiore.
Che cos’è la bellezza per il Petrarca? E’ armonia: armonia di linee se si tratta di bellezza fisica: armonia di pensieri, di affetti, di espressioni (armonia della saggezza) se si tratta di bellezze spirituali.
Laura è esemplare di armonia fisica e spirituale. L’armonia risulta dalla proporzione tra i vari fattori che entrano in relazione per costituire una determinata realtà.
Qual’ è il tono della bellezza vagheggiata dal Petrarca?
E’ il tono fine e elegante. Nella scelta dei fattori da combinare per creare il bello, egli preferisce quelli piacevoli, nitidi, di colore non intenso, ma temperato, di forme levigate e sfumate, non robuste e chiassose. A lui perciò non piace generare l’armonia mettendo in combinazione anche i fattori brutti, come, nel suo realismo indiscriminato, soleva fare Dante; e neanche gli piace mettere in combinazione fattori eccessivamente vistosi, per colore o grandezza; il tono della sua bellezza è la grazia, che è il risultato di una sapiente combinazione tra finezza ed eleganza. Questo tono di grazia che riesce ad assumere la terra, rassicura le anime che come il Petrarca, stanno uscendo dal misticismo medioevale e timidamente si affacciano alle soglie della civiltà edonistica del Rinascimento: la grazia non è peccaminosa, non provocante, è soltanto amabile.
Spetterà al Boccaccio il compito di presentare in forme apertamente seducenti le maliziose bellezze della terra e di invitare gli uomini a goderle senza preoccupazioni, essendo Dio lieto che gli uomini usufruiscano dei suoi doni. Così dalla bellezza luminosa vagheggiata dall’Alighieri si passa alla bellezza graziosa vagheggiata dal Petrarca e a quella seducente vagheggiata dal Boccaccio.
Spiritualità classicheggiante.
Il Petrarca, per rendere più nitida la bellezza che appassionatamente coltiva, si vale dei suggerimenti che gli vengono dal mondo classico romano. I Romani, specie nell’età repubblicana, si erano compiaciuti di uno stile semplice e decoroso, semplicità e decoro nella vita privata e nella vita pubblica, nelle arti e nelle lettere.
Dante, pur ammirando la civiltà romana nel suo complesso, aveva rivolto in particolare la sua attenzione all’istituto dell’Impero, in cui egli aveva visto la conclusione del piano della Provvidenza a vantaggio di tutta l’umanità; e i grandi uomini della storia romana erano stati ammirati da lui quali creazioni dell’impero, cioè di quell’organismo universale in cui Dio aveva deciso di inquadrare le genti umane per prepararle a vivere nel più vasto organismo dalla Chiesa. Petrarca degli antichi ammira soprattutto lo stile: la saggezza e l’integrità di Fabrizio, la genialità militare e l’amabile umanesimo di Scipione, il patriottismo dei letterati quali Cicerone e Livio, la sicurezza e la invincibilità di Cesare.
Lo stile intelligente dei “latini, sangue gentile” a cui egli appartiene lo entusiasma in modo che al di là delle Alpi egli non vede che barbari.
Dante ancora fermo ai principi dell’universalismo medioevale vedeva invece in tutti i popoli della Respublica Cristiana i membri rispettabili di un’unica famiglia, né esitava ad invocare l’intervento di “Alberto Tedesco” negli affari d’Italia o a favorire l’opera del grande Arrigo VII.
Nonostante i richiami di Dante l’istituto dell’impero decade definitivamente: in Italia pullulano ovunque signorie autonome, e fuori d’Italia i regni si avviano alla rivendicazione della loro sovranità nazionale.
Roma, in seguito al trasferimento della sede papale in Avignone, ha perduto ormai ogni funzione universalistica. Il Petrarca appassionato lettore di Virgilio, di Ovidio, di Cicerone, scrittori coscienti ed entusiasti della grandezza di Roma si sente in dovere quasi di continuare nell’età moderna la loro missione di interpreti del destino e della grandezza della gente latina. La cultura classica assume in lui come, già in Dante, la forma di una mentalità vera e propria cioè di un modo di vedere e sentire le cose ben definite e costanti.
Vede l’Italia del suo tempo divisa in svariate signorie continuamente in lotta fra loro; Roma abbandonata a sé stessa e vittima delle lotte incessanti fra le famiglie nobili di essa; il “latin sangue gentile” cioè la gente italica, senza fisionomia senza personalità, senza vita, in balia dei barbari mercenari tedeschi. Ebbene, la sua mentalità di sognatore alla classica gli fa vagheggiare l’antica Italia repubblicana, unita e guidata da Roma, onorata da uomini attivi e probi.
Vedendo che ormai l’istituto dell’impero non è più salvabile egli pensa ad una ripresa della gente latina (cui la natura ha assegnato come dimora il “bel paese che Appennin parte e il mar circonda e l’Alpe”) per opera di un re: “questo io ho ben capito, o confesso che alla nostre malattie è necessaria la forza di un re”.
Per quanto lo riguardava personalmente, egli si sforzò sempre di realizzare nella sua vita quello stile di saggezza e di probità civile che ammirava nei personaggi esemplari dell’antica Roma. Preferì usare la lingua latina classica, piuttosto che quella volgare o la lingua latina dotta medioevale.
Cicerone, Virgilio, Livio, sono i suoi maestri venerati; e il suo entusiasmo per essi si spinge così innanzi che la coscienza religiosa lo rimprovera di preferire autori pagani alla S. Scrittura e ai grandi pensatori del Cristianesimo.
Coltiva amicizie? Ebbene, egli si compiace di chiamare i suoi amici con i nomi gloriosi di Socrate, Lelio, Simonide.
E il ritiro di Valchiusa? E’ sistemato secondo un gusto squisitamente classico: la casetta richiama al poeta quella di Fabrizio. Il tenore della vita che egli conduce in quel grazioso severo romitaggio gli piace perché somiglia a quella di Catone o di Cincinnato.
E’ accorato dalle miserie della vita? Cerca di consolarsi ricorrendo ai motivi della saggezza classica, quell’espressione controllata, quella serietà unita a grazia, lo avvicinano alle nobili figure del circolo degli Scipioni o del circolo di Mecenate ed egli si compiace del suo stile decoroso. A causa di questa signorilità sostenuta, il Petrarca non apprezzò, come si conveniva, l’Alighieri, né come poeta, né come uomo: gli era antipatica l’impulsività del grande esule fiorentino; e quanto alla poesia, notava che mentre l’Alighieri aveva preferito lo stile popolare per procurarsi una fama in mezza agli ignoranti, egli preferiva andare in compagnia di Virgilio e di Omero per guadagnarsi la fama presso i dotti.
Spiritualità sincera.
Lo stile delle persone che nelle loro espressioni si controllano troppo, fa talvolta sospettare che sotto di esso si nasconda uno spirito insincero. Anche il Petrarca con quella cura eccessiva di sé stesso, con quell’aria da signore tutto preciso e lindo, con quel suo incessante oscillare tra pentimenti e peccati potrebbe sembrarci un po’ falso. Non è vero; Petrarca ebbe un suo tono particolare, consono alla sua indole e all’indirizzo della sua cultura: cioè un tono sostenuto e aggraziato.
Ma quello che interessa non è il tono, bensì quello che egli dice: e di sé stesso egli ci ha detto tutto. L’analisi minuta e quasi spietata dei suoi stati d’animo, le sue confessioni continue, abbondanti, l’accoramento con cui egli mette in evidenza lo sue debolezze, sono indizi non dubbi della sua sincerità.
Tutte le sue opere e particolarmente il “Secretum” e il “Canzoniere” possono definirsi “confessioni del Petrarca”: ammesso che nel confessarsi egli trovi un certo compiacimento ed abbia avuto l’intenzione di trasmettere la sua figura ai posteri come quella del debole ideale, non si può negare che abbia dimostrato un’ammirevole coraggio nel rivelare ai lettori la sua debolezza.
Quali sono i motivi eternamente vivi della spiritualità del Petrarca?
Il Petrarca è, come si è visto, il poeta della debolezza: è il tipo del cristiano che vuole e non vuole, che propone e non riesce a mantenere i propositi, che ha coscienza di peccare, si dispiace delle sue colpe, aspira all’Assoluto, ma ha la sensazione, che se si distaccasse decisamente dalle cose terrene, verrebbe a trovarsi in una specie di stato di morte spirituale. Quindi egli è un po’ il poeta di tutti quei cristiani (che sono la maggioranza) i quali aspirano al cielo ed amano la terra, sentono il dispiacere del peccato, ma nello stesso tempo lo amano e ne sentono la forza ineluttabile, si accusano o si giustificano, sono convinti che la vita terrena è vana e caduca, ma si danno da fare per riempirla con tutte le risorse che può offrire il mondo (bellezza, amore, arte, viaggi, amicizie, sogni, cultura).
Al Petrarca piaceva sentire la vita in sogno, per cogliere più intensamente le risorse della grazia voluttuosa. Questa è un po’ la tendenza di tutte le anime, essendo l’uomo per natura insoddisfatto delle cose così come esse sono e tendono a realizzarle nel sogno per trovare in esse qualche traccia di Assoluto.
In che senso Petrarca è precursore del Rinascimento?
1. Nel campo dei rapporti fra natura e soprannatura. Dante aveva convogliato tutte le attività naturali verso il soprannaturale, al modo di S. Francesco e di S. Tommaso; Petrarca sente che la conciliazione tra natura e soprannatura è impossibile data la debolezza umana.
Il Rinascimento, pur riconoscendo teoricamente e vagamente che la realtà soprannaturale è rispettabile, praticamente non tiene conto affatto di essa, né se ne preoccupa, anzi si ingegna a dar valore assoluto alle cose terrene e si contenta delle risorse di felicità che esse possono offrire.
Il Petrarca, dunque, in questa progressiva discesa dalla soprannatura alla natura si trova a metà strada; sente l’esigenza della soprannatura, sente quella della natura, considera le sue esigenze come legittimamente imperiose, ma non sa decidersi quale delle due accogliere.
La terra tanto cara al Rinascimento, benché deplorata dal Petrarca per la sua miseria, tuttavia è giustificata nella sue attrattive. Infatti, anzitutto riconosce che tra il cuore umano e le realtà terrene c’è un rapporto di simpatia naturale e quindi insopprimibile; e dall’altro lato si compiace di presentare il soprannaturale come troppo esigente, come rinnegatore di ogni soddisfazione terrena anche legittima, cioè si compiace di confondere la religiosità con l’ascetismo intransigente di certi ordini religiosi; ed egli fa questo per convincersi che chi vuol essere veramente religioso, non può essere veramente uomo e viceversa: insomma il Petrarca mondano sembra esagerare le esigenze del Petrarca asceta, per dichiarare l’ascetismo impossibile: insomma la esagera le pretese del soprannaturale, la debolezza della natura umana per giustificare le sue incertezze.
In secondo luogo si sforza di interpretare e di presentare la terra nei suoi aspetti più fini o più gentili, affinché il culto di essa non contrasti troppo apertamente con la sublimità della professione cristiana integrale.
2. La tendenza che ha il Petrarca di abbellire lo cose e a riviverle esteticamente, prepara la tendenza schiettamente estetica del Rinascimento e si conforma a quello stile di sincerità che nell’età sua si stava affermando in forza del sopravvento di una classe borghese e gaudente e fine e del sorgere delle signorie là dove aveva imperato la democratica civiltà comunale.
3. Come i Rinascimentali, così anche il Petrarca imposta e risolve i problemi da un punto di vista più pratico che teorico.
Egli infatti con questo addio più col cuore che coll’intelletto e il cuore insieme, come avevano fatto S. Tommaso o Dante, vive il contrasto fra natura e soprannatura più da uomo che sente le esigenze della natura che da filosofo o da Teologo; imposta il problema politico con mentalità da classicista e non più con mentalità da storico che si sforzi di individuare nella istituzione dell’impero un disegno della Provvidenza a vantaggio della Chiesa.
4. Come i Rinascimentali, egli vagheggia l’armonia classica cioè l’armonia chi si ottiene combinando in proporzione fattori belli, cioè austeri e aggraziati nello stesso tempo.
Egli è il primo esemplare del letterato rinascimentale, cioè del letterato che compone elaborando con cura le forme alla luce dei modelli classici, pur senza rinunciare a quella grazia malinconica che è innata nella sua spiritualità e nel suo gusto. Il Petrarca per così dire, è il primo poeta umanista, cioè il primo poeta italiano che, per comporre, ha bisogno di raccogliersi in pacata meditazione, di circondarsi di un’atmosfera signorile per sentire la vita al modo sereno ed elegante dei classici.
Con Dante scompare dalla storia italiana la figura del poeta combattente e subentra la figura del poeta di studio: figura che durerà fino alla seconda’ metà dell’ottocento.
Il Petrarca può essere anche considerato come il primo umanista di tipo rinascimentale. L’umanesimo in generale è lo studio e il culto, l’imitazione della civiltà classica, cioè della mentalità, del gusto e delle forme di espressione propria dei greci o dei romani.
La civiltà classica è stata sempre ammirata o tenuta presente come modello nel corso della storia italiana: ma col variare delle età e delle tendenze, anche l’umanesimo ha assunto diversi indirizzi.
C’è un umanesimo medioevale, (di cui S. Tommaso e Dante sono i massimi esponenti) caratterizzato dal culto del pensiero o delle istituzioni pubbliche della antica Roma e della Antica Grecia: le forme di espressione della poesia e dell’arte greco-romana, non vengono imitate; vagheggiando le particolari forme espressive del tutto originali e che si chiamano comunemente romanze, cioè ispirate dal gusto romano e germanico insieme; l’umanesimo medioevale si propone di mettere in evidenza il contributo arrecato da Roma e dalla Grecia attraverso la filosofia e gli studi politici, alla preparazione della civiltà cristiana, cioè della Chiesa.
Di qui la tendenza degli umanisti medioevali ad interpretare la storia e il pensiero classico in funzione dei principi teologici e morali del Cristianesimo e a forzare, per questo fine, il senso oggettivo dei fatti storici e delle opere letterarie secondo criteri allegorici.
L’umanesimo rinascimentale è più oggettivo, non avendo bisogno di adattare la civiltà classica alla civiltà cristiana, in quanto ai suoi fini edonistici, ha più valore la prima che la seconda, e, data la sua mentalità mondana, lo interessa più la prima che la seconda.
L’umanista rinascimentale non ha paura di mettersi a contatto con la civiltà classica, quale essa realmente fu perché lo spirito o le forme di essa appaiono a lui come sublimi o insuperabili. Egli dei Greci e dei Romani accoglie non solo il pensiero e il gusto, ma anche e soprattutto le forme dell’espressione letteraria e artistica, che considera come le più perfette e degne di essere imitate. Tutto ciò che appartiene al mondo classico (libri, statue, quadri, monumenti, ruderi) tutto è venerato e quasi adorato dall’umanista rinascimentale con una passione che rasenta il fanatismo.
Il Petrarca è il primo esemplare di umanista di questo tipo.
Egli venera le opere di Cicerone, Livio, Virgilio; le commenta con postille accurate e di buon senso; rimane estasiato di fronte ai fatti ed ai personaggi della storia italiana-romana; nell’”Africa” si propone di gareggiare con Livio e Virgilio: la sua mente è piena di ricordi classici e il suo stile decoroso di vita e d’arte che ha appreso dagli antichi, costituisce per lui un alto motivo di compiacenza e di superiorità anche nei confronti dell’Alighieri, che a lui appare umile, popolare, sretolato.
5. Il Petrarca è il primo poeta italiano e il primo che ama introdurre nello sviluppo dei motivi psicologici il quadro idillico.
Si tratta di una natura aggraziata e, per così dire, vicina al cuore del poeta. I Rinascimentali amarono anch’essi svolgere motivi di paesaggio di vita campestre: dal Boccaccio, al Sannazzaro, al Poliziano, al Tasso, alla Arcadia la poesia italiana si compiacerà di paesaggi più o meno floridi, più o meno graziosi, più o meno voluttuosi. Soprattutto il Rinascimento, con quel suo programma di godimento fine, serio e intenso, non si lascia sfuggire le delizie che sotto mille forme la natura offre all’uomo.
La forma del Petrarca.
La forma è in generale il modo con cui l’artista esprime il suo mondo interiore. La forma del Petrarca ha lo seguenti caratteristiche:
a) Forma contraddittoria:
essendo il mondo del Petrarca in crisi, é naturale che egli svolga i motivi poetici col procedimento dei contrasti: contrasti fa i membri della stessa composizione, contrasti tra una poesia e l’altra (parliamo soprattutto del Canzoniere).
b) Forma idealizzata:
gli uomini e le cose non sono riprodotti nella realtà oggettiva, ma nei loro aspetti più significativi, più belli, vengono trascurati gli aspetti umili e spiacevoli, mentre vengono potenziati quelli belli e piacevoli. Il criterio di idealizzazione è quello della grazia, cioè del decoro o dell’eleganza: ossia il Petrarca quando vuole potenziare una bellezza, non ricorre come Dante ad annotazioni mistiche e realistiche insieme, ma utilizza fattori piacevoli per decoro ed eleganza.
c) Forma armonica:
il Petrarca cura con somma diligenza l’aspetto unitario pur nella varietà, e nella contraddizione dei motivi svolti: e l’ottiene questo effetto unitario disponendo e sviluppando i motivi con proporzione, quindi con armonia. La composizione petrarchesca piace soprattutto per il suo pacato e ordinato sviluppo, per la sua nitidezza e lucidità; ordine, nitidezza, lucidità sono effetti della proporzione e dell’armonia.
Così terminata la lettura di un passo petrarchesco, si riesce a rivivere con facilità il complesso dei motivi svolti dall’autore: questa facilità è certo dovuta all’effetto unitario che naturalmente sgorga dalla disposizione armonica.
d) Forma sentimentale:
il poeta ama svolgere i suoi temi utilizzando più le voci del cuore che quelle della ragione: egli mira più a commuovere che a persuadere ragionando: perciò la sostanza del pensiero nella poesia del Petrarca è modesta, mentre la sostanza sentimentale è quanto mai ricca.
e) Forma morbida:
il Petrarca ama le tinte sfumate, i contorni aggraziati; i colori moderati; egli, infatti, rivive tutto in sogno segreto e pacato, e quindi il reale non può che assumere forma evanescente e toni sommessi, quali appunto sotto le forme del sogno e i toni di esso.
Le tinte forti nelle descrizioni, le esplosioni clamorose nei momenti di alta liricità, le figure scultoree e imponenti, non piacciono a lui che è poeta della grazia.
f) Forma analitica:
Il Petrarca è sempre in ascolto del suo cuore: il quadro che egli incessantemente contempla è quello dalla sua anima travagliata: in esso egli vede susseguirsi, intrecciarsi, confondersi, oscurarsi, rasserenarsi senza sosta gli stessi motivi sentimentali: per capirci qualche cosa, egli ha bisogno di cogliere i singoli fattori, di seguirli nel loro sviluppo contraddittorio nel loro ripresentarsi sotto aspetti nuovi e leggermente diversi; di metterli in rapporto fra loro: e tutto questo per comprendere il significato essenziale ed unitario del suo spirito.
E’ chiaro che, per condurre questo lavoro, per così dire di districamento delle spirito, egli ha bisogno di procedere con analisi psicologica minuziosa e paziente.
Per questo il Petrarca è stato definito poeta psicologico, introspettivo, meditativo. In forza di questa ispirazione analitica, anche la forma presenta le caratteristiche dello sviluppo per annotazioni particolari minuziose, sia nelle descrizioni che negli sfoghi immediati dell’anima.
Non è il caso di chiedere al Petrarca visioni sintetiche e grandiose: non ne sarebbe capace. A causa di questa analiticità del procedimento compositivo, il Petrarca ha dovuto scrivere una infinità di opere per dire come è il suo mondo interiore e in particolare le numerosissime liriche del Canzoniere sembrano non bastare al poeta per mettere in chiaro la sua vita intima. E questo avviene perché a svolgere un solo motivo e talvolta di poca importanza il poeta deve utilizzare una lirica; e, per svolgere un motivo complesso e intrinsecamente contraddittorio ha bisogno di svariate liriche per svolgere tutti gli aspetti di esso.
g) Forma lirica:
Lirismo in generale è immediatezza di espressione di uno stato d’animo. L’espressione di uno stato d’animo infatti può essere mediata ed immediata. E’ mediata quando il poeta incarna il suo pensiero, il suo sentimento in una scena, in una vicenda o fa pensare, sentire, parlare uno o più personaggi come pensa, sente, parla di lui; è una forma indiretta di esprimere il proprio mondo,interiore (poesia narrativa e descrittiva). E’ immediata o lirica quando il poeta esprime lui direttamente quel che pensa e quel che sente: in tal caso la descrizione o la narrazione ha la sola funzione di rendere più chiara, più colorita, più concreta l’espressione lirica.
Il Petrarca è un poeta essenzialmente lirico a causa della sua spiritualità tormentata e della sua sensibilità acutissima: per lui la poesia è sfogo e chi si sfoga non si perde in descrizioni o narrazioni, ma parla, per così dire, di getto. E’ per questo motivo che il, Petrarca ha fallito come poeta epico nell’“Africa”: l’epica, infatti richiede capacità descrittiva e per di più motivi eroici e di passioni forti; mentre il Petrarca era di tendenza esclusivamente lirica e per di più un lirismo moderato e fine, non robusto, e temprato come quello di Dante e di Pindaro.
h) Forma, dialogica:
A facilitare l’espressione immediata dello stato d’animo contribuisce in modo efficacissimo la forma dialogica: infatti, non ci si sfoga che parlando con qualcuno che ci comprenda. Il Petrarca parla a sé stesso, ai lettori, alla natura, a Laura, agli angeli, a Dio, ai personaggi illustri del tempo antico e del suo tempo. Per rendere più facile il dialogo egli vivifica, e personifica anche le cose inanimate (la cameretta, l’usignolo, le acque del Sorga, gli alberi, la virtù, il vizio, etc.): metodo della personificazione.
i) Forma tendente all’artificio:
Non si può negare che l’ispirazione del Petrarca aggirantesi quasi costantemente intorno all’unico motivo della crisi interiore, sia una delle più difficili ad esprimersi, soprattutto perché esige forma minuziosa, complicata e contraddittoria. E’ appunto la minuziosità che fa cadere talvolta il Petrarca nella sottigliezza, cioè nel prolungamento di un motivo verso conclusioni strane che hanno solo un tenue rapporto col motivo stesso. E’ la complicatezza che costringe talvolta il Petrarca a girare e rigirare intorno allo stesso motivo senza dirci nulla di nuovo e facendo anche confusione. E’ la contraddizione dell’ispirazione che induce troppo spesso il Petrarca ad abusare del procedimento per contrasti nel medesimo sonetto; nella medesima canzone, nel distribuire gli sviluppi di uno stesso motivo in diverse liriche e talvolta nello stesso verso (“pace non trovo e non ho da far guerra; l’amaro dolce; il dolce amaro“).
Per essere concreto fa straordinario uso di metafore e di personificazioni: talvolta sono stiracchiate le metafore e le personificazioni sono ridicole (ad es. nella Canzone alla Vergine, il poeta dice: “con le ginocchia della mente inchine”: la mente fornita di ginocchia non è certo una immagine di buon gusto). Similmente la preoccupazione di essere elegante e fine, lo fa diventare talvolta lezioso, cioè la fa cadere nella grazia sdolcinata.
Il Petrarca piacque infinitamente a tutti i poeti umanisti nel corso dei secoli: dagli umanisti del ‘400 e del ‘500 agli Arcadici del primo ‘700: non solo piacque, ma fu imitato, sorse così il petrarchismo, cioè la mania di imitare il Petrarca. Mancando assolutamente della spiritualità del maestro i petrarchisti imitarono la sola forma di lui e quel che è di peggio, della forma imitarono le invenzioni artificiose qua e là disseminate nelle opere. Un difetto del Petrarca strettamente collegato con la minuziosità della sua analisi psicologica è la insistenza o quindi la ripetizione.
Il poeta non sembra mai soddisfatto del modo con cui svolge gli innumerevoli suoi motivi della sua ispirazione e quindi ritorna talvolta su alcuni di essi per spiegare, per ampliare, cadendo però troppo facilmente in ripetizioni. Con la minuziosità dello osservazioni, va talvolta connesso il difetto dell’elenco. Svariate liriche non sono che veri e propri elenchi delle bellezze di Laura o delle cose a cui egli ha attaccato il suo cuore: è evidente che, in tali composizioni, la poesia viene meno quasi del tutto, perché l’elenco di per sé manca di unità e quindi di vitalità poetica.
La lingua del Petrarca.
Il Petrarca scrisse tutte le sue opere in lingua latina classica, salvo il “Canzoniere” e i” Trionfi”.
La lingua latina: fino al Petrarca era adoperata dagli eruditi la lingua latina dotta medioevale, la quale era caratterizzata da una costante tendenza a rinnovare ed ad accrescere i mezzi di espressione (vocaboli, forme grammaticali e sintattiche) secondo le esigenze del pensiero e ne continua l’evoluzione: era una lingua che per la sua struttura generale ricalcava la lingua latina dotta classica, ma nei particolari si allontanava da questa assai notevolmente.
Il Petrarca si propose di riportate la lingua latina dotta alle forme ciceroniane, liviane e virgiliane, essendo persuaso che il solo latino fosse quello dei grandi autori dell’età aurea di Roma, e non quello del basso impero o, peggio ancora, dell’età post imperiale o medioevale. Egli ignorava che una lingua per essere tale deve essere viva, e che una lingua viva è in continua evoluzione. Come nel campo del pensiero politico, della saggezza pratica, delle virtù civili, dello stile formale egli considerò esemplari perfetti solo quelli che offre la repubblica di Roma: così fece anche nei riguardi della lingua.
Evidentemente per quanto voglia attenersi alle pure forme dell’età d’oro di Roma, tuttavia si vede costretto a fare uso di forme e di vocaboli nuovi che egli riesce a modellare con ammirevole precisione sulla lingua esemplare che tiene presente. Si può dire perciò che il Petrarca sia il primo e illustre cultore della lingua classica e che apra degnamente l’epoca dell’umanesimo rinascimentale.
La lingua italiana: Il volgare che adopera il Petrarca fondamentalmente è il dialetto toscano cioè la lingua che aveva adottato l’Alighieri. Tuttavia egli evita con cura le forme che hanno troppo di dialetto e sceglie quei vocaboli e quelle costruzioni che maggiormente si avvicinano alla lingua latina classica: insomma anche nella lingua egli si dimostra lindo e lucido. Data la complicatezza dell’ispirazione si presentava difficile al Petrarca anche la scelta del linguaggio con cui esprimersi; eppure egli è riuscito a trovare per tutti i suoi stati d’animo l’espressione precisa ed efficace. In fine il suo linguaggio ha la caratteristica della spontaneità e della semplicità: egli evita con cura le espressioni complicate e dure essendo costantemente la frase e il periodo con quel ritmo dolce e armonico che caratterizza la pacatezza e la chiarezza del suo mondo interiore. Il suo è il linguaggio del colloquio sostenuto sempre da una ricca intensità affettiva e abbellito dalle arti espressive di una cultura fine e nobile.
Per questi pregi di lucidità di espressione, di precisione, di spontaneità, di grazia, di nobiltà la lingua del Petrarca appare modello perfetto e insuperabile al Bembo allorché più tardi agli inizi del ‘500 si propose il problema della lingua italiana.
La lingua che le persone colte italiane, disse il Bembo, debbono adottare nei loro scritti è quella degli autori toscani del ‘300, soprattutto quella del Petrarca che è la più accurata e la più decorosa.
Il Vocabolario della Crusca che alla fine del ‘500 fu compilato sulla base della teoria del Bembo, accolse tutte le forme linguistiche del Petrarca e, siccome, il vocabolario della Crusca per tre secoli ha costituito la parte linguistica delle persone colte italiane si può dire che la sostanza della nostra lingua nazionale sia di impronta petrarchesca.
E’ per questo motivo che noi leggiamo i “Trionfi” e il “Canzoniere” del Petrarca e abbiamo l’impressione di sentire una lingua moderna, cioè assai vicina alla nostra, e quindi facilmente intelligibile, mentre nella lettura delle opere di Dante, che accolse svariate forme dialettali, abbiamo bisogno di ricorrere spesso alle annotazioni.
GIOVANNI BOCCACCIO
(1313-1375)
La spiritualità borghese.
L’Alighieri è il poeta cristiano che preoccupato delle sorti della Respublica Cristiana la quale sta miseramente decadendo e dal punto di vista morale e dal punto di vista politico, lancia all’umanità un grido di allarme e di richiamo simile a un profeta (e tale egli si stima) a cui Dio abbia affidato il compito di rigenerare la Chiesa e l’Impero.
Ma il grido dell’Alighieri non trovò alcuna eco: nuove forze lavoravano alla trasformazione della civiltà medioevale mistica in civiltà naturalistica: la forza nuova era costituita dalla classe borghese in cui l’Alighieri individuava la causa della corruzione, delle discordie nelle città (canto VI°). La parte selvaggia è uguale al partito dei Bianchi costituito da mercanti del contado inurbati. Canto XVI°: si fa una distinzione fra le bestie fiesolane immigrate in Firenze e la semenza santa dei Romani. Canto XVI°: “la gente nova e i subiti guadagni – orgoglio a dismisura han generato – Fiorenza in te si che tu già ten piagni”. (Inf.c.XXVI vv.73-75)
Cacciaguida antenato e trisavolo di Dante parlando della corruzione della Firenze moderna, attribuisce la causa ai mercanti in essa immigrati: “ma la cittadinanza ch’è or mista – di Campi, di Certaldo e di Figghine – pura vedeasi nell’ultimo artista…” (Parad.c.XXVI vv.49-51). “Sempre la confusione delle persone – principio fu del male della cittade – come’ del corpo il cibo che s’appone”
(Parad.c.XXVI vv.67-69).
La borghesia è una classe attiva, dinamica, avida di vivere e di vivere bene; la sua spiritualità è caratterizzata dalla concezione della vita intesa come attività di guadagno e il principio che permette di guadagnare spregiudicatamente è quello dell’utilitarismo: tutto ciò che è utile è buono. Della vita, intesa come godimento dei beni guadagnati, principio giustificatore è l’edonismo: è buono tutto ciò che è piacevole. Della vita intesa come capacità di creare cose belle, principio giustificatore è l’estetismo: è buono e prezioso tutto ciò che è bello. Insomma nella concezione borghese la vita è espressione piena, dinamica e spregiudicata di tutte le energie della natura, energie fisiche e spirituali. Per realizzare con tranquillità di coscienza questo programma di vita piena e libera, lo spirito borghese sente il bisogno di liberarsi dalle preoccupazioni religiose e morali. Dio non viene negato, ma è concepito più comprensivo e più condiscendente nei confronti degli uomini: egli ha creato la natura umana potenziandola più o meno nei singoli individui e ha voluto che i singoli individui esprimano con pienezza tutte le energie del loro piccolo mondo; quindi Egli non solo non è avversario ad una espressione integrale delle energie della natura, ma si compiace che gli uomini sfruttino e godano i suoi doni. Certo il Dio cristiano ha imposto limitazioni alle espressioni delle energie naturali nel senso che non permette l’uso di esse se non per i beni a cui Egli le ha destinate né permette che ciò che è mezzo diventi fine.
Ma il borghese acquieta facilmente la sua coscienza. E’ chiaro che impegnare la propria coscienza con la professione religiosa cristiana significa per il borghese accettare limitazione ai propri guadagni e ai propri godimenti; per questo il borghese afferma che la religione vera è quella che ognuno crede vera e che il Cristianesimo vero è quello che appare vero a ciascuno. Il Cristianesimo definito dai preti con norme morali ben definite, con gli incubi dell’oltretomba, non è tale da permettere libertà allo spirito borghese: perciò del cristianesimo si dà quell’interpretazione che si considera più adatta a favorire la espressione libera della propria natura. Tale atteggiamento nei confronti della religione si chiama soggettivismo religioso. Al soggettivismo religioso va strettamente connesso il naturalismo morale il quale ha come principio fondamentale l’affermazione che la natura è buona e che quindi il bene consiste nel seguire la natura; due sole leggi deve osservare chi segue la natura:
* La legge dell’utilità: nel seguire gli impulsi non bisogna sacrificare il proprio utile.
* La legge della finezza e della eleganza: nel seguire gli impulsi bisogna evitare la grossolanità.
La morale naturalistica si può riassumere, dunque, in questi principi:
a)- Assecondare le esigenze della natura.
b)- Non resistere alla natura,
c)- Chi resiste alla natura pecca e alla fine viene anche egli travolto dalle
forze della natura.
d)- Nell’assecondare la natura evitare il danno della grossolanità.
L’intelligenza messa a servizio della utilità, del piacere, della finezza abbandona le speculazioni teoriche della filosofia e della teologia e si specializza nelle astuzie e nelle compilazioni elegantemente ingegnose. Insomma diventa abilità, capacità di saper fare.
Cosi secondo la concezione borghese la vita è espressione totale, spregiudicata e serena di tutte le forze della natura (concezione naturalistica della vita). Tale concezione si oppone come è evidente alla concezione mistica la quale subordina la natura alla soprannatura non per soffocarla ma per disciplinarla ed elevarla. Questa nuova mentalità entrò nel campo della cultura in quanto i borghesi come si è visto erano desiderosi di affinarsi col culto della letteratura; delle arti e delle scienze, quindi entravano in gran numero degli intellettuali apportandovi la loro mentalità; mentre nello stesso tempo veniva meno in quel mondo il numero degli ecclesiastici per la decadenza del clero dovuta alla schiavitù avignonese e al successivo scisma di Occidente. La decadenza del Sacro Remano Impero contribuì anche essa alla decadenza della spiritualità mistica medioevale e quindi alla affermazione della spiritualità naturalistica. Anche il passaggio dal Comune alla Signoria, cioè da una vita politica in cui il tono della mentalità e dei costumi è definito dal signore che in genere è di origine borghese e adotta lo stile elegante e gaudente ed in fine contribuisce alla affermazione della spiritualità naturalistica, anche l’evoluzione generale della civiltà dovuta all’aumento della popolazione, alla migliore organizzazione delle città, nei comuni prima, e nelle signorie dopo, agli accresciuti rapporti fra città e città, fra nazione e nazione: con la conoscenza reciproca le varie popolazioni si influenzano, anche reciprocamente; crescono i bisogni, crescono le iniziative nel campo industriale e commerciale, cresce il benessere (si mangia meglio, si veste meglio, si parla meglio, si nutre simpatia per la cultura e per l’arte, si assume un tono un po’ spregiudicato nei confronti della religione e della morale).
I giovani giudicano i loro padri e i loro nonni arretrati materialmente e spiritualmente, troppo modesti, essi invece sono progressisti e sanno sul serio vivere la vita nella sua pienezza.
Si afferma così una mentalità più libera più aderente ali interessi terreni, meno religiosa, più mondana, più disposta a criticare che ad accettare passivamente, più disposto a godere che a far penitenza, più amica degli scherzi che delle meditazioni serie. Espressione fedele e vivace di questa mentalità è il Boccaccio.
Motivi della spiritualità boccaccesca.
Concezione della vita.
Vivere significa assecondare con intelligenza e con finezza le esigenze della natura per garantite alla nostra esistenza sensazioni piacevoli, numerose e stabili il più possibile. La rinuncia ad assecondare le esigenze naturali anzitutto è dolorosa e in secondo luogo è impossibile ad attuarsi, e in terzo luogo dispiace a Dio stesso che ci ha donato i beni per facceli godere. Chi vuol vivere secondo la volontà di Dio autore della natura, e vuole garantire a sé la felicità, deve sfruttare il più possibile le occasioni che gli si offrono dalle comodità di godimenti facili e ricchi di soddisfazioni.
Il fatto che intorno a noi ci siano delle persone che soffrono non deve immalinconirci: il male altrui non deve compromettere la nostra serenità; del resto se volessimo piangere con coloro che piangono non faremmo che aumentare il numero di coloro che piangono: è bene evitare il più possibile scene di dolore, ambienti tristi e far del tutto per circondarci di cose e di persone che ci allietino.
A consolare gli afflitti si dedicano persone speciali, eccezionali, degne di rispetto, ma non imitabili; così coloro che non concepiscono la vita in modo normale possono considerarsi come esonerati dal peso di curare i mali altrui.
Espressione evidente della vita intesa come piacere, è tutta la produzione letteraria del Boccaccio, salvo quella erudita. Ma il “Decamerone” è certo l’espressione più significativa. Il poeta lo compone per dilettare le donne stanche della vita domestica dichiarando esplicitamente che non vuole destinarlo a quelle che preferiscono il fuso e l’arcolaio.
Il gruppo dei dieci novellatori si allontana da Firenze ove infuria la peste, ove si muore, ove tutto ha aspetto funereo, per rifugiarsi in un mondo ricco di salute, di salubrità, di profumi, di belle visuali, di vivande prelibate, e scegliendo tra le preoccupazioni quella del novellare si allontana sempre più dal mondo dolorante di Firenze, si disperde in un mondo di sogni che attraggono e dilettano.
Affinché il piacevole incanto reale e fantastico non sia turbato, la brigata da ordine ai servi di non riferire mai notizie relative alla città appestata. Il piacere di cui si parla il Boccaccio non è limitato ad una sola specie: tutto ciò che è piacevole costituisce i1 piacere del Boccaccio (quindi piaceri della mensa, piaceri sessuali, piaceri dell’avventura, piaceri dello scherzo …).
La vita dunque per il Boccaccio è amabile e sereno godimento di ciò che piace.
Concezione morale.
Il Boccaccio accetta la concezione morale naturalistica che è propria della mentalità borghese e che è già stata illustrata nei suoi principi. Basterà quindi, esemplificare richiamando le affermazioni più notevoli nelle opere del Boccaccio circa la morale naturale. Il “Ninfale fiesolano” ha questo significato generale: le ninfe per quanto facciano voto di castità e siano vigilate da Diana, tuttavia non possono resistere all’impulso della natura.
La legge di Diana e i suoi interventi punitivi generano una tragedia dolorosa: due morti e un bimbo senza genitori. Tale bimbo, frutto di un amore sacrilego, non è affatto l’esemplare di natura perversa (ad es. deformità fisiche o cattiveria d’animo) come potrebbero pensare coloro che deprecano l’idillico amore di Mensola e di Africo; ma e un bambino, poi un giovinetto, più bello, più buono e più bravo degli altri bambini e giovinetti.
Nella introduzione alla quarta giornata del Decamerone il Boccaccio giustificandosi di fronte ad alcuni lettori, che avevano scorso le novelle delle prime tre giornate pubblicate a parte, dell’accusa di essere troppo ligio e troppo condiscendente con le donne, racconta una novelletta dalla quale risulta che anche coloro che sono vissuti in eremitaggio fin dai primi anni, al primo contatto con il mondo, non possono fare a meno di sentire la forza dell’amore, cioè non possono resistere ad una esigenza insopprimibile della natura: i preti, i frati e le monache, nel Decamerone sono spesso presentati come vittime più o meno comiche della forza della natura a cui hanno pur deciso di resistere con un proposito della forza del voto di castità. Nella novella di Nastagio degli Onesti, si afferma un principio morale del tutto coerente con la mentalità edonistica della borghesia: chi non corrisponde all’amore va all’Inferno, chi corrisponde si salva. E quindi non è peccato amare ma è peccato non amare.
Nella novella di frate Cipolla troviamo un certo Cuccio Imbratta che sentendo odor di cucina e pensando che a cucinare vi sia una cuoca, si dirige di filato colà, mosso quasi da un istinto insopprimibile.
Da molte novelle di avventura nelle quali si svolge il motivo dell’uomo che da poverio diventa ricco o riesce a superare gravi rischi e a giungere ad uno stato di felicità, si deduce che la virtù, secondo la concezione del Boccaccio, è abilità, cioè saperci fare; saper fare il bene come saper fare il male.
Tutti coloro che si propongono forme di vita impossibili, cioè contro natura pur essendo forniti di virtù, tutti gli ipocriti, gli imbroglioni, che vogliono dare ad intendere di essere superiori alle esigenze della natura mentre ne sono vittime deplorevoli, dal Boccaccio vengono spassosamente comicizzati. Tuttavia le forme vere e serie della virtù si impongono anche al poeta borghese, e non è raro trovare nelle suo opere accenti di seria ammirazione per qualche espressione di virtù autentica.
Come si concilia questa ammirazione con la vera concezione morale del Boccaccio, cioè la sua morale naturalistica che in nome della natura permette tutto, salvo le norme della prudenza e dell’eleganza?
E’ evidente da tutte le opere dello scrittore che egli distingue una morale teorica, cioè quella religiosa tradizionale, e una morale pratica, o della vita vissuta. La prima è senza dubbio degna di rispetto, ma troppo difficile da praticarsi, perché superiore alla capacità umana; la seconda più vicina alle possibilità dell’uomo comune, è più facile e più spigliata: se tutti gli uomini vivessero secondo i precetti dalla prima, il mondo si ridurrebbe a un convento di Santi padri nel deserto o a una assemblea di Catoni: è una fortuna perciò che gli uomini comuni considerino la morale della natura come la loro morale: un santo padre o un Catone stanno bene nel mondo come esemplari decorativi e come un venerando ammonimento all’umanità birichina.
Concezione religiosa.
Dio esiste, ha creato la natura e l’ha fornita di energie e vuole che gli uomini le sfruttino completamente per trarne tutte le possibilità di piaceri. Egli è buono, condiscendente e concede agli uomini l’aiuto per soddisfare le esigenze della loro natura; per cui gli uomini possono rivolgersi a lui anche per chiedere assistenza nella realizzazione di un complicato e difficile adulterio.
In una novella il Boccaccio ci presenta un certo Pirro che impegnato nella seduzione della moglie di un certo Nicostrato, invoca l’aiuto di Dio per riuscire nel suo intento. E la novella stessa, dopo aver descritto la felice conclusione di quel progetto, si conclude con la frase: ” e Dio ce ne dia anche a noi”.
Si tratta, dunque, di una divinità ad uso dei borghesi, dei gaudenti. Come poteva il Boccaccio conciliare questo concetto della divinità con la professione della fede cattolica a cui egli, almeno, esternamente, rende omaggio?
Dioneo dopo aver diretto per una giornata la narrazione di novelle oscene, vuole concludere con una novella di cui egli stesso dice che non concorda con ciò che si deve credere; il succo di essa è questo: i peccati di lussuria non entrano nel conto delle responsabilità che noi poveri mortali contraiamo con la giustizia divina: “nel mondo di là delle comari non si tien conto”.
Nonostante che Dioneo abbia affermato che questo principio è contrario alla fede, tuttavia del personaggio che valendosi di questo principio passa da una lussuria timida ad una lussuria sfrenata si dice che passa dalla ingenuità alla saviezza.
Sicché per tranquillizzare la sua coscienza di cristiano, il Boccaccio ricorre ad un interpretazione più blanda e quasi pagana del Cristianesimo: si tratta di una interpretazione personale, e il fatto che questi sia in contraddizione con l’interpretazione ufficiale della Chiesa non lo sgomenta anzitutto perché i preti stessi pur sostenendo a parole l’interpretazione della fede cristiana, in pratica soggiacciono a tutte le miserie che a quella interpretazione sono opposte; in secondo luogo perché non si riuscirà mai a sapere quale delle religioni sia la vera.
Per ognuno, infatti, è vera la religione che egli professa e che lo soddisfa e lo tranquillizza spiritualmente.
Significativa a questo proposito è la novella di Melchisedec Giudeo e il Saladino, che manco a farlo apposta, è proprio tra le prime novelle dei Decamerone, quasi ad avvertire il lettore, che se troverà nel libro una mentalità diversa da quella tradizionale del Cristianesimo, non dovrà scandalizzarsi, perché quanti sono gli uomini, tante sono le teste e quante sono le teste tante sono le religioni.
Si afferma così anche nel campo religioso quell’atteggiamento individualistico che raggiungerà la sua massima espressione con la “religione di coscienza” di Lutero.
Martellino ed i suoi due amici commettono una audace scorrettezza in luogo sacro; si tratta di una burla al fanatismo del popolo che giunge spesso al ridicolo, ma resta sempre la gravità di aver voluto fare una pagliacciata in chiesa.
Eppure gli spregiudicati mattacchioni in conclusione ricevono un regalino dal signore di Verona. Questi, infatti dalla mentalità larga, e, direbbe il Boccaccio non fanatica, considera il gesto come uno scherzo spiritoso e, in fin di conti, piacevole e arguto.
I giudici poi sono rappresentati come cattivi e vendicativi; tra il signore e i giudici il lettore sente simpatia per il primo. Un’altra caratteristica della religiosità borghese è una specie di rispetto esteriore di alcune pratiche non eccessivamente impegnative e nello stesso tempo rivelatrici di un attaccamento alla fede.
Ad es., in ossequio alla passione del Signore, la compagnia dei novellatori si astiene dal raccontare nei giorni venerdì e sabato; ma questo ossequio non impedisce che negli altri giorni siano raccontate novelle oscene e immorali, al termine delle quali, in genere, il giovane narratore o la giovane narratrice conclude con esortazione a seguire il principio di vita messo in evidenza nel racconto, anche se esso è contrario alla dottrina cristiana.
Non mancano certo nel Decamerone qua e là riconoscimenti aperti della santità della nostra religione, ma è presente si può dire ovunque la voce di una morale naturalistica di ispirazione pagana.
Talvolta il Boccaccio, mettendo in evidenza i vizi degli ecclesiastici, ci sembra animato dal desiderio di apportate un contributo di rinnovamento spirituale della Chiesa. Ad esempio nella settima giornata Dioneo, il più spregiudicato dei dieci novellatori, prende lo spunto dal lusso e dalla mondanità di un certo frate Leonardo, per deplorare con tono di persona rammaricata e preoccupata del bene della anime, la corruzione dei frati che, “invece di rassomigliare a colombi rassomigliano a galli con la cresta ritta”.
Sembra addirittura di sentire Dante Alighieri che nei canti XI, XII, XXII, XVII del Paradiso inveisce aspramente contro la corruzione dei prelati e dei Pontefici per purificarli dai loro vizi.
Ma il principio che gli ecclesiastici son destinati a soggiacere ai vizi comuni, perché hanno abbracciato un programma insostenibile, è diffusamente commentato in svariati punti del Decamerone.
Sembrerebbe una contraddizione, ma forse il Boccaccio vuol dire agli Ecclesiastici che se non hanno la forza di mantenere gli impegni presi, potevano fare a meno di assumerli, benché data l’assolutezza della dottrina naturalistica, nessuno, secondo il Boccaccio, potrebbe e dovrebbe assumerli. Del resto neanche i laici i quali possono unirsi in matrimonio riescono, secondo il Boccaccio a sfuggire alle esigenze di un istinto che non conosce limitazioni. I mariti e le mogli adulteri nel Decamerone sono addirittura sovrabbondanti.
Quindi si può concludere che la satira del Boccaccio contro la corruzione degli ecclesiastici non è vera satira, né è mossa da intenzioni serie: i vizi dei preti, dei frati e delle monache più che altro sono spunti per intrecciare novelle saporite in cui vengono messi in evidenza le furberie dell’istinto e si deridono le imprudenze e le grossolanità di coloro che inesperti della vita restano vittime della natura in forme clamorosamente ridicole.
Un altro motivo riguardante la mentalità religiosa del Boccaccio è quello relativo ai fantasmi e alle superstizioni del popolo. Svariate novelle mettono in ridicolo la dabbenaggine del volgo o la ingenuità di certi pii religiosi o la grossolana devozione di certi fraticelli allo stato spirituale ancora primitivo.
Sembrerebbe anche qui che il Boccaccio voglia correggere certe forme di religiosità materialista; ma l’indulgenza che egli rivela nei confronti di certi personaggi che beffano il fanatismo, ci dice che il Boccaccio non ha intenzione di correggere né di disapprovare i mali della vita cristiana, e che ha soltanto intenzione di vivere; il che ci induce a credere che da buon interprete della spiritualità borghese il Boccaccio fosse fuori da qualsiasi preoccupazione ideale religiosa sia conformistica che rivoluzionaria.
Quel che si nota è il desiderio di persuadere i lettori attraverso buone risate che la vita va vissuta con pienezza e senza eccessive preoccupazioni morali o religiose.Il motivo dell’amore.
Il Boccaccio concepisce l’amore generalmente come istinto sessuale e precisamente come il più potente fra gli istinti, come quello che miete più piacevoli vittime; si rivela il più dinamico, il più astuto promotore di iniziative e anche spesso il più coraggioso.
Savio è colui che in giovinezza e finché può non lascia sfuggire alcuna occasione per fare le più svariate esperienze amorose.
In una novella una vecchia molto devota e che diceva sempre “paternostri” consiglia con convinzione quasi religiosa una giovane moglie a non sprecare il tempo concesso dal Signore ed afferma che per i vecchi non v’è pentimento maggiore che quello di aver perduto il tempo.
L’amore, dunque, attrattiva sensuale sorge spontaneo in tutti gli uomini e in tutte le donne in qualsiasi età e condizioni e chiede alla persona amata non tanto la bellezza spirituale congiunta alla bellezza fisica, angelica o almeno decorosa, ma tutte le malie con cui gli uomini riescono ad innamorare le donne, e le donne riescono ad innamorare gli uomini.
Fiammetta, simbolo della donna seducente, esemplare perfetto della donna mondana, ha “capelli d’oro e crespi su li candidi e delicati omeri ricadenti; ha il viso rotondetto con colore di bianchi gigli e di vermiglie rose mescolate, tutto splendido, e ha in testa due occhi che paion di falcon peregrino, ammaliatori e rapaci”.
Il poeta l’ha chiamata Fiammetta perché ha simboleggiato in lei la donna che arde e che incendia insinuando il suo fuoco nei cuori con le fini astuzie della femminilità più seducente; non Fiamma perché questo nome non esprimerebbe la grazia e l’agilità e farebbe pensare ad una passione tutta ad un pezzo, ma Fiammetta cioè fiamma volubile, capricciosa, maliziosa e birichina.
Dante invece aveva chiamato la sua donna Beatrice, perché purificava, elevava ed immergeva lo Spirito nella luce e nell’amore di Dio. Petrarca aveva chiamato la sua nobile donna Laura poiché donna dell’alloro, ossia donna gloriosa nella maestà della sua grazia; piena d’amore e capace di-suscitare ardore di poesia, quindi desiderio di gloria immortale in cui la contemplava a l’amava.
Dante chiede a Beatrice che lo innamorasse con la sua purezza, con la sua dolcezza, con la sua umiltà, con i suoi occhi lucenti e il suo color di perla. Il Petrarca aveva chiesto a Laura che lo innamorasse con la vivacità e l’ardore del suo spirito, con la saggezza dei suoi costumi, con l’armonia delle sue forme fisiche, ossia che lo innamorasse con le espressioni più belle dell’eleganza, spirituale e fisica .
Boccaccio chiede alla sua donna che lo ammalii con le sue attrattive che la psicologia naturale e l’arte hanno suggerito nel corso dei secoli alla donna per piacere agli uomini.
Le sfacciate donne fiorentine dell’Alighieri diventano le “graziosissime donne” del Boccaccio. In Beatrice si incarna l’ideale della donna angelica; in Laura l’ideale della donna gentile e innamorata, in Fiammetta l’ideale della donna piacevole e seducente.
Beatrice è un dono del cielo alla terra affinché la terra trovi il cammino verso Dio. Laura è un prodotto della natura che mette in imbarazzo l’uomo che si trova a scegliere fra la terra e il cielo.
Fiammetta è un dono di un Dio buono e comprensivo agli uomini affinché ne godano serenamente e pienamente, perciò l’amore è un obbligo sia nella concezione dell’Alighieri sia nella concezione del Boccaccio, ma è evidente l’opposizione tra il significato e il fine dell’amore nella concezione dell’uno e in quella dell’altro: per uno è forza che eleva “gloriosamente” alla contemplazione del vero sommo e al godimento dell’amore sommo; per l’altro l’amore è fonte inesauribile di piacere concepito come esigenza suprema della esistenza umana, l’amore viene presentata dal Boccaccio come forza indomita che piega tutti i giovani e le giovani, i vecchi e le vecchie, le ninfe, i monaci, e le monache, i preti, gli uomini e le donne sposate, i vedovi, e le vedove. E’ chiaro che i toni e le espressioni di questa forza variano col variare dei soggetti; ora è istinto crudo e quasi animalesco, ora è desiderio di nuove esperienze e di nuove avventure, ora è piacevole diversivo in una vita senza gioia ora è gentile e patetica ansia di trovare un placido e sereno affetto; ora è chiassoso e festoso, ora è occulto, astuto e malignetto, ora è vendicativo e geloso, ora è ingenuo e liberale, raramente l’amore è tragico; per il Boccaccio l’amore è fonte di vita e non di morte; egli sembra quasi impegnato ad insegnare uno stile più generoso ai Cuori umani, a persuaderli che è indegno di una persona civile far soffrire o addirittura spegnere un cuore innamorato per incorrispondenza. Non è degno di una persona che conosca la bellezza e il valore della vita non corrispondere con entusiasmo al grido di un cuore innamorato. Il Boccaccio sembra vagheggiare una umanità in cui si ama e si è riamati, in cui la convivenza è resa piacevole da vivacità di corrispondenza e da generosità nel cedere ai propri diritti; solo la convivenza barbarica, secondo il Boccaccio, è caratterizzata da crudeli egoismi, da feroci vendette da gelosie spietate.
Concezione della storia umana.
Se la vita è espressione piena di tutte le energie della natura e se Dio per così dire, ha caricato di energie ciascun uomo affinché le sfrutti per il suo piacere fino ad esaurirle, è chiaro che la storia umana è osservata dal Boccaccio come un bellissimo e divertentissimo spettacolo di incontri, di scontri, di congiungimenti sempre spigliati e piacevoli delle forze di cui sono forniti i singoli individui allorché questi nel giuoco dell’esistenza si incontrano.
Non si parla nelle opere del Boccaccio di Provvidenza Divina intesa come la intende il Cristianesimo e come la concepisce l’Alighieri (cioè come volontà divina che formula e realizza i piani valendosi della libertà degli uomini per giungere a conclusioni che sfuggono alle capacità umane), ma di una forza misteriosa chiamata fortuna e creata dal buon Dio per combinare gli incontri e gli scontri, i congiungimenti e le separazioni dei vari mondi degli individui in modo da generare su questa terra i movimento e varietà sì da perpetuare il gioco delle forze umane nei secoli.
La Fortuna mette alla prova l’intelligenza umana, dà occasione a ciascuno di rivelarsi per quel che vale, dà occasione ai cuori di conoscersi: raramente la fortuna del Boccaccio è cattiva e maligna; quasi sempre opera con intenzione benefica.
Della storia umana, il Boccaccio non coglie le espressioni collettive, cioè le vicende e i destini dei popoli, ma coglie gli individui e il piccolo gioco di forze che operano nei piccoli mondi: più che l’umanità egli studia gli uomini, cioè più che la fisionomia, il destino, le responsabilità e più che l’uomo in genere egli si compiace di osservare i vari tipi individuali; di qui l’assenza quasi completa nelle opere del Boccaccio di ideali politici e sociali; di aspirazioni e di iniziative dirette e a sollevare le miserie fisiche e morali dell’umanità. Il mondo del Boccaccio per quanto fedele alle vere forme dalla vita vissuta, riproduce solo alcuni aspetti della reale esistenza umana e precisamente il complesso degli aspetti lieti, giocondi gentili, sorridenti; doveri famigliari, politici, sociali, misteri che circondano la nostra vita, le tristi smentite nei fatti delle nostre aspirazioni limitate non rientrano nella storia umana che conosce e riproduce il Boccaccio.
Concezione dell’arte.
L’arte, secondo la concezione del Boccaccio consiste nel combinare visioni di vita umana fedeli il più possibile alle forme vere della vita vissuta e nell’atteggiare tutti i vari elementi che le compongono in modo tale che con le loro vivaci espressioni contribuiscono tutti a mettere in luce il motivo in esse incarnato.
Fedeltà alla varietà psicologica, evidenza e vivacità di atteggiamento costituiscono i fattori essenziali dell’arte. Il fine, infatti, che il poeta si propone è quello di dilettare se stesso e i lettori con la visione di scene umane che interessino per la loro vivacità, per il gioco di energie che in esse si realizza, per certe conclusioni che possono essere utili a coloro che attendono sagge indicazioni non tanto dalle indagini teoriche, quanto dalle esperienze pratiche.
Le indagini teoriche sono troppo difficili e lunghe e portano conclusioni lontane dalle esigenze della vita vissuta. Il poeta perciò viene incontro ai lettori che vogliono imparare a vincere presentando loro le scene più significative del “saper vivere” cioè del saper destreggiarsi per sfruttare di tutte le occasioni le varie risorse di piacere che esse presentano. La prima caratteristica dell’arte dunque è il realismo a cui va aggiunta l’idealizzazione così che la visione poetica risulti vera e tipica nello stesso tempo. Al poeta è necessaria una vasta e intelligente conoscenza dei fatti umani e particolarmente della psicologia caratteristica dei più svariati individui, delle diverse classi, dei diversi ambienti; è necessaria la conoscenza delle iniziative in cui sogliono sfociare certe aspirazioni, delle complicate combinazioni che sogliono risultare dall’incontro di più mondi individuali e perfino dei gesti con i quali si esprimono i vari stati d’animo.
Questa esperienza della vita umana non deve essere complicata con problemi religiosi, morali, politici, filosofici perché anzitutto i problemi teorici appesantiscono la composizione poetica e in secondo luogo non sono necessari; basta ad istruire il lettore la visione stessa della realtà vissuta. Il poeta è maestro di vita non in quanto trasferisce il lettore in un mondo di idee che non saranno mai attuabili nella pratica, ma in quanto lo pone di fronte alle forme vere dell’esperienza quotidiana la quale lo preoccupa molto di più dei cosiddetti ideali astratti. Realistica, dunque, deve essere la rappresentazione della vita e con il realismo va strettamente congiunta la varietà dei toni e l’agilità, la spigliatezza delle scene. La vita come è vagheggiata dal Boccaccio è tutto moto perpetuo. Siccome però le visioni che il poeta rappresenta devono rimanere bene impresse nello spirito del lettore e procura dei momenti di svago e di diletto nei quali le immancabili tristezze della vita possono essere dimenticate è necessario caratterizzarle con tanta ricchezza di motivi da presentarle come forme tipiche di esistenza. Al realismo dunque va aggiunta l’idealizzazione. Paesaggi di carattere deficiente nel Decamerone appaiono veri e tipici nello stesso tempo, in forza appunto di questa congiunzione dei due motivi: idealistico ed idealizzatore. E’ chiaro che se per una buona applicazione del metodo realistico è necessaria una vasta conoscenza delle varie forme della vita umana, per un buon uso dell’idealizzazione sono necessarie: capacità fantastica e buon gusto nella stesso tempo; con la fantasia infatti si combinano i vari elementi offerti dalla realtà e dalla esperienza; col buon gusto si realizza la combinazione con proprietà e proporzione.
E’ proprio questo senso della proporzione, questo stile di buon gusto che fa evitare al Boccaccio l’insistenza su motivi osceni, o schifosi così frequenti nelle sue novelle; per cui le visioni anche le più oscene e le più immorali sono presentate con arguta signorilità così da strappare il sorriso anche alle persone più serie. Il Boccaccio ci fa l’impressione dell’uomo che, arguto ed esperto, con tono sornione, narra calmo e serio, ai lettori che curiosi si addensano intorno, le piacevoli avventure create dalla sua fantasia.
Egli si propone di istruirli e di dilettarli; di istruirli attraverso visioni di vita concreta, cioè attraverso esempi eloquenti del “saper vivere”; di dilettarli con la presentazione di intrecci interessanti e comici che quasi sempre anche nei casi alquanto drammatici, si concludono con una clamorosa risata. Quando è sicuro che il lettore riderà o sorriderà, il Boccaccio è anche sicuro di aver indovinato l’ispirazione e il modo del suo racconto.
Come il vivere non è indagine intorno ai principi e ai fini della nostra esistenza, ma solo fare, muoversi, combinare qualcosa; così l’arte non è pensosa rielaborazione della realtà umana e non umana, nei quadri e alla luce della filosofia o della religione o della politica, ma riproduzione del vivere stesso nelle sue forme più complete e ottimisticamente completate; bensì insomma la vita nell’arte del Boccaccio non colta nei suoi rapporti con la verità esterne né inquadrata nei suoi immutabili destini, ma è riprodotta nel suo farsi, nel suo divenire continuo, ricco di complicazioni sempre nuove e piacevoli.
Sono appunto questa novità e questa piacevolezza e questa concretezza che dilettano il lettore, attraggono il suo interesse e lo migliorano nel senso che lo rendono più esperto del mondo, più uomo insomma.
La lingua deve seguire le forme della ispirazione, cioè deve adattarsi alle diverse tonalità delle scene secondo il loro sviluppo; e siccome tale sviluppo come si è visto, procede per realismo e idealizzazione insieme, è evidente che anche la lingua riproduca le forme reali dell’espressione viva con le sue spezzature, con la sua immediatezza, con la sua volgarità, ma si elevi quanto è opportuno alla forma piena e solenne dell’architettura del linguaggio classico di cui il Boccaccio era espertissimo. Essendo un bravo appassionato cultore della letteratura latina nella lingua del Boccaccio si fondono mirabilmente insieme le forme della sintassi volgare, tutta concretezza e celerità, con quelle delle sintassi dotta, tutta solennità e nobiltà.
Conclusione circa la spiritualità del Boccaccio.
Il Boccaccio rappresenta la conclusione di un processo spirituale storico che costituì il passaggio dal mondo medioevale al mondo rinascimentale. In Dante natura e soprannatura si riguardano amandosi e compiacendosi a vicenda; l’una apprezzando e lamentando nello stesso tempo le esigenze dell’altra.
Nel Boccaccio la soprannatura si risolve nella natura in quanto il fine ultimo dell’uomo per volontà stessa di Dio si esaurisce nel godimento dei beni terreni: Dante è eroicamente deciso ad ascendere verso l’alto e a rapire con sé l’appesantita umanità.
Petrarca è eternamente incerto tra la via del cielo e quelle della terra e chiede pietà e comprensione ai suoi lettori. Il Boccaccio gode spensieratamente gli spettacoli della terra ed è contento e soddisfatto di sé, della vita a dei suoi simili.
Decamerone.
E’ una raccolta di cento novelle raccontate da un gruppo di sette donzelle e tre giovani in un meraviglioso ritiro di campagna nel territorio fiorentino, durante la peste del 1348. Le novelle sono incorniciate nella giornata che conducono i dieci novellatori; per cui sono frequenti interventi diretti di colui o di colei che racconta, per commentare, per consigliare, per approvare o disapprovare in modo che intorno al piccolo mondo che il narratore o la narratrice presenta sembra di vedere il gruppo dei dieci attento interessato in atto di sorridere e specie al termine di novelle comiche in atto di arguta e clamorosa risata.
Insomma lo spirito dei novellatori è messo a contatto diretto con quello dei personaggi che vengono presentati. E par di vedere ora approvare e incitare i personaggi, ora far gesti di disapprovazione come di fronte a cose nefande.
Approvano quando i personaggi sono d’accordo con essi nel concetto che la vita deve essere vissuta pienamente, disapprovano quando vedono un pazzerello o una pazzerella che avendo occasione di godere, rifiuta; ridono clamorosamente quando chi si dava le arie di dotto si rivela povero uomo come tutti, o quando i furbi la fanno agli sciocchi o i più furbi la fanno ai meno furbi.
Talvolta il gruppo dei dieci si emoziona per qualche gesto cavalleresco ricco di gentilezza e di umanità raramente sotto l’incubo di impressioni drammatiche, di impressioni tragiche.
Al termine di ogni giornata si elegge il nuovo re o la nuova regina per il giorno seguente e l’ultimo saluto al giorno che tramonta pare voglia essere dato dalla ballata in cui torna di continuo il concetto che la vita é amore e che gode colui soltanto che sa amare e farsi amare. La giornata del grazioso gruppo è organizzata nel modo più intelligente e più piacevole: niente gioco perché provoca tristezza e tensione nervosa, ma solo piacevole novellare e giocose passeggiate.
I servi e le serve sono inappuntabili, gustosa e decorosa la mensa, belle le camere e belli i letti, splendidi i giardini e meraviglioso il clima: tutto è bellezza, ordine e spigliatezza. Il fatto poi che il piccolo regno è sotto la direzione delle donzelle e dei giovani è garanzia di perfetto andamento.
Ogni donzella si impegna a far bella figura di fronte alle colleghe e specialmente di fronte ai giovani e ciascuno dei giovani ci tiene a far vedere le proprie capacità.
Ci sono i mattacchioni e le mattacchione un po’ sfrenatelle, con tentenza all’eccesso, ma il poeta ha creato la saggia Pampinea che richiama all’ordine quello sfrenatello di Dioneo e quella scapestratrella Fiammetta. Insomma il poeta ci presenta un mondo pieno di grazia, di vivacità e si correttezza quasi ad indicare a coloro che rimproverano la vita dei mondani che anche lo stile mondano può essere perfetto.
Il Boccaccio avrebbe ragione se i “piacevoli novellatori” fossero davvero corretti: ammettiamo pure che lo spirito dei novellatori sia impeccabile all’esterno, ma la mentalità è spesso deplorevole.
Volerli giustificare dicendo che sono giovani e spensierati significa affermare che certe cose sconvenienti di per sé stesse, non sono sconvenienti per i giovani e, supponiamo, sono sconvenienti per i vecchi.
In conclusione tra il mondo dei novellatori e quello delle novelle c’è dunque un rapporto intimo costituito non solo dalla tensione, dall’attenzione e dall’interesse degli ascoltatori per le scene di vita umana che vengono successivamente presentate, ma da una concezione comune del vivere: sia i personaggi delle novelle che i novellatori, concepiscono la vita come piena espressione delle energie naturali.
Del resto è sempre lo stesso Boccaccio che con la sua mentalità e con la sua arte compone sia il mondo dei novellatori che quello delle novelle.
Motivi principali svolti nel Decamerone.
Essendo il Decamerone diretto a divertire ed istruire donne mondane, cioè donne che vogliono godere la vita, è chiaro che la maggior parte dei motivi in esse svolti saranno di ispirazione lieta.
Come pure è chiaro che nel Decamerone il Boccaccio ha voluto esprimere la concezione della vita che egli raggiunse nella maturità e ha voluto raccogliere tutti i motivi che secondo lui illustravano nel modo più chiaro quella concezione.
Non è il caso di ripetete come il Boccaccio concepisce la vita, ci basti solo ripetere che per lui vivere significa godere con misura, con serenità, con arguzia, con spigliatezza. Perciò nel Decamerone vi saranno motivi comici di svariato tono, motivi amorosi pure di tono svariato, motivi avventurosi, raramente motivi drammatici capaci di emozionare:
1)- Motivi comici (comico = capace di destare il riso).
La lieta compagnia dei dieci novellatori si è proposta di stare allegra e di passare quindici giornate davvero ideali: il riso fa buon sangue, e quindi essi preferiscono agli altri motivi quello comico, ché perciò nel Decamerone ha uno sviluppo più vasto degli altri.
Il comico può risultare:
a)- dal contrasto fra lo sciocco e il furbo (le novelle di Calandrino; le novelle che svolgono il motivo della beffa in genere compiuta alle spalle di persone ingenue e ancora primitive).
b)-dall’arguzia e vivacità con le quali certe persone sogliono trarsi di impaccio (Chichibio e la grù).
c)- dal contrasto di ciò che uno si vanta di essere o dovrebbe essere e quello che effettivamente uno è (le novelle che svolgono il motivo della lussuria dei religiosi).
d)- dall’esagerazione di certe posizioni psicologiche che da luogo al ridicolo (sono le novelle assai rare che sviluppano motivi grotteschi).
e)- dal contrasto fra la serenità con cui una persona o un gruppo di persone crede fanaticamente ad una idea e la spensierata allegria con la quale spiriti arguti e bizzarri combinano beffe per mettere in ridicolo la stessa idea (ad es. la novella di frate Cipolla e di Ser Ciappelletto e di Martellino).
f)- da certe combinazioni inaspettate e strane, così abilmente congegnate dal caso da costituire esemplare di vivacità e di interesse quasi fiabesco ( le novelle di avventure come quelle di Andreuccio da Perugia e molto congegnate sul motivo della moglie che tradisce il marito).
g)- dalla ingenuità grossolana o ingenuità finta.
h)- dalla sicurezza o dalla vivacità e dalla foga con cui si manifestano certi istinti (particolarmente quelle della lussuria), ben noti ai lettori i quali perciò sorridono come di fronte a movimenti che si tenta di frenare, ma scapestratamente rompono qualsiasi forza compressiva.
2)- Motivi amorosi.
Come già si è visto, l’amore è concepito dal Boccaccio come la forza più vigorosa e travolgente della nostra natura. Egli mette in evidenza nella maggior parte delle sue novelle:
a)-La istintività di questo moto nella psicologia umana.
b)-La sua capacità di signoreggiare anche sui più riottosi.
c)-Le astuzie che esso riesce a combinare per raggiungere i suoi fini.
d)- Le allegre vendette che esso si suol prendere quando non è corrisposto o la
corrispondenza è troppo languida.
e)- Le pazzie che esso induce a fare.
f)- Il vigore di iniziativa che esso infonde.
3)- Motivi avventurosi.
Nelle novelle d’avventura l’intreccio in genere è dominato dal caso. Esse servono a mettere in evidenza le risorse dell’intelligenza, dell’astuzia, degli istinti di una persona. In genere la loro conclusione è sempre lieta perché il Boccaccio preferisce presentare piuttosto l’uomo che batte la fortuna che non l’uomo battuto dalla fortuna. Esse quindi possono considerarsi come espressione del concetto rinascimentale che ciascun uomo è artefice della sua fortuna. Sull’intreccio degli avvenimenti umani non vigila più una provvidenza che premia i buoni e punisce i cattivi, il caso con le sue bizzarrie punisce tutti, buoni e cattivi se non sanno approfittare delle occasioni che egli offre. Le novelle d’avventura quindi, non solo mirano a dilettare la fantasia del lettore, ma ad infondere in lui fiducia nella vita in quanto gli presentano situazioni intricate e disagevoli che con l’audacia, la destrezza e la furberia possono essere risolte felicemente. Si nota in queste novelle una concezione ottimistica dell’esistenza umana, uno sforzo di superare la visione triste della realtà con la fiducia nelle risorse di cui ciascuno è fornito dalla buona fortuna.
4)- Motivi drammatici.
Le novelle di ispirazione tragica e drammatica sono assai poche perché i novellatori, come si è già detto, preferiscono allietare il loro spirito con visioni allegre e serene piuttosto che affannarlo con visioni che possono destare incubi o generare sfiducia nella vita.
Molti novellatori, particolarmente dopo il Boccaccio, hanno preferito i motivi tragici, perché questi scuotono e in tal caso il suo intreccio anche senza arte può generare l’interesse di chi legge: il Boccaccio però è veramente artista e ha sempre sdegnato questo metodo di destare l’attenzione con intrecci emozionanti e impressionanti; egli é convinto che l’interesse è generato non dal carattere complicato o dal tono pauroso dell’intreccio, ma dal fatto che ogni lettore ritrova nella novella un quadro di vita umana in cui rivede o sé stesso o i suoi simili. Quindi il Boccaccio evita i motivi tragici e drammatici per due motivi: perché essi non rientrano nella concezione ottimistica che egli ha della vita, perché egli è alieno dal destare l’interesse con un mezzuccio così dozzinale qual è l’intreccio pauroso di cui fanno uso i favolisti che vogliono terrorizzare i bambini cattivi.
Il senso che egli ha delle vita e il buon gusto non gli permettono di sfruttare l’orrido come mezzo di effetto. I motivi tragici, dunque, avranno un’altra funzione: quella di porre in cattiva luce i tentativi che persone primitive e incomprensive osano fare per ostacolare il cammino legittimo e sereno dell’amore.
Infatti le crisi drammatiche sono provocate sempre da persone che o tentano di soffocare gli affetti altrui per egoismo, per un concetto errato dell’autorità, per avarizia (e in genere queste persone sono i famigliari di qualche giovine o di qualche fanciulla innamorata) o da persone che appassionatamente amate intristiscono nei pregiudizi morali, religiosi e sociali e cocciutamente si rifiutano di rispondere all’amore provocando decisioni disperate da parte dell’innamorato. Incomprensione, incorrispondenza, grettezza sono, dunque, per il Boccaccio i motivi delle tragedie della vita; e le novelle che illustrano la responsabilità delle persone di mentalità meschina, ottusa e pedante, mentre deplorano certi metodi del vivere ancora arretrato esaltano la apertura, la liberalità, la giovialità del costume naturalistico.
5)- Motivi sentimentali e cavallereschi.
Alla concezione edonistica e naturalistica della vita a cui il Boccaccio aderisce debbono ricondursi i motivi sentimentali e cavallereschi che egli di frequente svolge nelle sue novelle. Infatti cavalleria è gentilezza, generosità, lealtà, liberalità; e tutte queste doti non solo rendono piacevole la persona che le possiede ma rendono anche bello, sereno e facile l’ambiente in cui esse fioriscono. Ad es. Federico degli Alberighi ama follemente donna Giovanna: questa ama di affetto materno insuperabile il suo bambino. La gentilezza di Federico sacrifica il falcone all’amore della donna e costei esce pietosamente dal suo lutto per rispondere all’amore del suo gentile cavaliere. E’ una vicenda simpatica graziosa e commovente. Una persona sgarbata commette un’imprudenza nei confronti di una persona gentile questa pur richiamando l’attenzione dell’imprudente sulla sua scortesia, tuttavia nel fare il suo rimprovero è così fine e comprensiva che non solo non provoca la reazione del rimproverato ma ne guadagna soavemente il cuore e lo libera da certe forme di scorrettezza da cui egli forse non si sarebbe mai liberato.
In mezzo a personaggi spregiudicati ed avventurieri, ma viziosi ed astuti si muovono soavi figure di donzelle e di signore in alone di tristezza e di bontà che commuovono il lettore e quasi lo inducono ad essere più buono; si muovono gentili uomini, saggi, riservati e prudenti, tutti decoro e compostezza, che non rinunciano affatto alla vita ma sanno viverla dignitosamente e inducono perciò il lettore ad accogliere nella sua vita anche lo stile della signorilità.
Il Boccaccio, che era vissuto nella corte di Napoli, si era innamorato di tutte le forme più belle e piacevoli della vita; benché tra queste preferisse quelle più spigliate e spregiudicate, tuttavia non si poteva fare a meno di guardare con compiacenza quello stile di grazia e di affettuosità melanconica che rende così interessanti le donne e quello stile di decoro, di saggezza, che rende così interessanti gli uomini.
Valore estetico del Decamerone.
Alcuni critici, confrontando il Decamerone con la Divina Commedia, lo hanno definito “Commedia umana”, ed hanno ragione. Dante interpreta e giudica la vita alla luce dei principi sacri ed eterni della religione e della morale che superano la vita stessa; il Boccaccio si contenta di osservare la realtà umana nel suo farsi, preferisce ritrarre gli uomini come sono senza preoccuparsi di dire come dovrebbero essere: interroga il cuore umano, osserva con interesse gli intrecci delle passioni e si compiace di vedere che nel complesso la vita è un incessante irrompere di impulso; un susseguirsi simpatico di piacevoli esperienze. Egli è convinto che l’essere e il dover essere c’è tanta differenza che non vale la pena tentare idealizzazioni superiori, alle possibilità della nostra natura. Il Decamerone è stato definito “Commedia umana” anche perché i personaggi, le vicende, i paesaggi che ritroviamo in esso appartengono alla realtà che sperimentiamo ogni giorno. Sono più vicini a noi, sono più realisti di quelli creati dalla poesia pensosa e dotta dell’Alighieri. Le visioni dell’Alighieri per quanto ben delineate e ricche di significato appartengono, si può dire, ad un mondo straordinario, come straordinaria per la sua solennità, per il suo tono elevato è tutta la Commedia.
E’ appunto, in questa aderenza alla vita comune, questo realismo arguto che ci induce a definire umane le visioni del Decamerone.
Il Decamerone in fine è definito “Commedia umana”, perché in esso troviamo i tipi più svariati del’umanità. Si può dire che il Boccaccio abbia passato in rassegna tutte le classi sociali ed abbia colto in ciascuna di esse le forme psicologiche più interessanti e più significative le quali insieme costituiscono un quadro complesso e svariatissimo di vita umana.
Bisogna insistere sul concetto che il Decamerone è una specie di galleria degli aspetti più vivaci della natura umana; perché è proprio nello sviluppo della psicologia dei personaggi che consiste il fattore più decisivo dell’arte ancora primitiva, offre al lettore quasi soltanto l’intreccio più o meno interessante e talvolta più o meno ingenuo.
Come già si è detto, il Boccaccio sdegna di produrre l’effetto con artificio di intrecci che destino curiosità: egli è l’interprete della vita, un appassionato osservatore della Commedia umana e quindi si preoccupa di presentare uomini. Egli fa uso dell’intreccio della vicenda solo come di un mezzo per esprimere in modo concreto le sue gioviali visioni umane.
Molte novelle del Decamerone dal punto di vista dall’intreccio sono ben misera cosa; ad es. Cisti il fornaio, Chichibio e la gru, Guido Cavalcanti e la Compagnia fiorentina; ma se si guarda alla costruzione psicologica di esse, si osserva che lo sviluppo dell’azione e la conclusione di essa sono l’espressione naturale di un processo psicologico acutamente intuito, e nitidamente delineato, non si può fare a meno di considerare queste novelle come veri e propri capolavori.
Questa precisione di psicologia, queste complessità e naturalezza di rappresentazione delle forme più svariate dello spirito umano, costituiscono il pregio principale dell’arte boccaccesca: agli inizi della nostra letteratura nessuno mai si sarebbe aspettato una interpretazione così interessante se non profonda della vita umana. Per interpretare bene la vita e rappresentarla con oggettività è necessario superarla; ma il superamento non significa sganciamento dello spirito dell’artista dalla realtà.
L’oggettività della rappresentazione generata e garantita dalla esperienza matura e intelligente riceve vita dalla passione dello scrittore. Abbiamo visto che la psicologia del Boccaccio non ha toni straordinari o eroici perché si riduce ad una simpatia cordiale e serena per tutte le espressione più vivaci della naturalità. Precisione psicologica, rappresentazione oggettiva, simpatica adesione del poeta alle sue visioni, sono i fattori essenziali dell’arte del Decamerone.
Opere minori.
Il Filocolo è un romanzo d’avventura amorosa composto dal Boccaccio nella prima fase di attività di scrittore, quindi in una fase di inesperienza. Inesperto com’è della vera arte egli mescola insieme svariati motivi (quello amoroso, quello edonistico, quello autobiografico e anche quello religioso) senza riuscire a fonderli in una visione precisa e chiara della vita: fa l’impressione di colui che vuole dire tutto quello che sa senza rendersi conto o meglio senza riuscire a interpretare il significato del suo mondo fantastico.
Anche la lingua risente della inesperienza giovanile: lo scrittore giovane che non si è formato uno stile proprio, si compiace di riprodurre le forme linguistiche che sta apprendendo dai libri. Il Boccaccio che in quel tempo studiava classici latini rivela esplicitamente l’intenzione di voler modellare il suo periodo su quello ciceroniano.
Ad ogni modo Filocolo rivela già lo spirito del Boccaccio. Il suo compiacimento per le belle visioni di vita mondana, il suo desiderio e la sua intenzione di concludere lietamente la vicenda dei suoi due innamorati. La presentazione dell’amore come forza irresistibile che spinge all’eroismo, la rappresentazione di una umanità nel complesso assai compiacente e pietosa verso gli amanti, preludono alla vera spiritualità del Boccaccio matura.
Il Filostrato fu scritto in un momento in cui Fiammetta era assente da Napoli. Il poeta, che conosce la volubilità della sua donna e le possibilità che lei ha di guadagnarsi i cuori, teme ed è in ansia.
Perciò in questo poemetto a lei dedicato, vuol dimostrarle quanto sia stata scortese Griseida nei confronti di Troilo e quale tragedia la sua scortesia è stata capace di suscitare. E’ in questo poemetto un motivo che ritroveremo nella spiritualità matura del Boccaccio. Le vedovelle non resistono all’amore. Sono capaci di passare da un amore all’altro con troppa facilità, facendo sempre le loro cose con la massima segretezza cosicché i loro tradimenti sono più cocenti. E’ riprodotto il tipo della donna leggera ed esperta.
Teseide: il concetto fondamentale è questo; cuore di una donna bella può esser considerato come premio, come conquista dell’uomo valoroso. E’ un concetto un po’ disumano, ed allora il poeta lo corregge introducendo il gesto generoso di Areita.; ed il pietoso intervento, diciamo così, del caso sempre pietoso verso gli amanti, prelude il motivo del Decamerone dell’amore generoso e liberale e del caso benigno agli amanti.
Fiammetta: questo romanzo è forse il migliore fra le opere minori se si eccettua il Ninfale Fiesolano. E’ importante per la riproduzione della psicologia femminile. Inasprita dall’impossibilità di godere della presenza dell’amato, dalla nostalgia dei ricordi lieti, dalle ansie della gelosia. Il poeta pare che si compiaccia di queste torture della donna perché gli rivelano che lei è innamorata.
L’amorosa visione: in questa opera il Boccaccio si propone di imitare Dante; vuol presentarci Fiammetta, maestra di virtù come Beatrice; vi sono due castelli: quello del piacere e quello della virtù: uscito dal castello del piacere mentre sta per avviarsi a quello della virtù un gruppo di vezzose donne attrae la sua attenzione. Tra esse vi è Fiammetta che lo conduce da una parte e così il castello della virtù è dimenticato: infatti il poeta non riesce a considerare la sua donna come puro simbolo e proprio mentre gli sta dando buoni consigli, egli sente ancora l’ardore e l’impulso di una passione ancora terrena. Il Boccaccio non ama i simboli della virtù ama le Fiammette, vive e vere e, quasi scherzando, ci vuol dire che egli non saprà mai essere né un Alighieri, né un Petrarca.
Ninfale D’Ameto è un altro tentativo di presentare l’amore come promotore di elevazione spirituale: tentativo fallito anche questo. Il pastore Ameto si innamora, sì, ma delle Ninfe che sono abbastanza mondanucce e non si innamora affatto di Dio. Del resto Dio, Uno e Trino, è nientemeno simboleggiato da Venere : “Pasticcio di Giovedì grasso e di Venerdì Santo” direbbe il Manzoni.
Il Ninfale Fiesolano:
Concetti fondamentali:
a) All’amore nessuno può resistere neanche una Ninfa.
b) Diana col suo costume crudele provoca tragedie e nient’altro.
c) Il bimbo che nasce dall’amore sacrilego non è affatto un delinquente, ma un ottimo figliolo, consolazione dei nonni, bello, generoso ed eroico fondatore di Fiesole.
Il Corbaccio: in questa opera, il Boccaccio che aveva chiamato dilettissime le donne e che si era impegnato a dilettarle con i suoi piacevoli ed istruttivi racconti, prende lo scudiscio in mano e colpisce sdegnosamente una povera vedova.
E’ cambiata forse la mentalità del poeta? No, certo! E’ noto il suo principio che all’amore bisogna corrispondere e che è da annoverarsi tra gli esseri più rozzi e antipatici chi rifiuta tale corrispondenza. Una vedova ha rifiutato l’amore del poeta e questi allora si impegna a presentarla come un essere spregevole sotto tutti gli aspetti; ottimo chi ama, pessimo chi non ama.
La lingua del Boccaccio.
Il Boccaccio viene considerato come il creatore della prosa italiana, non perché egli sia stato il primo scrittore, ma perché ha composto un’opera di larghissimo respiro come il Decamerone facendo uso di un linguaggio così agile e così solido nello stesso tempo da costituire il primo esemplare della prosa artistica italiana. La prosa del ‘200 risente ancora nella sua struttura gli influssi della sintassi in volgare, caratterizzata come è noto, dall’uso costante della coordinazione: è una prosa semplice, quasi infantile, simile a quella che si consiglia ai ragazzi che cominciano a scrivere o non riescono a comporre periodi completi. Dante nella “Vita nova”e nel “Convivio” ci ha dato i primi saggi di una prosa complessa, ma l’impostazione ideale o dotta dell’ispirazione nelle sue opere, impedisce al suo linguaggio di articolarsi con varietà essendo costretto a procedere con andatura solenne e maestosa. Il Boccaccio, che conosce bene la prosa classica latina ed è espertissimo del dialetto toscano, come è espertissimo dogli atteggiamenti linguistici delle più svariate classi sociali, ci ha dato una prosa che per la complessità e la regolarità dalla struttura del periodo, formato come quello latino, di svariate proposizioni secondarie che illustrano i concetti secondari e con la adesione agile e duttile alle forme del linguaggio vivo, riproduce in pieno quel tono realistico ed elegante nello stesso tempo che abbiamo notato anche nella sua ispirazione. Il Boccaccio, dunque, è considerato come padre della prosa italiana, perché egli fu il primo che seppe modellarla secondo le vere esigenze degli atteggiamenti spirituali più svariati, conservando sempre una struttura solida che ha garantito la logicità e la chiarezza della espressione. Dopo il Boccaccio, nella seconda metà del ‘400 e per tutto il ‘500, molti altri scrittori hanno composto in prosa, ma nessuno di essi ha saputo come lui essere agile e solido nello stesso tempo: la prosa umanistica in volgare pecca di sostenutezza, di pomposità eccessiva; è ricca di modi dotti e classicheggianti, ma è povera di vivacità e di spigliatezza.
Il Bembo agli inizi del ‘500 proporrà la lingua del Boccaccio come lingua ideale per la prosa allo stesso modo che proporrà come lingua ideale per la poesia quella del Petrarca.
Il Vocabolario della Crusca che sarà compilato alla fine di ‘500 raccoglierà molti modi linguistici del Boccaccio.
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IL RINASCIMENTO
(metà del sec.XIV – metà del sec.XVI)
Introduzione
Il Rinascimento è l’epoca in cui la civiltà romanza, uscita dalla fase religiosa, visse con pienezza la fase umana, ispirandosi, nella concezione della vita, ad una naturalismo sereno e dinamico, e adottando, nell’espressione, le forme di un classicismo agile e tecnicamente modernizzato.
Il naturalismo, cioè la concezione della vita come espressione libera e piena di tutte le risorse della natura umana, come esperienza terrena senza limiti e senza soste e l‘umanesimo, cioè il culto e l’imitazione della spiritualità e delle forme del classicismo greco-romano, sono i due aspetti caratteristici del Rinascimento.
La nuova epoca intercorre, dal punto di vista cronologico, fra la metà del secolo XIV e la metà del secolo XVI, cioè fra il termine del medioevo e l’inizio del Conformismo.
Il termine “rinascita”, fu adoperato, la prima volta, da Giorgio Vasari nelle sue “Vite degli eccellenti scultori, pittori ed architetti da Cimabue insino ai tempi nostri” (1550).
L’imitazione della natura, ossia la verosimiglianza e l’adozione dello stile classico nell’elaborare le forme della natura (cioè l’adozione dei canoni della proporzione perfetta, della simmetria, dell’armonia) sono , secondo il Vasari, i fattori che hanno facilitato l’uscita delle arti dalla confusione e dalla rozzezza del Medioevo, e che, applicati con precisione e genialità sempre crescenti fino a Michelangelo, hanno prodotto la meravigliosa arte che ornò l’Italia nel periodo 1350-1450.
Il termine “Rinascita” o “Rinascimento” dal campo delle arti fu poi esteso a tutta la civiltà del periodo suddetto, con significato polemico antimedievale più o meno esplicito.
Rinascere, infatti, significa risorgere da morte: e chi afferma che le arti e la civiltà rinacquero dopo il Medioevo, intende dire che essere erano morte nel Medioevo.
Secondo il Vasari, dal tramonto della Roma classica a Cimabue e a Giotto (dal secolo V al secolo XIV), le arti erano cadute ed erano rimaste nel fondo della miseria.
Secondo certi storiografi ammiratori fanatici della civiltà naturalistica e spregiatori della civiltà mistica, il Medioevo fu un’epoca deplorevole per rozzezza di costumi, per primitività mentale, per povertà letteraria, per squallore civile, per schiavitù morale, politica e religiosa.
Gli stessi uomini del Rinascimento, facendo il paragone fra lo stile mentale, il gusto artistico e la prassi del loro tempo e la civiltà dell’epoca che li aveva preceduti, ebbero la sensazione che solo essi sapessero utilizzare con arte tutte le risorse della natura, che solo essi fossero riusciti a creare una forma di vita degna dell’uomo.
Ne secolo XVIII gli Illuministi insistettero con compiacenza sull’antitesi fra Medioevo e Rinascimento come su un’antitesi fra la morte e la vita. Mossi da settarismo anticattolico l’Enciclopedismo francese e la Massoneria europea si impegnarono a dipingere il Medioevo(epoca in cui la Chiesa aveva ispirato e diretto tutte le forme della civiltà)) con i colori più foschi, presentandolo come l’età della superstizione, della schiavitù, dell’ozio, dell’oscurantismo, dell’umiliazione e della mortificazione di ogni sana forma di vita: cosicché “medievale” divenne sinonimo di “barbaro, primitivo, addietrato”. Il Carducci (esponente del settarismo massonico nella seconda metà dell’ottocento) nell’ode “Alle fonti del Clitunno”, deplorava la morte della civiltà naturalistica di Grecia e di Roma in seguito all’affermarsi della civiltà del “……Galileo- di rosse chiome” che “il Campidoglio ascese”- e “gittò in braccio di Roma una sua croce e disse: – Portala e servi-”.
Evidentemente si volle identificare il Cristianesimo con certe espressioni di ascetismo rozzo e fanatico, adottato da alcune sette (flagellanti, albigesi, catari, fraticelli), che dalla Chiesa stessa furono condannate come ereticali.
La verità è, invece, che, sotto certi aspetti ed in certi momenti della sua storia (specie nel secolo XIII, cioè nella sua fase culminante) il Medioevo raggiunse forme altissime di civiltà, di cui alcune insuperate fino ai nostri giorni. Basta,infatti, pensare che il Medioevo ci ha dato S. Tommaso d’Aquino, Dante, Giotto, le architetture romanica e gotica, lo stil novo, il Comune, la corporazione, quella specie di corporazione degli stati cristiani che fu il Sacro Romano Impero, gli ordini religiosi francescano e domenicano.
Non si può onestamente aderire né all’opinione di Giorgio Vasari e degli artisti che la pensavano come lui, i quali consideravano lo stile gotico “barbaro e pestifero”; né all’opinione degli umanisti, i quali spregiavano la Commedia perché “scritta in volgare e destinata alle donnicciole e alla gente rozza”; né all’opinione degli assai modesti filosofi del Rinascimento, per i quali la Summa Theologica era già superata; né si può giustificare il settarismo degli Enciclopedisti e del Massoni, i quali con pretesto di combattere il clericalismo, infierivano ciecamente contro ogni civiltà di ispirazione cattolica. Il Carducci, confondendo (non sappiamo se in buona o in mala fede) l’ascetismo orrido degli eretici medievali col misticismo cattolico, gridava all’anima umana, serena in Grecia e forte in Roma: “I foschi dì passaro: risorge e regna”: ma nessuno oserebbe affermare con convinzione che la civiltà cristiana sia sul serio rinunciataria e cavernale, che la Chiesa abbia davvero messo in catene gli uomini ed abbia davvero ammazzato la vita, e che gli umanisti abbiano compiuto il miracolo di risuscitare l’uomo, morto da lunghi secoli.
Non è opportuno né legittimo ridurre il contrasto fra Medioevo e Rinascimento ad una opposizione netta tra “barbaro” e “civiltà”, fra “morte” e “vita”, e considerare le due epoche staccate l’una dall’altra.
Non è opportuno perché, se si introduce il sistema di considerare la storia come una successione di età vive e di età morte, e di collocare negli interspazi fra le età vive, distanziate l’una dall’altra, le cosiddette “età medie o di mezzo o medioeve”, quasi fossero epoche senza alcuna funzione storica, si rischia di considerare i successivi momenti dell’evoluzione delle generazioni come staccati l’uno dall’altro, mentre è certo che nel mondo umano, come nel mondo della natura in generale, ogni fenomeno è generato da fattori precedenti ben definiti.
Non è legittimo perché storicamente risulta che il Medioevo ebbe una gloriosa funzione nello sviluppo della civiltà europea.
Giudizio di funzione e giudizio di valutazione.
Di ogni epoca si possono dare un giudizio di funzione ed un giudizio di valore: con il primo definiamo la parte che un’epoca, cioè che un gruppo di generazioni, ha esercitato nel processo della storia; con il secondo definiamo il grado di civiltà che quell’epoca ha raggiunto.
Il giudizio storico di funzione è sempre positivo. Infatti, se la storia umana è storia di vita, e se tra le fasi di una vita in sviluppo c’è un rapporto intimo ed indissolubile, è evidente che ogni epoca è continuazione di quella che la precede e preparazione di quella che la segue, cioè ogni gruppo di generazioni ha la funzione di ereditare il patrimonio di civiltà dell’epoca precedente, di elaborarlo secondo la sua indole, le sue capacità, le circostanze storiche, e di trasmetterlo alle generazioni successive.
Come nello sviluppo di un organismo vivente, ogni singolo momento ha funzione nettamente positiva, in quanto serve a far passare il complesso cellulare da uno stato all’altro, attraverso il potenziamento o l’eliminazione di certe forme già assunte dall’energia vitale e attraverso l’avviamento di forme nuove, così nello sviluppo dell’organismo della storia, ogni generazione, ogni epoca è anello di congiunzione fra quella che la precede e quella che la segue.
Il giudizio storico di valore può essere passivo o negativo. Esso, infatti, è un giudizio circa la sostanza e la consistenza di una civiltà, ossia il grado di ricchezza spirituale e di perfezione formale o tecnica da essa raggiunto.
Non occorre dire che il progresso formale o tecnico potrebbe verificarsi indipendentemente dal progresso spirituale: l’uno, infatti, è promosso da esigenze pratiche, dallo studio scientifico della natura, dagli ammaestramenti dell’esperienza; l’altro, invece, è promosso dall’ansia di percepire gli aspetti ed i significati ultimi delle cose, dalla sensibilità per i valori veri della vita, dall’intensità delle aspirazioni ideali.
Orbene un’epoca può presentare una spiritualità ricchissima e una abilità tecnica modesta: o, viceversa, una tecnica abile e feconda e una spiritualità mediocre.
Applichiamo, ora, le due forme di giudizio al Medioevo e al Rinascimento. In sede di giudizio di funzione il Medioevo è da considerarsi come un’epoca della naturale evoluzione della civiltà classica dopo l’inserimento in essa del fattore cristiano e del fattore Germanesimo; come epoca dell’evoluzione della civiltà mediterranea dopo l’incontro di essa con i popoli nordici; insomma, come un’epoca della nascita e della formazione della civiltà romanza.
Il Rinascimento si può considerare come un’epoca di evoluzione della civiltà romanza da una spiritualità e da una forma ispirata al soprannaturale verso una spiritualità più umana e una tecnica più concreta e più naturale; come epoca in cui le generazioni post-medievali, maturate dall’esperienza, acquistarono un senso più realistico della vita e delle cose.
Il Rinascimento utilizza e sviluppa le esperienze del medioevo: senza il Medioevo non avremmo avuto il Rinascimento. A dimostrare questa affermazione sta il fatto seguente: gli uomini del Rinascimento che, mossi da fanatismo classicista, preteso saltare a piedi pari il Medioevo per riallacciarsi direttamente all’età classica, condannarono le loro attività ad una sterile imitazione dell’antico e fecero la figura di gente fuori tempo.
Gli esponenti più sensati del Rinascimento, invece, si valsero della cultura classica solo per interpretare meglio il mondo che li circondava, cioè il mondo romanzo che, uscito dalla fase religiosa, stava vivendo la sua fase umana.
Come la civiltà greco-romana preparò l’ambiente in cui si sarebbero dirozzati e inquadrati più tardi i popoli europei, rimasti indietro nel cammino della storia, così la civiltà romanza, frutto di quella dirozzazione e di quell’inquadramento, dopo essere passata attraverso la fase religiosa del Medioevo e l’esperienza umana del Rinascimento, preparò l’ambiente in cui si sarebbero formati, nel corso dei secoli moderni, i popoli dei continenti exstra-europei.
In sede di giudizio di valore il Medioevo, almeno nelle fasi della giovinezza e della maturità, cioè dal secolo XI al secolo XIV, si rivela serio e profondo interprete della vita, appassionato cultore di ideali naturali e soprannaturali, geniale inventore di forme espressive complesse e vigorose, sebbene non raffinate ed eleganti: insomma, nel Medioevo spiritualità e tecnica si presentano solide e di largo respiro.
Il Rinascimento rivela agilità mentale, intelligenza pratica, vivacità e liberalità di sentimenti, ma, salvo rare eccezioni, scarsa profondità di pensiero e poco vigore di slancio ideale, mentre nella forma rivela ricchezza di risorse e di motivi tecnici, armonia di linee, semplicità e spigliatezza di ornato: insomma, nel Rinascimento spiritualità e tecnica si presentano tanto più agili e dinamiche, quanto più si sono sganciate dalla meditazione severa circa i gravi problemi della vita, per prendere contatto gioviale con le forme delle cose.
Nel Medioevo notiamo la serietà propria dello spirito religioso; nel Rinascimento la vivacità e la raffinatezza propria dello spirito epicureo.
Il Medioevo si presenta meditativo e solido, ma poco agile; il Rinascimento si presenta intuitivo e spigliato, ma poco profondo e sistematico; il Medioevo produce poco, ma alla storia lascia opere che sono miniere di idee di ideali; il Rinascimento produce con abbondanza veramente eccezionale, ma alla storia lascia opere che, in gran parte, sono puri esemplari di forma.
Confrontiamo la “Summa theologica” di S. Tommaso con la “Teologia platonica” di Marsilio Ficino, la “Divina commedia” con l’”Orlando furioso”, il Comune con la Signoria il Principato, e vedremo quanto il Medioevo appaia più quadrato del Rinascimento.
Nel campo dell’arte il Rinascimento, per l’abbondanza della produzione e la perfezione della tecnica, batte senza dubbio il Medioevo, ma si potrebbe sostenere assai bene un paragone, ad esempio, fra Giotto e Raffaello, fra il Duomo di Milano e la Basilica di S. Pietro: è vero che si tratta di stili differenti, ma, essendo lo stile una sintesi di ispirazione e di forma, il paragone è sempre legittimo.
Anche la famosa liberazione dell’uomo dalla schiavitù medievale che, secondo alcuni, costituirebbe uno dei più grandi meriti del Rinascimento, risulta una favola. Se per liberazione dell’uomo intendiamo l’avviamento dello spirito verso la spregiudicatezza morale e il soggettivismo religioso (che troppo spesso diventa indifferentismo i irreligiosità), bisogna purtroppo riconoscere al Rinascimento il triste merito di aver promosso questa libertà. Ma, se per liberazione dell’uomo intendiamo lo svincolamento dello spirito da tutto ciò che impaccia il razionale funzionamento della vita sia individuale che collettiva, non possiamo riconoscere al Rinascimento questo merito, perché non lo ebbe; anzi la storia ci attesta che proprio il Rinascimento avviò l’uomo verso svariate forme di schiavitù.
Nel Medioevo il regime comunale, schiettamente democratico, garantì le libertà politiche e civili a tutti i cittadini; nel Rinascimento il regime signorile e, più ancora quello principesco, eliminarono dalla storia il popolo, svalutandone e mortificandone le preziose energie.
Nel Medioevo il popolo fu così geloso della sua libertà, che insorse fieramente contro le pretese degli Svevi (Federico I Barbarossa e Federico II), le quali pur sembravano giustificabili nel quadro della sovranità imperiale cristiana: nel Rinascimento, dalla discesa di Carlo VIII (1494) al Trattato di Chateau Cambresis (1559), il popolo italiano assistette indifferente al passaggio ed ai saccheggi dei più svariati eserciti stranieri, e, alla fine, perdette vilmente la sua libertà.
L’episodio della eroica fine della repubblica fiorentina nel 1530 è troppo isolato perché possa essere assunto come simbolo del patriottismo di un’epoca che, nella quasi totalità, rivelò una incoscienza politica sommamente deplorevole; di fronte alla gloriosa infelice Firenze sta la vile Roma del sacco dei Lanzichenecchi (1527), e il Machiavelli svuotava di significato pratico il suo programma di rinascita politica nazionale, col suo orgoglioso disprezzo contro il popolo, cioè contro quella preziosa forza della storia che unica avrebbe garantito il successo delle sue proposte.
Giustamente gli uomini del Rinascimento, specie i romantici, vedranno nel Medioevo comunale l’epoca della libertà civile e dell’indipendenza nazionale e, nel Rinascimento, vedranno l’epoca in cui si affermò la schiavitù delle singole città e dell’intera nazione.
Nel Medioevo la Commedia, nonostante i frequenti motivi di critica spietata contro il clero e contro i responsabili dei mali della cristianità, fu letta e commentata in Chiesa; nel Rinascimento Fra Girolamo Savanarola, per aver protestato contro l’indegna condotta di Alessandro VI, fu impiccato.
Nel Medioevo scrittori ed artisti composero in piena libertà di spirito per il popolo; nel Rinascimento letterati ed artisti, asserviti agli aristocratici, composero con riguardosa deferenza verso i loro padroni.
Nel Medioevo Dante componeva per offrire “vital nutrimento” alle anime, e si compiaceva di investire col suo grido, simile ad un turbine, li “cime più alte”; nel Rinascimento il Boccaccio componeva per “dilettare le donne”, e l’Ariosto affermava che uno dei miracoli più sublimi della poesia era quello di riuscire a dare fama anche a persone condannate all’infamia dalla loro condotta. Vale la pena citare le parole precise dell’Ariosto: i signori “ancor che avessero tutti i rei costumi- pur non sapesson farsi amica Cirra – più grato odore avrian che nardo e mirra…. Non fu sì santo né benigno Augusto, – come la tuba di Virgilio suona – l’aver avuto in poesia buon gusto, – la proscrizione iniqua gli perdona – nessuno sappia se Neron fu ingiusto, – né sua fama saria forse men buona – avesse avuto e terra e ciel nemici – se gli scrittor sapea tenersi amici” (Orlando Furioso c. XXXV verss. 24-26).
Nel Medioevo poeti e artisti composero come dettava loro il genio; nel Rinascimento, poeti e artisti, salvo rare eccezioni, composero a norma dei modelli classici.
Il De Sanctis notava nel Rinascimento una contraddizione: uno splendore artistico e letterario indiscusso e una miseria civile e politica anch’essa indiscussa. La contraddizione è facile a spiegarsi: il Rinascimento coltivò molto la forma, ma coltivò molto poco gli ideali. Dove non è una spiritualità vigorosa, lì non è neanche il culto dei veri valori della vita e. quindi, neanche il culto della libertà, che tra i valori, è uno dei più sublimi.
Giustamente dirà l’Alfieri che l’ignoranza ed il vizio delle plebi sono i più potenti sussidi della tirannide: e nessuno può negare che né l’Ariosto, né il Machiavelli, né il Guicciardini, né alcun altro scrittore del Rinascimento si preoccupò di educare il popolo; anzi, se mai, con il loro atteggiamento antiplebeo, tutti, più o meno, contribuirono a svalutarlo e deprimerlo.
Le belle chiacchiere dei poeti e le belle composizioni degli artisti non valgono a salvare una nazione, quando la letteratura e l’arte non si ispirano al popolo, non sono dirette ad educarlo. In questo senso aveva ragione Mussolini allorché, accennando alla miseria politica dell’Italia nel Rinascimento, affermava: “Meno quadri e meno statue e più bandiere strappate al nemico”. Benché, in verità, sarebbe stato meglio affermare: “Molti quadri, molte statue e molte bandiere strappate al nemico”.
Nel campo religioso il Rinascimento eliminò, è vero, certe forme di superstizione indubbiamente ridicole, ma svuotò il senso e la pratica della religione, rifiutando ogni serio impegno coi dogmi e con la morale del cristianesimo, coltivando, insomma una religiosità di moda, vaga ed estetizzante che non ha alcun serio riflesso sulla vita.
Nel campo dei costumi eliminò molte grettezze, ma ne creò altre, introducendo, specie nell’ambito aristocratico, una etichetta mondana assai complicata e assai intransigente.
Nel campo della letteratura e dell’arte liberò l’ispirazione e la forma dal faticoso cerebralismo dei simboli e delle allegorie, ma favorì la tirannide della retorica.
In un solo campo si può parlare di liberazione vera e proprie e indiscutibilmente benefica: nel campo scientifico. Il Rinascimento, infatti, liberò la scienza e la tecnica da metodi errati e da pregiudizi infantili, ed indicò ad essa la via che le è propria, cioè la via della esperienza. E’ per questo motivo che si può datare la nascita del progresso scientifico e tecnico moderno dal tempo in cui l’uomo si dedicò allo studio diretto della realtà fisica per coglierne direttamente gli aspetti e le leggi, cioè dell’epoca rinascimentale.
Limiti entro i quali si può accettare il termine “Rinascimento”.
In che senso, dunque, si può accettare il termine “Rinascimento” ?
Se si intenda parlare di rinascita della civiltà in generale, il termine “Rinascimento”, applicato all’epoca post medievale, è improprio, perché il Medioevo ebbe la sua gloriosa civiltà e, per di più superiore, sotto l’aspetto spirituale, a quello del Rinascimento: se mai, in questo senso, si potrebbe parlare di rinascita nel secolo XI, cioè all’inizio del Basso Medioevo, quando, dopo la civiltà infantile del Medioevo Alto, si ebbero le prime grandi espressioni di una spiritualità e di una tecnica vera, menti ricche di motivi profondi e capaci di iniziative intelligenti.
Se si intende parlare di rinascita della civiltà classica, è doveroso fare una distinzione: si vuol dire che nel Medioevo la civiltà classica fu ignorata e disprezzata ? La Chiesa erede e custode fedele delle più grandi istituzioni di Roma, S. Tommaso rielaboratore di Aristotele, Dante che di dichiara umile e appassionato discepolo di Virgilio, smentiscono questa interpretazione.
Si suol dire che il Rinascimento studiò ed assimilò la civiltà greco-romana con spregiudicata oggettività, senza la preoccupazione di conciliarne lo spirito e le forme con le esigenze religiose o morali del Cristianesimo, e quindi senza ricorrere ad interpretazioni allegoriche più o meno forzate ed inopportune; e che nel Rinascimento lo stile d’uso fu quello classico, in opposizione a quello romanzo del Medioevo.
In questo senso si può parlare veramente di Rinascimento: cioè di rinascita della spiritualità naturalistica e dello stile semplice ed elegante dei classici. Ma il termine “Rinascimento” è soprattutto appropriato al nuovo indirizzo della scienza sui binari del metodo sperimentale: anzi, è proprio questa la rinascita veramente efficace, l’avviamento indiscutibilmente decisivo, a cui l’età seguente (la quale sotto altri aspetti sconterà la pena di molte miserie del Rinascimento), imprimerà un ritmo più intenso e più sicuro.
Conclusione. Il Rinascimento viene dopo il Medioevo; ma non è detto che chi viene dopo sia più perfetto di chi è stato prima. Se ciò fosse vero, i figli, ad esempio, dovrebbero essere più intelligenti e più onesti dei genitori.
Nel campo delle successioni si può affermare, con certezza, solo questo: chi viene dopo ha il vantaggio di poter usufruire delle esperienze e delle conquiste di chi ha lavorato prima: la successione cronologica delle generazioni favorisce, senza dubbio, lo sviluppo della tecnica, ma, di per sé, non offre alcuna garanzia di progresso spirituale.
Cause del Rinascimento.
Tra un’epoca storica e la successiva esiste lo stesso rapporto di causalità che intercorre fra tutti fenomeni della realtà; l’epoca successiva, se presenta aspetti nuovi nei confronti di quella precedente, non per questo si può dire che sia venuta su dal nulla. La verità è che, in ogni epoca, si ritrovano dei fattori vivacissimi che ad un certo momento si esauriscono, scomparendo completamente o soltanto affievolendosi, e fattori che operano nell’ombra, in attesa di rinvigorirsi quando i più vivaci si attenueranno.
In genere l’esaurimento di certe forme nuove di civiltà e di certe istituzioni è dovuto a germi di dissoluzione innati in esse, la cui presenza impaccia ed affatica la loro funzione e la loro evoluzione regolare, fino a che non generano la crisi definitiva. Cosicché la vita delle generazioni si presenta sotto un aspetto intimamente drammatico: si può dire che essa proceda in forza della lotta e che il progresso si verifichi più che per sviluppi regolari di fattori positivi, per cozzo di contraddizioni.
Le stesse cause che generano la dissoluzione della civiltà medievale promuovono la nascita della civiltà rinascimentale, nel senso che i fattori della dissoluzione, dopo aver operato da forze di contrasto, si affermano come promotori di nuovi indirizzi.
Prima Causa. La naturale evoluzione della psicologia delle generazioni.
Risulta dall’esperienza che l’uomo nelle fasi della fanciullezza, dell’adolescenza, della giovinezza vive in una specie di sogno ideale, alla cui composizione contribuiscono moltissimo la fantasia e il sentimento, mentre nella fase della maturità egli prende contatto immediato con la realtà attraverso l’esperienza diretta e il ragionamento puro: nelle prime fasi l’uomo è entusiasta, più vivace, più generoso, più fervido in tutte le attività nel mondo interiore; nella fase di maturità è più freddo, più utilitarista, più scettico.
Le nazioni dell’Europa moderna, sorte nel corso dell’Alto Medioevo, vissero la loro fanciullezza, la loro adolescenza e la loro giovinezza sotto la tutela materna della Chiesa, da cui avevano imparato a vivere cristianamente, ad interpretare naturalmente la vita, a produrre opere d’arte di ispirazione mistica.
Alcune nazioni contavano come loro fondatori o come gradi Re personaggi santificati dalla Chiesa (S. Stefano Re di Ungheria, S. Alfredo Re di Inghilterra, Carlo Magno considerato come santo); le più potenti tra esse, cioè quelle che avevano maggiormente contribuito al potenziamento della civiltà romanza, erano state classificate dal Papa con simpatici ed affettuosi attributi (primogenita della Chiesa d’Italia, cristianissima Francia); quasi tutte chiesero ed ottennero dal papa di essere considerate come fondi della Santa Chiesa e si impegnarono a pagare tributi annui alla Camera Apostolica. Il Papa che ebbe la bella soddisfazione di vedere tutto il mondo cristiano a Lui devoto e fedele, fu Papa Innocenzo IV: con questi si concluse la fase giovanile del Misticismo medievale. Infatti, durante il suo pontificato, mentre sorgevano i due più potenti ordini, domenicano e francescano, il Ghibellinismo per opere di Federico II di Svevia, riprende il tentativo di Federico Barbarossa, si sottrarre i regni, l’Impero, i Comuni all’influsso dei preti, non per ostilità contro la religione, ma per rivendicare la superiorità dei poteri politici sui poteri religiosi.
Lo spirito delle generazioni romanze tende ad emanciparsi dalla soggezione umile e devota alla santa Chiesa, sente il bisogno di una maggiore libertà: i laici acquistano coscienza della loro forza e criticano l’invasione degli ecclesiastici nelle attività temporali per garantire a sé stessi maggiore attività di azione.
I giuristi esponenti di questa lotta tra l’autorità religiosa, che non se la sentiva di rinunciare al suo compito di tutrice dei popoli, considerati da Lei come suoi pupilli, e l’autorità politica, che aspirava all’autorità intesa in senso classico, cioè alla indipendenza assoluta da qualsiasi potere, esagerando le posizioni opposte: alcuni esagerano i poteri della autorità religiosa, sottomettendo a questa il potere politico, senza riserve; altri esagerano i diritti della autorità politica sottomettendo al controllo di essa anche la Chiesa.
Era necessaria una chiarificazione: S. Tommaso e Dante, rievocando il pensiero genuino della Chiesa, dichiarano l’indipendenza reciproca dei due poteri, affermando nello stesso tempo la necessità di una stretta collaborazione fra essi, per il bene della repubblica cristiana. San Tommaso e Dante sono gli esponenti di un Medioevo spiritualmente maturo che avverte, oggettivamente e spassionatamente, l’esistenza di tesi opposte nel seno della storia, capaci di disgregare e svigorire la respublica cristiana, e propongono una conciliazione sulla base della ragione e delle fede.
Oltre che in quello dei rapporti fra Chiesa e Stato, anche in altri campi si verifica questa maturazione spirituale del Medioevo. Nell’arte e nella letteratura ai motivi puramente religiosi, si aggiungono motivi umani, alla idealizzazione mistica si aggiunge un intelligente e fine realismo: l’architettura (Chiese romaniche e gotiche, palazzi comunali) e la pittura (Cimabue) nel corso del secolo XIII fanno preziosi esperimenti per conciliare l’idealismo mistico e l’estetismo realistico; il Dolce Stile rappresenta in poesia il più bell’esperimento di sintetizzare il divino e l’umano, il soprannaturale e il naturale, l’amore di Dio e l’amore della creatura. Dante e Giotto sono i massimi esponenti di questa sintesi felice.
Anche nelle istituzioni e nei costumi si notano una maggiore agilità e spigliatezza, fervore di iniziative, aspirazione all’uguaglianza: l’intensificarsi della vita, la chiarificazione dei diritti e dei doveri di ciascun cittadino, la differenziazione delle classi, introducono nelle città le lotte civili. Il desiderio di restare liberi e il bisogno di una autorità che disciplini le forze in contrasto, rivelano la insufficienza dell’istituto comunale a rispondere alle nuove esigenze della storia e l’attaccamento delle generazioni romanze all’ideale della libertà.
Man mano che lo spirito si matura, gli individui e le generazioni rivelano la tendenza a sacrificare l’ideale alle esigenze pratiche: perché lo spirito del Medioevo, maturandosi, come cerca di adattare la religione e la morale alle esigenze della vita, umanizzando, laicizzando l’una e l’altra, come vagheggia in arte e in poesia impostazioni e motivi decorativi profani, così, in politica interna, è disposto a sacrificare l’ideale della libertà, della democrazia, dell’auto-governo del popolo, alle esigenze di una maggior sicurezza e di una economia più potenziata.
Anche qui S. Tommaso e Dante, che tengono presenti i due termini del contrasto, cioè forze sociali differenziate, ansiose di affermarsi disordinatamente e il bisogno di una autorità capace di garantire sicurezza e benessere alla comunità politica, propongono la soluzione giusta al problema: S. Tommaso afferma che un buon regime politico è quello in cui è possibile alle forze sociali esprimersi liberamente entro i limiti di disciplina da garantirsi attraverso la vigile e forte azione dell’autorità; libertà ed autorità sono i due fattori essenziali del progresso e della pace anche per Dante che, se deplora le tirannidi di questo o quel signore, si rivela tuttavia il più appassionato assertore della necessità di una autorità forte: Ezzelino da Romano e i vari tirannelli che egli smaschera qua e là nella Commedia, sono spregevoli tanto quanto il famoso “re da sermone” Roberto il Savio di Napoli e Rodolfo e Alberto d’Asburgo: d’altra parte è noto quanto l’Alighieri fosse entusiasta del tentativo di restaurazione dell’autorità operato da Arrigo VII.
Per S. Tommaso e per Dante dunque peccano i tiranni perché opprimono la natura umana e inaridiscono la civiltà; peccano i principi deboli perché favoriscono lo sfrenamento delle passioni umane e non esercitano la missione affidata loro da Dio, che consiste nel dare la caccia alle tre fiere.
Nel campo politico internazionale all’ideale di una respublica cristiana universale, basata sulla comunità di fede e sul concetto di fratellanza, lo spirito che si matura e quindi diventa più utilitarista e meno idealista, sostituisce il programma di organismi politici isolati, unitari nella loro costituzione interna, pronti ad un gioco di forza e di astuzia per garantire la propria affermazione.
Nel contrasto tra l’universalismo romano-cristiano, che aveva appassionato il Medioevo nella fase dell’adolescenza, e l’individualismo nazionalistico o statalistico del Medioevo maturo, Dante indica ancora una volta la soluzione giusta in nome di Dio: l’impero è istituito, voluto dalla provvidenza per unificare, pacificare e difendere le singole comunità cristiane; queste, nel quadro dell’impero, hanno il diritto a sviluppare liberamente le loro energie sane e positive.
L’Alighieri che notò questa devozione della civiltà cristiana e deplorò la confusione generata dal cozzo tra il vecchio ed il nuovo indirizzo, lanciò alla respublica cristiana il suo grido di allarme e di ammonimento; e particolarmente chiamò in causa le due supreme autorità del mondo cattolico, cioè Pontefice ed Imperatore, che egli considerava responsabili della decadenza, il quanto il Pontefice dimentico della sua missione spirituale interferiva nelle lotte politiche aumentando la confusione e accentuando la crisi spirituale, e l’Imperatore inerte ed incapace trascurava la sua funzione di pacificatore per starsene a godere i suoi miseri possessi di Germania.
La voce dell’Alighieri fu un grido nel deserto: la storia con le sue forze nuove, risolveva la crisi a svantaggio della spiritualità mistica e a tutto vantaggio della nuova spiritualità schiettamente umana, finiva l’epoca del Magistero ecclesiastico e incominciava quella del Magistero laico.
Seconda causa: L’affermazione della borghesia nel campo sociale.
In circa tre secoli di regime comunale le città italiane avevano fatto miracolosi progressi in ogni settore dell’attività umana, e particolarmente nel settore economico.
Dal piccolo commercio fra città e contado, si era passati al grande commercio fra città e città della Penisola, fra la nostra nazione e le nazioni dell’Europa centro-occidentale: basta ricordare Venezia, Genova, Pisa tra le città marinare; Firenze, Napoli, Milano fra le città interne.
Dall’umile artigianato familiare, si è passati al sapiente ed efficace organismo produttivo dell’artigianato associato o corporazione.
Per facilitare l’importazione delle materie prime e l’esportazione dei manufatti, si costituiscono nelle più grandi città italiane e straniere, grandi magazzini di raccolta o fondachi; per finanziare le operazione di compravendita e facilitare il cambio della moneta si istituiscono banchi in tutti i centri commerciali (banchi dei Bardi, degli Acciaioli, dei Peruzzi: tutti fiorentini, banco di San Giorgio genovese ecc.).
Alcune famiglie, nell’esercizio delle attività commerciali e finanziarie, diventano straordinariamente ricche; la massa del popolo, avendo un lavoro ed un sufficiente guadagno, assicurati dalla corporazione, gode di un discreto benessere. Con benessere si diffonde un modo di vivere più esigente e più fine e si afferma una ardente brama di rinnovamento e di progresso.
Le grandi città, con la loro agiatezza, con la loro fastosità, con le possibilità che offrono agli ambiziosi di comandare e agli avidi di guadagnare, costituiscono una attrattiva potente per tutti gli arricchiti dei paesetti e delle campagne.
I nuovi immigrati non possono più costruire i loro palazzi entro la vecchia cinta di mura: perciò costruiscono nei dintorni del vecchio agglomerato urbano; e si formano così i borghi, i cui abitanti sono chiamati borghesi. Siccome gli abitanti dei borghi erano gente arricchita, trafficona, spregiudicata e gaudente, borghese divenne sinonimo di riccone astuto e abile. Dante con questa gente nuova ce l’ha a morte: egli vede in essa il mal seme trapiantato nella vecchia città pacifica, sobria e pudica; vede in essa degli arrivisti e dei gaudenti ambiziosi, sfrenati, triviali che provocano discordie, scandali, depressione civile, morale e politica. Egli aderisce alla fazione bianca, costituita in gran parte da questa gente nuova, ma solo ,per motivi contingenti di politica interna del Comune: del resto non esita, la prima volta che parla di Firenze nella Commedia, a chiamare “selvaggia” la sua fazione. Nel canto XVI del Paradiso egli espone, per bocca di Cacciaguida, la causa generali dei mali, non solo a Firenze, ma anche in tutte le città italiane:
“sempre la confusion delle persone
principio fu del mal della cittade”. (Parad. C.XVI vv.67-68)
e nel canto XVI dell’Inferno, a tre condannati fiorentini, che gli hanno domandato se in Firenze fioriscano ancora valore e cortesia, risponde:
“la gente nova e i subiti guadagni
orgoglio a dismisura han generata
Firenze, sì che ti già te’n piagni”. (Inf. C.XVI vv.73-74)
Quando entrano in città i nuovi arricchiti, entrano con essi le tre fiere che ostacolano agli individui e alla società l’ascesa al dilettoso colle della felicità: frode, superbia, avarizia. Nel canto VI il poeta, per bocca di Ciacco, presenta Firenze come città in fiamme, essendo stati i cuori dei cittadini incendiati da tre faville: “superbia, avarizia, invidia son le tre faville che hanno i cori accesi”.
(Inf. C.VI vv.58-59)
L’Alighieri è anche sdegnato ed offeso dal nuovo costume introdotto dai nuovi gaudenti nella vecchia città pudica: basta leggere l’opposizione tra i costumi della Firenze antica e quelli della Firenze nuova delineata per bocca di Cacciaguida nell’ultima parte del canto XV del Paradiso, per comprendere quanto fosca appaia all’Alighieri la situazione morale della sua città da quando la ricchezza vi ha introdotto lusso e lussuria. Nel canto XXII del Purgatorio Forese Donati non esita a definire le donne fiorentine peggiori delle femmine della zona più primitiva della Sardegna cioè della Barbagia:
“tempo futuro m’è già nel cospetto
nel qual sarà in Pergamo interdetto
alle sfacciate donne fiorentine
andar mostrando con le poppe il petto”.
(Purg. C. XXII vv.100-103)
E più oltre le chiama “svergognate”. Nel canto XV del Paradiso Cacciaguida dichiara che, al tempo suo, una donna scostumata come Cianghella sarebbe stata motivo di scandalo come nella Firenze odierna sarebbe di scandalo una donna onesta come Cornelia, la madre dei Gracchi: il che vuol dire che nella Firenze moderna le donne son tutte Cianghelle o scostumate.
Gli uomini, oltreché ambiziosi, presuntuosi e litigiosi, si sono specializzati nelle truffe, nella baratteria, nel latrocinio:
“Godi, Fiorenza, poiché sei sì grande
che per mare e per terra batti l’ali
e per lo Inferno il tuo nome di spande”
(Inferno c. XXVI vv.1-3).
Ma il Villani, contemporaneo di Dante, non la vede così: egli è il tipo del borghese che si compiace del progresso economico e civile della sua città, delle feste, dei ricevimenti pubblici offerti quasi in continuazione in omaggio di questo o di quel principe straniero, del lusso che rende piacevoli e belle le liete brigate fiorentine.
I borghesi, che avevano costruito splendidi palazzi fino a circa sei miglia di distanza da Firenze e che erano i promotori dell’economia, costituiscono la classe più forte della città: e quel che avveniva a Firenze si verificava in tutte le città italiane.
E’ chiaro, perciò, che il nuovo indirizzo spirituale debba sentire l’influsso della spiritualità borghese.
Tale spiritualità è caratterizzata dai seguenti fattori:
a)- utilitarismo: gli uomini d’affari considerano norma suprema della vita l’utilità e valutano le cose quasi esclusivamente con il criterio dell’interesse.
b)- edonismo: chi abbonda di ricchezza, ed ha perciò possibilità di godere, difficilmente si adatta che la vita è dovere e sacrificio ed accoglie volentieri che vivere significhi far tutte le esperienze più piacevoli, utilizzare il più possibile le risorse di godimento che la natura offre all’uomo.
c)- estetismo: la borghesia comunale non né una classe che, salita all’improvviso dalla miseria alla ricchezza, adotti uno stile di fasto rozzo e primitivo: essa si inserisce in una tradizione già lunga di eleganza e di buon gusto; e perciò nell’esprimersi, nell’abbigliarsi, nell’arredare la casa, nel nutrirsi, segue uno stile spigliato e piacevole; tra le famiglie ricche della città si instaura una specie di gara di finezza estetica.
Si diffonde il concetto che tutto ciò che è fatto con arte è fatto bene, anche se moralmente è deplorevole.
d)- naturalismo morale: chi ha intenzione di godere la vita, utilizzandone le risorse edonistiche e lucrative, ha bisogno di liberà morale: se infatti gli si impongono limiti che convoglino iniziative ed attività verso fini razionali chiaramente definiti, l’uomo di mondo ha l’impressione che gli imponga di rinunciare alla vita. Per lui, quindi, la legge morale costituisce una specie di quadro coercitivo che gli impedisce di esprimere con pienezza le risorse della sua natura. Perciò la morale dell’uomo di mondo non può essere che quella naturalistica, il cui principio fondamentale è il
seguente: segui la natura ovunque essa ti conduce, guardandoti solo dalla imprudenza e dalla volgarità.
La disciplina razionale imposta dalla filosofia e l’obbligo di imitare le perfezioni di Dio, imposto dalla religione, se fossero accolti dall’uomo di mondo, lo costringerebbero a rinunciare al programma di esperienze senza limiti da realizzare sulla terra. Perciò lo spirito borghese ama nascondere a sua aspirazione alla libertà morale assoluta, sotto il pretesto che gli uomini sensati debbono seguire le indicazioni della natura, la quale è maestra infallibile.
E’ evidente che in questa concezione non si tiene conto che, purtroppo, la natura umana non è maestra infallibile e soprattutto non si tiene conto che la voce degli istinti può soffocare la voce della ragione che pur costituisce l’essenza specifica della nostra natura.
e)- superficialismo religioso: l’uomo che si propone come fini supremi della vita il
guadagno e il godimento, necessariamente evita di prendere contatto pieno ed intimo con la religione cristiana la quale è troppo impegnativa per chi l’accoglie sul serio.
Quindi i borghesi delle nostre città comunali e signorili si pregano un Dio condiscendente alle esigenze della natura umana, anzi un Dio che si compiace che gli uomini usufruiscano serenamente e pienamente dei doni che gli ha loro concessi, che cioè seguano gli impulsi dell’amore, cerchino i piaceri della gola, godano spensieratamente le risorse dell’agiatezza e del lusso; purché siano prudenti e sappiano fare. Una divinità di questo genere non è certo quella a cui crede il cristiano; ma il borghese afferma che la religione è vera e buona quando soddisfa le esigenze dell’individuo, cioè quando l’individuo la crede vera e buona e trae da essa tranquillità di coscienza. Ci troviamo di fronte ad una tendenza evidente verso il soggettivismo religioso. La religiosità per l’uomo di mondo si riduce alla osservanza di alcune pratiche esteriori che hanno qualche cosa di singolare e di simpatico: a lui è ignoto il concetto che la religione è soprattutto imitazione delle perfezioni divine. Il borghese non nega le verità religiose, anzi dimostra, quando capita l’occasione, una certa ossequiosità teorica nei confronti di esse: ma esula completamente dal suo spirito la convinzione, e se non nega i dogmi non lo fa perché li riconosca e li accolga come veri, ma perché non gli interessano; e se, talvolta, anche il rispetto esteriore ai dogmi fosse utile, egli è sempre disposto, in nome dell’interesse, a fare atto di omaggio.
Affermazioni della spiritualità borghese nel campo della cultura.
E’ una aspirazione comune a tutte le persone benestanti di acquistare certa cultura per snellire la loro mentalità, per potenziare la loro abilità, per dare un certo decoro alle loro espressioni.
Il Villani ci dice che nella Firenze dei primi decenni del trecento le scuole, sia elementari che medie erano numerosissime: ciò dimostra che col progresso economico delle nostre città, agli inizi del secolo XIV, si andava affermando anche l’esigenza del sapere.
Fino ad allora, nel campo della cultura, avevano dominato incontrastati gli ecclesiastici: i pochi laici che vi si erano affermati, come Dante, avevano seguito generalmente l’indirizzo mistico che aveva dato a tutta la spiritualità medievale la Chiesa; pochissimi erano stati i laici che nel Medioevo avevano seguito un indirizzo culturale mondano: si ricordano in Francia gli scrittori dei romanzi amorosi e trovadori provenzali.
Nel secolo XV gli ecclesiastici vengono man mano decadendo, la schiavitù avignonese prima, lo scisma d’occidente poi, che tengono la cristianità in crisi per più di cento anni, generano disordine e decadenza nel mondo dei preti e dei monaci. Proprio nel momento in cui la spiritualità mistica viene meno, in seguito alla crisi spirituale dei sostenitori di essa, entrano nel campo della cultura i laici, con la loro mentalità nuova, borghese o edonistica che dir si voglia. La voce del Misticismo si affievolisce sempre di più, quella del Naturalismo si fa sempre più vivace e persuasiva: alla civiltà mistica o religiosa succede la civiltà umana o laica. Non è detto che questo laicismo sia anticristiano, ma non si può neanche affermare che sia cristiano nel senso tradizionale: o umanizza con intenti seri e con stile decoroso la religione o finge di ignorarla, ricordandosene quando lo richiede l’interesse.
Terza causa: La decadenza del papato e dell’Impero.
Le cause che provocarono questa decadenza furono molteplici:
a)- La lotta fra le due supreme autorità. Questa lotta è provocata, anzitutto, dalla
confusione delle idee circa i rapporti fra le due supreme autorità della respublica cristiana. Dal tempo di Teodosio, che nel 380 riconobbe la religione cattolica religione ufficiale dell’Impero, si affermò il concetto che il mondo cristiano e il mondo romano fossero ormai la stessa cosa, cioè si considerò la comunità cristiana come un organismo sociale unico di cui l’Imperatore curava gli interessi temporali ed il Pontefice curava gli interessi soprannaturali. Papa Gelasio (494-496) illustrò con chiarezza la natura dell’imperium cristianizzato ed affermò con chiarezza che le due supreme autorità della respublica cristiana erano dipendenti l’una dall’altra e che ambedue dipendevano direttamente da Dio.
Dopo l’interruzione dell’istituto imperiale nel periodo 476-800, con Carlo Magno risorse il concetto della respublica cristiana, governata contemporaneamente dall’Imperatore e dal Pontefice: ma questa volta i rapporti tra le due supreme autorità appaiono confusi fin dall’inizio della rinascita dell‘imperium christianorum. Infatti l’imperatore riceve la consacrazione dal Papa e questo rito include quasi il concetto che sia il Papa a comunicare l’autorità all’imperatore. D’altra parte l’imperatore ha il titolo di “Patricius Romanorum”, cioè il primo cittadino e protettore di Roma e, quindi, ha il diritto di intervenire con la sua autorità di personaggio più autorevole, nella elezione del Pontefice che spetta al popolo romano.
Di qui i frequentissimi casi in cui o il Papa nega la consacrazione all’imperatore o l’imperatore invalida l’elezione del papa: troppo spesso, nel Medioevo, le due supreme autorità del cristiano litigarono fra di loro o l’una tentò di sopraffare l’altra; troppe poche volte esse collaborarono cordialmente alla pace e al benessere della cristianità.
La lotta avvilisce e svigora: al termine del Medioevo, nonostante il grido disperato dell’Alighieri, l‘imperator christianorum è ridotto in pratica alla funzione di signorotto della Germania; e il Pontifex Christianorum è diventato il cappellano del re di Francia, in villeggiatura in Avignone.
Un altro motivo che provocò la lotta fra le due supreme autorità cristiane fu il riaffermarsi del concetto classico della sovranità, verso il secolo XII, cioè allorché rinacque il culto del diritto romano: la superaneitas o sovranità, secondo i giuristi romani, è diritto assoluto di controllo che ha il capo di una comunità su tutto ciò che si svolge nell’interno della comunità stessa. In forza di questo concetto tutte le attività che si svolgono nella comunità cristiana, e quindi anche le questioni politiche che la riguardano o nel complesso o nei singoli settori; per la stessa concezione l’imperatore vuol controllare il mondo ecclesiastico, affinché nulla sfugga alla sua direzione suprema.
Questo fu il significato ultimo della lotta tra Federico I Barbarossa e Alessandro III, fra Federico II e i papi Innocenzo III, Onorio III, Gregorio IX e Innocenzo IV.
In forza dello stesso concetto di sovranità le autorità minori della comunità cristiana, cioè re e principi, che fino ad allora si erano contentati di essere “primi inter pares”, pretesero anche essi di controllare la società di cui erano capi.
Così l’affermarsi del concetto classico della sovranità mise in contrasto il papa e l’imperatore, provocando la decadenza dell’uno e dell’altro; e spinse i re sottrarsi all’autorità suprema dell’imperatore e a sottrarre la Chiesa della loro nazione all’autorità suprema del papa.
b)- La maturazione psicologica delle nazioni.
Come nell’individuo, col procedere dell’età, si sviluppa e si definisce la personalità e con questa la tendenza all’autonomia, così nella storia delle nazioni si nota che esse, fino a quando sono in formazione, fino a quando non acquistano coscienza delle loro possibilità e delle loro tendenze particolari, facilmente si adattano di vivere in comunità supernazionali, da cui possono trarre utili aiuti per avviarsi e orientarsi lungo le vie della civiltà. Quando, però, una nazione, uscita dallo stato di infanzia e di fanciullezza, acquista coscienza della sua personalità etnica e civile, dei suoi interessi economici, delle sue risorse spirituali e materiali, allora essa preferisce uscire dai quadri delle comunità internazionali, per garantirsi la maggiore libertà possibile di movimento.
Nella fase di conclusione del Medioevo, cioè della fanciullezza e della adolescenza delle nazioni romanze, si nota evidentissima la tendenza delle famiglie etniche del mondo cristiano a spezzare i legami che le tengono unite fra di loro e le impegnano alla obbedienza delle due supreme autorità internazionali della respublica cattolica.
Di qui le tendenze separatiste nel campo religioso, che avranno laloro conclusione clamorosa col Protestantesimo; di qui la nascita della passione nazionalistica che ha la sua prima espressione nella guerra dei cento anni (combattuta dalla Francia contro l’Inghilterra per liberare il suolo nazionale dalla sovranità straniera), e avrà la sua conclusione nelle interminabili lotte tra Francia e Asburgo (specialmente tra Francesco I e Carlo V) durante il secolo XVI.
Questa tendenza al separatismo, che spezza l’entità religiosa e politica del mondo cristiano e provoca quell’antagonismo incessante e tragico fra le varie nazioni europee, che dura ancora oggi, è frutto di una maturità etnica e politica male intesa, cioè di una concezione della personalità come personalismo, della autonomia come libertà assoluta, del potenziamento individuale come individualismo.
Le varie nazioni credettero che, vivendo da sole, in piena libertà di movimento in quanto non più legate al grande organismo della comunità religiosa e politica cristiana , avrebbero realizzato con più facilità il loro progresso: credettero che per potenziarsi fosse necessario isolarsi, che per essere quello che erano dovessero imporre la forza della loro personalità: ma è chiaro che nessuno può far tutto da solo ed è anche più chiaro che, fra tanti che vogliono imporre ciascuno la propria personalità, debba esistere una guerra che non finisce mai.
c)- Lotta fra laici ed ecclesiastici.
Sebbene la Chiesa, nel corso del Medioevo, avesse affermato il suo predominio spirituale su tutte le nazioni cristiane e su tutte le classi sociali, sebbene gli ecclesiastici fossero stimati e quasi venerati dai fedeli, tutta via c’era stato sempre un gruppetto che aveva guardato i preti e i frati con tono di superiorità e quasi di ostilità: era stato il gruppetto delle grandi famiglie dell’aristocrazia militare germanica.
Queste in un primo tempo avevano visto negli ecclesiastici dei vinti che pretendevano di opporsi al rispetto dei vincitori, ammantandosi della maestà della religione; in un secondo tempo, quando si verificò l’alleanza fra i re barbari e la Chiesa, tra l’Imperatore ed il papa, avevano visto negli ecclesiastici dei collaboratori del re, dell’imperatore nel tentativo di limitare e comprimere le loro autonomie; in un terzo tempo, quando gli Ottoni concessero i feudi ai vescovi e agli abati, videro negli ecclesiastici dei competitori; in un quarto tempo, quando la Chiesa, ricca di beni temporali e intimamente affiatata con le grandi masse delle città comunali, costituiva una forza che logorava le loro posizioni di predominio tradizionale, videro negli ecclesiastici dei nemici da combattere e, a questo fine, si allearono con l’Imperatore, ormai passato anch’egli all’opposizione antipapale per la questione della sovranità (siamo al tempo degli Svevi) si raggrupparono nel partito Ghibellino, che non investiva il prete in quanto prete, cioè in quanto rappresentante della religione, ma il prete in quanto forza sociale; è un anticlericalismo che rientra nel quadro dell’eterna lotta dei poteri contro coloro che osino o pretendano di mettere in crisi le poro posizioni assodate.
Da parte loro gli ecclesiastici si erano pur spesso screditati partecipando apertamente alla lotta tra le fazioni politiche, dimostrando avidità insaziabile dei beni terreni, scandalizzando il popolo con i loro costumi deplorevoli; tutta materia di critica per gli anticlericali.
Nel secolo XIV poi il clero era decaduto miseramente per l’abbandono i cui era rimasta la Chiesa, sia a causa della schiavitù Avignonese, sia a causa della interminabile e deplorevole scisma d’Occidente.
Gli intellettuali laici del secolo XIV, già pieni di aspirazioni mondane e già per questo poco benevoli versi i preti, di fronte ad un clero in decadenza, assumono l’atteggiamento di persone superiori; già il Boccaccio vede, nella maggior parte degli ecclesiastici, degli ipocriti, degli ignoranti, degli imbroglioni.
In seguito a questo distacco spirituale fra clero e laici si verifica anche il distacco fra religione e cultura, fra pensiero cristiano e mondo intellettuale: il termine “chierico”, che prima aveva significato “dotto” era diventa quasi sinonimo di ignorante.
La concordia e la collaborazione favoriscono il progresso materiale e spirituale di una società: la discordia, sebbene spesse volte riveli esigenze nuove che non sempre sono fattori negativi dal punto di vista del progresso, tuttavia è sempre causa di dissoluzioni delle famiglie, delle nazioni e degli organismi politici o spirituali a carattere universale.
E’ chiaro che con la dissoluzione sociale di una comunità va connessa la dissoluzione anche della spiritualità che la caratterizzava. Con l’indebolimento ed il rilassamento del grande organismo religioso-politico della respublica cristiana , viene meno anche quella spiritualità mistica che aveva caratterizzato l’epoca medievale, ispirandone il pensiero, il sentimento, il programma d’azione, le espressioni pratiche in tutti i campi.
Quando si spegne la civiltà religiosa, sorge la civiltà profana o, come dicono “umana”. La religione era stata capace di unire spiritualmente tutta l’Europa cattolica, e di dare a tutte le espressioni della sua civiltà un indirizzo unitario; tolti di mezzo gli ideali comuni della religione, la società europea si fraziona in svariati settori particolari, ognuno dei quali punta sulle sue risorse materiali e spirituali, per affermarsi in una incessante concorrenza in antagonismo.
Dalla decadenza della respublica cristiana risultano due conseguenze nel campo della spiritualità europea e particolarmente italiana: il venir meno del misticismo a cui subentra una visione strettamente umana della vita; il venir meno della universalità nelle varie forme del pensiero e della prassi, a cui subentra un ben chiaro indirizzo particolaristico.
Quarta causa: Decadenza del Comune e affermarsi della Signoria.
Alla fine del secolo XIII ed agli inizi del secolo XIV l’istituto politico del Comune giunge a maturazione, e, come tutte le forme di vita che raggiungono la maturità, inizia la sua fase di tramonto: al Comune succede la Signoria; alla repubblica cittadina democratica succede una repubblica sorvegliata da un primo “civis” o “senior” (= signore), molto simile alla repubblica ateniese al tempo di Pericle o alla repubblica romana al tempo di Augusto.
Il motivo per il quale si verifica la decadenza del Comune e a questo si sostituisce progressivamente la Signoria, si può riassumere in quella formula che si suole applicare alla scomparsa di qualsiasi istituto storico nel corso dell’evoluzione umana: “Il Comune non è più capace di rispondere alle esigenze nuove della storia”.
Vediamo in che senso il Comune non risponde alle esigenze del secolo XIV.
a)- Anzitutto il regime comunale non è più capace di garantire la sicurezza interna dei cittadini. Nelle città col progresso economico e civile si verificano, necessariamente, quelle differenziazioni fra le classi e le famiglie che sogliono venire alla luce in ogni organismo sociale adulto, allo stesso modo che in ogni organismo vivente, con lo sviluppo, si manifestano più evidenti le differenze tra le parti che lo compongono e le attività funzionali proprie di ciascuna di esse.
La differenziazione è promossa normalmente dalla capacità economica della famiglia o della classe; capacità economica con cui vanno congiunti particolari nuclei di interessi, i quali con più facilità e con più sicurezza per affermarsi, normalmente si valgono della forza di questo o quell’ideale religioso o politico che più si adatti ad essere sfruttato ai fini utilitaristici.
Per questo motivo nella lotta degli interessi tra famiglia e famiglia, tra classe e classe, tra città e città, si infiltrarono i nomi e gli emblemi del Ghibellinismo, del Guelfismo, del Bianchismo , del Nerismo.
Le tre faville che hanno appiccato il fuoco della discordia in Firenze, hanno provocato in tutta la Penisola un rogo immane: “Ahi, serva Italia, di dolore ostello – nave sanza nocchiere in gran tempesta, – non donna di provincia, ma bordello !…. E ora in te non stanno sanza guerra – li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode – di quei ch’un muro ed una fossa serra. – Cerca, misera, intorno dalle prode – le tue marine, e poi ti guarda in seno, – s’alcuna parte in te di pace gode.” (Purg. c.VI vv.76-78/82-87).
L’Alighieri invoca l’intervento energico della autorità imperiale, cui spetta, per mandato divino, il compito di pacificare il popolo cristiano, ma né l’Imperatore né il Papa ascoltarono le invocazioni di pace che, in ogni parte della Penisola, levavano le persone più oneste e più pensose del bene comune. Invano il Petrarca scriveva la canzone “Ai signori d’Italia” per esortarli alla pace, invano il medesimo poeta chiedeva “a un senatore di Roma” che sedasse l’eterna lotta tra le famiglie della città eterna.
L’Alighieri affermava nel “De Monarchia” che era necessario il comando di uno solo perché potesse essere garantita la pace nella comunità cristiana, e con la pace potesse essere garantita la felicità terrena: siccome l’Imperatore non sente più il dovere della sua missione e, d’altra parte, le autorità minori della respublica cristiana non sentono più il dovere del rispetto verso la suprema autorità politica, ogni città provvede da sé ai casi suoi; se un personaggio potente, o per forza militare o per forza economica o per autorità morale, si mostra capace di restaurare l’ordine e di garantire il tranquillo svolgimento delle attività economiche, culturali e religiose, i cittadini sia delle classi umili sia delle classi elevate, volentieri lo accolgono come pacificatore.
Sorge così la Signoria, come naturale conclusione della crisi interna del Comune.
b)- Il regime comunale non è più capace di garantire la sicurezza esterna della città.
Non solo lottano le classi e le famiglie nell’interno dei singoli comuni , ma si svolgono lotte incessanti anche fra città e città. La conseguenza più grande di questa incessante guerriglia è l’insicurezza generale che, a sua volta, impaccia e blocca le attività della produzione e del commercio.
L’ostilità fra paese e paese, infatti, impedisce il rifornimento delle materie prime necessarie alle industrie locali, impedisce l’esportazione dei prodotti, inaridisce le fonti della ricchezza e del benessere. E’ per questo motivo che, quando un personaggio, per la sua valentia militare, desta la fiducia che riuscirà a pacificare una grande zona, ad armonizzare gli interessi delle varie località di essa, ed a promuovere il benessere generale, al di sopra di ogni piccineria campanilistica, volentieri viene salutato ”primus civis” del Comune e proclamato “signore”.
Si tratta dunque di una unificazione in parte forzata, in parte libera: perché il popolo sa di perdere la sua libertà; libera, perché è una soluzione che volontariamente si accetta, in mancanza di una soluzione migliore.
Si afferma, dunque, nel secolo XIV, la tendenza alla costituzione di domini più vasti, all’unificazione di zone che hanno interessi comuni.
Questa tendenza sembrerebbe contraddire all’indirizzo individualistico che è proprio del Rinascimento: ma la contraddizione è soltanto apparente. Infatti nelle fasi auree del Medioevo (ad esempio al tempo degli Svevi) il particolarismo delle città era superato dal senso vivo degli interessi comuni, sia politici che religiosi, ed anche da una discreta coscienza nazionale; mentre nell’epoca nuova, i vari domini signorili, pur raggruppando membra che prima erano disperse, vengono a costituire blocchi isolati, in cui l’unità ha funzione soltanto interna, senza alcuna apertura di fraterna collaborazione con le altre zone, in nome di ideali comuni.
IL raggruppamento serve, dunque, a potenziare le unità individuali più complesse e più robuste, senza dubbio, ma anche reciprocamente sospettose e più ostili: si tratta, insomma, di una tendenza alla formazione di blocchi, ciascuno dei quali preferisce vivere a sé, tanto più, quanto più sente garantita la propria sufficienza.
Alla metà del ‘400, si afferma in Italia, la politica dell’equilibrio: non è, come dice la parola stessa, un sistema di collaborazione fra i vari Stati italiani, ma è solo un impegno a star fermi, perché ciascuno ha paura dell’altro.
Vediamo, ora, come il passaggio dal Comune alla Signoria, cioè da un regime democratico al comando di uno solo, abbia cambiato l’indirizzo anche della spiritualità generale e, quindi, anche delle lettere e delle arti.
La letteratura e le arti, che nel Medioevo sono vissute in mezzo al popolo traendo ispirazione da esso e restituendo ad esso, sublimato dalla bellezza, quel che ne avevano ricevuto, ora, col passaggio dal Comune alla Signoria perdono il contatto con la vita vissuta dalle moltitudini, si ritirano nei palazzi signorili, indossano abiti più eleganti, si esprimono con stile più controllato e decoroso, ma non vedono che il signore, la famiglia del signore, i cavalieri, dame, umanisti e abili imbroglioni.
Guardato dal palazzo del signore il popolo diventa plebe insignificante e negata, per natura, a qualsiasi forma di sensibilità superiore.
Il mondo della poesia e dell’arte troppo spesso si restringe all’elegante, ma spiritualmente assai modesto mondo della corte. E siccome nella corte i problemi della vita si riducono a quelli dell’eleganza, del piacere, del gioco politico, dell’affermazione della propria personalità, è naturale che le lettere e le arti girino sempre intorno a questi motivi. I gravi problemi della vita nazionale, che è in crisi per il costituirsi di potenti Stati unitari nell’Europa centro-occidentale; i problemi della decadenza religiosa e morale della respublica cristiana, la quale, perduta l’unità politica, si avvia a perdere anche l’unità di fede; i problemi della educazione spirituale, dell’elevazione economica e civile delle plebi, le quali con l’affermarsi della borghesia nella Penisola, e soprattutto con l’esaurimento del commercio nel Mediterraneo, ha bisogno di protezione e di sollecita cura da parte dello Stato: tutti questi problemi sono ignorati dagli scrittori e dagli artisti.
Se è vero che letterati ed artisti sono i maestri del popolo, col passaggio dal Comune alla Signoria, il popolo resta senza maestro; letterati ed artisti diventano maestri dei signori; ma se il valore degli educatori deve essere misurato dalla condotta dei discepoli, i maestri del Rinascimento non hanno grandi motivi di rallegrarsi.
Insomma le lettere e le arti del Rinascimento progrediscono mirabilmente nella tecnica, ma indietreggiano miseramente nell’ispirazione.
Aspetti fondamentali del Rinascimento.
I due aspetti fondamentali del Rinascimento sono: Naturalismo e Umanesimo.
Essi accompagnano l’epoca dal suo sorgere al suo tramonto, passando ambedue da uno stato di infanzia ad uno stato di maturità.
Naturalismo
Naturalismo significa culto di tutte le energie che costituiscono la natura umana; e concepire naturalisticamente la vita significa intenderla come espressione piena, libera e spregiudicata di tutte le energie di cui la natura fornisce ciascun uomo. In una concezione naturalistica della vita vengono giustificate tutte quelle forme di vivere che rispondono ad un’esigenza, ad una tendenza della natura umana.
Il criterio con cui si valuta la liceità di un modo di vivere è solo quello naturalistico:
tutto ciò che segue l’esigenza di natura, è buono; tutto ciò che contrasta le esigenze di natura, è cattivo.
Le uniche leggi della morale naturale sono le seguenti: prudenza, abilità ed eleganza; cioè chi vuol godere le risorse di piacere nascoste nella nostra natura umana e nella natura che ci circonda, deve evitare sempre la sfrenatezza bestiale, l’impassibilità balorda e cieca, la rozzezza del primitivo.
Chi segue la natura con prudenza, abilità ed eleganza è perfetto, anche si il suo stile mentale e pratico, non corrisponde alle norme della moralità tradizionale.
Chi segue la morale naturalistica tiene l’occhio fisso non a quello che l’uomo dovrebbe fare o essere in forza di speculazioni teoriche e di rivelazioni religiose, ma solo a quello che è praticamente il modo migliore di vivere: in altri termini, non esiste un complesso di norme di vita che possono essere definite senza tener conto della vita stessa; le norme di vita si traggono dalla vita stessa, cioè quelle forme di esistenza che, man mano, appaiono le più piacevoli, le più geniali, le più fini diventano esse stesse norme. Insomma, quando si stabilisce un codice di perfezione umana non bisogna procedere per ragionamenti filosofici, astratti, né per imposizioni religiose o soprannaturali, ma si deve tener conto soltanto delle esigenze reali della natura umana e di quei modi che, praticamente, le soddisfano nel miglior modo: è il codice morale dell’essere, della realtà, opposto a quello del dover essere o del ragionamento.
Nella concezione naturalistica, dunque, c’è la tendenza a svincolarsi da una mentalità religiosa per realizzare una vita schiettamente umana o laica; a rifiutare le spiegazioni soprannaturali dei fenomeni e non umani, per individuare le cause di essi in fatti puramente naturali. Indirizzo pratico, dunque, in opposizione all’indirizzo teorico (di cui ingiustamente i rinascimentisti attribuivano l’esclusivismo ai medievali); indagine realistica condotta in contatto stretto con la natura; valutazione o svalutazione di uomini e di cose, non secondo criteri morali o religiosi, ma in base a criteri utilitaristici, edonistici, estetici.
Esaltazione delle forze della natura umana.
Distinguiamo nell’uomo facoltà spirituali e facoltà fisiche e vediamo come gli uomini del Rinascimento favorirono l’espressione piena di essere e quali forme e quali indirizzi accolsero nel potenziamento di esse.
Le facoltà spirituali sono: intelletto, sentimento, volontà.
Intelletto. E’ considerato dai rinascimentalisti come la facoltà destinata ad affrontare non problemi teorici, ma problemi pratici, cioè ad individuare tutte le risorse dell’utile. Del bello, del piacevole che si trovano sulla terra.
Si affievolisce nel Rinascimento la speculazione teologica e filosofica; perfino la speculazione giuridica cede il posto alle esigenze pratiche della politica interna ed internazionale. Il Machiavelli, infatti, dichiarerà, esplicitamente, che il criterio per fare buone leggi non è la morale né la speculazione giuridica ma unicamente l’utilità del Principe, cioè l’utilità dello Stato.
L’intelligenza intesa, dunque, come facoltà risolutrice di problemi pratici, è al servizio della vita, intesa, a sua volta, come destinata ad esaurirsi sulla terra, senza alcuna apertura verso mondo soprannaturali. Come il Medioevo aveva costruito la “città celeste” sulla terra, definendone la struttura alla luce dei criteri teologici, filosofici, morali, giuridici, tutti convogliati verso il soprannaturale; così il Rinascimento di propone di ricostruire la “città terrena” piacevole, bella e soddisfacente, definendone la struttura con i criteri di una razionalità pratica di un gusto schiettamente profano.
L’incarico di creare la città terrena, di tracciarne le linee e di comporne l’ornato, viene affidato all’intelligenza e al buon gusto. Per poter assolvere questo compito l’intelligenza ha bisogno della massima libertà: quindi gli uomini del Rinascimento si impegnano a svincolarla da qualsiasi rapporto con la teologia e con la scuola: si afferma uno stile di libertà di pensiero che rifiuta sia i dogmi della Chiesa che quelli della scuola. L’espressione ultima di questa libertà di pensiero è l’affermazione luterana secondo la quale, perfino l’interpretazione della religione, deve essere lasciata alle esigenze delle singole coscienze.
Una intelligenza a servizio della vita capace di destreggiarsi con abilità tra difficoltà più svariate, inorgoglita dalle sue stesse conquiste, libera e spregiudicata in tutti i suoi movimenti fu l’ideale supremo dei rinascimentalisti: ideale che in gran parte si realizzò.
Ecco le caratteristiche più importanti nel campo del pensiero durante il Rinascimento.
a)- la filosofia viene staccata dalla teologia: la filosofia viene staccata dalle scienze; la teologia si illanguidisce; la filosofia (che nel Medioevo era unitaria) si ramifica in svariate correnti che rievocano, più o meno, le correnti filosofiche classiche; le scienze procedono per conto proprio con il metodo che loro si addice (cioè con il metodo sperimentale o induttivo).
b) laicizzazione del pensiero e della vita: cioè distacco del pensiero e della vita dalla religione. L’indagine storica non tiene più conto del fattore provvidenza, ma tende ad individuare le cause dei fenomeni umani nelle passioni, nelle capacità, negli interessi dell’uomo, e, quando si trova di fronte a qualche fatto che non può essere spiegato con l’intervento dell’uomo, ricorre ad una forza misteriosa che si chiama fortuna.
La morale elaborata col criterio naturalistico non tiene più conto del criterio religioso, cioè definisce il bene e il male non in base alla legge divina rivelata, ma in base alle esigenze della natura , del bello e dell’utile.
Il Rinascimento, ad opera del Machiavelli giunse a giustificare la distinzione (che purtroppo, in pratica, facciamo tutti) tra morale teorica e morale pratica o dell’esigenza: si riconosce che teoreticamente si dovrebbe agire secondo i dettami della santa religione e della santa morale, ma, nello stesso tempo, si afferma che per vivere è necessario seguire i suggerimenti delle circostanze: si fanno inchini alla religione e alla morale tradizionale, ma l’una e l’altra vengono dichiarate inadatte alla vita (sarebbe presso a poco la distinzione che nel V capitolo dei Promessi Sposi fa il dottore Azzeccagarbugli allorché è invitato a dare un parere circa una affermazione di Padre Cristoforo che aveva dichiarato che secondo lui nella vita sarebbe bene non vi fossero né sfide, né bastonate, né bastonatori: “l’affermazione del Padre, ottima sul pulpito,ma non val nulla, sia detto col dovuto rispetto, nella pratica della vita”: ci sono dunque una morale del pulpito e una morale della vita che non vanno d’accordo.
Come la storia e la morale, così anche la politica viene scissa completamente, non solo in pratica, ma anche in teoria, dalla legge morale: la politica non è l’arte di amministrare i popoli, secondo criteri eterni di giustizia e di umanità, di diritto e di fraternità, ma è gioco di abilità diplomatica e di capacità guerresca, è astuzia e forza sfruttate per il potenziamento dello Stato o del Principe che, purtroppo, viene identificato con lo Stato.
Il laicismo rinascimentista, pur mirando a svincolarsi dalla religione, per dare all’uomo la massima libertà nel pensiero e nell’azione, tuttavia non nega né combatte i principi religiosi: dichiara soltanto che tra religione e vita c’è una distanza incolmabile, che tra il dover essere e l’essere, non è possibile alcun contatto, e che tra il primo ed il secondo bisogna scegliere come norma il secondo.
Questo processo di laicizzazione che, come tutte le forme della civiltà rinascimentista per raggiungere il suo culmine alla fine del ‘400 e nei primi decenni del ‘500, s’introduce anche nell’interno della Chiesa: vescovi e alcuni papi sono più persone di mondo che rappresentanti, anche modesti, della religiosità evangelica. La più clamorosa espressione della tendenza nel Rinascimento è il Protestantesimo. Infatti Lutero sottrasse la religione alla Chiesa per affidarla alla coscienza di ogni singolo individuo, la sottrasse all’autorità religiosa per affidarla alla autorità politica: “Cuius regio illius et religio” fu il principio sancito alla pace di Augusta, quando si concluse la lotta tra l’imperatore Carlo V e i protestanti (1555). Era da tempo che gli intellettuali del Rinascimento vagheggiavano una religione senza prete, cioè che miravano a laicizzare perfino la religione: Lutero, come concluse il Rinascimento sotto altri aspetti, così lo concluse in modo particolare sotto questo aspetto. E con lui ha inizio quel processo di laicizzazione religiosa che è durata fino ai nostri giorni, particolarmente in ambiente calvinista.
Così la civiltà romanza, tenuta, per così dire, a battesimo dalla Chiesa cattolica, e da questa assistita spiritualmente e civilmente nel periodo della sua adolescenza e della sua giovinezza (cioè nell’epoca medievale), con il Rinascimento passa dalla fase religiosa alla fase umana, dalla fase mistica alla fase naturalistica, da un coscienziosa disciplina ad una autonomia esteticamente corretta e decorata, ma intimamente presuntuosa e dispersa.
c)- Profanismo: cioè culto di preferenza per gli ideali, la cultura, le attività umane ed antipatia per gli ideali, la cultura e per le attività religiose: oppure, se rivive ancora il culto degli ideali religiosi, esso assume forme e toni mondani. Il profanismo si rivela in modo particolare nel campo della cultura.
Nel Medioevo gli intellettuali, nella fase della loro preparazione e nella fase di studio e di indagine personale, preferivano venire a contatto con i libri della Sacra Scrittura, con le opere dei Padri della Chiesa, con il pensiero dei grandi maestri monaci, che nel corso del Medioevo, si resero famosi per la loro attività teologica, filosofica e giuridica.
Nel Rinascimento gli intellettuali compiono la loro preparazione sui testi classici e procedono nelle loro indagini alla luce del pensiero delle prassi schiettamente umane dei Greci e dei Romani.
Giovanni Dominici, un religioso degli inizi del ‘400, nella “Lucula noctis” (1405), deplora che i giovani invece di essere formati attraverso lo studio dei testi sacri religiosi, siano inviati sin dalla più tenera età al culto di una mentalità e prassi pagana.
Nel Medioevo, almeno a parole, i letterati e gli artisti lavoravano per la gloria di Dio e l’onore della Chiesa; nel Rinascimento letterati, artisti e politici lavorano esplicitamente per la loro gloria e per l’onore di questo o di quel principe: profanismo, dunque, anche nell’intenzione che perseguono gli intellettuali nel loro lavoro.
Il Rinascimento, come si è detto, si propone di creare la città terrena che sia piacevole ed accogliente per l’uomo ansioso di felicità; è per questo motivo che in quell’epoca si rivolge l’attenzione ai problemi di una edilizia civile e privata, affinché si possano individuare le combinazioni più armoniche delle linee e siano combinate le forme decorative più eleganti e decorose.
Fioriscono in questa epoca l’architettura, la scultura, la pittura profana: palazzi signorili, sistemazioni edilizie cittadine di ampio respiro e di buon gusto, ampiezze inquadrate da splendide costruzioni con fontane decorate da sculture, giardini pubblici con statue, sale di palazzi privati e pubblici arricchite da preziosissimi affreschi.
Si costruiscono anche chiese, ma si tende a dare ad esse la struttura e la decorazione proprie dei grandi edifici profani classici; il Medioevo aveva costruito la chiesa come luogo di preghiera e di elevazione spirituale, i rinascimentisti la costruiscono come palazzo bello del Signore Supremo: i medievali in chiesa venivano a colloquio con Dio, i rinascimentisti in chiesa volevano appagare la loro ansia estetica.
Di qui tutto il complesso di cerimonie, di fasto profano che si introduce nella chiesa durante la celebrazione dei riti sacri, per cui assistere ad una cerimonia sacra era come assistere ad un bellissimo spettacolo, che se appagava l’occhio distraeva però lo spirito.
E’ evidente in tutto il Rinascimento un tono sprezzante di superiorità nei confronti di tutto ciò che è ecclesiastico o sacro. Basta pensare, a questo proposito, che i filosofi del Rinascimento non simpatizzarono neanche per Aristotele, il quale era pur stato , insieme a Platone, il più grande esponente del pensiero classico: e ciò, soprattutto, perché Aristotele era stato compromesso dall’elaborazione tomistica: ai filosofi umanisti egli sembrava ormai, per così dire, fratizzato. Se essi più tardi si sentirono in dovere di rievocare anche Aristotele, ebbero cura di presentare il glorioso filosofo del tutto diverso da quello che aveva interpretato S. Tommaso: si parlò di aristotelismo puro (Pomponazzi); nelle Università l’elemento insegnante religioso (francescani e domenicani) viene sostituito da elementi laici: è naturale che come i religiosi avevano dato alla cultura un indirizzo soprannaturale o mistico, i laici le dessero in indirizzo schiettamente umano, cioè si preoccupassero di problemi storici, estetici, filologici, politici, componessero storia di ispirazione naturalistica componessero poemi di ispirazione cavalleresca, amorosa, encomiastica, componessero liriche di ispirazione idillica e amorosa e non si preoccupassero più dei grandi problemi dello spirito umano avido di infinito.
Così la civiltà romanza esce dalla chiesa e dal palazzo comunale per entrare nelle corti dei signori e nelle accademie dei dotti; cioè perde di vista il significato soprannaturale della vita e si dedica al culto del bello naturale e artistico, considerato non più come espressione di Dio sulla terra, ma come creazione dell’ingegno e del gusto umano.
d)- Razionalismo. E’ incluso nella concezione naturalistica della vita il proposito di permettere alle facoltà umane l’espressione più piena e più libera delle loro energie.
Questo proposito applicato alla intelligenza diventa razionalismo, cioè concezione della ragione come unica fonte di verità. Abbiamo visto che la ragione è stata distaccata dalla fede; bisogna ora aggiungere che quel distacco aveva come fine quello di permettere alla ragione di destreggiarsi a suo piacere e di affrontare i problemi più svariati con le sole sue forze, per giungere a conclusioni impregiudicate da affermazioni dogmatiche.
Dante, pur considerando supremo dovere, supremo onore dell’uomo, la ricerca del vero, riconosceva limiti imposti alle capacità umane; gli uomini del Rinascimento stimano possibile qualsiasi indagine e quando, talvolta, sono costretti a riconoscere che certi problemi sono troppo alti per essere risolti, se la cavano dichiarandoli inutili ai fini pratici della vita e, sorridendo ironicamente sui tentativi di coloro che, nel corso dell’età precedente, si sono impegnati ad illustrarli alla luce della rivelazione religiosa.
Guicciardini dichiara che i filosofi ed i teologi, avendo preteso di risolvere problemi superiori alle loro forze, sono caduti in una infinità di sciocchezze; e conclude che è bene lasciar da parte certi problemi, intorno ai quali non si potrà mai dire nulla di sicuro, e che vale la pena di occuparsi solo dei problemi pratici della vita.
Si tratta, dunque, di un razionalismo che, non volendo impegnarsi in indagini teologiche e metafisiche, che non interessano più l’uomo “umanizzato” del Rinascimento, astutamente dichiara simili indagini troppo superiori alle nostre possibilità e, con estrema leggerezza, decide di accantonarle.
Sembrerebbe che il riconoscimento della superiorità di certi problemi e della impossibilità umana di affrontarli sia una forma simpatica di umiltà; si tratta invece di una sprezzante rinuncia alle indagini, considerate come inutili e forse anche come compromettenti, essendo simili investigazioni soggette al controllo della autorità della Chiesa.
L’indagine razionalista nel Rinascimento dovrebbe essere limitata semplicemente al campo dei fenomeni umani e al campo delle arti; e questa limitazione fece sì che lo spirito umano si impegnasse nello studio di moltissimi problemi di tecnica, di forme, di scienza, che fino allora non erano mai stati affrontati.
Le scoperte, le invenzioni, le infinite forme di arte elegante e fastosa che fiorirono nel Rinascimento e diedero agli uomini di quell’epoca la sensazione di vivere sul serio la vita (in opposizione all’epoca medievale in cui gli uomini sarebbero stati ancora primitivi) furono il risultato di questo impegno più intenso nello studio dei problemi naturali.
Si tratta, dunque, di un razionalismo che ha avuto meriti altissimi nel campo della indagini naturali e che, se si fosse dedicato alla ricerca anche intorno ai grandi problemi riguardanti Iddio, l’uomo, il mondo, avrebbe garantito maggiore pienezza spirituale, maggiore ricchezza di motivi, una spiritualità più sostanziosa, insomma, all’epoca del Rinascimento.
In pratica anche nel Rinascimento furono affrontati i grandi problemi di Dio, dell’uomo, del mondo cioè i problemi metafisici: si trattò però di una metafisica indipendente dalla religione cristiana e audacemente avviata verso indirizzi propri, che rievocano più o meno le soluzioni della filosofia classica. Furono avanzate varie proposte circa i grandi problemi metafisici, ma quasi tutti concordano nella tendenza verso un leggero panteismo, che è la soluzione più semplice ed anche più comoda per chi non accetti la rivelazione e la metafisica cristiana. Il mondo venne considerato, non più come il riflesso di Dio creatore e trascendente, ma come “animal divinum” cioè materia animata da uno spirito divino. Tale concezione è la stessa che professarono gli antichi classici, i quali videro nella natura l’incarnazione di Dio e godettero di essa con una specie di misticismo edonistico e con la coscienza di rendere omaggio alla divinità. E’ questa concezione panteistica (come si è detto assai tenue e limitata solo al gruppo dei grandi esponenti della cultura rinascimentalista) che giustificò il naturalismo, l’estetismo, l’edonismo di questa epoca.
E’ chiaro che in questa concezione panteistica l’uomo viene considerato come l’espressione più bella del tutto, anzi come coscienza viva di esso in questa parte dell’universo che si chiama terra. Come parte cosciente del tutto l’uomo sente l’ansia di impossessarsi dell’universo, sia attraverso la conoscenza di esso, sia attraverso l’utilizzazione delle energie di esso. Di qui l’ansia della scoperta e della avventura; di qui l’affermazione che all’uomo è lecito tentare tutte le esperienze possibili ed immaginabili sia nel campo del lecito sia nel campo dell’illecito, in quanto, in una concezione panteistica, tutto diventa necessario e razionale e tutto, come necessario e razionale, è buono.
Machiavelli afferma che tutto ciò che è necessario nella vita pratica è buono; Guicciardini afferma che l’uomo si illude di essere libero mentre di fatto tutto è necessitato e regolato dalla forza universale che anima il tutto.
Nel razionalismo rinascimentalista, dunque, più o meno indirizzato verso il panteismo, l’affermazione fondamentale è questa: l’essere e il divenire sono regolati in tutte le loro manifestazioni da una razionalità perfetta e non potrebbero essere diversi da come sono: l’uomo saggio si sforza di capire questa razionalità e questa necessità per utilizzare il più possibile le cose ai fini di una esistenza piacevole e bella.
Vivere pienamente, senza incertezze e senza timori, è il risultato morale della concezione razionalistica del Rinascimento: infatti non esistono più limiti, o proibizioni, o discipline imposti dall’autorità esterna: è la ragione che impone limiti all’uomo: ma la ragione, come si è detto, trova buono tutto ciò che è necessario. Vivendo pienamente tutte le svariate esperienze l’uomo contribuisce, per così dire, a far sì che il tutto sia veramente tutto: sperimentare il vizio senza la virtù, conoscere una scienza senza conoscere le altre, significherebbe vivere parzialmente e in modo non adeguato alle esigenze della totalità universale. Di qui le caratteristiche dell’agilità e della versatilità proprie dello spirito del Rinascimento: di qui l’impressione di ricchezza e di floridezza che genera, a prima vista, la civiltà di quell’epoca.
E’ da notare, però, che la presa di contatto pieno ed esclusiva dello spirito umano con la natura, senza aperture soprannaturali, se è un ottimo presupposto per ampliare e moltiplicare le esperienze terrene, è anche un fattore che limita la visuale del mondo interiore e genera, presto o tardi, noia ed insoddisfazione. La presa di contatto esclusiva con la realtà naturale, se da una parte impoverì l’interpretazione della vita e quindi l’ispirazione dell’arte, dall’altra contribuì efficacemente al miglioramento della tecnica di espressione, in quanto lo studio della natura e dell’uomo, condotto in forma intensa, rende esperti delle risorse di cui sono forniti e l’una e l’altro. Ad esempio la scultura e la pittura, sono potentemente favorite dallo studio della anatomia umana e animale, dalla scoperta dei misteri delle linee e dei colori (da ricordare la scoperta della prospettiva sia lineare che aerea); il linguaggio poetico è potentemente favorito dallo studio delle lingue e delle letterature classiche.
Il Medioevo ebbe una spiritualità ricchissima in cui l’interpretazione naturale e soprannaturale della vita si armonizzavano tra loro e si completavano reciprocamente: ma ebbe una tecnica poco elaborata ed elegante sebbene originalissima e potentemente efficace. Il Rinascimento ebbe una spiritualità meno intensa e meno ricca, ma ebbe una tecnica più fine, più signorile più vicina alla natura bella: il Rinascimento è più lindo, più aristocratico del Medioevo, ma ha meno passioni, meno ideali, meno aspirazioni, meno slancio di esso.
e)- Sperimentalismo e Realismo. Avendo messo da parte i problemi teologici e metafisici, avendo limitato l’indagine a ciò che cade sotto la nostra esperienza, avendo sostituito nella interpretazione della natura dell’uomo i criteri pratici dai criteri teorici, era naturale che il metodo caratteristico del Rinascimento fosse quello sperimentale e induttivo: in ogni campo dell’indagine umana i principi debbono essere indotti da uno svariato complesso di esperienze: “non va scienza senza sperienza” dice Leonardo da Vinci. Prima di lui il Boccaccio aveva presentato l’uomo quale risulta dall’osservazione sperimentale piuttosto che quale risulterebbe da una interpretazione morale religiosa o filosofica.
Machiavelli farà della politica una scienza sperimentale; Guicciardini dichiarerà che la virtù suprema è la “discrezione” cioè la capacità di risolvere i problemi della vita caso per caso, secondo le esigenze pratiche che in ciascuno di esse sono incluse. Anche la morale, come si è già visto, trae i suoi principi dall’esperienza e dall’esigenza pratica: è buono tutto ciò che è necessario, è buono tutto ciò che ha avuto nel passato, e garantisce di avere attualmente, buoni risultati.
Il metodo sperimentale, applicato alla politica ed alla morale, fece sì che fossero elevate a principio certe prassi che erano, sono e saranno sempre deplorevoli e ingiustificabili. Applicato, però, al campo delle scienze, dove la legge che è insita nei fenomeni può essere scoperta soltanto con l’osservazione dei fenomeni stessi, il metodo fu provvidenziale e promosse quello studio attento della natura, che ha dato origine alla scienza moderna, spazzando via una infinità di pregiudizi, infiltratisi nel campo scientifico o perché accolti per sentito dire o perché imposti dalla filosofia, la quale nel passato, unita come era alle scienze, aveva preteso di ragionare astrattamente sulla natura dei fenomeni, che può essere percepita solo attraverso l’osservazione diretta.
Alla scienza va strettamente connessa la tecnica, nel senso che le leggi di natura non vengono scoperte per essere vagheggiate, ma per essere applicate alla pratica delle arti umane (l’applicazione dei principi scientifici all’arte si chiama tecnica). Non si può negare che dal punto di vista tecnico i rinascimentisti hanno acquistato svariati motivi.
Oltre alla accennata tecnica del disegno e del colore nell’arte della pittura, sono da ricordarsi le prime scoperte anatomiche, i progressi dell’ingegneria edile, idraulica e militare, le invenzioni e il perfezionamento delle armi da fuoco e della stampa con i caratteri mobili. Né sono da trascurarsi le infinite espressioni della tecnica applicata all’uso e a forme di vita igienicamente ed esteticamente più decorose che non nell’epoca precedente.
Lo studio della terra in generale portò alle grandi scoperte geografiche per realizzare le quali fu necessario il perfezionamento della tecnica nautica. Quando poi si impose la necessità di utilizzare le ricchezze delle nuove terre scoperte si sentì il bisogno di perfezionare la tecnica della cultura agricola, la tecnica dei trasporti marittimi, della conservazione delle merci, del commercio e della finanza.
Infine, dopo aver acquistato la conoscenza della terra, si preannunciano i primi tentativi di procedere, con lo stesso metodo sperimentale, affiancato da quello delle ipotesi, alla scoperta delle realtà celesti, cioè del campo astronomico: Copernico formula l’ipotesi che non la terra sia il centro del mondo, ma che il sole sia il centro di un sistema di cui la terra è un modesto fattore, un pianeta che gira, insieme agli altri, intorno al vero centro. Da questo tentativo di esplorazione dei cieli risulterà il bisogno di perfezionare la tecnica per l’osservazione degli oggetti a distanza Galileo Galileo nel seicento riuscirà a fornire all’astronomo il cannocchiale.
Il progresso scientifico e tecnico, il miglioramento delle forme di vita dal punto di vista estetico, edonistico ed utilitaristico, diedero agli uomini del Rinascimento la sensazione di avere superato la fase della primitività medievale, di avere ingentilito ed ampliato la vita e di avere conquistato il dominio della terra: di qui il disprezzo per il Medioevo; l’ottimismo edonistico nel godimento delle agiatezze; il tono orgoglioso ed audace di chi è riuscito a scoprire misteri che sembravano impenetrabili ed è sicuro di aver trovato le fonti della felicità.
f)- Criticismo. La sensazione che i rinascimentalisti hanno di avere creato una civiltà nuova, di aver realizzato la pienezza del vivere, li induce a disprezzare l’epoca precedente, cioè la civiltà medievale, e a sottoporre a critica le varie affermazioni fatte,, nel corso dei secoli nei vari campi dell’indagine umana.
Gli storici, i giuristi, i filologi, i filosofi, gli scienziati del Rinascimento si compiacciono di cogliere spesso la civiltà precedente in errore, di poter così mettere in luce la loro bravura, calcando le tinte dell’ignoranza altrui. La tradizione medievale, svalutata e spregiata, viene accantonata e si rivela in tutti gli intellettuali l’ansia di riallacciarsi ad una civiltà più razionale e più umana, cioè a quella classica: grande rispetto, dunque, per i Greci e per i Romani; diffidenza, critica, altezzosità nei confronti dei medievali.
La tradizione medievale, ad esempio, aveva presentato come documento storicamente certo la “Donazione di Costantino” per giustificare il dominio temporale dei Papi. Lorenzo Valla, impiegato alla corte pontificia, dimostra che quel documento è falso: grave smentita alle affermazioni storico-giuridiche dei sostenitori del potere temporale dei Papi (anche Dante aveva creduto alla donazione di Costantino, pur deplorandola: “Ahi Costantin di quanto mal fu matre- non la tua conversion, ma quella dote – che da te prese il primo ricco patre” c.XIX dell’Inferno vv.115-117.)
La giurisprudenza medievale fu elaborata dalla Chiesa la quale valendosi dei principi più ragionevoli del diritto classico romano cercò di dare buone basi giuridiche al suo dominio spirituale su tutto il mondo ed anche a certe pretese di carattere temporale. Gregorio VII (1013-1024) e Innocenzo III (1198-1216) furono i più vigorosi assertori del diritto della Chiesa nei confronti dei vari Stati cristiani; e più o meno dalla riforma gregoriana (1074) alla schiavitù avignonese (1305) la Chiesa esercitò un controllo pieno su tutti gli Stati della respublica cristiana, molti dei quali erano sorti sotto la protezione di essa e volontariamente avevano riconosciuto la sua alta sovranità feudale, obbligandosi a pagare anche un tributo annuo.
Quando, nel secolo XII, in seguito alla rinascita della cultura, ritornò in vigore lo studio del diritto classico (specie a Bologna per iniziativa del giurista Irnerio), incominciò ad affermarsi il concetto della sovranità dello Stato che costituiva il principio fondamentale della giurisprudenza classica (sovranità, da superaneitas, significa superiorità dello Stato su tutte le persone fisiche e morali che si trovano entro i confini dello Stato stesso e, quindi, il diritto da parte di questo di controllare tutte le attività che si svolgono entro la sfera della sua giurisdizione e, quindi, diritto di controllare la Chiesa).
Federico I Barbarossa e Federico II, suo nipote, iniziarono il tentativo di affermare la sovranità assoluta dell’imperatore e di esercitare il controllo, non solo sugli enti autonomi (Comuni e Feudi), esistenti in tutto il territorio dell’impero, ma anche sulla Chiesa: di qui la lotta tra gli Svevi ed i Papi. I fautori del principio dell’autorità assoluta dell’imperatore furono i Ghibellini; i fautori della sovranità assoluta del Pontefice furono i Guelfi. Dei due contendenti non vinse nessuno: il papato alla fine del medioevo decade in seguito alla schiavitù avignonese (1305-1378) e allo scisma d’Occidente (1379-1418): l’impero, dopo il tentativo di Arrigo VII di restaurare l’autorità imperiale, non fu più che un nome.
Vinse, invece, una tendenza nuova, cioè la tendenza alle sovranità individuali ossia nazionali sia nel campo religioso che in quello politico. Lo star sotto la tutela di di autorità universali, quasi fossero bambini bisognosi dell’assistenza della balia, sembrava una situazione umiliante a nazioni che erano uscite, ormai da tempo, dallo stato d’infanzia ed erano venute formando la loro fisionomia e il loro carattere tecnico, politico, giuridico.
All’universalismo medievale, compromesso irrimediabilmente dalla lotta fra le due autorità supreme e dalla irrefrenabile avanzata delle nazioni romanze verso la loro maturità, succede l’individualismo nazionale, reso più accentuato dall’energia con cui si afferma il principio della sovranità statale.
Dante aveva propugnato il principio della distinzione del potere religioso, del potere politico nella collaborazione reciproca: ed aveva deplorato tanto le soverchierie e le invadenze papali nel campo politico, quanto le soverchierie e le invadenze politiche.
Egli era apparso anticlericale, ma di fatto era stato solo un critico dei metodi usati dagli uomini di chiesa nell’autorità di Dio. Marsilio da Padova, difensore della sovranità degli Stati e dell’autocefalismo delle singole chiese nazionali, favorì apertamente l’autorità politica a tutto danno dell’autorità religiosa.
L’anticlericalismo, favorito dal triste esempio dato dagli ecclesiastici durante la schiavitù avignonese, prima e durante lo scisma d’Occidente e la decadenza morale del periodo che va dallo scisma alla Controriforma (1545), assunse, nel periodo del Rinascimento, un tono spregiudicato ed ardito: il laicismo ghibellino del Medioevo stava diventando ideologia avversa sia ai diritti che alle pretese ingiuste della Chiesa. Machiavelli affermava che non si può dire tanto male della curia romana che non se ne possa dire ancora di più. Guicciardini chiamava i preti “caterva di scellerati” e desiderava vederli ridotti o senza vizi o senza autorità. Sembrerebbe che tanto il Machiavelli che il Guicciardini siano avversi ai preti, ma credono nella divina missione della Chiesa: c’è però da notare che per il primo era preferibile la religione pagana che quella cristiana, perché questa infiacchisce l’uomo, mentre l’altra lo accende di amore per le cose terrene e lo fa quindi feroce guerriero; per il secondo, scettico e senza fede, cristianesimo, maomettanesimo e tutte le altre religioni del mondo valevano la stessa cosa, cioè non valevano nulla.
Tuttavia è storicamente notevole questo atteggiamento di antipatia diffusa verso l’autorità dei preti. Lutero, che sottopone a critica le affermazioni più solenni della Chiesa romana e in nome del Vangelo dichiara soverchieria ed usurpazione l’autorità del Papa e di tutti i grandi della gerarchia ecclesiastica, propugna la libera interpretazione della scrittura, nega il valore dei sacramenti, è l’espressione più radicale e più audace del criticismo rinascimentista. Infatti, se l’audacia e la gravità della critica è misurata dalla importanza storica e morale dell’istituzione che si critica e se fino al secolo XV l’autorità più venerabile e l’istituzione più sacra era stata la Chiesa, non si può negare che la demolizione totale della Chiesa stessa da parte del protestantesimo costituisca il gesto più audace e conclusivo del criticismo rinascimentista.
Sull’esempio di Lutero, Principi e re, a seconda dei loro interessi, si distaccarono da Roma e costituirono Chiese locali con principi dogmatici e morali, e con riti culturali tutti propri e talvolta arbitrari.
Nel Medioevo la critica che la giurisprudenza classica muoveva alle pretese della giurisprudenza ecclesiastica, propugnatrici l’una della sovranità esclusiva del potere politico, l’altra del potere religioso, sembrava limitata solo al campo del diritto e all’anticlericalismo laico dell’imperatore e dei feudatari ghibellini, aveva un aspetto quasi esclusivamente politico: nel Rinascimento alla Chiesa vengono negati i diritti politici, perché non ha neanche quelli religiosi, e anticlericalismo non è antipatia contro l’invadenza temporale dei Papi, ma negazione dell’autorità religiosa della gerarchia ecclesiastica in genere.
Questa conclusione era fatale nel processo di naturalizzazione o umanizzazione della civiltà romanza, le nazioni cristiane dopo di essere state a scuola della Chiesa ed avere creduto a tutto quello che lei aveva insegnato, incominciavano a rielaborare e vagliare tutto quello che avevano appreso, per rendersi conto se mai la maestra avesse insegnato e imposto qualche cosa di suo puro arbitrio.
La critica nel campo filologico si appunta contro l’interpretazione religioso-allegorica dei testi classici, a cui avevano atteso gli umanisti medievali, particolarmente Dante.
Gli umanisti del Rinascimento vedono nelle opere dei classici quel che c’è di fatto, senza tentativi di interpretazioni tendenziose: la civiltà classica per essi non solo non ha bisogno di giustificazione né di scuse, nell’atto di presentarsi al mondo cristiano moderno, ma vanta addirittura la sua superiorità nella cultura religiosa medievale, se non altro per la bellezza delle forme di cui essa detiene il monopolio.
Anche dal punto di vista linguistico gli umanisti trovavano gli scrittori medievali in fallo: i libri scritti in latino dotto medievale erano per essi documenti deplorevoli che attestavano quanto l’ignoranza avesse potuto deformare la splendida lingua dell’età aurea di Roma.
I filosofi del Rinascimento evitano il più possibile contatti con la filosofia del Medioevo, perché la considerano asservita alla religione e non possono fare a meno di deplorare che il più grande pensatore dell’antichità classica, cioè Aristotele, sia stato così stoltamente interpretato dai medievali. Come già si è detto, all’Aristotele male interpretato oppongono l’Aristotele puro attraverso lo studio critico delle sue opere di lingua originale, cioè greca.
Nel campo geografico-scientifico le smentite date alla tradizione sono innumerevoli e gravissime; s’era detto che al di là delle colonne d’Ercole fosse impossibile la navigazione: Cristoforo Colombo, seguendo il pensiero di Paolo Toscanelli, suppone per ipotesi che la terra sia rotonda e procede alla scoperta della via occidentale delle Indie e si imbatte in un continente nuovo. Citiamo solo questo esempio, ma è sufficiente per farci intendere quanto orgoglio destasse negli uomini del Rinascimento maturo la coscienza della loro superiorità nei confronti dei pregiudizi stoltamente accolti da generazioni e generazioni nell’epoca precedente.
Come l’individuo giunto alla fase della sua maturità, sottopone ad esame tutto quello che ha appreso dagli altri, affinché le sue convinzioni abbiano l’impronta della sua razionalità personale, cosi avviene delle generazioni e il Rinascimento rappresenta nella storia delle generazioni romanze la fase di un criticismo già adulto e quindi spregiudicato e spesso presuntuoso: il criticismo di Dante, che mirava ad eliminare ciò che non poteva sostenersi, ma rispettava ciò che era sostanziale, era stato ormai sorpassato dalla tendenza al radicalismo, proprio degli audaci e degli orgogliosi.
Volontà.
I rinascimentisti hanno mirato a potenziare la volontà umana:
1)- Affermandone l’autonomia cioè la libertà:
a)- dalla legge morale
b)- dalle consuetudini tradizionali
c)- dalla autorità della Chiesa.
Viene così proclamata l’autonomia della volontà e il diritto dell’individuo a dirigere sé stesso secondo il suo arbitrio (in pratica i rinascimentisti si resero schiavi dei modelli classici; gli uomini politici e gli storici adularono e servirono i tiranni; gli uomini politici e gli storici adularono e servirono i tiranni. Il Guicciardini nega perfino il libero arbitrio).
2)- Affermandone la capacità illimitata.
A chi è fornito di intelligenza agile e di energia di volontà, nulla è impossibile.
All’uomo “virtuoso”, cioè all’uomo che sa fare, non occorre l’aiuto di Dio per superare difficoltà e pericoli. Di qui la mancanza del senso del bisogno di Dio nei personaggi della storia o della letteratura del Rinascimento.
Difficilmente un personaggio dell’Orlando Innamorato o dell’Orlando Furioso, specialmente se uomo, si raccomanda a Dio per ottenere l’aiuto nelle imprese difficili. Sembra che quanto più l’impresa è difficile tanto più essa attragga l’interesse e impegni le energie dell’uomo avido di cimentarsi con l’impossibile, per saggiare le sue energie e rendersi conto della loro efficienza.
Specie nei due poemi citati troviamo personaggi che incarnano il tipo dell’uomo senza paura, capace di cimentarsi non solo con le più temibili forze della natura, ma anche con le forze soprannaturali demoniache (magia); e in questo scontro tra l’uomo e il soprannaturale il vittorioso è sempre l’uomo.
3)- Affermandone la capacità creativa.
I rinascimentisti amarono vedere l’uomo nella natura non come contemplatore estatico della bellezza di essa e delle bellezze del Creatore di essa, ma come impegno di un lavoro di trasformazione, di sistemazione, di abbellimento di tutto ciò che è in essa per creare le condizioni di una vita agiata e decorosa. Con l’applicazione intensa di tutte le energie della volontà, l’uomo può domare la natura, la fortuna, le circostanze. Di qui il concetto che i rinascimentisti ebbero della storia come creazione dell’uomo, con esclusione di interventi soprannaturali.
L’aspetto più grave di questa concezione della creatività dell’arbitrio umano consiste nella pretesa di definire il bene e il male, non secondo criteri oggettivi, immortali ed eterni, ma secondo le esigenze di una soggettività più o meno interessata e più o meno dominata da passioni.
Particolarmente la volontà dei capi, dei principi, cioè di colori i quali sono per natura superiori agli altri, , è valorizzata sino al punto che la legge diventa espressione del loro arbitrio: pare che ritorni la vecchi espressione classica ”quod principi placuit illud legis habet rigorem”. Con tale soggettivismo morale e giuridico si esaltava in modo superlativo l’uomo, si creava anche la mentalità più adatta per arbitri e soprusi di ogni genere: e tutti sappiamo quanto spregiudicata sia stata la tirannide dei Principati nel Rinascimento e dopo il Rinascimento.
Sentimento.
Il sentimento umano viene potenziato in due modi:
1)- Col liberarlo dagli incubi religiosi e morali.
La preoccupazione del giudizio di Dio, la paura delle pene dell’oltre tomba, la trepidazione di fronte alla tentazione, il senso del rimorso dopo la caduta, la sensazione della propria miseria e del proprio avvilimento, il bisogno di espiazione su cui aveva insistito la spiritualità medievale, vengono eliminati con tono di superiorità e di ironica braveria dagli uomini nuovi che hanno superato il concetto di Dio giudice, del peccato, della penitenza.
Si afferma nel mondo affettivo dell’epoca rinascimentista un vivace senso ottimistico, un senso di sicurezza e di goliardia, un’aria di serenità che danno l’impressione della vera padronanza di sé stessi e delle cose.
Il rinascimentista si libera dalle paure dell’oltre tomba in due modi: dichiarando che di certe questioni non si potrà mai dare una soluzione definitiva, che cioè nessuno mai saprà quale è il nostro destino dopo la vita terrena; tale problema è troppo grande pensano essi perché possa essere risolto da noi che siamo così piccoli o meglio da noi che possiamo e dobbiamo conoscere solo ciò che è positivo o sperimentale; inoltre cercano di obliare l’enorme mistero dell’universo (come direbbe il Carducci) divagando lo spirito con l’impegnarlo nell’azione, col distrarlo attraverso i godimenti, con l’ammaliarlo attraverso l’incanto della bellezza.
Così gli antichi classici sviavano il pensiero triste della morte: con lo scetticismo e con l’edonismo.
2)- Col promuovere tutte le forme della sensibilità.
Al rinascimentista come ripugna la sensibilità gretta quasi disumana dell’asceta, così ripugna la sensibilità eccessiva e smoderata che si manifesta con impulsività disordinata e quasi centauresca. Il rinascimentista ama la sensibilità aperta a tutte le impressioni, particolarmente a quelle serene: la sensibilità estetica, la sensibilità amorosa, il gusto dell’agiatezza decorosa, l’amore allo svago, il senso del proprio onore, la lealtà verso gli amici e ai capi, l’intransigenza nei confronti dei nemici, perfino la simpatia per una pratica religiosa moderata e gaia, perfino la ammirazione per la virtù bella e moderna, costituiscono i motivi più comuni del mondo affettivo del rinascimentista.
Più uno è sensibile più è buono; più la sensibilità è educata, è moderata, fine e decorosa, più uno è perfetto. Come si vede anche nel campo del sentimento vale il principio fondamentale del naturalismo e cioè alle energie della natura bisogna permettere l’espressione piena verso ogni direzione.
La pedagogia del Rinascimento mirò ad affidare la sensibilità dei giovani attraverso il culto del bello; nel mondo intellettuale furono coltivate le mentalità platoniche e cavalleresche, con il preciso intento di diffondere negli ambienti più elevati uno stile fatto di grazia, di compostezza e di intelligente vivacità. Il Boiardo, il Ficino, il Castiglione, il Bembo furono gli esponenti di questo stile decoroso e nobile: il Boiardo vagheggiò ed attuò nella sua vita e rappresentò in arte l’esemplare del cavaliere perfetto, cioè dell’uomo in cui si riassumono gli ideali del guerriero valoroso, dell’innamorato gentile, dell’uomo d’onore, d’amore, di cultura. Il Ficino ed il Bembo vagheggiarono e rappresentarono l’uomo esteta, cioè cultore del bello, il quale attraverso la contemplazione dell’armonia delle linee fisiche e delle doti spirituali visibili nelle creature, ascende alla contemplazione del Creatore.
Si può cogliere questa aspirazione al gentile e al bello nel concetto stesso che gli umanisti cristiani hanno avuto di Dio e nello stile che gli artisti hanno adottato nella composizione di soggetti religiosi. Gli umanisti cristiani hanno concepito Dio come bellezza e armonia che riflettono e che si diffondono in tutto l’universo creato; e ciò in armonia con il pensiero di Platone, il quale aveva presentato al sommo della gerarchia delle idee il bello e il buono che improntano di sé tutte le idee sottostanti e tutte le imitazioni sensibili di esse (cioè il mondo): Ficino e Bembo si specializzarono nell’esaltazione dell’amore platonico e ideale, cioè dell’amore inteso come gaudio spirituale di fronte alla bellezza pura diffusa nell’universo sensibile.
Baldassarre Castiglione, nel suo “Cortegiano”, riassume nella figura del gentiluomo la spiritualità del perfetto cavaliere e dell’esteta platonico: il gentiluomo è un cavaliere esperto in tutte le attività più decorose e nobili, è un’anima vivace, leale, amante della bellezza pura.
Gli artisti che trattarono soggetti religiosi rivelarono nelle loro composizioni la loro passione per la bellezza elegante e signorile: gli architetti concepirono i templi come abitazioni signorili di Dio e luoghi ove i fedeli, attraverso il diletto della bellezza che li circondava, riuscissero a prendere contatto con la bellezza assoluta.
Nel Medioevo Dio era stato concepito come amore, giustizia, potenza e bellezza: così l’aveva presentato Dante; nel Rinascimento, epoca del bello, ci si compiace di considerare Dio come bellezza e di infondere, nelle composizioni di carattere religioso, l’armonia ed il decoro che sono l’essenza del bello.
Come in tutte le altre manifestazioni della spiritualità rinascimentista, così anche in quelle del sentimento si nota, in confronto con quelle del Medioevo, minore ampiezza, ma maggiore capacità ed abilità nel creare belle forme, esemplari perfetti.
Facoltà fisiche.
Si è detto che i medioevali trascurassero il corpo, anzi si compiacessero di umiliarlo e di tormentarlo: non è vero, perché gli esponenti della civiltà medioevale hanno considerato il corpo come strumento dell’anima e si sono contentati di disciplinarlo per,sottometterlo alle esigenze dello spirito, ma non hanno mai propugnato l’idea di un avvilimento di esso.
Tuttavia non si può negare che nel culto delle doti fisiche i medioevali appaiono ancora arretrati nei confronti dei rinascimentisti. Ma ciò si spiega col fatto che la tecnica si perfezione con l’esperienza e che normalmente una generazione che ha un secolo di più di esperienza è, dal punto di vista materiale, più evoluta di una generazione che ha un secolo di esperienza in meno.
Vediamo quali sono le doti più notevoli del corpo e i n qual modo il Rinascimento seppe valorizzarle e potenziarle.
Sanità. Per coltivare la salute il Rinascimento curò assai di più del Medioevo l’igiene pubblica e privata. Abitazioni più salubri, un’edilizia pubblica di maggior respiro e di maggiore decoro, vie ampie, piazze, giardini pubblici ben sistemati, diffusione dell’uso dei bagni, introduzione di cibi nuovi e di un’arte culinaria più squisita, sono invenzioni con cui il Rinascimento intese garantire la sanità del corpo.
La penitenza corporale fu svalutata, perché considerata come avvilimento di un corpo che è opera di Dio e come inutile, perché la vera religione è interiore: insomma si vide nella penitenza non un esercizio di disciplinamento del corpo, ma solo una mania di abbrutimento.
Bellezza. L’armonia delle linee, la moderata floridezza delle membra, l’espressività del volto, la vivacità degli occhi, nel Rinascimento furono considerate come superbi fattori di bellezza. Un bel corpo costituì la passione degli scultori e dei pittori del Rinascimento, i quali gareggiarono nel modellare le membra nel modo più verosimile al reale, con arte di idealizzazione di buon gusto e di eleganza. Si diffonde così nell’arte l’uso del nudo e si impone ad ogni artista la necessità di applicarsi allo studio della anatomia.
Se paragoniamo una creazione di Giotto con una di Leonardo, o di Raffaello, o Michelangelo, la prima ci apparirà senza dubbio più ricca di spiritualità, ma la seconda presenterà una modellatura così perfetta da realizzare la sintesi piena del vero con l’ideale.
I rinascimentisti alimentarono la bellezza fisica con l’uso della ginnastica, che rende agili le membra e dà euritmia ai movimenti: la “Decora Palestra” di Orazio appare a questa età, avida di bellezza, come uno splendido fattore di incivilimento, inventato dai classici e trascurato dai medioevali e rimesso in onore da essa. Con la ginnastica va connessa la danza: e con la danza va connessa la musica: danza e musica sono considerati i due fattori di educazione nell’armonia esteriore e in quella interiore, cioè come fattori di educazione estetica.
A mettere in evidenza le belle forme interviene la moda dell’abbigliamento e delle acconciature: si tratta di uno stile di abbigliamento che ha il fine di mettere in evidenza quel che è bello e di correggere e nascondere quel che è brutto; si tratta di acconciature che mirano a rendere più nitida e più aurea la figura del viso. Non si può negare che nella tecnica del bello e dell’agiatezza gli uomini del Rinascimento abbiano raggiunto forme che si impongono all’attenzione delle persone di buon gusto: è per questa perfezione esteriore che i rinascimentisti, guardando all’epoca che li aveva preceduti ebbero la sensazione di aver risuscitato l’uomo, cioè di aver promosso il rinascimento della civiltà.
Aspetti generali del Rinascimento derivanti dal Naturalismo.
1)- Tramonto del Misticismo e affermazione dell’Umanesimo.
Cessazione della concezione religiosa della vita e affermazione della concezione umana: non più la visione della natura che ascende verso la soprannatura, ma visione della natura come realtà unica, donata all’uomo, per realizzare il suo perfezionamento. Il Medioevo aveva lavorato alla creazione della “città celeste”, cioè di una civiltà che riflettesse gli ideali e le aspirazioni soprannaturali; il Rinascimento è tutto intento a creare la “città terrena”: bella, gioconda, complessa e armonica.
Cessa la fase religiosa della civiltà umana: l’uomo esce dalla tutela dei preti, cioè della religione, ed incomincia una vita autonoma.
2)- Edonismo.
Cioè concezione della vita come piacere, cioè come potenziamento della nostra natura sensibile e spirituale attraverso tutte le esperienze più adatte a promuovere e a soddisfare le esigenze del corpo e dell’anima. Il fine della vita è sulla terra e il fine terreno dell’uomo è quello di vivere il più a lungo possibile e il meglio possibile.
3)- Individualismo.
La rivalutazione della natura umana, propugnata dai rinascimentisti, non fu rivalutazione della natura umana in quanto tale, ma dell’uomo ben potenziato di energie native: quel che conta non è l’animalità e razionalità (essenza o natura dell’uomo uguale, in tutti gli uomini), ma il grado di perfezione o di potenziamento dell’animalità e della razionalità nei singoli individui.
Quindi, nel Rinascimento, si tributa onore e rispetto non all’umanità in genere, ma a questo o a quell’uomo che incarna in sé stesso un esemplare perfetto di umanità. Se i rinascimentisti avessero valorizzato la natura umana in quanto tale, avrebbero conservato l’universalismo medioevale, se non per motivi religiosi almeno per motivi umani, in quanto in tutto il mondo esistono uomini che come natura sono eguali anche se sono diversi quanto a potenziamento di natura; ed in questo senso avrebbero precorso il cosmopolitismo degli Illuministi.
L’uomo ben potenziato, cosciente delle sue risorse e della sua capacità, ama affermarsi come individuo. Per questo nel campo delle arti non avremo più le “Scholae” in cui quel che conta è il programma comune e chi agisce è il gruppo: ma troveremo tanti indirizzi (pur nello stesso campo di aspirazioni e di metodi) quanti sono gli artisti. Si parla di “scuola rafaellesca e michelangiolesca”, ma di fatto gli scolari di Raffaello e di Michelangelo non erano esecutori dei disegni dei maestri e se rivelavano, talvolta, spirito di iniziativa, essi stessi ci tenevano molto a dichiararsi autonomi.
Nel campo delle lettere poi non troviamo più scuole: ogni letterato, pur inquadrandosi nella spiritualità comune dell’epoca, ha uno stile mentale e tecnico personale; e troviamo spesso gli scrittori in polemica e in litigio gli uni contro gli altri. Basti a questo proposito ricordare il non certo degno spettacolo che diedero alcuni umanisti nella loro ansia di affermare ciascuno la propria personalità e di deprimere quella dei colleghi.
Anche nel campo della filosofia e della teologia si verifica un frazionamento che, se da una parte favorisce l’individuazione di problemi nuovi e la ricchezza di proposte per risolverli, tuttavia, esaurisce le forze in tentativi personali che il più delle volte, rimangono sterili. Nel Medioevo la filosofia di tutte le scuole della respublica cristiana era stata la Scolastica, particolarmente la Scolastica Tomistica: nel Rinascimento il pensiero comune, l’indagine condotta da più persone nello stesso senso sembra ripugnare; si prende ciascuno una strada propria, che in fondo non è altro che una delle tante strade percorse già dalla filosofia classica. Nel campo teologico le affermazioni fatte durante il Rinascimento e da cattolici e da eretici sono innumerevoli e, particolarmente, quelle ereticali, di carattere violento e radicale: (ricordare Wikliff, Hus, Lutero, Calvino, Zwingli nel campo ereticale; il cardinal Caietano, Bellarmino, Molina e la scuola gesuitica).
Ma il campo in cui l’individualismo fu più evidente e, per la storia dei popoli europei più dolorosa, fu quello della politica e della religione.
Vediamo anzitutto l’affermarsi dell’individualismo nel campo politico internazionale.
Nell’Alto medioevo si erano formate etnicamente varie nazioni moderne: in quel mondo ferveva lo spirito individualista proprio dei popoli germanici e dei popoli primitivi in genere; ma l’universalismo politico del Romanesimo e l’universalismo religioso del Cristianesimo erano riusciti a dare una certa unità a quell’aggregato di popoli, che neanche si conoscevano tra di loro.
Verso la fine del secolo XIII le due forze che alimentavano l’unità dell’Europa si esaurivano: il Sacro Romano Impero perdeva qualsiasi forza coesiva e quella sovranità che esso invano, per opera degli Ottoni e degli Svevi, aveva tentato di affermare su tutta la respublica cristiana, andando a rafforzare gli organismi politici minori, che prima erano (almeno di nome) soltanto autonomi: Comuni, Feudi, Nazioni diventarono organismi politici indipendenti, in lotta con l’autorità universale dell’Impero e il lotta fra di loro.
In quel momento di crisi sarebbe stato ottimo rimedio il fattore della fede religiosa comune: in nome del Cristianesimo l’Europa avrebbe potuto conservare l’unità (e Dante era di questa opinione): ma anche la religione era in crisi a causa della schiavitù avignonese prima e dello scisma d’Occidente poi.
Come gli individui per potenziarsi credono necessario troncare i legami che li uniscono ai principi oggettivi del vero e del giusto o i legami sociali che li uniscono attraverso un fatto spontaneo e libero, alla comunità democratica, così i gruppi etnici o nazioni per potenziarsi credono opportuno isolarsi: tanto gli individui che le nazioni, con l’isolamento intendono garantirsi la libertà di movimento: e con la libertà di movimento intendono assicurarsi la condizione prima per esprimere pienamente tutte le loro energie perpetuando antagonismi e gare spesso cruente. Petrarca aveva orgogliosamente esaltato “il latin sangue gentile” in opposizione alla “rabbia e alla scabbia tedesca”; il Rinascimento, coltivando il mondo classico esaltava Roma e l’Italia, come centri e sorgenti di civiltà, adoperando per gli altri popoli l’antica denominazione di “barbari”: il popolo tedesco che, con Carlo V d’Asburgo, agli inizi del secolo XVI, diventa il titolare del più grande impero della storia, risponde all’orgoglio latino, svincolandosi sdegnosamente da Roma anche dal punto di vista religioso. Lutero concludeva spesso infuocati discorsi al popolo con i grido “lontano da Roma”.
Con il maturarsi della coscienza etnica in vari popoli dell’Europa si matura anche l’orgoglio di razza, si afferma cioè il nazionalismo: anche i legami religiosi, che fino a questo momento erano stati considerati come sacri perché stretti da Dio stesso, tra le varie nazioni cristiane, vengono spregiudicatamente troncati: anche sotto questo aspetto il Protestantesimo conclude il Rinascimento. Nell’interno di ciascun o degli organismi politici individuali maggiori e minori si afferma la personalità robusta che dà ad essi un indirizzo unitario e li amministra con uno stile di precisa sovranità.
Così si affermano nei secoli XIV e XV le monarchie nazionali della Francia, della Spagna, dell’Inghilterra e in Italia si affermano le Signorie e i Principati.
Nella nostra Penisola l’individualismo politico è tanto più evidente quanto più accentuato è il frazionamento di essa in una infinità di Signorie; e fa più colpo perché, col passaggio dalla democrazia del Comune alla larvata tirannide della Signoria e all’aperta tirannide del Principato si ha l’impressione netta dell’affermarsi dell’individuo che sa fare e ben potenziato sulla collettività. Il Senior o Signore è il primo cittadino, è l’individualista più forte a cui il Comune affida sé stesso per motivi di difesa, di pacificazione, di potenziamento economico (una specie di Pericle o di Augusto ai loro tempi).
Il Principe è un sovrano assolutista che accentra nelle sue mani tutti i poteri e si distanzia, insieme alla sua famiglia, non solo dalla plebe, ma anche dalla borghesia e dalla nobiltà.
Il concetto di sovranità, fino ad eguagliarlo a quello di proprietà di un popolo, i Principi diventarono i padroni dei loro sudditi, tanto è vero che nelle successioni ereditarie di monarchie e principati le popolazioni venivano assegnate come il resto del patrimonio a questo o a quell’erede, senza che si tenesse affatto conto delle esigenze etniche, religiose, economiche, culturali, linguistiche.
Così dall’individualismo degli organismi politici si passa alla affermazione delle personalità dell’uomo “virtuoso” nel senso di ciascuno di essi.
A prima vista potrebbe sembrare che questo frazionamento del mondo politico europeo, e particolarmente italiano, sia stato una specie di disgrazia storica; ma è de notare che l’universalismo politico in Europa se era stato nel Medioevo ben attuato teoricamente, tuttavia praticamente non era mai stato efficiente a causa della mentalità individualistica delle nazioni giovani che sono sempre primitive e quindi incapaci di volgere lo sguardo al di là dei loro confini; e soprattutto è da tener presente che, il frazionamento contribuì a definire la fisionomia etnica e la funzione storica delle singole nazioni e che si trattò di organismi politici ben più saldi e robusti di quelli medievali: infatti la monarchia assoluta non si afferma nei singoli stati nazionali e le Signorie o i Principati che si affermano nelle nazioni ancora divise internamente (come l’Italia e la Germania) raccolgono le forze delle singole unità politiche e riescono, magari per i loro interessi dinastici, a potenziarle. Insomma si tratta di unità molteplici staccate l’una dall’altra, ma nel loro interno saldamente unite, e quindi più potenti.
A questo proposito il Machiavelli lamentava la divisione politica dell’Italia, perché, secondo lui l’unità fa la forza; il Guicciardini faceva osservare che nella penisola non avremmo avuto la fioritura di tante città, se ciascuna di esse non fosse stata centro di una Signoria o di un Principato particolare.
A confermare il pensiero del Guicciardini interviene la storia, la quale ci presenta nel Rinascimento, città principesche illustrissime che non avrebbero mai avuto tanta importanza se non fossero state capitali di una Signoria o di un Principato.
Del resto l’individualismo, quando è retto da una buona forza coesiva che utilizza tutte le risorse dell’unità individuale, è sempre fattore di potenziamento e di progresso. Il guaio fu che nel Rinascimento i singoli organismi politici della penisola, mentre si venivano rafforzando all’interno, perdevano il contatto fra di loro, anzi si logoravano in lotte reciproche: così quell’Italia che nelle singole parti era potentissima di fronte allo straniero (Carlo VIII, Luigi XII, Ferdinando il Cattolico, Francesco I, Massimiliano d’Austria, Carlo V) dimostrò una debolezza deplorevole: la divisione politica era purtroppo accompagnata anche dalla divisione morale: l’individualismo si eguagliava con l’egoismo, con l’orgoglio del principe e della sua famiglia; e in mancanza di una viva fede religiosa e patriottica, che stringesse spiritualmente tra di loro i vari settori della penisola, non poteva non avvenire quello che avvenne: alcuni signori chiamarono gli stranieri, combatterono a fianco di essi contro i loro colleghi connazionali, per caparbietà ed egoismo.
Si verificò presso a poco il fenomeno opposto a quello che si era verificato nel Medioevo; allora in Italia c’era una unità spirituale costituita dall’unità di fede religiosa e da un discreto senso patriottico; ma lo stile individualistico germanico aveva introdotto nella storia italiana il metodo delle divisioni e delle suddivisioni amministrative, specie col feudalesimo nel Rinascimento gli organismi politici individuali erano unitari però mancavano di rapporti spirituali reciproci: così nel Medioevo si ebbero le Leghe dei Comuni, e la nostra storia scrisse episodi di glorioso patriottismo; nel Rinascimento, mancando ideali comuni, la nostra storia scrisse belle pagine per le singole Signorie e Principati, ma alla fine dovette scrivere pagine tragiche per tutta la penisola e per le più singole parti di essa.
Insomma nel Medioevo c’erano i fattori spirituali per realizzare l’unità politica dell’Europa e l’unità intera delle singole nazioni ( e tali fattori erano la religione e la sensibilità etnica), ma l’individualismo germanico impedì l’unità internazionale e quella nazionale.
Nel Rinascimento rimane il frazionamento medievale; le singole unità vennero potenziate all’interno, scomparve qualsiasi contatto fra di loro, perché vennero meno i fattori dell’unità spirituale, cioè l’unità di fede religiosa e l’unità di stirpe (compromessa quest’ultima dal sistema di lasciare in eredità i popoli, anche se di nazionalità diversa, allo stesso padrone): nel Rinascimento non contano più né fede né patria, conta solo il padrone.
L’individualismo nel campo religioso ha la sua piena espressione nelle chiese nazionali o statali e nella affermazione della religione di coscienza: conseguenze ambedue della decadenza della forma coesiva della Chiesa.
La Chiesa è fino a che è indipendente dalle interferenze politiche laiche e fino a che non interferisce negli affari temporali: fu misera al tempo del feudalesimo; fu gloriosa al tempo della riforma gregoriana alla metà del ‘200; decadde quando cominciò a parteggiare per questa o quella fazione, chiese appoggio di questo o quel principe.
Con l’affermarsi della sovranità nei singoli organismi politici, cioè all’affermarsi del controllo del padrone su tutte le attività che si svolgevano nell’interno dello Stato, anche la Chiesa fu sottoposta a controllo.
Gli stati militari hanno un esercito alle dipendenze del re: per mantenere l’esercito e per sopperire alle necessità della amministrazione statale, il re o il principe ha bisogno di danaro: e siccome la Chiesa, nel corso dei secoli è venuta accumulando un ricchissimo patrimonio, controllare la Chiesa significa controllare le ricchezze della stessa e poterne disporre.
Di qui la lotta contro la Chiesa romana assertrice dell’universalismo o super-nazionalismo cristiano; da qui il favore concesso da re e da principi a svariati eretici e al Papa; di qui l’adesione di numerosissimi re e principi al movimento luterano che laicizzava la religione e la affidava alle autorità politiche. In Italia, dove le eresie attecchirono, la rovina della Chiesa fu determinata dal predomino delle famiglie principesche nel mondo della gerarchia ecclesiastica: Vescovi, Cardinali e Papi erano normalmente creature di questa o quella famiglia signorile italiana, quando non era creatura di questo o quello Stato d’Europa.
4)- Utilitarismo.
Tutto ciò che è utile per potenziare o un individuo fisico (cioè una persona) o un individuo morale (cioè uno Stato) è buono: questo è il principio fondamentale dell’utilitarismo, che, come si vede, è strettamente connesso con il naturalismo.
Quando si afferma la bontà di tutto ciò che contribuisce al benessere di un individuo si ha l’utilitarismo privato o egoismo; quando si dichiara legge suprema il bene pubblico e, a questo bene vengono asserviti tutti gli altri beni di qualsiasi natura siano e a chiunque appartengano, si ha l’utilitarismo pubblico.
In parole povere il principio utilitaristico rientra nel naturalismo in quanto le nature ben potenziate hanno diritto di usufruire delle energie della natura meno potenziate per affermarsi e realizzare la pienezza della loro espressione.
Le nature maggiori sono le seguenti: l’artista, il letterato, il nobile, il principe. Di queste nature maggiori la massima è il Principe, il quale si identifica con lo Stato, e perciò ha diritto di sfruttare tutte le nature minori per il suo potenziamento.
5)- Aristocraticismo.
L’umanità non è se non un “vulgo”, dice il Machiavelli; e il volgo è un “animale pazzo pieno di mille errori”, dice il Guicciardini. Il “vulgo” è costituito da coloro i quali non sono nature maggiori: cioè tutti coloro che non sono né letterati, né artisti, né principi, né ricchi, né belli, né abili costituiscono il “vulgo”.
Nelle città comunali tutti erano cittadini e tutti erano eguali in diritto e in doveri, perché vigeva il regime democratico. In regime signorile e principesco, conta solo il Signore e quelli solo che possono competere con lui per qualche eminente risorsa di natura (che può essere risorsa artistica o finanziaria)
6)- Con l’aristocraticismo va connesso il superominsmo.
Cioè il principio che le nature minori hanno il dovere di servire alle nature maggiori e queste hanno il diritto di sfruttare le nature minori.
Da quel che s’è già detto il tipo del superuomo è il Principe.
Il Comune in crisi aveva accolto come provvidenziale l’intervento di un pacificatore, di un personaggio autorevole o signore, il quale garantisse ai singoli cittadini e alle varie classi, la sicurezza e la tranquillità
Ben presto il “primus civis” raccoglie nelle sue mani tutti i poteri statali e diventa sovrano assoluto. Favoriti dall’inerzia spirituale del popolo, dalle circostanze storiche e dal consenso degli intellettuali, i principi, ad un certo momento, credono sul serio di essere quasi delle divinità sulla terra o almeno di possedere una natura superiore con cui vanno connessi diritti e privilegi speciali: il Principe diventa, così, padrone che considera i sudditi come esseri inferiori, facenti parte del suo patrimonio familiare.
7)- Senso e culto della propria personalità e di tutto ciò che è connesso con essa: senso dell’onore, reazione energica contro l’avversario, pervicacia fino a che l’avversario non sia stato messo fuori combattimento, esaltazione delle proprie idee e delle proprie opere, esaltazione del casato sono le espressioni più comuni dell’io del Rinascimento.
8)-Tendenza all’autonomia assoluta nel campo dell’indagine intellettuale e nel campo morale: questa tendenza mira a garantire la massima libertà; e la libertà è condizione essenziale per l’espressione piena delle forze di natura. Vengono rifiutati, come s’è già visto, limiti del dogma, della tradizione, dell’autorità religiosa; ma purtroppo si afferma un deplorevole servilismo nei confronti della natura massima, cioè il Principe.
9)- Enciclopedismo. Il principio che le energia di natura debbano essere espresse in modo integrale con la massima intensità, ridice colui che ad esso si ispira ad affermarsi nei campi più svariati della vita. Gli esponenti più illustri della letteratura e dell’arte del Rinascimento presentano quasi tutti la caratteristica della enciclopedicità, cioè quasi tutti si dedicano ad attività molteplici, non solo affini tra loro, ma spesso appartenenti anche a campi assai diversi. Ad esempio Leonardo da Vinci è fisico, matematico, pittore, scultore e letterato; Michelangelo è scultore, pittore, architetto e letterato; Leon Battista Alberti è architetto, pittore, scultore, letterato, musico e atleta.
Cimentandosi in più campi dell’attività umana l’uomo del Rinascimento mira a rendersi conto delle sue capacità, a fare le più larghe esperienze, ad affermare la potenza della sua personalità sulla natura in un raggio vasto il più possibile.
Il pericolo più comune cui vanno incontro gli enciclopedici è il dilettantismo, cioè l’attività molteplice senza impegno serio per nessuno dei settori in cui si lavora: la cultura dei dilettantisti è pura e semplice infarinatura e le loro opere hanno la caratteristica costante della faciloneria e della superficialità. Gli enciclopedisti del Rinascimento superarono questo pericolo in modo brillantissimo, in quanto furono uomini di ingegno robusto, di profonda cultura, di potente energia volitiva.
Anche nel Medioevo i grandi ingegni erano enciclopedici: Dante è cultore di musica, di politica: ma tra l’enciclopedismo medievale e quello rinascimentale esiste una notevole differenza: nel Medioevo tutte le attività dello spirito umano avevano un centro, cioè la religione, a cui si riferivano; nel Rinascimento manca un vero legame tra i vari settori del pensiero e dell’arte, o al massimo si potrebbe considerare come fattore comune l’ideale del bello da realizzarsi in tutti i campi della vita.
10)- Concetto della perfezione. Virtuoso o perfetto è l’uomo che sa far bene tutto (anche il male); quindi virtù significa abilità. Chi sa fare più cose, e le sa fare meglio, è più virtuoso. Gli esemplari di perfezione più comuni nel Rinascimento sono: l’artista, il cavaliere, il gentiluomo, il principe che sappia congiungere insieme le qualità “della golpe e del lione” direbbe il Machiavelli.
L’ideale di perfezione per il Medioevo è il santo cioè l’uomo che realizza in sé la perfezione naturale e soprannaturale, l’uomo che nel corso della vita assimila più possibilmente la perfezione di Dio; per il Rinascimento l’uomo perfetto è colui che assimila il più possibile di ciò che nella terra è bello e utile. L’ideale supremo del Medioevo è il bene cioè l’adeguamento della vita all’ordine universale che esprime la volontà divina; gli ideali supremi del Rinascimento sono due: l’utile ed il bello, cioè lo sfruttamento delle risorse terrene con stile armonico e fine.
11)- Estetismo. La civiltà del Rinascimento deriva da quella medievale, che nella sua lunga elaborazione, aveva raggiunto uno stile di vita moderato e decoroso nello stesso tempo. Quando con il Rinascimento si diffonde e si afferma l’edonismo, cioè la concezione della vita come piacere, è naturale che il culto delle cose piacevoli non avvenga in forme primitive e truculente, ma con quello stile di grazia già avviato dal Medioevo.
Un uomo che si rispetti deve essere fornito di buon gusto, e deve sapersi esprimere con buon gusto, cioè con bellezza, con armonia. Nel mondo delle nature maggiori, durante il Rinascimento, si instaura una vera e propria gara di eleganza e di finezza: l’armonia e il decoro, cioè la bellezza, diventano armonia cioè estetismo.
12)- Realismo: cioè contatto immediato con la natura, con i fenomeni della storia, con problemi di qualsiasi genere, senza predisposizioni mentali di nessun genere: né religiose, né morali, né filosofiche. Tale realismo è conseguenza logica del naturalismo, nel senso che se tutto il vero, il bello, tutto l’utile è nella natura, per cogliere queste tre preziose risorse è necessario procedere direttamente all’indagine di essa, con occhio nudo senza far uso di occhiali di questo o di quel colore, cioè senza pregiudizi.
Di qui l’uso di porre l’attenzione su quel che l’uomo è, non su quello che dovrebbe essere, di cogliere nella storia solo le forze umane, essendo solo esse visibili, di trarre le leggi morali e politiche della prassi, cioè dell’esperienza della vita, di adeguare l’arte alle forme della natura e di trarre da questa e dalla ragione soltanto le leggi (la ragione in arte suggerisce il principio da intendersi come proporzione e armonia nelle complessità).
UMANESIMO
Concetto: per Umanesimo intendiamo il culto, cioè l’ammirazione e l’imitazione di tutte le forme della civiltà classica romana e greca.
E’ Umanesimo non solo il culto della letteratura romana e greca, ma anche il culto dell’arte, della politica, del pensiero filosofico, dello stile morale e religioso propri del mondo classico.
Il culto del mondo classico non costituisce un fenomeno caratteristico del Rinascimento: infatti i classici erano stati studiati anche nel Medioevo. S. Tommaso, ad esempio, prende a suo maestro in filosofia Aristotele, e Dante prende a suo maestro in poesia Virgilio.
Il diritto romano durante il corso del Medioevo orienta i codici delle varie nazioni romanze e, particolarmente nel Basso Medioevo, contribuisce all’affermarsi del concetto e della prassi della sovranità nel campo politico (da ricordare Irnerio e la scuola dei giuristi Bolognesi, tutti uguali nel diritto classico che nel mondo politico, ha come principio supremo: “quod principi placuit, illud legis habet vigorem”: da ricordare i loro rapporti con gli imperatori Svevi, cioè con i più energici assertori della sovranità imperiale). Roma, nel Medioevo, fu considerata non solo come centro della cristianità, ma anche come città bella, come monumento glorioso lasciato alla storia dal glorioso popolo romano: i Romei, durante il cammino di andata e di ritorno, cantavano un inno famoso: “O Roma nobilis….” in cui dell’eterna città è esaltato il valore religioso e civile.
Essendo la civiltà medievale sorta sotto l’influsso e la protezione della Chiesa, anche questo aspetto di essa, cioè l’Umanesimo, doveva necessariamente riflettere le esigenze religiose del Cristianesimo.
La Chiesa medievale interpretò il mondo classico con mentalità cristiana: ne colse gli aspetti spirituali e formali migliori e se ne appropriò per elaborare i suoi dogmi, per organizzare la cristianità, per esprimere il suo pensieri e i suoi affetti religiosi. Fu un Umanesimo originalissimo in quanto dal mondo classico si prendeva solo lo spunto per elaborazioni vitali e rispondenti alle esigenze della storia che è in continua evoluzione.
Gli umanisti medievali erano coscienti della superiorità della spiritualità cristiana su quella classica, ed erano preoccupati no di copiare gli esemplari classici ma di approfondire, di sviluppare, di potenziare il patrimonio spirituale della società cristiana.
Platone, Aristotele, Socrate, Virgilio, Seneca, Orazio erano considerati come precursori del cristianesimo, ma non come autorità infallibili a cui fosse necessario ritornare per pensare bene, per sentire bene, per esprimersi bene.
La Chiesa adottò il “sermo doctus romanus”, ma si guardò bene di esemplarizzare una particolare forma storica di esso (ad esempio il “sermo doctus” aureo o argenteo), perché la Chiesa si valeva della lingua come mezzo e non la considerava affatto come fine: si ebbe così il “sermo doctus medievalis”, che, sebbene con piaccia ai fanatici dell’esemplare aureo, ebbe tuttavia il grande pregio di essere un latino vivo e quindi di essere una vera e propria lingua (cioè una lingua che risponde, evolvendosi di continuo, alle esigenze dello spirito umano in continua evoluzione).
La Scolastica e particolarmente S. Tommaso desunse alcuni principi dalla filosofia classica solo per giustificare ed illustrare i principi del Cristianesimo: si ebbe così una filosofia originalissima e vitale.
Dante desunse da Virgilio “lo bello stile che gli fece onore” e qualche motivo fantastico, ma non c’è poeta più originale di Dante nella storia della letteratura italiana.
L’Umanesimo del Rinascimento è caratterizzato dalla tendenza ad esemplarizzare e assolutizzare le forme del pensiero e dell’espressione create dai Romani e dai Greci.
Anzitutto gli umanisti del Rinascimento tolsero via le interpretazioni allegoriche del mondo classico, comuni nell’Umanesimo medievale, per esigenze religiose e morali: e videro nei classici non i precursori del Cristianesimo ma gli esponenti di una civiltà imbattibile, i sostenitori perfetti dell’indagine filosofica, gli organizzatori insuperabili della vita civile e politica, i veri saggi che seppero rendere bella la vita e goderla.
Videro perciò nelle opere dei classici quel che in esse si poteva oggettivamente vedere, evitando interpretazioni attenuative o allegoriche, non essendovi alcun motivo di attenuare certi aspetti e certe espressioni di una civiltà che era considerata perfettissima nello spirito e nelle forme.
Alla interpretazione oggettiva, all’esemplarizzazione del mondo classico va unita l’imitazione di tutto ciò che apparteneva a quel mondo. I motivo classici, sia spirituali che formali, furono considerati non come spunti da utilizzare per procedere meglio lungo la propria strada, ma come norma e leggi assolute, con tenere conto delle quali significava condannarsi all’insuccesso nel pensiero e nell’arte.
Di qui un aspetto antipatico di questo Umanesimo: il fanatismo. Di qui la denigrazione del Medioevo, disprezzato come epoca non classica e quindi da considerarsi come sprecata, come una unità di passaggio, nel corso della storia della vera civiltà. Di qui il termina Rinascimento con cui essi denominarono la loro età, perché finalmente essi erano riusciti a risuscitare l’uomo classico, cioè l’uomo vero, l’arte classica, cioè l’arte perfetta.
Cause dell’Umanesimo.
1)- Naturalismo. Abbiamo visto che il Rinascimento concepisce la vita come espressione piena di tutte le energie di natura. Le generazioni che accolsero questa concezione erano state elaborate spiritualmente dalla civiltà comunale, seria e decorosa almeno sino alla fine del secolo XIII; non erano affatto generazioni primitive.
Quindi l’ansia edonistica e lo sprigionamento di tutte le energie naturali si manifestarono, presso di esse, in forme eleganti e di buon gusto. Se fossero state generazioni primitive la concezione e la prassi naturalistica si sarebbero manifestate in forme rozze e di cattivo gusto. La borghesia dei nostri Comuni, la nobiltà delle nostre città signorili, le famiglie principesche affermatisi nelle maggiori città italiane, avevano come programma quello di godere, ma di godere con arte, anzi consideravano il bello come il più potente fattore di godimento.
Le forme del bello create dai Greci e dai Romani, apparvero allora le più perfette e le più adatte a soddisfare quest’ansia di armonia e di eleganza. Le forme create dal Medioevo, sia in letteratura che in arte, apparivano confuse, rozze, popolaresche. Ad esempio il Vasari dice che lo stile gotico è arido e orrido per la sua confusione e la sua stravaganza.; Niccolò Niccoli (in un dialogo di Leonardo Bruni) definisce la Commedia di Dante poesia per calzolai, mugnai e frati. Le forme espressive medievali erano, inoltre, rese antipatiche alle nuove generazioni signorili ed aristocrateggianti dal fatto che sapevano troppo di Chiesa: per esse erano necessarie forme espressive civili o profane; e siccome le forme migliori di questo genere erano, per tradizione, quelle classiche, si doveva naturalmente ritornare al culto dell’imitazione di queste.
Vivere significa pensare con acutezza e vivacità, sentire con grazia,parlare con eleganza, vestire con gusto, circondarsi di visioni belle; in tutte queste cose i Greci ed i Romani erano stati veramente bravi maestri: dunque era naturale che si ritornasse ad essi. Insomma si può concludere che, come il naturalismo costituì necessariamente, cioè per naturale conclusione del processo della civiltà romanza verso forme sempre più umane, la mentalità del Rinascimento, così l’Umanesimo doveva necessariamente costituire l’indirizzo formale più adatto al naturalismo. Il naturalismo costituisce la concezione della vita del Rinascimento: l’Umanesimo costituisce la forma con cui quella concezione si esprime.
2)- L’affinità spirituale tra i rinascimentisti e i classici.
La spiritualità del Rinascimento, infatti, è ispirata dal naturalismo, cioè da una concezione schiettamente umana della vita; e la stessa concezione ebbero i classici, per i quali vivere significava esprimere con pienezza ed armonia tutte le energie della natura umana. Gli uomini del Rinascimento, data la loro mentalità, dovevano simpatizzare più per lo stile mentale pratico del Cristianesimo, quale si era particolarmente affermato nella fase di maturazione del Medioevo, stile ricco di motivi umani e sovrumani, originalissimo di forma, sebbene un po’ difettoso quanto ad eleganza. Ma nel Rinascimento quel che contava era il bello: il vero e il buono, ideali di S. Tommaso e di Dante, erano in decadenza.
3)- Il bisogno dei rinascimentisti di giustificare il proprio stile mentale e pratico di fronte alla coscienza tradizionale cristiana.
Non tutti gli uomini del Rinascimento spregiudicati e quelli stessi che si mostravano tali sentirono il bisogno di giustificare il loro modo di pensare e di agire, facendo appello ai motivi di saggezza e di bellezza contenuti nella civiltà classica e che gli stessi uomini di religione avevano ammirato o imitato, perfino nelle età storiche sopraffatte dal misticismo. Insomma i rinascimentisti si acquietavano la loro coscienza cristiana col pretesto che, in fin dei conti, essi erano in buona compagnia: erano infatti in compagnia di Omero, di Socrate, di Platone, di Aristotele, di Demostene, di Cicerone, di Livio, di Orazio, di Virgilio ecc. tutti personaggi che, se non erano sublimi come i Santi, erano tuttavia più umani e quindi più simpatici, più accessibili e, se vogliamo, meno impegnativi.
4)- La situazione politica delle città italiane.
Nel Rinascimento cessa il Comune e sorge la Signoria. Il Signore è un “primus civis”, è l’uomo che alla cittadinanza travagliata dalle lotte interne (nella fase di tramonto del Comune) ha ispirato la fiducia che egli sarebbe stato capace di garantire tranquillità, forza economica, eleganza e gioia alla città. La figura del “senior” richiama alla mente dei conoscitori della storia antica, il famoso signore di Atene, Pericle, e il famoso signore di Roma, Augusto, cioè due personaggi gloriosi per le loro attività civili, per la fioritura d’arte che essi promossero con la loro munificenza.
Gli umanisti si valgono di questi richiami storici e classici per provocare l’ambizione periclea o augustea di signori che in genere venivano da famiglie di commercianti o erano ex capitani di ventura o derivavano da stirpe guerriera feudale.
Quando il Signore è entrato in questa mentalità augustea, gli umanisti si mettono al suo servizio, acquistano la sua piena fiducia ed hanno la più completa libertà di realizzare, nel mondo moderno, le iniziative artistiche e letterarie del mondo classico: cioè essi suggeriscono ed impongono la forma della fioritura artistica e letteraria promossa dl “primus civis”.
Il primo a valersi delle risorse estetiche del classicismo, sia in arte che in letteratura, è il Signore, il quale si costruisce palazzi e ville secondo lo stile classico: fa ornare le sue abitazioni e i luoghi più importanti della città con statue ed affreschi ispirati alla scultura e alla pittura classica, chiama a corte persone che parlino e compongano con la stessa eleganza degli scrittori latini e greci, introduce mode di abbigliamento, usi e costumi graziosi dell’antica civiltà. Così la casa del Signore diventa esempio di decoro e di buon gusto a tutti i cittadini, particolarmente alle famiglie ricche, le quali, anzi, competono con esso in buon gusto e munificenza. Anche gli umili artigiani risentono l’influsso di questa atmosfera artistica e, nel costruire anche il mobile più semplice, tengono criterio non solo di utilità, ma anche quello dell’arte. Il nostro artigianato, in questo tempo, produce cose meravigliose e gareggia degnamente con gli artigiani di Roma, di Atene e di Bisanzio.
5)- Il bisogno naturale di procedere in arte verso forme espressive sempre più elaborate ed eleganti, parallelamente al progresso civile ed economico.
Non si può negare che nel regime signorile l’economia e l’agiatezza giungono ad un livello notevole, e giustamente gli uomini del Rinascimento, guardando alle generazioni che li avevano preceduti, potevano dire di averle superate nel tenore di vita e alla finezza dei costumi. La forma medievale, sia in arte che in poesia, esprimeva il gusto del popolo, di un popolo che, dominato dagli ideali religiosi, politici e morali di vasta portata, amava la forma solida, l’ornato complesso ed agile nello stesso tempo, una forma tutta penombre e luci accordate con gusto originale.
La forma classica ha queste caratteristiche: con poche linee, con un disegno semplice ed armonico, con un ornato modesto e fine riesce a creare visioni piacevoli e signorili; è per questo motivo che agli umanisti non piace la complessità metafisica o teologica con cui i medievali strutturavano le loro opere in poesia e in arte, né piacciono le combinazioni simboliche della forma con cui essi esprimevano i sensi metafisici e teologici delle loro composizioni.
Ad esempio gli architetti gotici, nel costruire tennero presente e per la struttura e per l’ornato un criterio teologico e simbolico di questo genere: la Chiesa è il luogo della orazione; l’orazione è ascesa dell’anima verso Dio; perciò la chiesa nella sua struttura e nel suo ornato deve simboleggiare la comunità dei fedeli che aspira a sollevarsi verso il cielo: di qui lo sfumare delle linee e degli elementi decorativi in caratteristiche dell’architettura gotica.
Nel Rinascimento si mettono da parte le idee teologiche e filosofiche, si mettono da parte i simboli, e si compone secondo un criterio di armonia e di grazia che sembra eternamente adatto a soddisfare il gusto del bello nelle persone di alta civiltà (il criterio dell’armonia e della grazia adottato dai classici): criterio eternamente efficace perché l’essenza dell’arte è l’armonia.
6)- La protezione accordata dai Signori ai letterati e agli artisti.
Il Mecenatismo ebbe origine nell’età moderna, all’inizio del Basso Medioevo, quando le corti feudali si ripulirono, cioè cessarono di essere fucine di violenza e nido di barbarie, per diventare esemplari di uno stile di vita umano e cavalleresco stile che proprio dalla corte fu chiamato cortese. Nelle corti di Provenza furono accolti giuristi e poeti. Dante fu accolto da svariati Signori.
Quando si affermano le signorie e il capo ha il bisogno di acquistarsi la simpatia di tutti e di imporsi alla attenzione del pubblico, deve ricorrere necessariamente a persone intelligenti ed esperte in tutte le forme più belle della vita: chiama, perciò, intorno a sé letterati ed artisti i quali gli sbrighino gli affari con abilità, gli abbelliscano la corte, lo difendano con la loro propaganda, diano un tono elevato a tutto l’ambiente della corte.
Attività degli umanisti.
L’umanista è il cultore devoto di tutto ciò che appartiene al mondo letterario, artistico, filosofico, politico dell’Italia e della Grecia classica.
1)- Ricerca dei codici. Nel corso del Medioevo la Chiesa aveva salvato molta parte del patrimonio artistico e letterario classico; parte lo aveva utilizzato lei per i suoi scopi (ad esempio basiliche civili trasformate in basiliche religiose); parte aveva permesso che restasse nell’abbandono. Del patrimonio conservato non sempre i frati dei conventi ebbero cura diligente: spesso, specie ne secolo IX e X, i manoscritti delle opere classiche restavano incustoditi negli scaffali delle biblioteche comunali. Al tempo di Dante le opere dei classici conosciute e studiate erano in numero assai modesto: si conoscevano l’Eneide di Virgilio, le Satire di Orazio, qualche cosa di Ovidio, qualche cosa di Cicerone, di Seneca, di Cesare.
Il primo compito degli umanisti perciò fu quello di ricercare nelle varie biblioteche d’Europa i codici delle opere classiche rimasti nell’ombra durante il corso del Medioevo.
I più famosi scopritori di codici furono N. Niccoli, Coluccio Salutati, Guarino Guarini e specialmente Poggio Bracciolini.
2)- Ricostruzione dei testi. I copisti medievali aveva spesso introdotto variazioni ed errori nei testi che ricopiavano. Gli umanisti, persone che possedevano bene la lingua latina ed avevano buon gusto ed erano esperti del pensiero dei vari autori, avvertivano subito incongruenze ed errori nei testi che leggevano. Confrontando fra loro codici diversi della stessa opera individuavano quale di essi fosse il più degno di fede, quale in un caso particolare fosse la dizione da preferirsi e da considerarsi originale.
3)- Interpretazione oggettiva del contenuto delle opere. Cioè studio diretto, interpretazione senza pregiudizi, illustrazione ampia di ciò che era veramente contenuto nelle opere. Sorge così la, passione per la archeologia, per la storia romana e greca, per gli usi e i costumi classici, per il pensiero religioso, politico, morale, giuridico del mondo classico.
4)- Deduzione di norme compositive dai modelli classici destinate all’uso e all’utilità dei letterati moderni. Gli umanisti considerarono la forma classica come perfetta: vedono in essa una buona sostanza di pensiero, una struttura formale ben salda e chiara un linguaggio preciso ed espressivo, un metodo di decorazione sia formale che linguistica assai moderato e decoroso. Chi vuol ben comporre deve leggere gli esemplari migliori fioriti in ciascuno dei generi letterari trattati dai classici.
Per venire incontro ai bisogni di coloro che amassero seguire lo stile classico, gli umanisti raccolsero principi e regole per ciascuno dei generi letterari: sorse così la retorica umanistica, cioè quel complesso di norme del ben parlare e del ben scrivere tratte dagli umanisti dalle opere dei classici. La retorica è frutto di due pregiudizi: che la forma classica è esemplare insuperabile; che a chi vuol far bene non resta che seguire gli esemplari di perfezione: esemplarismo o tipizzazione e imitazione sono i due canoni fondamentali della retorica umanistica.
5)- Assimilazione del pensiero e dei modi di vivere dei più illustri esponenti del classicismo e tentativi di applicare alle esigenze della vita moderna le invenzioni letterarie e politiche dei classici.
Furono rievocate le correnti filosofiche greche e romane; nella dimostrazione di questa o di quella tesi morale, civile, politica e religiosa, gli umanisti si valsero di citazioni desunte dagli scrittori classici ed evitarono, con particolare cura, qualsiasi richiamo alla Sacra Scrittura e alle opere dei pensatori cristiani.
In politica, infine, vagheggiarono o la forma di regime repubblicano con personaggi retti ed onesti come i Catoni, gli Scipioni, i Deci; oppure una Signoria sul tipo di quella di Pericle o di Augusto.
I repubblicani, in verità, furono pochi e comparvero nella storia del Rinascimento solo nella metà di esso, cioè nel periodo in cui era ancora recente il passaggio dalla repubblica comunale alla gentile tirannide del Signore e quindi le figure degli eroi della repubblica romana (tra i quali Catone Uticense che si uccise per non cadere nelle mani di Cesare; Bruto e Cassio che morirono a Filippi combattendo per la libertà della repubblica contro i cesariani) potevano facilmente suggestionare i giovani e accenderli di passione libertaria (da ricordare Cola di Rienzo appassionato propugnatore di una rinnovata repubblica romana a carattere nazionale; da ricordare la congiura del Lampugnani nel 1461 e di Girolamo Giesi contro gli Sforza di Milano e quella dei Pazzi contro i Medici a Firenze nel 1478), quando la Signoria si era bene affermata prevalsero l’ammirazione e l’imitazione della storia imperiale di Roma.
Il Machiavelli fu il più illustre rievocatore della prassi politica e militare romana e il più energico propugnatore di un ritorno ad essa.
6)- Composizione in lingua latina aurea. Gli umanisti considerano esemplare perfetto in lingua latina solo quella del periodo aureo e si sforzarono di esprimere la portata della civiltà del loro tempo con la lingua di Cicerone (per la prosa) di Virgilio e di Orazio (per la poesia). Alla base di questo tentativo sta un pregiudizio veramente deplorevole, che cioè una lingua possa avere una forma esemplare fissa, mentre, è chiaro che, essendo la lingua un mezzo di cui si vale lo spirito per esprimersi ed essendo lo spirito sempre in evoluzione, anche essa si rinnova di continuo; la lingua esemplare e fissa è lingua morta nel senso che fu parlata un tempo ed oggi non si parla più, ma si impara sui testi; la lingua in evoluzione si chiama lingua viva, perché segue il metodo della vita.
Il latino umanistico fu una lingua morta, il latino medievale era stato, invece, una lingua viva, perché almeno nel campo dei dotti aveva seguito la evoluzione dello spirito.
Gli umanisti chiamarono il latino medievale barbarico; ma tale pregiudizio varrebbe a quello di chi chiamasse barbarico l’italiano perché, fissato supponiamo come esemplare linguistico il Petrarca noi oggi non parliamo più una lingua uguale a quella del glorioso Aretino. Non esistono lingue belle o lingue brutte, ma solo lingue ricche e lingue povere; esistono invece linguaggi belli o linguaggi brutti, ossia modi sapienti di usare la lingua o modi mediocri.
Il latino umanistico guardò con sdegno orgoglioso non solo il latino medievale, a anche, e soprattutto, il volgare. Già il Petrarca preferiva scrivere i latino classicheggiante piuttosto che in volgare; in tutta la prima metà del ‘400 il latino umanistico dominò incontrastato nel mondo degli scrittori e infierì contro il povero volgare: “di tanto si eleva il latino sul volgare” diceva N. Niccoli “di quanto un dotto è superiore ad un ignorante”. Ma il tentativo di imporre il latino e di eliminare il volgare doveva fatalmente fallire: una lingua morta per quanto utilizzata in tutte le sue possibilità di espressione, non riesce mai a rispondere alle esigenze di una civiltà infinitamente più ricca di quella a cui essa servì ai suoi tempi: la lingua di Cicerone e di Virgilio era la vecchia lingua di mille e quattrocento anni e nello spazio di mille e quattrocento anni si erano affermati nella storia del mondo latino il Cristianesimo, il Germanesimo, il Feudalesimo, il Comune, una mentalità nuova e costumi nuovi: era impossibile esprimere la nuova civiltà con una lingua così vecchia per quanto storicamente così meritevole e gloriosa. Nella seconda metà del ‘400 si ritorna, però, al volgare.
Lo studio del latino classico fu solo un tirocinio per chi volesse intraprendere la via della cultura e volesse acquista buona pratica dei mezzi espressivi linguistici: è la stessa funzione che ha oggi lo studio del latino nelle scuole, negli istituti ad indirizzo classico.
7)- Scoperta del mondo greco. Durante il corso del Medioevo pochissimi erano coloro che nel mondo occidentale conoscessero la lingua greca: S. Tommaso lesse le opere di Aristotele in una traduzione assai approssimativa fatta da un suo confratello Guglielmo di Moerbecke (1215-1286). Nel 1360 viene istituita nello “Studium generale di Firenze” la prima cattedra di greco che fu affidata a Leonzio Pilato a cui successero Manuele Crisalora, Guarino Guarini (l’Università di Firenze fu fondata nel 1323).
L’interesse degli umanisti italiani per la lingua e la letteratura greca aumentò quando nel 1439 si adunò a Ferrara il concilio dei rappresentanti della Chiesa bizantina e i cattolici: in quella occasione dimostrò la sua bravura nella conoscenza del greco il camaldolese Ambrogio Traversari e si strinsero legami di amicizia culturale fra alcuni dotti bizantini e umanisti italiani. Quando nel 1454 Bisanzio viene conquistata dai Turchi, giungono i n Italia alcuni illustri esponenti del mondo intellettuale bizantino, i quali accelerarono e intensificarono la presa di contatto degli umanisti con la cultura greca classica.
I più famosi esponenti della cultura bizantina i n Italia, in questo tempo, furono Costantino Lascaris e il cardinale Bessarione. Il culto della letteratura e della filosofia greca risvegliò negli italiani la passione per Platone e Aristotele (Platone interpretato da Marsilio Ficino; Aristotele interpretato da Ponponazzi; si diffuse, come una moda, la mentalità platonica con il concetto centrale dell’amore estetico: si diffuse nei primi decenni del ‘500, la “Poetica” di Aristotele che insieme all’”Ars poetica” di Orazio costituì il codice infallibile della retorica umanistica.
Senza dubbio lo studio delle lettere e della filosofia greca contribuì ad ampliare l’orizzonte spirituale dei nostri umanisti e ad affinare i mezzi di espressione.
8)- Fondazione di accademie e biblioteche.
Gli umanisti formavano una specie di classe che aveva membri nelle più illustri città italiane: era una classe in cui ogni individuo, si può dire, formava un mondo a sé, tanto che ciascuno era cosciente del proprio valore e dei propri meriti. Gli umanisti più quotati intorno a sé crearono circoli di intellettuali che accogliessero le loro idee e i loro indirizzi. Queste associazioni di dotti, le quali avevano il fine di precisare, elaborare, difendere questo e quell’indirizzo letterario o filosofico, furono chiamate Accademie (dal nome della scuola in cui insegnò ad Atene Platone).
Le Accademie più famose del Rinascimento furono le seguenti:
la Pontiniana di Napoli, fondata da G. Pontano e d’ispirazione letteraria-lirica;
la Platonica di Firenze, fondata da Marsilio Ficino d’ispirazione filosofica platoneggiante.
La Romana a Roma, fondata da Pomponio Leto d’ispirazione filosofica-stoicizzante, letterario- ciceronizzante, ed in fine anche impegnata in ricerche archeologiche.
Per rendere più facili le indagini agli umanisti vennero raccolti in biblioteche i codici preziosi delle opere classiche sia latine che greche. Quando poi la stampa rese più facile la moltiplicazione dei libri, le biblioteche si arricchirono in modo straordinario non solo di opere antiche, ma anche moderne, non solo profane, ma anche religiose, non solo in latino e in greco, ma anche in volgare o in lingua straniera.
Famosi raccoglitori di codici e di libri furono Nicolò Niccoli, Coluccio Salutati, Guarino Guarini, Papa Nicolò V, Papa Pio II, Bessarione. Le raccolte di questi illustri personaggi costituirono i nuclei di gloriose biblioteche le quali furono organizzate ed arricchite in modo veramente splendido dagli illustri principi mecenati.
Le biblioteche più famose furono: Laurenziana a Firenze, La Marciana a Venezia, la Vaticana a Roma.
Accademie e biblioteche si organizzarono particolarmente perché gli umanisti furono protetti ed aiutati dal mecenatismo di signori e di Papi. Quindi possiamo considerare il mecenatismo, le accademie, le biblioteche come i sussidi più preziosi, che favorirono lo sviluppo e l’affermazione del culto del mondo classico cioè l’umanesimo.
SVILUPPO DEL RINASCIMENTO
1)- Fase di nascita.
Non si può dire con precisione quando cessi il Medioevo e sorga il Rinascimento. Già Dante avverte e deplora, nella sua generazione, la presenza di motivi religiosi spirituali nuovi, del tutto opposti alle aspirazioni e alle forme ormai tradizionali della civiltà romanza: nota la presenza di gente nuova, avida di guadagni, ambiziosa, moralmente spregiudicata; nota l’accentuazione del processo disgregativo della società comunale, cioè il differenziarsi delle classi e l’inasprirsi della lotta tra i vari gruppi di cittadini, nota che è venuto meno il concetto di fraternità nell’ambito delle piccole comunità comunali e nel vasto complesso di tutta la respublica cristiana; per questo tenta di arrestare la dissoluzione della struttura religiosa, morale e politica della società medievale, prospettando la punizione divina, riservata ai malvagi, ed invoca l’intervento repressivo e pacificatore delle due supreme autorità incaricate da Dio a difendere, a pacificare, a potenziare al Respublica Cristiana.
Tuttavia in Dante stesso troviamo alcuni motivi che, sebbene con mentalità diversa, saranno sviluppati dal Rinascimento. Tali motivi sono i seguenti:
a)- Il culto dei classici, dei quali egli sceglie come maestro Virgilio, il più vicino, secondo lui al Cristianesimo, il più umano, il più saggio, il più decoroso nella elaborazione artistica delle sue creazioni interiori.
b)- Un certo realismo congiunto con l’idealizzazione che prelude al realismo e al metodo di idealizzazione del Rinascimento: la differenza è solo in questo: Dante coglie e rappresenta la realtà, ma la interpreta con mentalità di teologo, di filosofo e di sapiente, e nell’elaborare le forme fantastiche si vale dell’idealizzazione mistica; il Rinascimento coglie la realtà nel suo essere, la interpreta con criteri edonistici ed estetici, la idealizza secondo i metodi profani dell’arte compositiva classica.
c)- Un spiccata antipatia contro gli ecclesiastici che presumono di intromettersi negli affari temporali, per sfruttarli ai loro fini egoistici, compromettendo la tranquillità e la giustizia nel mondo cristiano.
Dante potrebbe sembrare un anticlericale, un ghibellino, laicista, ma tra lui e i laicisti del Rinascimento intercorre una differenza enorme: Dante colpisce gli uomini di Chiesa perché si preoccupa delle sorti della Chiesa; i laicisti del Rinascimento colpiscono gli uomini di Chiesa per trovare pretesto per sganciarsi dal Cristianesimo.
d)- Una sorta di simpatia per alcuni Signori che già si erano affermati in svariate città d’Italia. Dante non faceva alcuna distinzione tra governo democratico e comunale e signorile: a lui non interessava la forma, interessava piuttosto, che chi governava, governasse bene. L’esaltazione degli Scaligeri e di altri svariati Signori italiani prelude all’uso degli scrittori del Rinascimento di rendere omaggio a questo o a quel Principe che li proteggesse. Ma anche qui la differenza fra Dante e gli umanisti è enorme: Dante esalta o rimprovera i Principi a seconda che essi si rendano degni o indegni “del pregio, del sangue e della borsa”, cioè a seconda che sono veramente cortesi e benefici nei confronti del popolo o no; gli umanisti incensano il Signore o perché vedono in lui una natura maggiore o perché aspettano da lui protezione e vantaggi.
Col Petrarca il Rinascimento fa la sua prima apparizione, ma si presenta timido ed in forme così delicate e gentili che sembra voler conciliarsi (benché non lo possa) con la mentalità mistica del Medioevo.
I motivi del Rinascimento che troviamo espliciti in Petrarca sono i seguenti:
a)- Il culto per la bellezza umana accompagnata da un amore che per quanto si sforzi e sa limitarsi, ha le caratteristiche vere e proprie di una passione che suggestione ed appassiona: non è più amore della bellezza divina che si riflette sulla creatura, ma trepida sensibilità per le belle forme, per il decoro dell’aspetto fisico, e dello spirito che sa mantenersi in armonioso equilibrio: è amore terreno, ma sostenuto entro i limiti di un vagheggiamento estetico e di ispirazione platonica.
b)- L’aspirazione alla vita comoda, ed uno stile di proprietà e di finezza modellato su quello dei più illustri personaggi della storia repubblicana di Roma.
c)- La passione per un regime politico in Italia che rievochi i bei tempi in cui “il latin sangue gentile” era alimentato e rinvigorito da Roma “caput Italiae”, cioè la simpatia per un regime politico in Italia in forza del quale la nostra stirpe, separata dalle altre nazioni, unita, indipendente e sovrana si regolasse secondo i principi, le istituzioni, i costumi indicati da Roma. Si tratta di un individualismo politico nazionale, da potenziarsi con l’unità di tutte le popolazioni della penisola e con l’imitazione della politica classica romana.
d)- La passione per la cultura profana. Il Petrarca può essere definito il primo umanista a causa della sua tendenza ad interpretare con oggettività storica le opere latine, senza più ricorrere alle allegorie e agli accomodamenti in uso nel classicismo medievale: per la rievocazione idealizzata che egli fa della storia repubblicana di Roma nell”Africa”; per l’uso di ricorrere spesso all’autorità della sapienza e della saggezza nello sviluppo delle sue tesi morali e psicologiche; ed infine per l’adorazione, nella maggior parte delle sue opere, della lingua latina aurea modellata su quella di Cicerone, di Livio, di Virgilio.
e) La sua lindura stilistica che importa disprezzo del volgare medievale, compresa l’opera dell’Alighieri. Petrarca è il poeta dei quadretti nitidi, delle rifiniture decorative, a cui la sintesi realistica, la robustezza e la travolgenza fantastica, il lirismo spesso tempestoso, il linguaggio frequentemente rude di Dante dispiacciono o sembrano indizi di spiritualità e di arte ancora barbariche.
f)- L’aspirazione alla gloria mondana ed il gusto di scrivere per far conoscere sé stesso. Diciamo che il Rinascimento nel Petrarca è ancora timido, in quanto i motivi che di esso si ritrovano nello spirito e nelle opere dell’Aretino, sono contrastati da motivi mistici propri dell’età medievale: di fronte all’amore di Laura è l’amore di Dio; di fronte alla ispirazione, alle comodità e ai piaceri è il senso del dovere, della disciplina morale e della penitenza; di fronte alla simpatia per organismi politici nazionali e sovrani è il rimpianto per la decadenza dell’unità del mondo cristiano; di fronte al culto della parola degli uomini è il rimorso di non curare, come si dovrebbe, la parola di Dio contenuta nelle Scritture e nelle opere dei Padri; di fronte al culto della propria persona sta una specie di mania di confessarsi peccatore e di far conoscere a tutti la propria miseria per bisogno di umiltà.
Petrarca, dunque, intravede la bellezza di una vita concepita materialisticamente, la vagheggia, la desidera quasi, per riempire decorosamente la sua giornata terrena, ma da buon cristiano la teme. Affascinato dalla nuova visione della vita, vorrebbe giustificarla e vorrebbe quasi persuadersi che si può concludere una conciliazione con la vecchia spiritualità mistica, o quasi a dimostrare che tale conciliazione è possibile egli si preoccupa di dare al suo naturalismo ed al suo umanesimo quell’aspetto che lo rende meno spregiudicato, meno temibile, cioè l’aspetto estetico puro. Si tratta dunque di un naturalismo e di un umanesimo assai decorosi e gentili che più tardi costituiranno un esemplare perfetto per tutti quegli umanisti cristiani che, desiderosi di conciliare la nuova mentalità e il nuovo stile con i propri principi religiosi, vedranno nel Petrarca il maestro insuperabile.
2)- Fase di affermazione esplicita ma indiretta.
L’esponente di questa fase è il Boccaccio il quale, apertamente, enuncia tutti i motivi della spiritualità rinascimentale, presentandoli, però, non come propri, ma come espressioni della mentalità e dello stile di vita dell’umanità comune, espressioni raccolte da sette ragazze e da tre giovanotti moderni; egli, il Boccaccio, sarebbe quindi il relatori di ciò che dicono i suoi dieci novellatori; e i dieci novellatori sarebbero gli osservatori e i relatori di ciò che dicono e fanno gli uomini. E’ un bel modo di presentare la nuova mentalità e la nuova prassi, senza assumersi la responsabilità, senza difenderla né condannarla: si nota una evidente simpatia per quella mentalità e quella prassi, ma egli esplicitamente non dà nessun giudizio né positivo né negativo; assume l’atteggiamento di chi osserva, sorride, si compiace intimamente ma evita di compromettersi.
Motivi rinascimentali nell’opera del Boccaccio.
a)- Esaltazione delle forze della natura e l’affermazione che ad esse non si può resistere.
b)- La concezione della vita come ricerca del piacere in modo intelligente e fine.
c)- L’osservazione oggettiva e realistica della vita e l’interpretazione puramente
di essa.
d)- Il soggettivismo religioso e morale.
e)- La critica maliziosa, arguta e comica degli uomini di Chiesa: un certo laicismo
basato sul concetto che i laici sono meno ipocriti, più umani, più liberali, più
abili e più fini degli ecclesiastici.
f)- Un’arte compositiva che sintetizza il metodo realistico e quello della
idealizzazione schiettamente umana (in opposizione alla idealizzazione
mistica del Medioevo).
Il Boccaccio vive questi motivi, li presenta al lettore come forme dell’umanità comune, ma non li giustifica: è dunque un presentatore oggettivo e impersonale della nuova civiltà.
3)- Fase dell’affermazione giovanile. Il ‘400 è il secolo in cui i motivi sono accolti apertamente, sono tradotti in forme pratiche di vita, sono giustificati idealmente.
E’ caratteristica della psicologia giovanile l’entusiasmo ideale per tutto ciò che è o sembra bello, piacevole, emotivo: la giovinezza ha un suo pudore naturale che, nel godimento dei beni terreni, non le permette la volgarità, la spregiudicatezza, il radicalismo scettico ed utilitarista. E’ per questo motivo che il Rinascimento giovane del ‘400 si presenta entusiasta ma decoroso, appassionato e convinto, ma capace di disciplinarsi e di mantenersi entro le forme di una cordialità e di una simpaticità che rivelano anime serene e gioviali.
Si tratta di un Rinascimento a carattere estetico ed a tono commosso, con una tendenza ad un certo orgoglio per aver acquistato il vero senso della vita (cioè un senso umano e gentile del vero).
Motivi del Rinascimento giovane.
a)- Culto dell’uomo considerato come la più perfetta delle creature e l’unica capace di percepire, sentire, elaborare idealmente tutto ciò che vi è di utile e di bello sulla terra: i filosofi e i pedagogisti del ‘400 insistono sul concetto della dignità dell’uomo (“De dignitate hominis” di Pico della Mirandola) e propongono le più belle forme mentali e pratiche adatte ad esprimere questa dignità.
b)- Interpretazione platonica o estetica della realtà, la quale così assume un aspetto ideale , diventa una specie di giardino di bellezza, un paradiso creato dal buon gusto dell’uomo.
c)- Il culto di tutto ciò che vi è di più serio e gentile nell’ambito delle realtà terrene: della famiglia, dell’amicizia ( “Della famiglia” di Leon Battista Alberti del 1441), dell’arte, del decoro privato e pubblico, della lealtà verso le autorità e delle libertà individuale e sociale, e di una religiosità moderata e fine.
d)- Conciliazione tra Cristianesimo e Rinascimento, ossia conciliazione tra religione e naturalismo, tra pensiero cattolico e pensiero classico, tra esigenze di espressione mistica e proposte di forme espressive naturalistiche.
Generalmente si pensa che tutti gli intellettuali siano stai atei o pagani: è vero invece che se nel complesso i rinascimentisti furono degli spregiudicati, particolarmente nella vita pratica, ci furono tuttavia tra essi degli uomini equilibrati, che si proposero di conciliare la serietà dei principi cristiani con la giovialità e la serenità del nuovo stile di vita; senza dire che gli stessi spregiudicati, anche quando espressero pensieri contrari ai principi cristiani non lo fecero in forma polemica, né tentarono mai esplicitamente di abbattere le affermazione del Cristianesimo.
Specie nella fase giovanile del Rinascimento gli intellettuali di compiacquero di dare alla loro fede religiosa maggiore liberalità e agilità, e di dare alla loro pratica religiosa un tono più spigliato, più intelligente e più fine: eliminarono il più possibile il formalismo esteriore, vantandosi di superare così lo stile superstizioso e gretto della religiosità medievale. Il Boccaccio deride la credulità primitiva della plebe e l’astuzia ciarlatana di certi preti e di certi frati: egli dà quel primo colpo a quel complesso di superstizioni e di deformazioni, quasi idolatriche, contro il quale aveva già diretto la sua critica anche l’Alighieri, in svariati punti della Commedia.
Gli intellettuali del ‘400 dimostrano di aver già superato la fase polemica contro le superstizioni religiose e si presentano con una mentalità superiore, ispirata ad una specie si estetismo o idealismo religioso, su cui ha esercitato la sua influenza la rinata spiritualità platonica.
Ci troviamo di fronte a quella religiosità umana, liberale, terrena che aveva attratto il Petrarca, ma che al tempo del Petrarca non poteva ancora affermarsi perché sembrava troppo spregiudicata in confronto col misticismo integrale del Medioevo. Nella fase giovanile del Rinascimento la mentalità e lo stile dello spirito si sono già inquadrati nell’atmosfera di libertà creata dalle nuove generazioni, naturalistico-umanistico.
Se Giovanni Dominici nella “Lucula noctis” si dimostra preoccupato per la invasione dei classici pagani nel mondo delle scuole e della cultura, Vittorino da Feltre, Pico della Mirandola, Marsilio Ficino e lo stesso fra Gerolamo Savanarola considerano l’educazione classica come ottimo mezzo per promuovere l’evoluzione delle anime giovanili cosicché la loro religiosità cristiana trovi nella educazione umanistica i modi più belli per esprimersi.
L’Architettura, la pittura, la scultura di ispirazione religiosa; le scuole tenute da ecclesiastici; lo stile di vita nei conventi e nella stessa corte vaticana, durante il corso del ‘400, presentano le forme caratteristiche di questa religiosità cordiale e piacevole: sembra che la religione riesca a moderare la impulsività sfrenata del naturalismo e l’ardore fanatico dell’umanesimo, e che naturalismo e umanesimo riescano a dare una mentalità e uno stile più agili e più belli della severa religione medievale.
Questa sintesi tra Rinascimento e Cristianesimo ha, in verità, un indirizzo troppo formale: ci si preoccupa soprattutto di dare una veste più simpatica e più moderna al cristiano senza tenere troppo conto della sua formazione interiore. E’ per questo motivo che nella sintesi dei sue fattori, Rinascimento e Cristianesimo, chi viene a perdere della sua sostanza è il Cristianesimo. Ad esempio gli umanisti, per quanto si professassero cristiani si astenevano il più possibile dalla pratica religiosa per non apparire sacrestani; nella corte pontificia gli umanisti che vi furono accolti introdussero uno stile di mondanità non sempre corretto, le statue, gli affreschi e i quadri religiosi , perfettissimi quanto a tecnica, nel complesso hanno una ispirazione religiosa molto modesta.
Il Rinascimento vinceva con il suo realismo il misticismo; con la sua mondanità la serietà, con la sua impulsività la disciplina.
e)- Il culto dell’ideale cavalleresco: il cavaliere, uomo d’armi, d’avventura e di amore aveva costituito già nel Medioevo un esemplare di perfezione di tendenza laica: a lui si opponeva il paladino tutto serio, tutto impegnato nella difesa della fede e della patria.
Ora il cavaliere del ‘400, uomo d’armi, di onore, di amore, di cultura, coglie quel che c’era di buono nell’ideale del paladino e nel cavaliere medievale e crea l’esemplare dell’uomo moderno perfetto, cioè del cavaliere gentiluomo.
Boiardo è un esponente di questo stile cavalleresco in cui l’impulso naturale e senso ideale della vita si sintetizzano in figure eroiche e gentili, appassionate dell’ideale e condiscendenti verso forme più liberali di vita.
f)- Un certo senso di compassione per tutti coloro che sono ancora arretrati: si tratta di una compassione cordiale, senza toni sprezzanti, propria di chi si compiace di aver realizzato uno stile superiore di vita e guarda, con un certo tono di umana compassione, quelli che sono rimasti indietro senza loro colpa. Il Boiardo stesso ci presenta un Orlando Innamorato che, caduto dal cielo degli eroi nel complicato inferno degli innamorati, sa disimpegnarsi con mediocrità. Lorenzo il Magnifico si compiace osservare, dal suo mondo raffinato e intelligente, la plebe la quale risponde alle esigenze di natura e alla nuova concezione estetica della vita come meglio può ( la Nencia da Barberino).
g)- Il vagheggiamento di paesaggi idealizzati, di visioni idilliache. Il motivo idillico si può dire che sia il più costante ed il meglio elaborato sia nella pittura che nella poesia del ‘400 (basta ricordare per la pittura il B.Angelico, il Botticelli, il Perugino. In poesia il Poliziano per le “Stanze” per la giostra di Giuliano de’ Medici” e Sannazzaro per “L’Arcadia”).
h)- Indagine curiosa ed appassionata e soprattutto entusiasta delle forze della natura esaltazione del metodo sperimentale come il più adatto per tale indagine; ansia di scoprire e di utilizzare le scoperte per promuovere la felicità dell’uomo: nella seconda metà del ‘400 abbiamo le più grandi scoperte del Rinascimento e l’inizio di un nuovo corso della storia civile e scientifica. Basta citare Cristoforo Colombo, nel campo delle scoperte geografiche; Leonardo da Vinci, nel campo delle scoperte scientifiche.
i)- Il culto delle forme classiche che, come suole accadere nei giovani allorché si appassionano di una moda, assume toni di vero e proprio fanatismo: disprezzo del Medioevo, tentativo di abolire il volgare, proposito di restaurare il latino aureo, imitazione scrupolosa degli esemplari classici. La fase giovanile, dunque, è assai ricca di motivi, ma due sostanzialmente predominano: un edonismo sano e sereno ed un gusto spiccato per la forma semplice e fiorita nello stesso tempo, semplice di linee e fiorita di graziosi spunti decorativi.
4)- Fase del rinascimento maturo.
Caratteristiche della spiritualità matura sono l’oggettivismo realistico, il praticismo, l’utilitarismo, lo scetticismo, nei confronti di tutto ciò che è ideale.
Gli uomini del Rinascimento maturo esauriscono il programma naturalistico ed umanistico, abbandonandosi a tutte le esperienze della vita e dell’arte.
Sperimentare la vita significa conoscerla, conoscerla significa individuare l’intrico e i procedimenti.
La conoscenza oggettiva elimina le forme ideali a priori che avvolgono la realtà in un velo che impedisce di coglierne le linee e i motivi veri. L’esperienza, dunque, porta alla oggettività; l’oggettività elimina l’idealismo. Tolto l’idealismo è eliminato il legame affettivo che tiene unito lo spirito umano a queste o a quelle realtà e gli impedisce di superarla, di controllarla da un punto di vista più elevato; cioè l’oggettivismo è un ottimo presupposto per vedere gli uomini e le cose inquadrati in una visione generale in cui è possibile vedere il valore giusto dei singoli fenomeni e cogliere il processo attraverso il quale anche le forme più opposte si armonizzano.
Si tratta di considerare i singoli uomini e le singole cose non in sé stessi, ma in un rapporto tanto quanto è vasta la vita: in tal modo è possibile cogliere i fenomeni, non in una sola fase del loro sviluppo, ma in tutto il loro divenire; e quindi è possibile vedere come certe contraddizioni alla fine si conciliano e tutto nella vita è armonia.
Questa visione armonica genera nello spirito dell’osservatore serenità e sorriso: serenità, perché i dammi più foschi, le difficoltà più aspre, le previsioni più nere, l’eccessività passionale, le esemplarità supreme, alla fine perdono della loro eccessività e si riducono a normalità; sorriso perché per una persona esperta vedere gli uomini che si entusiasmano troppo o si addolorano troppo per questa o per quella vicenda, per questo o per quell’ideale, è uno spettacolo divertente, in quanto l’osservatore già sa come certe posizioni si concluderanno. Un’altra forma di maturità è il superamento di sé stessi, cioè il guardare al proprio mondo come a qualche cosa di estraneo e sorridere serenamente su di esso come si è sorriso sui mondi altrui o sulla realtà umana in generale. Si matura così il tipo dell’uomo esperto, superiore, arguto, scettico, caratteristico del Rinascimento maturo.
Riassumiamo il processo attraverso cui si forma questo tipo: esperienza – oggettivismo – superamento del reale – visione armonica del reale – serenità – sorriso di superiorità o ironia sul mondo esterno – superamento di sé stesso e ironia su sé stesso.
IL tipo caro agli intellettuali.
Il tipo caro agli intellettuali del ‘500 è Orazio, fine epicureo, arguto e bonario. Si tratta di una spiritualità che accoglie una infinità di motivi, percepisce una infinità di modi di essere e di rapporti nella vita, intuisce i processi psicologici più reconditi e le condizioni più svariate delle forze umane, ma non approfondisce l’interpretazione del reale: si tratta di una visione intelligente e complessa, ma non si va oltre l’esperienza, non si cerca di interpretare le cause prime e i fini ultimi della realtà e della storia.
L’interpretazione del reale data dal Medioevo è certamente più seria perché inquadra la vita, oltreché in una visione naturale, anche e soprattutto in una visione soprannaturale. L’interpretazione del Rinascimento potrà essere più realistica, più oggettiva, ma dice poco allo spirito umano perché non vede nulla oltre i fatti e le cause immediate di essi. Le affermazioni più audaci e più spregiudicate, le iniziative più preoccupanti dal punto di vista morale e sociale, vengono giustificate apertamente e presentate come espressione della mentalità e dello stile pratico dell’uomo perfetto. Sono scomparsi i timori del Petrarca, le presentazioni dirette del Boccaccio, i giovanili pudori del ‘400: in fase di maturità il contatto pieno con la vita viene realizzato con spregiudicatezza e convinzione.
Motivi del Rinascimento maturo.
Si tratta presso a poco degli stessi motivi che abbiamo illustrato parlando del naturalismo e dell’umanesimo, cioè dei due aspetti fondamentali del Rinascimento.
a)- Sperimentalismo, realismo, oggettivismo, razionalismo nelle indagini relative al mondo fisico e al mondo umano: sono eliminate le interpretazioni soprannaturali, vengono messi da parte gli spunti metafisici e teologici, si evita di appellarsi ad un piano provvidenziale disposto da Dio sapiente, misericordioso e giusto. Sorge la storiografia a carattere veramente scientifico cioè condotta col fine di trovare in essa le cause dei fatti nell’ambito dei fatti stessi. Sorge la scienza come attività autonoma e con metodo proprio. E’ ridotta a scienza sperimentale perfino la politica, perfino la morale e induce i suoi principi dall’esperienza.
b)- La tendenza a curare di più la struttura che l’ornato su ogni composizione sia nel campo artistico che in quello letterario, politico, civile.
Il Rinascimento giovane aveva amato la struttura di piccolo respiro, affinché nel piccolo si concentrassero come graziosi modelli, tutte le eleganze della armonia delle linee e di motivi decorativi: il Rinascimento maturo preferisce l’arte di impostazione graziosa, di solidità strutturale, di decorazione sobria e decorosa. E’ per questo che nella fase giovanile gli umanisti hanno rivolto l’attenzione alla Roma imperiale. Citiamo un esempio nel campo politico: gli uomini del Rinascimento giovane ammirano non tanto la struttura del mondo politico romano quanto i gloriosi personaggi che per così dire lo ornano, e specie nel periodo repubblicano, cioè gli eroi, gli artisti, i grandi scrittori, i mecenati; gli uomini del Rinascimento maturo (ad esempio il Machiavelli) rivolgono l’attenzione all’arte con cui Roma seppe adoperare la forza e l’astuzia; alla sua attività militare, alle sue istituzioni civili, politiche, economiche, al suo modo di organizzare in un vasto complesso imperiale una infinità di popolazioni europee, asiatiche ed africane.
Il Rinascimento giovane andava in cerca di esemplari umani da ammirare: il Rinascimento maturo va in cerca di costruzioni solide da imitare nella età moderna per garantire la potenza dello Stato forte. Un esempio nel campo artistico: le architetture del ‘400 sono di proporzioni modeste come struttura, ma sono ricche di spunti decorativi: tutto è fuso in un piccolo complesso di linee e di decorazioni armoniche da costituire il vero gioiello architettonico: le architetture del Rinascimento maturo sono di impostazione grandiosa e rivelano la bellezza non tanto nell’ornato quanto nel sapiente gioco delle luci e delle ombre, dei pieni e dei vuoti, cioè nella proporzione e nell’armonia delle masse (basta pensare alla Basilica di S. Pietro del Bramente). Un esempio nel campo letterario: il Poliziano nelle “Stanze per la giostra” ci offre un esemplare di poemetto dalla struttura semplice e dal respiro moderato straricco di descrizioni decorative, elaborate con squisito senso di eleganza e con preciso criterio di armonia; l’Ariosto nel Rinascimento maturo ci offre un esemplare di poema di impostazione mastodontica (niente di meno tre azioni), di intreccio complicatissimo, di quadri paesistici e psicologici svariatissimi e numerosissimi.
Gli uomini del Rinascimento maturo, dunque, ci fanno impressione di gente che ha una mentalità vasta, una intelligenza esercitata, una tecnica più disinvolta, più evoluta e quindi più capace di creare con libertà: il Rinascimento giovane ci appare più grazioso, più artista, più ansioso di quadretti artistici e perfetti, ma meno intelligente.
c)- Accentuazione dell’individualismo, sia nel campo della vita privata che in quello della vita pubblica, sia nel campo nazionale che in quello internazionale: è il tempo in cui nella lotta tra personaggi e nazioni di natura maggiore e personaggi e nazioni di natura minore, si affermano i primi (ricordare le lotte tra Carlo V e Francesco I, tra Asburgo e Francia).
d)- Accentuazione dell’utilitarismo: utilitarismo pubblico col Machiavelli che propone come principio supremo “salus publica suprema lex”, utilitarismo privato col Guicciardini che propone come fine supremo della vita il “bene particolare”.
Il Rinascimento giovane vagheggia come ideale supremo della vita la bellezza, cioè l’armonia, l’eleganza, la grazia: il Rinascimento maturo, come suole avvenire negli individui maturi, pone l’attenzione non tanto sul bello quanto sull’utile: il bello, il buono, il sacro, il profano, tutto passa al servizio dell’utile. Il bello prima aveva fine a sé stesso ora non viene svalutato, ma viene convogliato verso il fine ultimo, cioè verso l’utile.
Guicciardini dice così: “sembrar buono è utile assai; ma siccome non si può apparir buoni a lungo se non lo si è veramente, siate buoni sul serio”. Il saper danzare, il saper armeggiare, secondo lo stesso Guicciardini, costituiscono ottimi fattori di successo per persone che altrimenti non riuscirebbero ad affermarsi, specie nell’alto mondo della politica e degli affari: il ‘400 stimava queste attività perché erano belle, il ‘500 le stima perché sono utili, pur riconoscendole e ammirandole. Machiavelli afferma che il Principe per costruire e consolidare lo Stato forte deve utilizzare tutte le risorse che gli offrono la storia, la psicologia umana, le passioni religiose, gli ideali più sacri.
Il Protestantesimo si affermò in questo o in quello Stato non perché questo o quel Principe simpatizzasse per Lutero e riconoscesse ormai insufficiente la religione cattolica, ma per puro interesse politico o finanziario: ad esempio i Principi tedeschi, impauriti dalla forza dell’Imperatore che allora era Carlo V , il più potente personaggio della storia asburgica, approfittarono della ribellione di Lutero al Cattolicesimo per ostacolare l’attività e l’influenza di Carlo V che era cattolico.
e)- Esaltazione dell’aurea mediocritas. (uguale aureo, giusto mezzo o aurea misura).
Succede alle persona maturate dall’esperienza di assumere, quasi necessariamente, un tono di indifferenza e di superiorità nei confronti della vita, o meglio nei confronti di quelle forme di vita che hanno dell’eccessivo. Il Rinascimento maturo non crede più all’uomo eccezionale, capace di fare tutto, benché ammiri l’uomo che sa fare più degli altri; l’idealizzazione assoluta è caratteristica dei giovani, l’uomo maturo sa che nella vita pregi e difetti, bene e male, bello e brutto vanno uniti sempre insieme. E’ uomo di buon senso, quindi, colui che guarda la vita senza disperarsi e senza esaltarsi fanaticamente; senza spregiare e senza abbandonarsi alle manie glorificatorie.
L’Ariosto è il personaggio del Rinascimento maturo che meglio incarna il tipo dell’uomo misurato: finemente ironico in confronto degli eccessivismi, simpaticamente compiacente nei confronti delle forme moderate e ragionevoli della vita. Angelica bellissima e capricciosissima, è dal poeta condotta a sposare un semplice fante: il poeta sorride sulle donne che vogliono far pesare la loro bellezza. Rodomonte, a Parigi, sembra un gigante infuriato che nessuna forza può frenare: è un personaggio cosciente della propria forza, orgoglioso di essa e provocatore perché fida su di essa: l’Ariosto lo presenterà all’atto di uccidere una donna inerme dalla cui bellezza è stato preso senza che da lei fosse stato provocato, e soprattutto lo presenta ridicolo quando fa sì che, abbracciato con Orlando nudo e pazzo nelle spire di una lotta centauresca, cada dentro un fiume e a fatica guadagni la riva. Ammira, invece, i caratteri gentili e affettuosi, moderati e sinceri: tutto ciò che è orgoglioso, presunzione, provocazione, pretesa capricciosa, spavalderia, costituisce il complesso delle eccessività e di queste il poeta sorride.
f)- Scetticismo. L’uomo maturo, a meno che non sia un esemplare di saggezza cioè non abbia il costume di conciliare insieme la teoria razionale con la pratica, la meditazione delle verità sublimi con l’onestà della prassi quotidiana, è normalmente dedito agli affari della vita vissuta e indifferente nei riguardi dei grandi problemi della nostra esistenza, delle indagini morali, dei principi assoluti,, e immobili che reggono le varie attività umane. Per l’uomo maturo le leggi del vivere sono nella vita stessa, cioè l’azione ben riuscita costituisce per lui norma di vita; e nei riguardi delle indagini teoriche, particolarmente di quelle metafisiche, morali e teologiche, egli dimostra indifferenza e scetticismo.
Gli intellettuali del Rinascimento maturo, perciò, normalmente disdegnano le ricerche intorno ai primi principi della morale, del diritto, intorno alle cause e ai fini ultimi della umana esistenza, evitano gli approfondimenti teologici e metafisici dei problemi che trattano, dichiarando che per quanto si voglia indagare intorno a ciò che supera l’esperienza concreta non si raggiunge mai certezza.
L’Ariosto accoglie molte affermazioni del Cristianesimo intorno alla Provvidenza divina, intorno ai destini della umanità creatrice, intorno alle più comuni norme della vita morale, ma ha tutta l’aria di un uomo che ripete cose diventate ormai d’uso e per di più col il tono svagato e sornione di chi ci crede e non ci crede, perché sa che la vita è quel che è e il destino ogni uomo se lo crea da sé, con la sua bravura o la sua stoltezza, con la sua onestà o con la sua disonestà.
Il Machiavelli, come s’è già visto, rifiuta le indagini teoriche, perché, come dice lui, sono state già fatte da altri, ma soprattutto perché le conclusioni a cui sono giunti gli altri sono messe costantemente in crisi dalla pratica della vita vissuta: quindi, secondo lui, non vale la pena perdere tempo nella ricerca di ciò che poi, alla fine, non sarà utile in nessun modo.
Il Guicciardini, che conclude il Rinascimento, affermerà esplicitamente che non vale la pena sprecar tempo nelle indagini teoriche della metafisica e della teologia , cioè delle ricerche fatte in campo superiore a quello dell’esperienza comune, perché tutti quelli che si sono dedicati ad esse sono caduti in mille contraddizioni, e ciò significa , secondo lui, che la verità in quel campo non si può raggiungere.
I campi della legge di natura, della storia, della politica intesa come amministrazione pratica dello Stato, della tecnica artistica, sono gli unici nei quali si possono ottenere risultati concreti e tangibili, e che, quindi, meritano l’attenzione delle persone intelligenti.
Così il Rinascimento apriva la strada ad una sapienza nuova, intesa cioè come scienza pratica, quasi tecnica, e metteva da parte le interpretazioni profonde ed eterne della vita, le avevano costituito la gloria della speculazione di S. Tommaso e della poesia di Dante.
g)- Sazietà della vita. E’ destino del cuore umano ricercare, con intensità e passione sempre crescente, esperienze sempre nuove, per concludere sempre con la delusione.
Infatti lo spirito dell’uomo ha l’ansia dell’infinito, e per quanto sperimenti le cose, non ne trova mai alcuna che lo sazi, né il numero influisce ad acquietare le ansie, perché moltiplicare le cose che non soddisfano non significa realizzare un complesso che soddisfi. Le persone che hanno maggiore possibilità di esperienze normalmente sono le più insoddisfatte: è più vivace lo spirito di coloro che meno conoscono ma hanno l’ansia di conoscere, che non lo spirito di coloro, i quali hanno conosciuto molte cose e le hanno trovate presso a poco tutte eguali, cioè tutte inadeguate a saziare le aspirazioni infinite del cuore.
Di qui l’atteggiamento caratteristico dell’uomo di esperienza e dell’uomo maturo in genere, cioè una specie di sazietà della vita intesa non come appagamento, ma rinuncia a continuare una ricerca indefinita di ciò che mai si potrà trovare. Si verifica così una specie di distacco dalle cose, che può essere preludio e spinta ad aperture soprannaturali e mistiche attraverso cui sia possibile raggiungere l’Infinito, cioè Dio; oppure potrebbe essere l’inizio di una noia interiore accompagnata dalla amarezza di avere ormai ben poco da fare sulla terra.
Il Rinascimento maturo, come l’individuo maturo, guarda alle cose della terra con l’occhio di chi le conosce bene e sa che esse più di tanto non possono rendere e fa questa constatazione con un tono che sta tra l’ironia e l’amarezza. Mancano però tentativi di evasione verso il mondo soprannaturale, quali erano stati realizzati dai più grandi spiriti del Medioevo; come mancano le deplorazioni più o meno angosciate della nostra miseria terrena, che caratterizzeranno la meditazione sulla vita fatta dal Leopardi.
Si tratta di una sazietà della vita fatta da persone misurate e capace di controllarsi, persone che, conosciuta la nullità della vita, si guardano bene dall’entrare in convento o di abbandonarsi ad emozionanti lamenti: continuano a guardare la vita, a goderne le risorse che essi sanno di poter trovare, sebbene in misura limitata, sorridono di coloro che, conoscendo la realtà vera dell’esistenza, si danno da fare da poveri illusi per ricavare da essa quel che non può dare, solo molto raramente si lasciano sfuggire qualche espressione un po’ dura circa la struttura immutabile del nostro destino. A proposito di queste espressioni dure è molto significativo un ricordo del Guicciardini: “Quando io considero a quanti accidenti e pericoli di infirmità, di caso, di violenza e in modi infiniti è sottoposta la vita dell’uomo: quante cose bisogna concorrino nell’anno a voler che la raccolta sia buona, non è cosa di cui io mi meravigli più, che vedere un uomo vecchio, un anno fertile”.
h) Essenzialità. Chi ha conosciuto la vita, chi ha sperimentato la verità delle cose umane, chi è stato deluso nelle sue speranze, se è saggio è anche naturalmente molto prudente: frena gli entusiasmi, limita le iniziative, si contenta di quello che è essenziale. A questo proposito, così dice il Guicciardini: “Io ho desiderato, come fanno tutti gli uomini, onore e utile; e ne ho conseguito molte volte sopra quello che ho desiderato e sperato; e non di meno non v’ho mai trovato dentro quella satisfazione che io mi ero immaginato; motivo, chi ben lo considerasse potentissimo a tagliare assai delle vane cupidità degli uomini”.
La persona esperta e delusa è, dunque, normalmente essenziale nel suo stile mentale, affettivo e pratico. Questa essenzialità consiste, anzitutto, nel coltivare l’utilità personale. Pur sapendo che nella vita tutto è vano e che la vita stessa è una vanità, l’uomo maturo sa che bisogna pur vivere; e siccome è necessario vivere, vale la pena di trascorrere il periodo dell’esistenza terrena nel modo migliore possibile, utilizzando tutti i mezzi che la natura e gli uomini mettono a disposizione. Aver conosciuto la vanità delle cose non significa disprezzarne l’utilità.
A questo proposito è ancora opportuna una citazione del Guicciardini: “Io mi feci beffe da giovane del saper suonare, ballare, cantare e simili leggiadrie, dello scriver bene, del saper cavalcare, del saper vestire accomodato, di tutte quelle cose che sembrano dare agli uomini più ornamento che sostanza, non di meno ho visto per esperienza che questi ornamenti e il saper far bene ogni cosa danno dignità e riputazione agli uomini e lo abbandonare di tutti gli intrattenimenti è talvolta principio o cagione di grande profitto o esaltazione”: un complesso di sciocchezze , dunque, può essere di grande utilità. Questa tendenza alla essenzialità utilitaria è riassunta in una espressione ancora dello stesso Guicciardini: “Quegli conduce bene tutte le sue cose nella vita, il quale tenga sempre dinanzi agli occhi il bene particolare”. Oltre che nella concretezza degli interessi l’essenzialità consiste nella eliminazione radicale il più possibile della formalità e delle esteriorità. Ad esempio nel campo della religione le pratiche esteriori hanno un valore assai limitato: quel che conta è fare del bene: “non biasimo i digiuni, le orazioni e simili opere pie che ci sono ordinate dalla Chiesa o ricordate dai frati; ma il bene dei beni e non nuocere a nessuno, giovare in quanto tu puoi a ciascuno”, dice il Guicciardini.
Sarebbe opportuno qui ricordare il vecchio proverbio “Poco ma buono” se quel buono si sapesse con sicurezza in che cosa consiste: Benché nel caso del Rinascimento maturo è facile individuare il buono in quanto esso è ciò che produce qualche utile effetto a noi o ai nostri simili.
L’essenzialità inoltre consiste nel buon senso: i ragionamenti filosofici, le complicazione sofistiche, le sottigliezze teoriche, fanno perdere di vista le verità più utili alla vita e compromettono il valore e la funzione pratica di esse. Chi si regola col buon senso vive bene anche senza grandi ragionamenti complicati, ma chi manca di buon senso, non conclude mai nulla di utile né per sé né per gli altri.
L’essenzialità infine consiste nel giusto mezzo o “aurea mediocritas” oraziana. Tutte le forme di eccessività sono forme superflue : amori furiosi o amori languidi, spavalderie provocanti o remissioni balorde, presunzione assurda e capricciosa, o inerzia quasi animalesca, sono tutte forme che alla persona esperta appaiono non solo ridicole ma soprattutto inutili e nocive sotto ogni aspetto. Bisogna aspirare a quelle cose che la natura ci offre, utilizzandole con intelligenza e buon gusto: insomma è conveniente restar fedeli alle esigenze decorose e spontanee di una naturalità che non sia né primitiva né acutizzata da una raffinatezza incontentabile.
L’uomo maturo ha normalmente poche simpatie e normalmente gli affetti della vita che riscuotono la sua simpatia sono quelli in cui si riflette una maturità sincera e moderata; immaginare uno spirito maturo come insensibile e chiuso a qualsiasi simpatia, è contrario al vero. Se egli infatti sorride con sottile ironia sulle bellezze capricciose che presumono suscitare incendi in serie e compiacersene, ammira le bellezze vivaci ma modeste; se egli sorride sugli amori furiosi o fuori stagione, segue con simpatia i cuori che li amano con fedeltà e in serena armonia; se egli non approva la scorrettezza e la brutalità passionale, si compiace di coloro che nelle loro avventure soddisfano con eleganza il cuore e il senso; se egli disapprova la slealtà, giustifica l’inganno quando è adoperato per tenere a posto gli sleali di professione.
Il Rinascimento utilizzò particolarmente due forze della natura umana: la ragione e il senso estetico. Nell’età matura del Rinascimento, in fase cioè di essenzialità, la ragione si contentò di buon senso (uguale razionalità naturale) e l’esigenza estetica si contentò del buon gusto ( uguale estetica naturale)
Nel campo dell’Umanesimo.
E’ caratteristica dei giovani, i quali si propongono un modello da imitare, sforzarsi di riprodurre particolarmente le forme esterne di esso: i bambini imitano i gesti dei grandi, i giovani imitano le pose di certi personaggi che essi ammirano; manca ad essi la capacità di fare da sé, cioè di prendere lo spunto soltanto dal modello per continuare poi il cammino con le forze proprie.
L’uomo maturo che si proponga un modello, imita di questo il pensiero, la concezione della vita, e dalle forme esteriori di esso trae lo spunto per adattarlo in modo del tutto originale alle esigenze della vita sua personale.
L’umanesimo del ‘400, un po’ fanatico come sono un po’ fanatici tutti i giovani, ammira ed imita del mondo antico tutte le risorse formali: la struttura dei singoli generi letterari, lo svolgimento dei temi in forma di mito, motivi famosi in questa o in quell’opera dei più gloriosi poeti classici, la grazia delle descrizioni idilliche, l’idealizzazione dei personaggi illustrati, persino la lingua che vogliono sostituire a quella volgare. Bastano due esempi: Poliziano si propone di svolgere il tema dello innamoramento di Giuliano dei Medici: svolge il suo soggetto in forma di mito, così come facevano i classici romani e greci. Lorenzo dei Medici deve parlarci della sua villa: per svolgere il tema ricorre allo schema del poemetto eziologico, così caro ai poeti alessandrini in Grecia, a Ovidio e a Properzio in Roma.
Gli umanisti del Rinascimento maturo, anzitutto, abbandonano l’illusione di poter far rivivere la lingua latina classica e, con molto più buon senso, ritornano al volgare cercando di elaborarlo, di arricchirlo, di renderlo, insomma, adatto alle esigenze della spiritualità moderna. In secondo luogo degli autori antichi, più che altro, si sforzano di cogliere il pensiero, la concezione della vita, i principi generalissimi della tecnica formale.
Ariosto compone un poema che è lo specchio fedele dell’epoca storica in cui egli visse, un poema, quindi, moderno e originale: eppure egli accolse nel corso dello svolgimento alcuni spunti tratti dall’Eneide (episodio di Cloridano e Medoro; quello delle Arpie; quello di Astolfo internato in una pianta, che richiamano rispettivamente gli episodi di Eurialo e Niso, delle Arpie nelle isole Strofadi, di Polidoro incarnato in un cespuglio di mirto): si tratta di rievocazioni utilizzate in modo originalissimo, fuse perfettamente in un complesso grandioso che le assorbe e dà loro un significato del tutto nuovo.
Machiavelli, durante il giorno, nel suo riposo forzato di S. Casciano “si rivolta infra pidocchi, si ingaglioffa trattando con piccoli uomini del vulgo, alla sera sveste i panni sporchi di fango, indossa curiali ed entra in conversazione coi grandi scrittori dell’antichità, non per farsi insegnare da essi come si scrive, ma come si costruisce uno Stato e come si vive in uno Stato forte”.
Nell’introduzione si “Discorsi sulla prima deca di Tito Livio” egli deplora che i suoi colleghi intellettuali sprechino troppo tempo nello studio delle forme classiche e troppo poco si preoccupino del modo di vivere dei classici, che pur furono maestri così insigni in ogni campo dell’attività umana.
Guicciardini, pur deplorando che il Machiavelli si rifaccia di continuo ai classici, tuttavia dimostra di aver tolto anch’egli da essi alcuni principi fondamentali della sua spiritualità: una saggezza epicurea, maliziosa e ironica, il concetto che nella vita noi sembriamo liberi ma non lo siamo, il culto svagato ed elegante della propria persona.
Pregi e difetti del Rinascimento
Pregi:
1)- IL Rinascimento ha promosso una conoscenza più oggettiva e, quindi, più precisa della natura; ed ha avuto anche il merito di aver trovato il metodo più efficace per favorire tale conoscenza, cioè il metodo sperimentale.
2)- Il Rinascimento ha avuto il metodo di aver prodotto sia nel campo letterario che in quello artistico, con tale abbondanza e con tale eleganza formale, da dare l’impressione agli uomini di quel tempo ed agli storici dell’età successiva, che sul serio la vita fosse rinata dopo una fase di morte o fosse venuta la luce dopo una fase di latenza.
3)- Il Rinascimento ha avuto il merito di aver perfezionato la tecnica dell’espressione sia in letteratura che in arte.
Difetti:
1)- Il Rinascimento ebbe il demerito di curare troppo la forma e di trascurare l’ispirazione, di coltivare più il bello che il vero, di rappresentare in forme idealizzate la vita piuttosto che interpretarla negli aspetti e nei suoi significati profondi e universali.
Basta mettere a confronto l’“Orlando Furioso” e la “Commedia”per capire quanto sublime e seria sia l’ispirazione del massimo esponente del Medioevo e quanto modesta ed alla buona sia l’ispirazione del Rinascimento.
2)- Il Rinascimento ebbe il demerito di aver distaccato l’arte dalla vita e di averla avviata alla retorica ed al formalismo in genere.
3)- Il Rinascimento ebbe il demerito di asservire la letteratura ai potenti costringendola al falso o all’artificio; di negare la sublime funzione ad essa di maestra del popolo, quasi che nell’esercizio di quella missione essa si degradasse; di chiudere la poesia che si alimenta di esperienze e di imitazioni appassionate, nelle accademie e nei circoli degli eruditi.
4)- Il Rinascimento ebbe il demerito di immiserire le spirito della civiltà chiudendolo entro un orizzonte puramente umano, senza apertura metafisiche soprannaturali: le cose viste da vicino appaiono sempre meschine; e se uno vuol farle apparire grandi deve travisarle, ricorrendo alle gonfiature retoriche e allo sfavillio delle forme.
E’ certamente vero che il Rinascimento produsse con abbondanza mai vita e con perfezione formale che sbalordisce, ma è anche vero che la Spiritualità del Rinascimento fu troppo mediocre, almeno dal punto di vita civile e morale: il bello è certo un grande ideale, ma chi si diverte a contemplare il bello e non pensa a vivere con dignità, a promuovere e potenziare i grandi ideali che tengono elevato il tono dell’esistenza, ha più la posa dell’esteta che la serietà dell’uomo.
Con la scusa che alle esigenze della natura non si può resistere il Rinascimento dal punto di vista morale si rivelò, come direbbe Orazio “nitidus de gregiae Epicuri porcus”; col principio che la politica è un gioco di astuzia e di forza, i Principi del Rinascimento giocarono la libertà e l’indipendenza di quasi tutta la penisola. Insomma il Rinascimento presenta un mirabile splendore artistico e letterario abbinato ad una autentica miseria morale, politica e civile; si ha l’impressione di trovarsi di fronte ad un ambiente intelligentissimo, abilissimo, di ottimo gusto, ma poco serio, cioè poco pensoso degli interessi vitali e dei problemi più gravi che riguardano l’individuo e la società.
5)- In Rinascimento, infine, ebbe il demerito di disprezzare quanto era stato creato dal Medioevo. Col pretesto che essi avevano raggiunto una perfezione tecnica assai superiore a quella medievale, gli uomini del Rinascimento si credettero in diritto di disprezzare tutto il complesso della civiltà dell’epoca precedente; e così tolsero a sé stessi la possibilità di utilizzare, con le dovute correzioni, con i necessari ampliamenti, con l’originale creazione ed elaborazione di nuove forme di vita e di arte, il ricco patrimonio di pensiero e di forme che il Medioevo era venuto accumulando. Ad esempio era proprio vero che per pacificare le città fosse necessario l’intervento di un Principe, cioè il sacrificio della libertà politica e civile ? Non era forse assai più adatta , allo stesso fine, e assai più capace di garantire la libertà, la proposta di Dante, cioè l’intervento concorde del Papa e dell’Imperatore? A questa osservazione si rispose allora come si risponde oggi: la storia era in marcia, i fatti ostacolavano o addirittura travolgevano gli ideali e le persone sagge preferiscono adattarsi alla situazione, ricorrere ai mezzi che sono più a portata di mano, invece che afferrare, come si suol dire, la bandiera dell’ideale e andare controcorrente.
Se questo adattarsi sia un merito non lo sappiamo; se il fatto che le generazioni del Rinascimento hanno dimenticato così facilmente il modo di pensare di sentire e di volere di S. Tommaso e di Dante, e hanno trascurato come sciocchezze le proposte di questi due grandi genii preoccupati di dare una salda e razionale organicità alla vita privata e pubblica, sia rivelazione di magnanimità, non lo sappiamo. Se risolvere i problemi nel modo che è più facile, ma che nello stesso tempo compromette irrimediabilmente i beni più preziosi della vita, è un merito, il Rinascimento ebbe senza dubbio questo merito; ma se rinunciare alla lotta ideale per amore di quiete e di gioioso vivere, è una specie di viltà, il Rinascimento fu sufficientemente vile.
E il guaio fu che le generazioni rinascimentali non si accorsero di essere vili, anzi si vantarono del loro agile e sereno adattamento alle esigenze concrete della storia e chiamarono illusi, teorici, senza criterio pratico, idealisti fanatici i pensatori dell’epoca precedente che avevano lavorato per individuare la verità, per formulare programmi adatti a realizzare nella vita pratica il giusto e il buono. Machiavelli nel XV capitolo del Principe parlando di questi teorici, fa un atto di malizioso ossequio alla loro logicità astratta e con sicurezza annuncia il suo metodo concreto. Ma quando si volle più tardi, nel secolo XIX, risolvere il problema dell’unità e della indipendenza d’Italia, bisognò ritornare al metodo medievale, cioè al culto dell’idea (libertà, popolo, religione, patria, lavoro).
Breve raffronto fra Medioevo e Rinascimento
1)- il Medioevo è mistico, il Rinascimento è naturalistico.
2)- Il Medioevo è idealista, il Rinascimento è realista.
3)- l Medioevo ha come ideale il bello e il buono, il Rinascimento ha come ideale
il bello e l’utile.
4)- Il Medioevo è universalista, il Rinascimento è individualista.
5)- Il Medioevo è democratico, il Rinascimento è assolutista e aristocratico.
6)- Il Medioevo preferisce le forma impostata su solide basi di pensiero, il
Rinascimento preferisce la forma impostata sulle basi del buon gusto.
LA LETTERATURA VOLGARE NEL ‘400
Distinguiamo nella letteratura volgare del ‘400 due fasi: quella della prima metà del secolo e quella della seconda metà.
1)- Letteratura in volgare della prima metà del ‘400.
Col Petrarca si afferma il pregiudizio che la persona colta deve esprimersi in latino aureo e che deve adoperare il meno possibile il volgare: il pregiudizio del Petrarca furoreggia specie nella prima metà del ‘400. In questa fase le persone colte scrivono quasi tutte in latino aureo e la letteratura in volgare fiorisce soltanto in mezzo al popolo: così ci troviamo di fronte ad una letteratura in volgare quasi esclusivamente popolare.
Gli umanisti avevano l’impressione di degradarsi di decadere dal piedistallo della loro erudizione qualora adottassero la lingua che parlava e che capiva il popolo; e allora artigiani, dilettantisti, spiriti bizzarri si dedicano a comporre versi per esprimere sentimenti di religione, d’amore, di ansietà, di dolore.
Produzione lirica. Si tratta di una produzione quasi esclusivamente lirica nella quale rientrano tutte le forme metriche di struttura tenue e agile: sonetto, madrigale, ballata, villanelle, barzellette, frottole e soprattutto canzonette, costituiscono un complesso di lirica popolare assai simpatico e piacevole. Si tratta di sentimenti spontanei, benché semplici e talvolta primitivi, espressi in forma realistica, temperata quasi sempre di un coscienzioso pudore. Gli autori sono quasi tutti ignoti; e dei noti i più famosi sono Leonardo Giustinian, autore di canzonette chiamate “Giustinianee”, e Giovanno Dominici autore della famosa lauda “Dì, Maria dolce con quanto desio”.
Produzione narrativa. Le “Chansons des gestes” francesi, particolarmente quella di Orlando, erano assai note al pubblico popolare italiano, Francesco Andrea da Barberino nei “Reali di Francia” aveva cercato di inquadrare i personaggi di Carlo, di Orlando e dei paladini minori nella storia, interpretata naturalmente con la mentalità di chi compone leggenda; e nel Veneto con una lingua che stava tra il francese e il dialetto di quella Regione vennero composti da giullari i codiddetti “Cantari franco-veneti”, assai rozzi ma cari al popolo che si compiaceva di ascoltare la narrazione della vita e delle imprese di Orlando e di Carlo, che con la loro fama avevano riempito la storia e la leggenda del Medioevo: senso religioso, senso patriottico, senso eroico costituiscono una buona attrattiva per un pubblico popolare.
In Toscana nei primi anni del ‘400 circolano due poemetti popolari ispirati al ciclo carolingio: “La Spagna in rima” e “L’Orlando”.
“La Spagna in rima”, “L’Orlando”, “I Reali di Francia, “I cantari franco-veneti” dal punto di vista artistico sono ben misere cose, ma testimoniano verso quali motivi si dirigesse l’interesse del popolo e ci spiegano perché mai nella seconda metà del ‘400 si verifichi la grande fioritura dell’epopea carolingia.
Produzione teatrale. Tre sono i fattori che compongono il teatro: scena, azione, dialogo. Il teatro italiano ha le sue lontane origini nella lauda sacra dialogata (ad esempio nel “Pianto di Maria” di Jacopone da Todi), appunto perché il dialogo è già un elemento del teatro.
Le prime rappresentazioni teatrali in Italia si ebbero verso la metà del secolo XIV e si ispirarono tutte esclusivamente a motivi religiosi: furono perciò dette sacre rappresentazioni. I soggetti scelti erano presi dal Nuovo Testamento o dalla vita dei Santi; il fine che l’autore si proponeva era quello di edificare il pubblico: i locali in cui le rappresentazioni erano tenute erano, abitualmente, luoghi sacri.
Le caratteristiche fondamentali della sacra rappresentazione erano le seguenti: soggetto religioso; successione di quadri staccati l’uno dall’altro, e non vera e propria azione per svolgere le fasi dell’argomento; mancanza di veri contrasti psicologici e di interesse, cioè mancanza di dramma; rudimentalità della attrezzatura scenica.
La sacra rappresentazione fiorì durante la prima metà del ‘400 per opera di religiosi, delle confraternite e delle compagnie di dottrina. L’autore del copione, normalmente, era una persona molto devota, di mediocre cultura, ma esperto delle simpatie e dei gusti del popolo.
2)- Letteratura in volgare della seconda metà del ‘400.
Gli umanisti capirono ben presto che l’impresa di sostituire il latino al volgare era impossibile. Infatti enorme era la difficoltà che essi incontravano nel tentativo di esprimere la civiltà del loro tempo con una lingua addietrata di mille e quattrocento anni: dal tempo di Cicerone ad essi la vita si era arricchita di una infinità di motivi nuovi, sia nel campo del pensiero che della prassi, sia nel campo religioso che in quello civile e politico; ed era assurdo pretendere di esprimere questa civiltà, infinitamente più complessa, con i mezzi linguisti di cui si valeva Cicerone per esprimere la civiltà del mondo suo.
Un altro motivo che indusse l’umanista a smetterla con il suo fanatismo per la lingua latina e a ritornare alla lingua volgare, fu il fatto che dalle sue opere egli non ricavava la fama cui aspirava, in quanto il pubblico che le intendeva era assai ristretto, anzi era costituito esclusivamente dal gruppo dei suoi colleghi, i quali per di più, normalmente, erano invidiosi e si interessavano delle opere dei loro avversari, non certo per elogiarle, bensì per criticarle. La composizione in volgare procurava all’umanista un pubblico assai più vasto e, quindi, garantiva una fama più sicura e più fruttuosa.
Un ultimo motivo che decise della sconfitta del latino e della rivincita del volgare e che è strettamente connesso con il precedente, fu la situazione pratica in cui venne a trovarsi la maggior parte degli umanisti. Nessun umanista, infatti, salvo rarissime eccezioni, poteva vantare una autonomia economica, cioè poteva dedicarsi agli studi vivendo di rendite proprie: l’umanista vive al servizio di questo o quel Signore che, mentre gli garantisce il quieto vivere e gli dà la possibilità di attendere alle sue occupazioni letterarie, esige anche da lui che gli renda i suoi preziosi servizi, sia come segretario sia come ambasciatore, sia come poeta di famiglia.
Durante i ricevimenti l’umanista era incaricato di fare onore agli ospiti e alla casa con le sue belle composizioni; e queste non potevano essere scritte che in volgare perché anche nell’ambiente signorile i conoscitori del latino erano ben pochi. Qualche umanista si azzardò, talvolta, a far recitare al figlio o alla figlia del Signore una bella orazione in lingua latina, ma è facile immaginare la noia degli uditori, specie se il discorso era lungo. Inoltre nella corte vivevano dame e gentili cavalieri i quali chiedevano al poeta umanista composizioni che li istruisse e li dilettasse: è chiaro che tali composizioni, se per caso venivano scritte in latino, non erano intese quasi da nessuno del pubblico dei lettori od ascoltatori, ed era, perciò, necessario ritornare all’uso del volgare.
I motivi di ispirazione della rinnovata letteratura volgare.
a) – Il motivo dell’amore, inteso da alcuni come fonte di soavi affanni, da altri come maestro di gentilezza e di belle opere, dalle anime più elevate come contemplazione e gaudio della bellezza pura, al modo platonico.
b)- Il motivo della bellezza intesa come armonia di forme e gentilezza di spirito.
c)- Il motivo dell’avventura intesa come espressione di capacità fisica e spirituale, come mezzo per saggiare le proprie forze e prenderne coscienza.
d)- Il motivo della perfezione cavalleresca, intesa come stile impeccabile, come sintesi di generosità, di audacia, di lealtà, di intelligenza e di abilità.
e)- Il motivo della cultura, intesa come rivelazione di umanità più fine, come fattore di apertura mentale e di superiorità morale, come criterio per giudicare o con liberalità o con tono di maliziosa ironia.
f)- Il motivo della natura vista come complesso meraviglioso di quadretti in cui si raccolgono, in armonia di linee e lucidità di toni, tutti gli spunti più delicati e più simpatici del paesaggio.
g)- Il motivo della passione classicista, intesa come ansia di riprodurre, nel mondo moderno, lo spirito e le forme della civiltà greco-romana.
Ricchezza formale della rinnovata letteratura volgare.
L’esperienza dell’umanesimo nella fase del fanatismo classicistico, se non fu coronata da grandi successi estetici, se cioè non fu caratterizzata dalla produzione di grandi opere, tuttavia, ebbe una enorme importanza dal punto di vista formale. Infatti gli umanisti, studiando le opere dei classici:
a)- anzitutto vennero a conoscenza di tutti i generi letterari creati dagli scrittori greci e romani e tentarono di rievocarli nelle loro composizioni;
b)- in secondo luogo utilizzarono le forme, che per ogni genere letterario, erano state inventate ed elaborate dai classici;
d)-ed in terzo luogo si valsero delle conoscenza ampia e profonda delle lingue classiche per affinare e potenziare il volgare.
Se gli umanisti del ‘400 avessero avuto più ingegno o avessero adottato una mentalità più indipendente nei confronti dei modelli classici, anche nel secolo XV la nostra storia letterari avrebbe contato opere di sommo pregio.
Generalmente, invece, gli autori in volgare della seconda metà del ‘400 ci hanno dato opere perfette nella modellatura classica, ricchissime di belle tradizioni e di gentili motivi sentimentali, ma di breve respiro, simili a graziose miniature, o opere di grande respiro, ma ancora confuse nella struttura e poco precise nei particolari: le prime sanno troppo di erudizione e rivelano scarsa comunicazione con la vita reale; le altre sono moderne, accolgono svariati motivi della civiltà nuova, ma rivelano la incapacità degli autori a controllare i singoli momenti della composizione: le prime sembrano create ed elaborate da una mentalità professorale assai diligente ed intelligente, ma poco aperta ai grandi problemi della vita vissuta; le seconde sembrano create ed elaborate da bravi uomini di mondo, ansiosi di esprimere un vastissimo complesso di esperienze, ma ancora inesperti dei modi con cui si conduce un’opera di grande mole.
Come esemplari delle opere del primo gruppo possiamo citare i poemetti classicheggianti del magnifico, la “Stanze per la giostra” di Poliziano, “L’Arcadia” di Sannazzaro; come esemplari del secondo gruppo possiamo citare il “Morgante” del Pulci e l’”Orlando Innamorato” di Boiardo.
La questione della lingua agli inizi del ‘500.
Dante nel “De vulgari eloquentia” si era proposto di individuare la lingua italiana che dovevano adottare le persone colte della Penisola nelle composizioni ad alto soggetto e a tono elevato. Egli aveva affermato che l’opera di affinamento dei volgari dialettali compiuta dagli scrittori delle diverse regioni, aveva diffuso nei centri di cultura (scuole, corti, curie amministrative) una lingua che presentava caratteristiche diverse in quanto era elaborazioni di linguaggi diversi.
Perché la soluzione dell’Alighieri avesse avuto una efficacia pratica, sarebbe stato necessario compilare un vocabolario, una grammatica e una sintassi della lingua da lui individuata e definita: ciò che avvenne agli inizi del ‘500, cioè nella fase di maturazione e di maggior produzione, nel Rinascimento, quando il problema della lingua si presentò di nuovo.
Una volta sgonfiata la passione per il latino aureo, una volta riaffermata la necessità pratica di ritornare al volgare, gli intellettuali del Rinascimento maturo sentirono il bisogno di definire una lingua modello, che fosse capace di esprimere, con precisione e con eleganza, qualsiasi atteggiamento dello spirito, con capacità, con decoro, con arte.
Gli esponenti della questione linguistica, agli inizi del ‘500, sono il Bembo e il Trissino: il primo sostiene la tesi che la vera lingua italiana è quella elaborata dai grandi autori toscani del ‘300, particolarmente dal Petrarca e dal Boccaccio; il secondo sostiene, invece, la tesi che la lingua italiana è quella adoperata dalle persone colte delle varie regioni della Penisola, cioè sostiene una tesi uguale a quella proposta dall’Alighieri. Il Bembo è un umanista bravo scrittore in latino aureo bravo scrittore in volgare.
Agli umanisti piace esemplarizzare, cioè fissare modelli perfetti sia riguardo alla ispirazione che riguardo alla forma e alla lingua; ed è per questo che il Bembo ad una lingua viva preferisce magari una lingua addietrata di circa un secolo e mezzo, ad una lingua in evoluzione preferisce una lingua fissa. Il Bembo è appassionato ammiratore e imitatore del Petrarca: per questo egli propone come modello di lingua in poesia quella del “Canzoniere” e dei “Trionfi”; e come modello di lingua in prosa propone quella del Boccaccio.
Il Bembo espone le sue teorie nel “Prose della volgar lingua”, che è un trattato in cui oltre che risolvere il problema linguistico l’autore si propone e risolve svariati problemi di fonetica, di grammatica e di sintassi. La tesi del Bembo è sostenuta da valenti scrittori toscani, quali il Machiavelli, il Varchi e il Giambullari. Alla fine del secolo XVI sorge a Siena l’Accademia della Crusca, di cui è fiero e intransigente campione Lionardo Salviati. I cruscanti si propongono di stacciare la lingua italiana per separare il fior fiore dalla crusca: il fior fiore è costituito dal patrimonio linguistico contenuto nelle opere del Petrarca e del Boccaccio; la crusca è costituita dalle forme linguistiche usate anche da valenti scrittori, ma non toscane, anzi non fiorentine. Viene così compilato il vocabolario della Crusca secondo un criterio strettamente bembesco, cioè con il proposito di raccogliere in esso solo i vocaboli della lingua fiorentina, non viva, ma elaborata dal Petrarca e dal Boccaccio.
Tale vocabolario dominò incontrastato fino ai tempi dell’Illuminismo e dalla fine del ‘500 alla metà del ‘700 gli scrittori italiani petrarcheggiano con grande scrupolo e diligenza. Alla soluzione del Bembo si oppose il Trissino, il quale commentò il “De vulgari eloquentia” di Dante e, sull’esempio di questi, propose una lingua nazionale al cui patrimonio contribuissero le varie regioni d’Italia con ciò che avevano di meglio, ossia con ciò che di meglio avevano saputo elaborare i vari scrittori che si erano affermati in ciascuna di esse.
L’opera in cui il Trissino sostiene la sua tesi è intitolata “Il Castellano”.
Altri letterati, quali i Davanzati, il Dani, L’Aretino, il Cellini, il Gelli, il Caro pur aderendo alla soluzione del Bembo, si dimostrarono più liberali nel senso che invece di un fiorentino fisso alle forme del Petrarca e del Boccaccio, cioè antiquato e morto, preferivano una lingua toscana viva, cioè una lingua che accogliesse non solo le forme di Firenze, ma di tutta la regione Toscana e, per di più, tenesse conto delle esigenze del rinnovamento a cui ogni lingua va soggetta per il fatto che è un mezzo di espressione di cui si valgono le persone vive, la cui spiritualità è in continua evoluzione. Essi riconoscono che fissare una lingua significa ucciderla e renderla inaccessibile al gran pubblico dei lettori, i quali intendono la lingua del loro tempo e difficilmente hanno possibilità di apprendere una lingua morta.
Il Bembo volle fare della lingua del Petrarca e del Boccaccio una lingua nazionale, proponendola, una volta per sempre, all’imitazione di tutti gli scrittori d’Italia; il Trissino volle che alla formazione della lingua nazionale contribuissero tutte le lingue regionali: in tempo di umanesimo, cioè in tempo di culto dei modelli, non poteva avere il sopravvento che la tesi del Bembo. Questa tesi se da una parte favorì la precisione, l’eleganza, la logicità strutturale della lingua letteraria, dall’altra contribuì a fare delle opere egli scrittori una specie di museo linguistico accessibile soltanto m agli eruditi; e, soprattutto, creò il pregiudizio che esistesse una lingua poetica già bella e fatta, ossia il pregiudizio che bastasse adoperare certi vocaboli, adoperati dal Petrarca, per fare poesia: ad esempio “cigno” invece di “poeta”, “liquidi cristalli” invece di “acque”, “zèfiri” invece di “venti” ecc. erano forme che ogni poeta si sentiva in dovere di adottare perché esse costituivano il vocabolario del letterato che si rispetta. Ma a questo modo la poesia diventava accessibile solo a chi conosceva quel vocabolario.
L’umanesimo, come aveva distaccato l’ispirazione dalla vita vissuta e la forma della vita intima del soggetto trattato, così ha distaccato la lingua dall’uso comune: ispirazione, forma e linguaggio sono così avviati verso l’Accademismo, cioè verso la morte.
FRANCESCO GUICCIARDINI
(1483-1540)
Il personaggio
E’ il personaggio che conclude il Rinascimento in due sensi: anzitutto nel senso che dopo di lui, nella letteratura si manifestano una spiritualità e una forma nuova; in secondo luogo nel senso che egli conduce a maturazione i motivi fondamentali della spiritualità naturalistica e dell’Umanesimo rinascimentale.
Il Guicciardini porta a maturazione il naturalismo rinascimentale soprattutto sotto tre aspetti: sotto l’aspetto della maturità mentale, sotto l’aspetto della concretezza dell’indagine, sotto l’aspetto dell’individualismo. L’esame di questi tre punti ci servirà anche a delineare la spiritualità del Guicciardini.
1)- Maturità mentale.
Abbiamo visto che il naturalismo o concezione della vita come espressione ed utilizzazione intelligente e fine di tutte le energie della natura, in pratica si realizza con il passaggio indefinito di esperienza in esperienza. Infatti l’espressione dell’energia di natura si ha quando queste vengono in un numero di esperienze svariate e dense il più possibile. Si verifica nella psicologia, umana invariabilmente, questo fenomeno: esperienza fatta è uguale a esperienza superata.
Il superamento del reale e della vita permette di controllare con l’intelletto i vari aspetti e i vari fenomeni della realtà.
Questo dominio e questo controllo permettono di cogliere nella complessità del reale i fenomeni e gli aspetti più svariati e soprattutto di cogliere i legami che intercorrono fra essi.
Quando lo spirito è giunto a questa posizione, cioè quando il reale vi è dinanzi come un quadro da osservare, naturalmente si genera il senso di distacco tra lui e il quadro stesso.
Questo senso di distacco genera due atteggiamenti: quello della oggettività allorché si medita, e quello della superiorità svagata e arguta dello stile del pensare e dell’agire. Nessun entusiasmo, nessuna passione quando si è oggettivi, un sorriso scettico e bonario quando si è superiori. A Guicciardini è capitata di superare perfino sé stesso: nel quadro della realtà che egli contempla c’è anche F. Guicciardini: ed egli si osserva, si giudica con la stessa mentalità e con lo stesso tono spregiudicato e bonario con cui osserva e giudica gli altri. L’espressione che ci rivela in modo binario questo processo interiore del Guicciardini si ritrova nei “Ricordi”:”Io ho avuto dalla vita assai più di quanto ho desiderato, ma in nessuna delle mie esperienze ho trovato quella soddisfazione che mi ero immaginato di trovarvi e perciò è bene nella vita moderare la cupidità”.
Ecco l’aspetto più interessante del naturalismo guicciardiniano: il senso della sazietà della vita. Ed era fatale che il naturalismo finisse così, se é vero che esperienza fatta è uguale ad esperienza superata e se ciò che è superato non ha altro interesse che quello del ricordo.
In altri tempi, ossia nel Medioevo, questa sazietà della vita avrebbe generato il bisogno di una nozione in un modo in cui lo spirito potesse trovare la sua quiete, cioè il mondo del misticismo. Il Guicciardini non sente questo bisogno: il senso della sazietà è accompagnato dalla coscienza della vanità di tutte le cose, ma egli continua a vivere, cioè a sperimentare tranquillamente. Vane sono le cose, vana la vita degli uomini, vano è il Guicciardini stesso: ma Guicciardini si compiace di questa vanità. E’ vano il vivere, ma è una vanità piacevole, se non altro perché è uno spettacolo vario e complesso, la cui visione interessa, impegna e distrae.
Siamo di fronte ad una specie di misticismo naturalistico che continua con lo scetticismo. Nello spettacolo della vita, qual è il fattore che più si agita, che più muove gli uomini, che genera perfino azioni sublimi?
E’ l’egoismo, la ricerca del bene particolare per cui talvolta gli uomini giungono a compiere perfino azioni eroiche e gloriose.
Uomo di esperienza dunque il Guicciardini; uomo superiore alla realtà; spirito oggettivo, spirito arguto, spirito scettico; uomo bonario e comprensivo; convinto della vanità della vita e beatamente soddisfatto della vita.
L’aspetto più simpatico di questo uomo è dato da quel suo autocriticarsi con tono scettico e superiore: quando scrive i Ricordi ha la sensazione di fare cose inutili; di tutte le sue opere non ne pubblicò una quando era in vita: segno che le considerava inutili e che le aveva scritte per passatempo, per distrarsi, per continuare a vivere senza annoiarsi.
2)- Concretezza di indagine.
Il Rinascimento tutto inteso a ricercare le risorse del piacere e a trovare i modi per utilizzarle nel modo più piacevole, dà inizio ad una indagine che tiene conto più dei fatti che delle teorie e viene così ad opporsi all’età medioevale, età della metafisica, perché impostava e risolveva le questioni sulla base della Filosofia e della Teologia.
Ai medioevali interessava illuminare la vita con la luce che viene dall’alto, per sistemarla meglio e darle un significato superiore. Ai rinascimentali piace trovare la luce nelle cose stesse e fare uso delle risorse native dell’intelligenza umana: esame dei fatti per cogliere in essi i fattori che li costituiscono e li generano; e applicazione della intelligenza al ritrovamento dei modi più adatti per utilizzare i fatti e per creare opere utili e belle. La Teologia e la Filosofia cedono il posto alla scienza.
Machiavelli lasciò da parte la politica filosofica per concentrare la sua attenzione sulla politica come scienza e arte, come tecnica: ai principi metafisici dedotti per ragionamento sostituisce i principi pratici indotti per esperienza.
Il Guicciardini, proseguendo lungo la via della concretezza e arrivando fino in fondo, elimina il principio generale: ne principio dedotto, ne principio indotto. Il principio infatti sia dedotto che indotto è generale, mentre i fatti sono particolari. Per formulare un principio generale anche indotto, è necessario astrarre dalle situazioni particolari, ossia non tener conto delle circostanze in cui i fatti si verificano (circostanze del tutto diverse l’una dall’altra), per cogliere ciò che nei fatti vi è di comune, per mettere in evidenza questo fattore comune ed elevarlo a principio.
Ma, osserva il Guicciardini, questo fattore comune che si vuole elevare a principio, come ente a sé esiste solo nella nostra mente: nei fatti esso esiste incarnato nella circostanza. Quindi chi vuol cogliere il fattore comune, senza cogliere la circostanza in cui di volta in volta, nei vari casi, esso è venuto ad operare, non coglie una cosa reale, ma una cosa che è staccata dal reale, e proponendola come principio, propone una cosa che va bene per tutti i casi, e quindi per nessun caso, poiché è un aspetto che si addice a tutti i casi, ma prescinde da numerosi altri aspetti e circostanze che pur costituiscono ciascun caso.
Il Machiavelli coglie nella storia un fattore comune: la psicologia umana. Il Guicciardini dichiara inaccettabile anche questo fattore, perché non è la psicologia umana che domina le circostanze, ma sono le circostanze che determinano la psicologia umana. Egli non crede alla libertà dell’uomo: “Né i pazzi né i savi possono resistere a quello che deve avvenire, perciò mi sembra giustissimamente detto: “Fata ducunt volentes, tradunt nolentes”; il fato, cioè le circostanze conducono quelli che vogliono seguirle, trascinano quelli che non vogliono seguirle: o guidatrici o trascinatrici sono sempre le circostanze che hanno il sopravvento sull’uomo. E se le cose stanno così non è possibile accettare la teoria del Machiavelli che pretende di indurre principi universali sulla base di quella costante che è la psicologia umana, poiché questa costante verrebbe a variare con il variare delle circostanze e quindi non sarebbe più costante.
“Le cose del mondo non stanno ferme, anzi hanno sempre progresso al cammino a cui per loro natura debbono andare a finire”. Se le cose camminano e non sono mai le stesse, sarà impossibile fermare di esse un aspetto costante o immutabile: come si può dare un volto immutabile a ciò che muta di continuo?
In conclusione non si possono accettare principi universali né teorici dedotti né pratici indotti, per tre motivi:
– Perché il principio in sé esprime non il fatto nella sua totalità cioè in tutti i suoi a spetti, ma solo in quell’aspetto che gli è comune con molti altri; e quindi non riproduce la realtà come è, quindi non è utile per la vita pratica.
– Perché il fattore psicologia umana, non è costante.
– Perché le cose mutano di continuo e non è possibile coglierne un aspetto fisso.
Aboliti i principi, ecco ciò che il Guicciardini sostituisce circa i fatti umani e circa la soluzione dei problemi del vivere.
Enunciamo anzitutto un principio che raccoglie tutto il pensiero del Guicciardini a questo proposito: “E’ grande errore parlare delle cose del mondo indistintamente e assolutamente, e, per dir così, per regola; perché quasi tutte hanno distinzione ed eccezione per la varietà delle circostanze nelle quali non si possono fermare con una medesima misura; queste distinzioni ed eccezioni non si trovano scritte in sui libri, ma bisogna le insegni la discrezione…non si può procedere sempre con una regola indistinta e ferma”.
Ecco in sintesi il metodo guicciardiniano.
– Non essendo possibile l’indagine a carattere generale e la formulazione dei principi a carattere universale, bisognerà procedere all’indagine caso per caso. Questo vuol dire che quando si fa la storia non bisogna giudicare un fatto con un altro, ma ogni fatto è da considerarsi in sé stesso, perché le circostanze ne fanno un mondo a sé; e quando si va in cerca di una norma per risolvere un problema, non bisogna rifarsi a nessun principio, ma bisogna individuare nella situazione stessa difronte a cui ci si trova, i suggerimenti e gli indirizzi per risolverla bene, ossia con vantaggio.
“Chi cita ad ogni passo l’esempio dei Romani, mentre parla delle cose dei nostri tempi, dimentica che noi per operare come i Romani avremmo bisogno di una repubblica ordinata come la loro e di circostanze come quelle in cui ebbero la fortuna di trovarsi loro (ad es. con nazioni vicine meno civili e meno forti di loro). Pretendere che l’Italia di oggi percorra lo stesso cammino di Roma antica, significa pretendere che un asino voli come un cavallo”.
Non si possono giudicare le situazioni attuali alla luce di quelle passate, o viceversa; né trarre norma dal passato per risolvere i problemi del presente.
– Nell’indagine caso per caso chi insegna la soluzione dei problemi è la discrezione. La discrezione (dal latino discerno = individuare, distinguere) è la capacità di individuare in ogni circostanza i fattori che la costituiscono, le risorse di utilità che contiene i mezzi più adatti per piegarla al proprio bene particolare. La discrezione è la maestra unica della vita: “In tutte le cose bisogna procedere distinguendo la qualità delle persone dai casi e dai tempi; e a questo è necessaria la discrezione, la quale, se la natura non te l’ha data, rare volte si impara con l’esperienza quello che è necessario; con i libri poi, mai”.
Senza discrezione, dunque, o intelligenza pratica, non valgono né l’esperienza, né la cultura: la prima sarebbe cieca senza la discrezione, la seconda sarebbe vana.
Il Guicciardini scrive i Ricordi per dare consigli al figliolo: i consigli sono massime, le massime sono principi, i principi sono generali: egli si accorge di fare cosa inutile e perciò scrive così: “Questi ricordi sono regole che si possono scrivere sui libri; ma i casi particolari, siccome hanno forma diversa, si debbono trattare diversamente e non si possono scrivere altrove che nel libro della discrezione”.
In conclusione:
– esame caso per caso;
– criterio di risoluzione dei problemi, quello insegnato dalla discrezione: non esiste uno che valga per tutti.
Il Guicciardini così ci fa l’impressione dell’uomo che ha deciso di prender contatto diretto con le cose, senza alcun velo né metafisico né scientifico che gli impedisca questo contatto immediato: all’esame della vita si va con mente spregiudicata, cioè né con la mentalità religiosa, né con una mentalità metafisica, né con una mentalità scientifica, ma con una mentalità sgombra da qualsiasi preconcetto con l’intento di vedere nei fatti quel che c’è, non quello che dovrebbe esserci o quello che avrebbe potuto esserci: oggettività assoluta.
Vediamo alcune applicazioni di questo oggettivismo spietato, di questa praticità spregiudicata.
Sentiamo cosa dice nei riguardi della Religione e della Filosofia: “I filosofi e i teologi e tutti gli altri che scrivono le cose sopra natura o che non si veggono, dicono mille pazzie, perché di fatto gli uomini sono al buio delle cose e questa indagine ha servito e serve più ad esercitare gli ingegni che a trovare la verità”.
“Gesù dice: -Chi ha fede sposta le montagne-. E’ questo: fede significa ostinazione in cose che non sono ragionevoli. L’ostinazione o presto o tardi realizza qualche cosa: chi la dura la vince. La religione vera non consiste tanto nel creder ai dogmi, quanto in questo: non fare del male a nessuno, fare del bene a chi si può”.
Sentiamo che cosa dice dell’uomo: “Non credete a chi dice che agisce per un ideale: ogni uomo agisce per il suo bene particolare”. “Chi disse popolo disse veramente animale pazzo, pieno di mille errori, di mille confusioni senza gusto, senza diletto, senza stabilità”. “La natura ha inclinato l’uomo al bene, ma le circostanze lo invitano al male, e siccome egli è fragile fa più facilmente il male che il bene”.
Ecco che cosa dice nei riguardi della vita in generale: “La vita dell’uomo è sottoposta a infiniti mali per cui quando vedo un uomo vecchio mi meraviglio come egli sia giunto a quell’età”.
“E’ impossibile governare un popolo secondo la scienza; tutti gli stati sono fondati sulla violenza, non “escluso” quello dei preti, la violenza dei quali è doppia perché ci sferzano con le armi temporali e spirituali”.
Sentiamo che cosa dice nei riguardi di alcuni giudizi dati dal Machiavelli circa alcuni aspetti della storia d’Italia e circa la politica in generale (il Guicciardini polemizzò con il pensiero del Machiavelli nelle Considerazioni intorno ai discorsi del Machiavelli):
“Machiavelli lamenta che in Italia la Chiesa abbia impedito la unificazione della nazione. Non è un gran male: è meglio che sia andata come è andata. Se infatti fosse avvenuta la unificazione, il vantaggio sarebbe stato tutto della città capitale e non avremmo avuto quel gran numero di grandi città che abbiamo oggi”. “Machiavelli cita sempre i Romani, ma noi non siamo nelle condizioni dei Romani”. “Machiavelli afferma che i problemi della vita in generale si possono risolvere per legge generale. Non pensa che i problemi sono inquadrati nelle circostanze; e che perciò è necessario risolverli in rapporto alle circostanze stesse, e che siccome queste mutano di continuo, non si può stabilire una norma generale di soluzione, ma è necessario adottare per ogni problema particolare una norma particolare”.
3)- Individualismo.
Alla concretezza nel campo dell’indagine condotta fino ad abolire qualsiasi principio e alla soluzione caso per caso, corrisponde una spregiudicata concretezza anche nel campo morale. Il Machiavelli sostituisce alla morale dell’onesto quella dell’utile pubblico. L’utile pubblico è ancora un ideale che dà un certo valore morale alla azione umana pur con la dovuta riserva (il valore d’utilità d’una azione infatti non può prescindere dal valore di onestà).
Il Guicciardini toglie via anche questo ideale di utilità pubblica; sostituisce, come fine ultimo dell’azione umana, il bene particolare.
Vediamo come egli ragiona: Da osservatore spregiudicato della realtà umana, ossia della vera psicologia degli uomini, egli può affermare questo fatto: ogni uomo opera per il suo bene particolare, anche se dice di operare in nome di qualche ideale. Quindi ogni uomo è egoista. Che ogni uomo è egoista significa che l’egoismo è la radice più intima e più profonda della natura umana; e se la radice della natura umana è questa, bisogna assecondarla: “quell’uomo si conduce bene in tutte le cose sue, il quale mira costantemente al suo bene particolare”.
Che cosa intende il Guicciardini per bene particolare?
Non è solo un bene pecuniario, ma è tutto ciò che potenzia la personalità di un individuo, ossia tutto ciò che contribuisce a metterlo in evidenza, a procurargli onori, cariche e grandezze.
Quali sono i mezzi per garantire, il bene particolare?
Sono questi:
a)- Anzitutto una buona dose di discrezione intesa nel senso già enunciato, accompagnata da esperienza e da cultura. La discrezione è il fattore fondamentale di ogni buona riuscita.
b)- Apprezzamento di tutte le risorse che la natura offre; apprezzamento perfino delle cose che sono stimate vane, specie dalle persone colte (il saper danzare, il saper cantare ecc.). Ci sono nella vita vanità utili, anzi si potrebbe dire che tutto sia una vanità utile, perché tutto è vano e tutto è utile: “Io spesso mi son fatto beffe di coloro che sapevano danzare, fare i buffoni ecc…: mi sono convinto che anche l’abilità in queste cose ha il suo grande valore per garantire la fortuna ad una esistenza”. Valorizzazione dunque delle verità utili, è in pratica realizzazione di tutto.
c)- Buona capacità di saper recitare la commedia della vita, cioè di saper fingere: “L’apparir buoni è cosa utile per raggiungere molti scopi”: sembrerebbe un’affermazione da spregiudicato volgare; ma ecco subito quello che egli aggiunge: “Siccome non è possibile apparir buoni costantemente, se non lo si è veramente, bisogna essere veramente buoni”.
Sicché il Guicciardini non è un volgare consigliere di ipocrisia: afferma che bisogna essere buoni e lo afferma con convinzione; peccato che concepisce la bontà in funzione dell’utile.
Ma questo non ci meraviglia, avendo egli impostato la vita su basi pratiche. Insomma il suo motto potrebbe essere questo: recitate bene la vostra parte nella commedia della vita: la parte della bontà è una delle più importanti: per essa come per tutte le altre vale questa avvertenza: si recita bene se si recita con convinzione e con costanza.
In conclusione si tratta di un bene particolare, inteso con quella mentalità intelligente e liberale che è caratteristica degli uomini del Rinascimento: uomini di mondo e mondani, ma intelligentissimi e di ottimo gusto. Del resto non era forse incluso nel naturalismo il concetto che ogni individuo ha il diritto di utilizzare tutte le risorse che la natura mette a sua disposizione, per potenziarsi e per affermarsi in modo da lasciare un ricordo di sé ai posteri? Ma per quanto intelligente e di buon gusto l’egoismo è sempre egoismo e quando esso si afferma, muore l’ideale; e quando muore l’ideale muore la vita e muore anche la poesia che dalla vita trae l’alimento.
Col Guicciardini cessa dunque il Rinascimento: il dinamismo, l’attività, l’esperienza, la creazione, tutto ormai appare vano; di questa verità si nota solo l’aspetto utilitario; l’utilità è ridotta ad egoismo; così lo spirito è ristretto in un mondo piccolo ed arido e non ha voglia neanche di cantare quella ristrettezza e quella aridità, perché è spirito rinascimentale e quindi non abituato a gemere. E così “beate moritur” come “beate vixit”, in armonia con il mondo classico del “bene beateque vivere et mori”.
Chi si accorgerà di quel misero cerchio spirituale in cui si è indotto lo spirito rinascimentale e vorrà superarlo tra incertezza e gemiti, sarà il Tasso. Quel vivere “beate” o alla mondana è sempre bello; e il sacrificio eroico proposto dalla religione fuori di quel cerchio, per quanto bello è sempre sacrificio.
La storiografia nel concetto del Giuicciardini.
Il Guicciardini è passato nella storia della letteratura italiana oltre che per i suoi “Ricordi” anche e soprattutto per la sua “Storia d’Italia” (che va dal 1492 al 1534 cioè dalla morte del Magnifico alla morte di Clemente VII) .
Ecco in generale i fattori che concorrono alla composizione di una storia:
– I fatti criticamente accertati.
– L’intreccio delle cause che hanno generato i fatti.
– Il quadro narrativo ossia la rappresentazione degli avvenimenti con tutti i
legami di causalità che li intrecciano fra loro.
Siccome l’arte è rappresentazione della vita, il fattore veramente artistico nella storiografia è l’ultimo dei tre citati, ossia è il quadro narrativo. In uno dei ricordi il Guicciardini lamenta che gli storici antichi abbiano parlato delle cose dei loro tempi trascurando di spiegare tante cose, quasi che gli ordinamenti dei Romani o dei Greci dovessero durare in eterno e fossero quindi intellegibili certi punti della loro storia anche a lettori di molti secoli più tardi. Ad esempio Tito Livio e gli storici Romani in generale non si sono mai sentiti in dovere di dirci quale fosse il potere e la vera natura della magistratura romana, quali fossero i costumi del mondo romano, quale fosse l’economia, ecc…: per cui oggi leggendo quelle storie noi non riusciamo a farci un concetto esatto delle situazioni generali del mondo romano nei vari momenti del suo divenire.
Il Guicciardini, uomo pratico come è, vuole una storia concreta; uomo preciso e chiaro vuole una storia completa.
Storia concreta:
Il Guicciardini intende la storia come rappresentazione degli avvenimenti colti nel loro divenire da quando queste o quelle cause li generano a quando altre cause ne determinano il tramonto. Fatti e cause sperimentali dei fatti rientrano nella storia intrecciati o meglio fusi in un quadro rappresentativo. Se la storia è questa sono anzitutto esclusi dalla storia i seguenti fattori:
– Il piano provvidenziale, gli interventi soprannaturali perché non si vedono e nessuno può dir mai nulla di sicuro intorno ad essi (la visione provvidenziale della storia tanto cara a S. Agostino, a S. Tommaso e a Dante viene decisamente svalutata come arbitraria e del tutto cervellotica).
– I giudizi circa il modo con cui sono avvenuti i fatti e il valore di essi. Dire: “Se le cose non fossero andate così… sarebbero andate forse in questo modo”, significa non guardare ai fatti ma fare ipotesi irreali e fantastiche. Dire: “Questo uomo ha sbagliato agendo così”, significa quasi pretendere che quell’uomo avesse operato non come ha operato: una pretesa assurda e quindi fuor di luogo. Ci si contenti di quello che le cause hanno dato e del modo con cui i fatti si sono svolti: tutto il resto è accessorio e inutile al fine della conoscenza dei fatti.
Vediamo ora quali sono, secondo il Guicciardini, le cause più comuni e più decisive nella genesi dei fatti:
a- La psicologia umana, nella quale tutto è variabile, a seconda delle indoli e dell’educazione e dell’ambiente, salvo una costante eternamente invariabile: l’egoismo. Perciò il Guicciardini si è specializzato nella composizione dei cosiddetti ”ritratti” (ritratto di Clemente VII, Carlo V ecc.). In questi egli delinea l’indole, la mentalità, il contorname del personaggio, per poi vedere come l’egoismo si atteggia ora in questo, ora in quel modo, e dà origine ora a questa, ora a quella iniziativa.
b- Congiuntura fortuita di situazioni che si sono venute a creare inaspettatamente.
c- Fattori geografici, climatologici, metereologici che concorrono a favorire o a impedire lo sviluppo di una iniziativa.
d- Certe abitudini e certi pregiudizi che dominano in un determinato luogo o ambiente e ad un certo momento influiscono decisamente sullo sviluppo dei fatti.
Poterebbe sembrare che, spogliata di quelle interpretazioni ideali che tanto piacciono ai grandi ingegni, non illuminata da nessuno di quei giudizi pratici e utili che erano tanto cari al Machiavelli, la storia del Guicciardini tutta nudo intreccio di cause e di fatti, non abbia nessuno interesse e sia priva di ogni senso drammatico.
Potrebbe sembrare insomma che il Guicciardini abbia umiliato e svuotato la storia, tanto più che la ha ricondotta ad una sorgente così misera qual è l’egoismo umano. E’ un’impressione falsa. L’egoismo sotto la spinta di mille fattori genera un’infinità di complicazioni, e quindi infittisce dello sviluppo del racconto; e siccome l’uomo non sente mai con tanta veemenza nessun ideale, come sente i suoi interessi, l’egoismo si manifesta come fattore generativo della storia, ricco di drammaticità.
Così la storia, del Guicciardini risulta completa di quel che è necessario, priva di quello che non è necessario (così pensa lui).
Quando infatti sono state esposte esaurientemente le cause generatrici dei fatti, quando di ogni causa è stata fatta un’illustrazione sufficiente, quando si è riusciti a cogliere ed a incarnare nella rappresentazione il tono ora tragico, ora comico ora umile, ora elevato negli avvenimenti umani, non c’è più nulla da aggiungere; ed anche i posteri possono star sicuri che riusciranno a capirci qualche cosa o almeno un po’ più di quanto capiscono nella storia degli antichi.
Stile del Guicciardini.
Il procedimento che il Guicciardini segue nel comporre è quello del realismo ossia della aderenza ai fatti: nessuna complicazione teorica; nessuna intenzione di fare della scienza; nessun entusiasmo e nessuna intenzione di entusiasmare. E’ un gentiluomo che parla di cose concrete con spirito di osservatore intelligentissimo e impassibile: il suo tono è calmo, le sue osservazioni sono ricche di buon senso e rispondono alla realtà dei fatti; i suoi consigli sembrano giusti perché dettati dall’esperienza e verrebbe voglia di accettarli se egli stesso non ci dicesse che hanno poco valore perché nella vita ciò che insegna tutto è la discrezione.
Lo possiamo, definire il pascià della cultura, smaliziato e galantuomo nello stesso tempo, acuto e bonario: un vero signore.
Peccato che sia troppo signore e poco uomo sebbene sotto quella apparenza di calma e di dominio, egli stesso ci dice che c’è un senso che potrebbe saper di dramma: il senso della vanità di tutto.
Il linguaggio.
Come è la spiritualità così sono la forma e il linguaggio. A spiritualità concreta, abbiamo visto che risponde una forma concreta: evidentemente risponderà anche un linguaggio concreto, cioè ad ogni parola risponde una cosa.
A spiritualità non complicata abbiamo visto che corrisponde una forma lineare pur nella complessità: anche il linguaggio sarà dunque medio, cioè lontano sia dalle imprecisioni e approssimazioni caratteristiche della lingua familiare, sia dalle preziosità caratteristiche del linguaggio dotto. A spiritualità chiara risponderà anche un linguaggio chiaro, ossia facilmente intellegibile e certamente preciso.
MACHIAVELLI NICCOLO’
(1469-1527)
IL PERSONAGGIO
Può essere definito il tecnico della politica: opponiamo alla parola tecnico la parola filosofo, nel senso che il tecnico procede in base a principi sperimentali, il filosofo in base a principi teorici. Il Machiavelli fu il tecnico della politica specializzato particolarmente in tre settori:
– fondazione dello stato unitario e forte (principe).
– difesa dello stato (Arte della guerra, Dialoghi).
– evoluzione della vita dello stato (Discorsi sulla prima deca di Tito Livio).
Ambiente generale in cui vive il Machiavelli.
E’ quello stesso in cui vive l’Ariosto: il Rinascimento maturo, l’età della concretezza, della intelligenza, dell’abilità, dell’armonia.
Di questo ambiente a noi interessa soprattutto, richiamare la mentalità e la prassi politica. L’Italia è divisa in svariate signorie e principati, i vari signori sono fra loro in rapporti di indifferenza sospettosa: ognuno pensa a sé e sta in guardia dei vicini, nessuno dei signori pensa ad una Italia unita e forte, e nessuno di essi sarebbe disposto a far sacrificio della propria autorità a vantaggio dell’intera nazione e del popolo italiano; Francia e Asburgo si contendono il dominio dell’Italia: serie interrotta solo dopo molto tempo di battaglie nella penisola; signori italiani che si alleano con lo straniero; danni materiali e morali causati dalle guerre al popolo italiano; atteggiamento di curiosità da parte delle masse nei confronti degli avvenimenti e incoscienza dei propri mali.
L’Italia -dice il Machiavelli – nell’ultimo capitolo del “Principe” è al fondo dei guai: senza capo, senza ordine, battuta, spogliata, lacera, corsa, soggetta ad ogni sorta di ruine.
Di fronte a questo insieme dell’Italia c’era il quadro delle nazioni unificate e forti (le grandi monarchie occidentali: Spagna, Francia, Inghilterra, Germania). Dal confronto tra i due quadri il Machiavelli traeva questa conclusione: gli stranieri sono mille volte più poveri di risorse che gli italiani: tuttavia gli stranieri possono utilizzare le loro risorse modeste perché hanno raggiunto l’unità e l’unità organizza le forze e perciò ne centuplica gli effetti (l’unità fa la forza); gli italiani disuniti come sono non possono utilizzare le loro energie e perciò sono vittime dello straniero (la disunione svigorisce la forza).
Conclusione.
La medicina per rimediare ai mali dell’Italia è una sola: l’unificazione o con la persuasione o con la forza: non essendo possibile con la persuasione si deve, realizzare con la forza.
Machiavelli ha avuto il merito di avere impostato bene il problema italiano (la soluzione è assai discutibile nei riguardi dei mezzi con cui realizzare l’unità). Ecco l’impostazione: per cacciare via gli stranieri dall’Italia, per serrare le frontiere, e quindi risparmiare agli Italiani quell’ingente massa di mali materiali e morali che ogni anno si riversano su di loro, è necessario essere forti ; ma siccome la forza è data dall’unione anzi dall’unità, è assolutamente necessario procedere all’unificazione politica della penisola.
Dante aveva propugnato la rinascita dell’Italia come nazione eletta nella compagine dell’impero. Il Petrarca aveva affermato che solo l’unificazione avrebbe rimediato ai mali che già a suo tempo affliggevano l’Italia, tuttavia l’ostilità politica reciproca dei principi gli avevano fatto capire che l’unificazione era impossibile e che perciò bisognava accontentarsi della unione morale ossia della concordia fra i signori (“io vo gridando: pace, pace, pace”).
Il Machiavelli è il primo che valuta necessaria la unificazione politica, non si lascia abbattere dalle difficoltà, ma formula un preciso programma per garantire il risultato finale.
Esperienze personali
E’ anzitutto da notare che il Machiavelli ebbe dalla natura un’indole pratica: il mondo degli affari, non il mondo delle teorie lo attraeva.
Sin da giovane egli fu impiegato nel comune di Firenze (segretario dei nove della guerra) con l’incarico di organizzare un esercito cittadino.
L’esercito fiorentino era l’unico che fosse formato di Italiani a servizio di un lembo d’Italia: gli altri erano tutti eserciti mercenari a servizio di Signori insensibili all’ideale patriottico. Nella repubblica Fiorentina si aveva la sensazione di lavorare e di lottare per interessi esclusivamente italiani. Se questa sensazione non la ebbero tutti gli impiegati della Repubblica, l’avrebbe certamente il Machiavelli, il quale, superando la visione del piccolo stato democratico cui apparteneva vagheggiava un esercito nazionale a servizio di tutta la nazione. Tale sogno non svanì nel 1512 quando ritornarono in Firenze i Medici: quel sogno infatti costituiva la sostanza ossia il piano centrale della passione che il Machiavelli nutriva per l’arte politica.
Egli non fu un impiegato comune che esegue gli ordini altrui e limita il suo impegno al compimento più o meno scrupoloso del suo dovere: egli è soprattutto e anzitutto un pensatore un scienziato e gli incarichi costituiscono soltanto un mezzo o un’occasione per ampliare le sue esperienze. E’ per questo che quando veniva ambasciatore or qua, or là, al ritorno in Firenze stendeva le sue relazioni (Ritratti delle cose della Francia; Ritratti delle cose della Magna (Germania); Descrizione del modo tenuto dal duca Valentino nello ammazzare Vitellozzo Vitelli; Discorso sopra le cose di Pisa). Parlando delle sue meditazioni politiche nella lettera al Vettori, dice: “Mi pasco di quel cibo che solum è mio, e che io nacqui per lui” e altrove dice: “Quindici anni che io sono stato a studio dell’arte dello Stato, non li ho né dormiti né giocati”; udiamo in queste parole l’uomo di affari intelligente e appassionato.
Quando ebbe la possibilità di avvicinare gli esponenti della politica di allora, si preoccupò di studiare il loro carattere, i loro metodi, i loro errori e la loro abilità. Non ci fu avvenimento in Italia e nell’Europa centro-occidentale di cui egli non si sia occupato in quanto rientrava nell’ambito del suo interesse di scienziato. Come i tecnici della meccanica seguirono con passione ogni scoperta, ogni applicazione nel campo che interessava loro, così avveniva per il Machiavelli nei riguardi della politica.
Non solo i grandi fatti e i grandi uomini lo interessavano, ma anche i fatti piccoli e la psicologia della plebe. Relegato a S. Casciano , egli, come dice nella lettera al Vettori,“si rinvoltava intra quei pidocchi”, che erano gli abitanti del luogo con un evidente interesse e con un certo compiacimento: parlava con i boscaiuoli, si intratteneva con i passanti, giocava con il macellaio e due fornaciai; un motivo costante egli ritrovava nella psicologia di questa gente: l’attaccamento al denaro. Una sola cosa non trovava: la passione per l’ideale sia esso patriottico o religioso o di altro genere: per cui nel “Principe” dava questo principio e consigli “Tu, o principe, non colpire mai i tuoi sudditi negli interessi, semmai colpiscili nelle persone, perché gli uomini dimenticano più facilmente la morte del padre o della madre che la perdita dei beni”.
La conoscenza della psicologia umana del volgo costituirà uno dei fattori più importanti su cui poggerà il Machiavelli nella formulazione dei suoi principi politici.
Ad esempio, quando nel 1494-95-96 Savonarola aveva in mano il dominio morale della città di Firenze, il Machiavelli rideva della fiducia di quell’uomo nei suoi seguaci. I seguaci di qualsiasi profeta sono capaci di tradire il loro capo quando intervengono altri interessi; per farli restare fedeli occorrerebbero le armi; di qui il principio: “I profeti armati fanno sempre trionfi, i disarmati hanno sempre fallito”.
All’esperienza personale, acquisita cioè attraverso il contatto diretto con la vita e gli uomini del suo tempo, egli aggiunse il grande patrimonio di esperienza che viene a chi legge la storia.
Evidentemente la storia a cui egli si applicò con passione veramente eroica, fu quella romana: “Alla sera depongo le vesti sporche di fango ed entro nel mio studio a colloquio con i grandi uomini di Roma e li interrogo circa i modi delle loro azioni politiche”. Da queste meditazioni nacquero i Discorsi sulla prima deca di Tito Livio.
Il Machiavelli si avvicina ai classici non per imparare da essi come si costruisce un periodo o si armonizza un verso, ma come si fonda e si mantiene uno stato forte. E’ un Umanesimo maturo intento cioè a cogliere i motivi della prassi ossia della vita nelle opere degli antichi, non le eleganze formali. L’autore prediletto del Machiavelli è Tito Livio.
Il metodo del Machiavelli.
Parleremo del metodo del Machiavelli nei riguardi di due problemi: nei riguardi del problema politico in generale; nei riguardi del problema italiano in particolare.
Metodo Dell’arte Politica In Generale
Possiamo senz’altro definirlo metodo “effettuale” ossia pratico, basato sui fatti, e destinato a produrre risultati sicuri nel gioco della politica concreta. Il metodo effettuale si oppone al metodo teorico: questo consiste nel formulare principi in base a ragionamenti condotti con procedimento deduttivo, e nell’applicare tali principi garantiti da ragionamento alle varie esigenze della vita vissuta; quello consiste nel formulare principi in base al dettato dell’esperienza e nell’applicare alla vita quelle norme che sono richieste dalle esigenze della vita stessa.
Le norme teoriche della politica valgono per uomini politici che potessero vivere in un mondo modellata sulla teoria (cioè un mondo in cui tutti siano leali, generosi, fedeli al dovere, giusti); per il mondo della vita vissuta valgono solo i suggerimenti dell’esperienza (gli uomini politici, ad esempio, sono quasi tutti sleali; sii anche tu sleale; il popolo sta quieto solo quando si riesce ad intimorirlo; preferisci essere temuto piuttosto che amato).
Il principio fondamentale del metodo effettuale è questo: ciò che è necessario per risolvere un problema è anche lecito e diventa norma d’azione (ad esempio, per risolvere il problema italiano è necessario far fuori tutti i principi italiani: questa strage, essendo necessaria diventa lecita e chi vuol fare l’unità d’Italia deve seguire questa norma ossia questo procedimento).
Ciò che applicato in determinate circostanze ha ripetutamente prodotto i buoni risultati diventa norma di azione per chi, in circostanze analoghe, voglia raggiungere lo scopo. Insomma è da ritenersi procedimento buono (ossia è da assumersi come norma) quello che si presenta come necessario e che in circostanze analoghe anche nel passato ha dato risultati buoni.
Il secondo principio è questo: ciò che nella storia si ripete costantemente ossia quel fattore che ritroviamo in più momenti e sempre con le stesse manifestazioni e con gli stessi risultati può diventare norma di azione per sempre in questo senso che la storia è maestra che fa conoscere certi procedimenti utili o nocivi quali si sono ripetuti tante volte e tante volte hanno prodotto gli stessi effetti. Tali procedimenti possono quindi diventare norma. Questo elevare a principio un procedimento che si ripete nella storia si chiama induzione o metodo induttivo.
Per poter indurre un principio della storia è necessario che nella storia si ritrovi un fattore costante o fattore comune che possa essere elevato a norma esemplare.
Qual è questo fattore comune che il Machiavelli individua costante nella storia?
E’ la psicologia umana: possono cambiare le circostanze, ma l’uomo resta sempre lo stesso. In forza del permanere del fattore umano è possibile indurre dall’enorme varietà della storia principi generali ed universali.
E’ il metodo sperimentale o induttivo creato dal Rinascimento (soprattutto difeso da Leonardo) che viene applicato alla politica.
Perciò la politica ossia l’arte di amministrare lo stato non trae più le norme dalla ragione e dalla religione come quando era una parte della Filosofia, ma trae solo norme dall’esperienza storica del presente e del passato. Così la politica cessa di essere una parte della filosofia e diventa una scienza sperimentale: una scienza politica a servizio di uomini che vivono nel mondo dei fatti, non nel mondo delle teorie.
Un politico filosofo può dettare le norme per un principe filosofo, ma un principe filosofo in mezzo a principi politici e realisti è destinato a soccombere e quindi le norme gli sarebbero date solo per rovinarlo.
Una scienza politica pratica dunque ossia una tecnica politica, che trae le norme dalla prassi (metodo di agire) di tutti i tempi, per uomini politici che operano nel campo degli affari.
Come si vede la storia, in questa concezione politica, diventa il campo sperimentale o di osservazione, da cui il tecnico trae le norme generali da proporre agli uomini di affari. La storiografia non è, secondo la concezione del Machiavelli, narrazione dei fatti condotta dallo scrittore con abilità descrittiva per dare prova delle sue capacità artistiche: non è più una specie di poema epico in prosa, quale per la storia di Livio e quale era la storia trattata dagli umanisti, ma è rievocazione dei fatti nella loro sostanza e soprattutto è meditazione nel significato e nel valore di quei fatti, esame di essi per conoscere gli errori o le virtù (abilità degli uomini che nel corso dei secoli hanno avuto la responsabilità di fondare, conservare, potenziare uno stato).
La storiografia come era intesa dagli umanisti dava allo scrittore la possibilità di far mostra della sua bravura nei più svariati generi letterari: infatti la rievocazione storica impegnava l’abilità descrittiva nella formazione del quadro di battaglie, di movimenti di eserciti, di assedi; impegnava l’abilità oratoria nella invenzione di discorsi che si supponevano fatti da questo o da quel personaggio; impegnava spesso anche la capacita lirica, in quanto in certi passi lo scrittore interpretava gli stati d’animo di individui e di masse e interveniva egli stesso a commentare i fatti con effusioni appassionate. Narratore, oratore, lirico è lo storiografo umanista o alla Livio.
La storiografia invece propugnata dal Machiavelli è soprattutto meditazione sui fatti.
Ad esempio, nel Principe egli fa le sue dimostrazioni non con ragionamenti, ma adducendo esempi storici. Supponiamo questo problema: come si riesce a pacificare una popolazione turbolenta? Quali sono i mezzi da adottare? Guardate quale procedimento ha seguito il duca Valentino nel pacificare la Romagna e saprete come si doma una popolazione turbolenta. Il Machiavelli ha scritto una storia vera e propria: ” Le storie fiorentine “, ma è da notare che degli otto libri i primi quattro non sono che una meditazione sulle varie costituzioni e i vari movimenti politici avvenuti in Firenze dall’origine del comune fino all’avvento di Cosimo dei Medici (1138), per far capire ai lettori come le varie vicende della città dovevano concludersi con l’instaurazione della Signoria. E il resto è utilizzato per mettere in evidenza come i Medici abbiano saputo sfruttare la situazione per affermarsi in Firenze. Ma l’opera che possiamo chiamare meditazione storica nel vero senso della parola sono i Discorsi sulla prima deca di Tito Livio.
Il metodo di erigere a norma generale o a principio universale un’azione che si è rivelata ricca di buoni effetti in ogni campo o in più campi ossia si è rivelata potenziatrice della vita individuale e collettiva, si chiama metodo pragmatistico (dal greco “prasso”= fare, agire); il pragmatismo è un movimento filosofico sorto nelle nazioni anglosassoni (affermatosi specialmente in America alla fine del sec. XIX), la cui sostanza è questa: un principio è vero non quando è di evidenza razionale (che tutti i ragionamenti sono astratti), ma quando applicato alla vita riesce a potenziarla in modo eccellente. Ad esempio: è immortale o e mortale l’anima dell’uomo? Ci sono due procedimenti per dimostrarlo: il procedimento razionale teorico e il procedimento pratico o pragmatistico.
Il primo, dicono i pragmatisti, lascia il tempo che trova e si conclude sempre con contraddizioni: cioè dopo aver ragionato, chi dice che l’anima è mortale e che dice che è immortale.
Il secondo tiene conto, dei risultati che possono derivare dall’applicazione di due principi opposti: quali risultati si hanno nel complesso del vivere, supponendo che l’anima sia mortale? Quali risultati si hanno nel vivere supponendo che l’anima sia immortale? Se applicando la seconda ipotesi la vita ne risulta più potenziata, la seconda ipotesi è vera.
E’ lecito, si domanda il Machiavelli, usare la frode in campo politico? Quando la frode è necessaria e ottiene buoni effetti e risparmia molti mali, è lecita (per ragionamento si dovrebbe concludere che non è mai lecita essendo intrinsecamente una cosa disonesta).
Un esempio: a Fabrizio che era in guerra con Pirro si presenta il medico di questi offrendo di uccidere il suo condottiero qualora gli fosse dato un compenso. Fabrizio, accettando, avrebbe concluso in un batter d’occhio la guerra: non lo fece perché la frode gli appariva disonesta. Fu un male perché i Romani dovettero combattere altre battaglie, perdere uomini, sprecare danaro, procurare infiniti mali alle popolazioni, ecc… .
Il metodo per la soluzione del problema italiano.
1.Si parte da questo principio: “salus publica suprema lex”.
Se la salvezza pubblica è legge suprema ogni altra legge viene meno (religiosa, morale, umana) di fronte ad essa: “La patria si deve difendere o con ignominia o con gloria ; e in qualunque modo è ben difesa.
Infatti quando si tratta della salvezza della patria, non si deve fare, alcuna considerazione né di giusto né di ingiusto, né di pietoso né di crudele, né di laudabile né di ignominioso, ma, messo da parte ogni altro criterio, si deve seguire quel partito che salvi la vita e le mantenga la libertà”. (Dai Discorsi).
Il bene pubblico è un fine per raggiungere il quale si può e si deve adottare qualsiasi mezzo.
2. La salvezza dell’Italia si potrà ottenere solo con la unificazione.
Alla unificazione bisogna giungere con qualsiasi mezzo. Se è necessario; vivere qualche giorno da diavoli per garantire un futuro di benessere spirituale e materiale, non ci si deve rifiutare a vivere in modo infernale (in una lettera al Guicciardini il Machiavelli scherzando diceva che la migliore strada per andare in Paradiso è quella che passa attraverso l’Inferno).
Oggi – dice il Machiavelli – si verifica questo stato di cose: guerre sopra guerre; con le guerre rovine materiali e morali. Perché dichiarare illecito l’uso di qualsiasi mezzo energico per unificare l’Italia e quindi liberarsi una buona volta da tutti quei mali? Per l’Italia ci vuole un chirurgo spietato che per qualche giorno si dimentichi di avere un cuore umano, di avere una religione, una morale e pensi soltanto ad essere un bravo chirurgo.
3. Ecco i mezzi per giungere alla fondazione di uno stato unitario e forte in
Italia. Secondo il Machiavelli le vie da seguire possono essere due: quella della persuasione e quella della forza: o tutti i principi per amore dell’Italia convinti di dover compiere una rinuncia per il bene di tutti, cedono il loro potere ad uno solo o un principe facendo uso di tutti i mezzi suggeriti dalla esperienza e dalla sua abilità o virtù elimina tutti i colleghi e si afferma unico signore d’Italia.
La via della persuasione è impossibile perché gli uomini sono costituzionalmente egoisti: nessun principe cederebbe il suo potere per il bene della nazione. Non resta allora che la via della forza (così Luigi XI ha unificato la Francia); lungo la via della forza è necessario far uso di questi mezzi:
a)- Un esercito ben organizzato (cioè secondo gli ordinamenti migliori creati dai Greci (falange), dai Romani (legione), dagli svizzeri (battaglione); un esercito costituito di cittadini e non di mercenari, un esercito nazionale insomma, perché chi combatte per la sua patria è ben diverso di chi combatte per il danaro; un esercito feroce, cioè animato di una audacia che passi sopra a tutto pur di raggiungere la vittoria.
b)- L’astuzia che risparmia perdite di tempo e soprattutto di energie (ricordare l’eccidio di Senigallia lodato dal Machiavelli).
c)- Potenziamento e utilizzazione di tutte le risorse psicologiche che rendono i cittadini spregiudicati e feroci: soprattutto utilizzazione dell’avarizia e della lussuria, che sono innate nell’uomo. Un soldato avido e lussurioso nell’assalto alle città non indietreggerà di fronte a nessun pericolo perché sa che cosa può trovare nella città conquistata. La religione Cristiana è poco adatta a formare il soldato fiero: è meglio quella pagana (primo libro dei Discorsi).
Il compito del principe non è quello di favorire l’elevazione morale dei cittadini, ma quello di rendere solido e inattaccabile l’organismo dello Stato: l’abilità del Principe e le risorse dei cittadini sono al servizio di questo ente assoluto che si chiama Stato. Il Principe dirige tutto il complesso delle attività che sono dirette alla creazione e alla fortificazione dello Stato: a lui come capo spetta la iniziativa e, come è naturale, anche la gloria del successo.
Il popolo non è una massa da educare, né il Principe un educatore: il popolo è una forza da utilizzare e il Principe deve individuare le risorse guerresche o bellicose del popolo, deve alimentarle e deve saper utilizzarle, anche se si tratta di passioni moralmente deplorevoli: l’essenziale è che siano utili. Il popolo dunque non conta nulla nella teoria politica del Machiavelli. Finché si tratta di risolvere il problema della unificazione del popolo italiano e della formazione dello stato forte, l’iniziativa spetta solo al principe: anche i Romani allorché urgeva un problema gravissimo affidavano il potere ad uno solo, cioè al dittatore.
Ma quando lo Stato forte si è costituito e si è ben avviato, è bene che anche il popolo sia chiamato a partecipare alla vita pubblica. Quindi dittatura assoluta nella fase della formazione dello Stato con il diritto per il principe di ricorrere a qualsiasi mezzo; dittatura moderata, una volta che lo Stato sia avviato, e uso di criteri più umani, più democratici.
d)- Spregiudicatezza morale.
Chi deve risolvere un problema gravissimo di natura politica, in cui è in gioco il bene di tutti, non deve avere scrupoli. Lo scrupolo genera incertezza mentre in momenti difficili bisogna agire con decisione. Il Principe liberatore stia tranquillo in coscienza, perché in politica ciò che è necessario è anche lecito; perché anche gli altri principi usano sistemi sleali; perché se la teoria è bella, bisogna pur riconoscere che la pratica è del tutta diversa dalla teoria e quindi esige norme particolari.
e)- Utilizzazione della fortuna.
Il Machiavelli parla della fortuna nel capitolo XXIV del “Principe”. Da uomo del Rinascimento maturo, egli concepisce la fortuna in modo nettamente realistico. Dante pensava che la fortuna fosse una ministra della Provvidenza, alle cui decisioni è impossibile contrastare. L’Alberti pensava che l’uomo abbia la capacità di domare la fortuna (Rinascimento giovanile e quindi ottimista). Il Machiavelli pensa che alla fortuna, cioè alla situazione impossibile a prevedersi, bisogna prepararsi con un buon esercizio di audacia e di prudenza: quando è favorevole, bisogna sfruttarla fino in fondo, con estrema decisione; quando è sfavorevole bisogna essere prudenti, aver pazienza, in attesa che venga il momento buono.
Ad ogni modo quando si formula un piano di azione è necessario prevedere anche i fattori sfavorevoli che potrebbero sbarrare il cammino per volontà della fortuna. Il duca Valentino aveva condotto quasi a conclusione il suo piano di unificazione dello stato pontificio; quando era nel più bello, morì il babbo suo Alessandro VI ed egli non aveva preveduto questa possibilità, e dovette assistere alla dissoluzione quasi improvvisa del suo piano.
f)- Utilizzazione dell’esempio altrui.
Di qui la necessità che il principe conosca bene il mondo in cui vive e il mondo in cui hanno operato i grandi del passato, ossia è necessario che egli conosca bene la storia del tempo suo e la storia antica.
La forma del Machiavelli.
La spiritualità del Machiavelli, come s’è visto, è solida chiara e appassionata. Solida perché poggia sull’esperienza ed è tutta riversata sulla prassi degli affari. Chiara perché domina la materia con la padronanza del tecnico intelligente ed esperto. Appassionata perché il mondo degli affari costituisce la sostanza del suo vivere: fuori di quel mondo egli ha l’impressione di morire. Su tutti i grandi scrittori la forma è strettamente connessa con la spiritualità, ossia è il modo con cui la spiritualità stessa si sviluppa; solo gli scrittori minori prendono in prestito la forma da questo o da quell’indirizzo letterario, non essendo capaci di crearne una propria. Quindi, in corrispondenza con la spiritualità, la forma del Machiavelli sarà concreta, chiara e appassionata:
a)- Concreta. Egli procede nelle sue dimostrazioni non in modo astratto, cioè con argomenti teorici-razionali, ma adducendo di continuo i fatti come prova delle sue asserzioni. E’ un modo di dimostrare proprio degli uomini di affari, assai interessante, perché strettamente legato con la vita, quel continuo rifarsi alla storia, alla psicologia umana, alla sua esperienza personale conferisce al trattato (che di per sé è pesante e noioso e interessa soltanto gli specialisti) un interesse vitale che attrae l’attenzione anche della gente la quale non si interessa di politica. L’astrattezza propria del trattato che in genere procede col metodo espositivo e razionale o scientifico (pensare ad un trattato di Fisica o di Filosofia), è superata trionfalmente dal Machiavelli, perché egli trasferisce nella sua esposizione la vita vissuta e i principi vengono enunciati dopo l’esame della vita, dopo la critica, dopo la polemica e assumono quindi il significato non di un pensiero astratto, ma di uno stile di azione. Abolisce i principi astratti o teorici, sostituisce ad essi i principi concreti o indotti dalla esperienza; e sono talmente collegati con la vita che non sembrano principi ma forme del vivere.
b)- Chiara. Il Machiavelli procede con la precisione del tecnico a cui non è ignoto alcun segreto della sua arte. Perciò quando dimostra esemplificando ovvero conclude una meditazione, si nota nella sua indagine la precisione del richiamo e della formulazione del principio.
Sono note le sue sentenze decise e vibrate: “I profeti armati trionfano, i profeti disarmati ruinano”; “Chi vuol fare la parte di buono infra tanti cattivi conviene che ruini”. “Questo si può dire degli uomini: che sono cupidi, avidi di guadagno, fedeli quando li benefichi, sleali quando li metti alla prova”; “I problemi che riguardano la salvezza della patria non ammettono altro criterio di soluzione che quello della salvezza di lei”.
c)- Appassionata. Alla esposizione interessante per la sua adesione alla psicologia umana e alla prassi della storia, il Machiavelli aggiunge sempre il commento suo appassionato: appassionato della sua arte, appassionato della sua patria. Di qui il lirismo che pervade particolarmente il Principe e i Discorsi, che sono tra le sue meditazioni quelle più profonde e più sentite.
Il linguaggio del Machiavelli.
Parlando del linguaggio che egli adotterà nel Principe, dice così: “La quale opera io non ho ornata né ripiena di clausole ampie (cioè di periodi chiusi secondo un procedimento ritmico costante) o di parole ampullose e magnifiche o di qualunque altro lenocinio (attrattiva) o ornamento estrinseco, con le quali molti sogliono le loro cose descrivere e ornare perché io ho voluto che veruna cosa solamente la varietà della materia e la rarità del soggetto la faccia gradita”. Si nota in queste parole la mentalità dell’uomo di affari per il quale la parola non ha funzione decorativa, ma funzione utilitaria, cioè serve ad esprimere il concetto con chiarezza e precisione. Di qui il linguaggio del Machiavelli logico, preciso, chiaro, essenziale.
a)- LOGICO. Il periodo è di straordinaria complessità, molto simile a quello latino per la struttura (perché il periodo latino è di una straordinaria architettura logica, cioè strutturato secondo la funzione principale o secondaria dei concetti in esso espressi): tale periodo si adatta egregiamente alla struttura salda del suo ragionamento sostanziato di fatti e di riflessioni. Il vocabolario talvolta è desunto dal fiorentino vivo, quasi familiare; altre volte è desunto dal vocabolario latino: le forme vive sono richieste dalla sua spiritualità di uomo di affari; le forme dotte sono richieste dalla sua spiritualità di scienziato.
b)- PRECISO. E’ proprio dei tecnici la precisione dei termini. Abituati come sono a veder chiaro nei fatti e nelle idee, quasi per istinto ricercano la parola che dice e non la parola che suona.
c)- CHIARO. Nonostante la complessità, il linguaggio del Machiavelli è abbastanza chiaro, perché riflette una spiritualità la quale, se è complessa, non è certo complicata o artificiosa.
d)- ESSENZIALE. Gli uomini di affari non hanno tempo da perdere; perciò le belle parole, i giochi di abbellimento del discorso, le frasi condite, non sono ad essi abituali: le parole sono tante quante se ne richiedono per esporre con precisione e con chiarezza.
Forma Essenziale
Il Machiavelli ha la mentalità dello scienziato e dell’uomo di affari; perciò dai suoi ragionamenti esulano le considerazioni dottrinarie, le divagazioni artistiche.
Non si trova mai infatti nel Machiavelli un’impostazione dottrinaria o un’argomentazione sottile, che gli procuri la fama di filosofo: non solo non aspira a questa fama, la detesta perché chi è filosofo nella vita pratica “ruina”. Similmente non si trovano nel Machiavelli le belle descrizioni che tanto piacciono agli umanisti: le belle descrizioni egli le lascia agli oziosi, a quelli che vogliono interessare più con le chiacchiere che con i fatti. Eliminate le divagazioni dottrinali, eliminati i pezzi di bravura descrittiva, resta un procedimento essenziale, cioè una dimostrazione per fatti e per idee concrete.
Conclusione.
Il Machiavelli, autore di trattati, viene citato nella storia della Letteratura Italiana, ossia nella storia dei grandi scrittori, ossia dei poeti. Poesia infatti significa composizione bella; e siccome la composizione può essere in verso o in prosa, nulla impedisce che sia chiamato poetico anche un trattato.
Sembrava che il trattato fosse eternamente escluso dal mondo della poesia, a causa proprio della sua natura: cioè di opera espositiva e non rappresentativa, cioè di opera che ragiona e non descrive.
Il pensare che il trattato non possa mai giungere al piano dell’arte non è giustificato in nessun modo, anzi è collegato con un pregiudizio: cioè che sia poeta solo chi narra o descrive o esprime con immediatezza lirica i suoi stati d’animo. Poesia consiste nel dire bene quello che si deve dire per illustrare a fondo la vita o il significato di un motivo.
E’ poeta l’oratore che con concretezza, con chiarezza, con precisione esprime i concetti e i sentimenti che meglio incarnano il significato del tema che tratta.
Non è detto perciò che non possa far poesia anche uno scienziato o un politico: l’essenziale è che dica cose profonde e le dica bene.
Possiamo allora senz’altro definire il Machiavelli poeta degli affari politici, poeta della scienza politica e della passione patriottica.
Riflessi del Rinascimento nel pensiero del Machiavelli.
a)- La concretezza dell’indagine che si manifesta nel proposito di abolire i principi teorici e di sostituirli con principi pratici.
b)- Il gusto per la costruzione grandiosa e armonica che si manifesta nella figurazione machiavellica dello Stato unitario e forte.
c)- Il concetto di virtù inteso come abilità.
d)- La distinzione tra morale teorica e morale pratica.
e)- La sopraelevazione delle attività terrene quasi che il fine della vita si limiti all’altezza terrena.
f)- Il riflesso dell’umanesimo maturo che tende a trarre dagli antichi oltre che lo stile solido e chiaro anche e soprattutto le norme del vivere.
g)- La tendenza ad affermare la personalità forte che nel Machiavelli si concreta nella personalità del Principe e nella personalità quasi divina dello Stato nazionale.
h)- L’utilitarismo che nel Machiavelli è elevato a norma suprema nel campo della vita politica (utilitarismo pubblico).
Giudizio intorno al Machiavelli.
Il Machiavelli è stato considerato maestro indiscusso da tutti i sostenitori dello Stato etico (cioè dello Stato concepito come fonte di diritto morale, ossia dello Stato che, ente assoluto non ricava norma né dalla religione, né dalla morale, né dalla Filosofia, ma crea la norma di azione in base ai suoi bisogni e ai suoi interessi):
1. Anzitutto notiamo che non sono i cittadini per lo stato, ma lo stato per i cittadini: il fine dell’uomo non è quello di contribuire solo ed unicamente al potenziamento dello stato, ma è soprattutto quello di realizzare il suo perfezionamento attraverso la sua elevazione materiale e spirituale e perciò lo stato non può e non deve considerare i cittadini come mezzo per realizzare il suo potenziamento, ma deve considerarsi come saggio amministratore dei beni morali e materiali di essi.
Pensare che il Principe debba svolgere semplicemente una funzione militare e non abbia invece anche una funzione educativa significa valorizzare il Principe militarista, considerare l’azione come una caserma, e negargli quella mirabile caratteristica umana di saggio amministratore dei beni della nazione. Con questo non si vuol dire che il compito di fortificare o difendere lo stato non sia uno dei più importanti tra quelli che aspettano al Principe, si vuol soltanto dire che oltre a quello ce ne sono anche altri: provvedere all’istruzione del popolo, promuovere le arti, favorire le attività economiche.
Qualcuno potrebbe dire che il Machiavelli non nega che il Principe debba esercitare anche questa attività o meglio che, una volta garantita la sicurezza dello Stato siano queste le attività che il Principe deve esercitare. Ma a dire il vero su queste attività il Machiavelli insiste poco e se talvolta ne parla, lo accenna solo come attività secondaria destinata ad affinare e a rinforzare l’attività principale che è quella militare ad esempio: il primo libro dei Discorsi, parlando della Religione egli afferma che non la religione vera deve essere favorita dal Principe, ma quella che meglio contribuisce a creare il soldato indomito e fiero; per cui pur avendo belle parole per la Religione Cristiana, alla fine viene a concludere che per uno Stato forte è preferibile la religione pagana.
2. Il Machiavelli sembra spesso confondere l’energia con la crudeltà, la prudenza con l’astuzia, la forza con la violenza. Ad esempio esaminando il problema se il Principe debba preferire essere amato o essere temuto essere umano o essere crudele, egli dice senz’altro che è bene essere temuto e crudele: non sarebbe meglio dire che deve essere energico, perché in verità senza energia non si riesce a mantenere la disciplina.
Un altro esempio: egli dice che vivendo il Principe in un mondo di sleali deve essere anche egli sleale: non sarebbe meglio dire che vivendo in un mondo di sleali è opportuno e doveroso essere prudente?
3. Qualcuno afferma che il Machiavelli è un personaggio tragico: si porterebbe infatti, secondo costoro, nell’animo suo un drammatico disagio, dovuto alla necessità di dover scegliere non quello che si dovrebbe fare, ma quello che si fa, non per norma morale a cui egli sinceramente crede, ma la norma imposta dal duro gioco della vita.
Insomma il Machiavelli sarebbe una specie di eroe che appassionato dell’ideale, ma costretto per il bene della patria a scegliere la norma dell’utile ad ogni costo, potrebbe paragonarsi a Bruto Maggiore che represse il suo sentimento di padre e fece prevalere, drammaticamente, il suo sentimento di romano. A questa affermazione rispondiamo che il Machiavelli in nessun passo della sua opera rivela questo disagio: anzi si compiace (vedi cap. XV) di sostituire al metodo della teoria la lui svalutato come vano ed ozioso il metodo effettuale non quello che si dovrebbe fare, ma quello che comunemente si fa, deve regolare la prassi. Questa compiacenza assai evidente smentisce il sospetto di qualsiasi crisi nell’animo del Machiavelli.
4. Esaminiamo in particolare il modo con cui egli risolve il problema italiano. Parte dal principio: “Salus publica suprema lex” (che viene specificato in quella affermazione: per la salvezza ogni mezzo è lecito): principio sbagliato, perché lo Stato è un ente assoluto come si è detto nel primo punto: prima dello Stato c’è l’uomo e prima dell’uomo c’è Dio che ha stabilito un ordine morale che bisogna rispettare. Egli afferma che per risolvere il problema italiano non ci sono che due mezzi: o quello di persuadere i principi a cedere l’autorità ad uno solo (e questo egli lo scarta perché il metodo della persuasione è infruttuoso a causa dell’egoismo umano) o quello della violenza e dell’astuzia. A questa affermazione notiamo:
a)- anzitutto è ingenuo pensare che i vari principi italiani vedendo il Principe liberatore eliminare uno dopo l’altro i suoi colleghi, avrebbero atteso tranquillamente il loro turno; e non piuttosto sarebbero collegati tra di loro magari con gli stranieri contro di lui;
b)- in secondo luogo è inesatto (e glielo farà notare il Guicciardini) paragonare il compito di un principe italiano a quello di Luigi XI che in Francia instaurò l’unità dell’assolutismo. Luigi XI salì al potere al termine della guerra dei cento anni: da cento anni in Francia c’era un esercito nazionale, per cento anni i Francesi avevano combattuto per la patria e quindi avevano già una coscienza nazionale; e al termine della guerra la maggior parte dei feudatari o erano morti o erano in miseria. In Italia invece si doveva cominciare tutto da capo. Dunque il paragone non tiene;
c)- in terzo luogo tra le vie proposte dal Machiavelli ve ne è un’altra: quella di diffondere in mezzo al popolo l’idea dell’unità, di creare in esso una coscienza nazionale.
E questo compito spettava proprio agli scrittori, ma a quel tempo gli scrittori erano al servizio dei principi: Machiavelli stesso era al servizio dei grandi e considerava il popolo come volgo.
Nell’ottocento quando si decise di realizzare il progetto dell’unificazione dell’Italia gli scrittori uscirono dalle corti, dalle Accademie, dai circoli letterari e scesero in mezzo al popolo: i romantici rinunciarono alla gloria di scriver bene e si contentarono di scrivere in modo comprensibile ai lettori di media cultura cioè al popolo. E quando il popolo entrò, nella storia, il progetto dell’unificazione dell’Italia fu realizzato.
LUDOVICO ARIOSTO
(1474-1533)
L’ambiente
L’ambiente generale in cui vive l’Ariosto, cioè l’ambiente del Rinascimento del primo ‘500: Rinascimento maturo.
L’Ariosto è un esponente del Rinascimento maturo insieme al Machiavelli e al Guicciardini.
L’uomo del Rinascimenti maturo è caratterizzato:
a)- Da vasta esperienza di uomini e di cose.
b)- Da una capacità eccellente di controllare e di armonizzare i vari motivi della vita. Chi ha esperienza infatti degli uomini e delle cose e riesce a superare la realtà e guardandola da un punto di vista superiore riesce a coglierla nel suo intrico e nei suoi infiniti legami.
L’uomo di esperienza non solo conosce i modi del vivere umano, ma conosce anche le cause che li generano e le conseguenza che da essi derivano.
Esperienza fatta è esperienza superata; per questo motivo l’uomo esperto vuol superare la realtà e può quindi controllarla nei suoi particolari e nel suo complesso, può insomma rendersi conto dell’intricatissimo e mirabile giuoco della vita.
c)- Da uno stile sereno e pacato, talvolta freddo. Infatti chi ha sperimentato la vita l’ha superata e chi ha superato la vita non si appassiona più per nessuna forma di essa: la contempla con animo distaccato, sorride bonariamente delle forme di vita esagerate; si compiace, senza entusiasmi però, delle forme moderate e sensate. Ama quanto di bello e di buono offre la natura e ne gode moderatamente. Quando parla si esprime non con foga, ma con moderazione, con precisione e con spontanea genialità.
d)- Da un modo di valutare uomini e cose secondo criteri pratici, particolarmente in base al criterio dell’utilità e del decoro.
I criteri di giudizio proposti dalla religione e dalla filosofia sono considerati eccellenti, ma inadatti alla prassi della vita vissuta. E’ buono ciò che è sensato, utile, gentile, umano, è spregevole ciò che è stolto, rozzo, disumano, triviale. Si tratta di una moralità schiettamente umana che, sebbene non abbia nessuna impronta soprannaturale, tuttavia è amabile per la sua “aurea mediocritas” come direbbe Orazio (cioè per la sua moderazione).
e)- Da descrizione e grazia, cioè capacità di capire le situazioni e di utilizzare nel modo migliore le risorse; e nello stesso tempo stile pacato, corretto e cordiale nel modo di agire e di parlare: potremmo dire intelligenza, discrezione e finezza. Il gentiluomo che è il tipo di perfezione rinascimentale (presentato da Baldassar Castiglione nel “Cortigiano”) presenta come doti essenziali la discrezione e la grazia.
La situazione politica del primo ‘500 è straordinariamente confusa e per l’Italia addirittura drammatica e spesse volte tragica. Questa situazione interessa soprattutto per inquadrare bene il Machiavelli, ma può anche spiegarci alcuni atteggiamenti spirituali dell’Ariosto.
Dopo la discesa di Carlo VIII (1494) si ha una serie quasi ininterrotta di guerre: gli Asburgo (padroni della Germania e della Spagna e dell’Impero coloniale americano) e la Francia lottano per il primato in Europa. L’Italia è terra contesa fra i due nemici. I principi italiani invece di pensare alla salvezza dalla nazione parteggiano o per la Francia o per l’Imperatore affinché con l’aiuto dell’una o dell’altra persona realizzare certi loro sogni egoistici. Eserciti francesi, svizzeri, spagnoli, germanici (alemanni), bande mercenarie delle varie regioni italiane quasi ogni anno percorrono la penisola fino al 1503.
Il popolo italiano guarda con indifferenza questo rincorrersi e scontrarsi di eserciti; conosce ed ammira con curiosità i più bravi capitani del tempo, così come oggi il pubblico si interessa dei campioni dello sport. Giovanni dalle Bande Nere, il Marchese di Toscana, Gastone di Foix, Bagliardo (cavaliere francese), Francesco I, Alfonso I d’Este, sono personaggi rinomati e ammirati come persone che ci sanno fare, che sanno ben giocare nel triste gioco della guerra.
Il popolo subisce i gravi danni della guerra, ma le impressioni negative del grave flagello sono compensate dalla curiosità che desta la interessante iconografia dei combattimenti; insomma si assiste alla guerra come ad una specie di gioco, e i grandi condottieri non si mostrano mai feroci: ci tengono a far la figura di bravi cavalieri ( da ricordare la generosità di Carlo V che fa prigioniero Francesco I; la famosa espressione di questo ultimo :”Tutto è perduto fuorché l’onore”, l’intervento delle dame nel chiasso tragico delle armi: pace delle due dame).
L’ambiente particolare, cioè l’ambiente della corte ferrarese.
La corte estense raccoglieva i tre fattori essenziali della cavalleria rinascimentale: culto delle armi, culto della bellezza, culto dell’arte. Audaci imprese, cortesia, amori e gentilezze, piacevoli conversazioni, costituivano la sostanza della vita nella corte ferrarese: corte militaresca (Alfonso I è uno dei migliori artiglieri d’Italia), corte di belle donne (Lucrezia Borgia era moglie di Alfonso), corte di intellettuali (da ricordare il Boiardo, l’Ariosto ed il Tasso).
La vita di corte in generale nel ‘500 è a noi nota attraverso l’opera del Castiglione “Il cortigiano”. Nella corte si trovavano gentiluomini, nobildonne, letterati, musici, artisti che o vi dimoravano costantemente o solo di passaggio. Si tratta di tutta gente scelta e raffinata: alcuni affinati dalla educazione nobiliare (concentrata nella formazione del gentiluomo, secondo l’indirizzo di Vittorino da Feltre e di Pico della Mirandola), alcuni affinati dall’esperienza della vita di corte e da una discreta cultura, altri affinati dall’esercizio costante delle lettere e delle arti, dall’esperienza della vita e dal costante proposito di realizzare in sé stessi gli esemplari della letteratura e dell’arte greco-romana. Virgilio, Orazio, Tibullo, Ovidio, Livio, Cicerone, sono i personaggi che i poeti assumono come modelli non solo nell’arte ma anche nel modo di comportarsi con i Principi protettori. Anche le dame sono colte e nell’ambiente signorile esse costituiscono lo spettacolo più bello e più simpatico.
Durante la giornata ognuno attende ai suoi lavori: il poeta e il musicista a comporre; il pittore, lo scultore, l’architetto ad eseguire i loro lavori; i gentiluomini ai compiti amministrativi e agli affari politici; i militari alle esercitazioni belliche; le dame alla toilette e ai lavori femminili, talvolta alla lettura e alla composizione poetica o artistica.
Alla sera quando si adunava il circolo ognuno aveva modo di far mostra delle proprie capacità e della propria genialità: poeti, pensatori, musicisti, intenditori di arte, politici, moralisti avevano modo di gareggiare tra loro in acutezza e finezza di pensiero e di espressione. Si tratta di un ambiente estremamente evoluto in cui si fa fortuna soltanto se si hanno le seguenti doti:
– genialità vivace e brillante per eccellere nell’invenzione bella ed utile;
– conoscenza della vita e diligente aggiornamento per non apparire arretrati;
– chiarezza, precisione e signorilità di linguaggio;
– correttezza, finezza e grazia nel modo di trattare e nel portamento;
– discrezione, cioè moderazione, buon senso, abilità in tutte le espressioni della vita.
Ambiente estremamente impegnativo dunque per tutti e massimamente per gli artisti ai quali spettava il compito di tenere deste le conversazioni e di far vivere nell’ambiente l’ideale nelle sue forme più pure, più nitide e più decorose.
E’ questo il motivo per cui nel Rinascimento ci sono numerosissimi letterati ed artisti e tra essi molti sono eccellenti. Le corti avevano bisogno di poeti, di pensatori, di scienziati, di musicisti, di architetti, scultori e pittori sia per tenere elevato il tono dell’ambiente, sia per garantire eternità alla famiglia principesca attraverso le opere dei geni da essa protetti. Gli artisti d’altra parte o erano ingegni superiori o erano ingegni medi: gli ingegni superiori gareggiavano fra loro per superarsi o vigilavano per non copiarsi; gli ingegni mediocri si sforzavano di imitare i maggiori per non fare brutta figura. Così nel mondo delle lettere e delle arti troviamo una schiera numerosa di persone che sanno il fatto loro e lavorano con eccellente capacità, con originalità, e con ampiezza e complessità di disegno. Non ci si contenta più dell’opera graziosa, ma di modesta struttura, come nel ‘400: ora i grandi ingegni procedono alla combinazione del grandioso e del bello: solo in questa combinazione infatti si saggia la capacità di una persona, il ‘400 amava la grazia che normalmente va unita al piccolo; il ‘500 ama il decoro e la magnificenza che vanno unite con il grande.
Vediamo ora la moralità dell’ambiente cortigiano. Il principio base della moralità nelle corti è costituito da un naturalismo sano e signorile: esprimere tutte le energie di natura, sia fisiche che spirituali, in modo decoroso e moderato con grazia e discrezione.
Sulla base di questo precetto vengono enunciati i seguenti principi:
a)- Il gentiluomo è sempre corretto: la promiscuità non deve essere considerata come occasione per sfogare gli istinti più volgari, ma per saggiare la propria capacità di autodisciplina e il grado della propria gentilezza.
b)- Il gentiluomo non deve mai né sentire, né esprimersi in modo passionale e impulsivo: deve riuscire a moderare i suoi sentimenti e le sue parole: tono o stile composto e quasi olimpico.
c)- Il gentiluomo non deve mai dimostrarsi eccessivamente entusiasta, ottimista, fiducioso, né eccessivamente triste, pessimista e sfiduciato: deve essere sempre sereno. Le persone primitive piangono troppo o ridono troppo: ci vuol moderazione e capacita di controllare gli eventi.
d)- Buono è tutto ciò che è gentile, moderato, intelligente, armonico; cattivo è tutto ciò che è scorretto, eccessivo, rozzo, maligno. Dice il Bembo che il bello è il circolo di cui è centro il buono; e osa affermare che i brutti sono anche maligni. Il bello, cioè l’armonia, diventa dunque per i Rinascimentali anche criterio morale (concetto accettabile a meno che non si voglia giustificare con il bello anche l’illecito fatto con arte).
Spiritualità dell’Ariosto.
Esaminiamo anzitutto i fattori che contribuiscono alla formazione spirituale di una persona: indole, vicende della vita con relative esperienze, cultura.
Indole. L’Ariosto ebbe dalla natura un’indole curiosa di conoscere uomini e cose, pacifica cioè aliena dalle provocazioni e dalle vendette, serena nell’affrontare le difficoltà e nel sostenere i disagi, bonaria nel giudicare i difetti umani, riflessiva ma aliena da complicazioni problematiche, amante del semplice, del chiaro, del bello e del decoroso. Non si nota affatto in lui la tendenza ad assumere atteggiamenti da eroe e da moralista o da filosofo o da politico: nessun tono chiassoso o clamoroso, ma innata predilezione per il tono calmo e medio.
La vita.
La vita dell’Ariosto fu abbastanza movimentata, ma niente affatto drammatica e tanto meno tragica. La sua indole, naturalmente onesta e buona e sinceramente affettuosa, gli permise di affrontare i suoi doveri di capo di famiglia con eccellente impegno: i suoi fratelli e le sue sorelle trovarono in lui un padre diligente e laborioso ed egli non si diede mai le arie né mai assunse l’atteggiamento di persona perseguitata dalla sventura o inasprita dall’eccessivo lavoro.
Bonario ed arguto com’era tollerò le bizzarrie del cardinale Ippolito che egli servì con fedeltà, ma senza entusiasmo e senza ribellioni. Compì il dovere perché la vita glielo presentava come una necessità a cui non si può né si deve sfuggire a meno che non si voglia vivere vergognosamente nell’ozio e con lo stile dei parassiti: il parassitismo è cosa indegna di una persona sincera ed onesta. Ebbe incarichi di ambasceria illustri e fu anche governatore della Garfagnana. Mai si vantò di simili incarichi, né aspirò a raggiungere posizioni di predominio. Egli ebbe da natura e rinvigorì con l’esercizio la capacità di guardare con distacco se stesso, le vicende della sua vita, gli uomini che lo circondavano e quindi di poter comprendere, compatire gli altri ed anche sé stesso. Fiorisce perciò costantemente sulle labbra dell’Ariosto il sorriso della persona bonaria ed arguta. Egli ad esempio era ardentemente innamorato di Alessandra Benucci: non scrisse per lei, nessuna lirica, temendo di apparire troppo innamorato e non volendo, come avevano fatto tanti altri poeti amorosi precedenti, né gridare per la gioia, né piangere per la disperazione.
Nell’introduzione all’Orlando egli accenna al suo amore: “Se da colei che tal quasi m’ha fatto che il poco ingegno ad ora ad ora mi lima, me ne sarà però tanto concesso, che mi basti a finir quanto ho promesso”.
Non bisogna prendere queste parole alla lettera, perché il poeta nella introduzione ci presenta tre figure di matti: Agramente furioso, perché mosso dallo spirito di vendetta, Orlando furioso per amore, lui stesso in pericolo di perdere la testa: ma non la perderà perché sa controllare il suo cuore e sa sorridere nelle sue furie amorose. Passò dunque la sua vita esercitando l’attività di segretario, di ambasciatore, di governatore attendendo alla composizione poetica, coltivando affetti sinceri e moderati con uno stile costantemente superiore e sereno.
La composizione dell’Orlando Furioso e delle altre opere gli richiese molto lavoro e molto sacrificio; aveva bisogno di tempo per fantasticare tranquillamente; e il tempo troppo spesso gli mancava a causa del suo servizio. Tuttavia trova sempre il modo di raccogliersi nell’intimo del suo spirito e di attendere al lavoro agile e piacevole della sua fantasia. Forse la qualità a cui egli maggiormente teneva era quella di artista: eppure non si vantò mai di essere poeta. Se nel canto trentacinquesimo esalta i poeti “che non sian del nome indegni” e rimprovera i signori che non li proteggono non bisogna credere che egli sia entusiasta dei poeti; infatti nello stesso passo presenta i letterati come alleati dei birbanti o almeno come un po’ imbroglioni. Se Nerone si fosse fatto amico qualche poeta, sarebbe passato alla storia come galantuomo; Augusto che fece uso della proscrizione fu connivente con Antonio nella uccisione di Cicerone è passato alla storia come santo e benigno solo perché come tale lo ha presentato ai posteri Virgilio.
Soprattutto la vita di corte dovette costituire per Ariosto un ottimo tirocinio di esperienze e di superamento di esse: abbiamo visto che “l’aurea mediocritas”, lo stile arguto e fine costituivano la sostanza del costume cortigiano; e all’Ariosto fu senza dubbio facile superare tutti gli altri colleghi di corte, essendo stato da natura fornito di eccellente capacità da controllare sé stesso e gli altri.
La cultura. Tutte le facoltà dello spirito dell’Ariosto furono vivaci: intelletto, sentimento, volontà, fantasia, ma quest’ultima ebbe una vivacità superiore. Per questo più che altri studi lo attrassero le lettere e nel campo delle lettere più che la lirica o la poesia didascalica lo attrassero i generi letterari che esigono maggiore capacità fantastica: il poema epico e cavalleresco; il teatro nella sua forma più gioviale che è la Commedia.
In questo predominio della fantasia, l’Ariosto non volle seguire gli studi giuridici come avrebbe voluto suo padre, né mai si preoccupò di questioni filosofiche e teologiche o morali o politiche: più che pensare gli piaceva inventare con la fantasia. Della letteratura classica apprese quanto gli era sufficiente per conoscere quanto avevano fatto gli antichi specie nel campo della poesia narrativa. Perciò non studiò mai il greco; e se da giovane compose alcune liriche in latino, del resto eccellenti, non ebbe mai per queste lingue una vera e propria passione.
Si nota in lui il riflesso dalla spiritualità umanistica giunta alla fase di maturazione; la cui affermazione fondamentale è questa: basta con lo studio filologico e formale dei classici; è ora di lavorare secondo le esigenze dello spirito moderno utilizzando con ampia libertà e con discrezione gli esempi degli antichi. Anche Erasmo di Rotterdam a quei tempi propugnava un umanesimo più pratico e più positivo, più vitale, in base a questo principio: lo studio umanistico serve a formare una cultura: la cultura serve per pensare e vivere degnamente e per comporre meglio quando si è ispirati dal cuore.
Anche l’ambiente cortigiano contribuì a convogliare l’attività culturale dell’Ariosto verso la poesia narrativa: infatti nelle corti uno dei passatempi preferiti era quello di ascoltare piacevoli narrazioni di avventure in cui apparissero dame e cavalieri nelle forme o della perfezione rinascimentale per essere ammirati come esemplari o nelle forme della imperfezione (rozzezza, eccessività) per essere deplorati.
Il mondo dell’Orlando furioso fu inventato nella sua trama generale e nei suoi particolari proprio con l’intento di presentare a quella gente esperta che erano le donne e i cavalieri della corte, le situazioni, i tipi e le complicazioni più svariate che si possano pensare nel gioco della vita. Né è da trascurare il fatto che l’Ariosto visse nella corte di Ferrara ove il Boiardo pochi anni prima aveva composto l’Orlando Innamorato: tale opera era piaciuta alla corte e perciò si poteva continuarne la trama fino a nuove conclusioni.
L’Ariosto non esitò a riallacciare il suo racconto a quello del Boiardo: un altro forse per non apparire imitatore avrebbe evitato tale ricongiungimento; ma all’Ariosto, spirito superiore, questi scrupoli dovevano apparire senz’altro piccinerie e non esitò affatto a continuare la trama dell'”Innamorato”.
Motivi della spiritualità ariostesca.
Concezione del reale e della vita. L’Ariosto non approfondì problemi filosofici e teologici; perciò non ebbe una visione religiosa o filosofica del reale, ben chiara e ben definita. Dell’uomo, del mondo e di Dio, pensò quello che per tradizione pensavano gli Italiani: una visione della realtà che potremmo definire comune. Non solo non nega il valore della religione cristiana, ma la riconosce apertamente; tuttavia il problema religioso non lo interessa molto o almeno egli non vi si impegna a fondo.
Per quanto riguarda la prassi della vita come culto dell’ideale, l’Ariosto si mantiene aderente all’esperienza: gli uomini servono i propri impulsi e gli ideali. Sia nel campo cristiano come in quello morale i cavalieri trascurano i propri doveri patriottici e religiosi per seguire i loro segreti impulsi e se combattono sotto le bandiere contrassegnate o dalla croce o dalla mezzaluna lo fanno più per mettere in evidenza quanto sono bravi che non per servire l’ideale. Tutti gli uomini pressappoco sono così, e l’Ariosto non si sdegna di questo, ma sorride bonariamente: del resto anche egli è come gli altri; ed egli sorride anche di sé stesso. E’ evidente sotto questo atteggiamento una specie di negligenza spirituale di indifferentismo senza punte polemiche, ma mondano abbastanza. All’Ariosto questo atteggiamento di superiorità svagata (del resto come a tutte le persone colte di allora) nei confronti dei grandi problemi dell’uomo, della vita e del reale, doveva apparire come forma liberale dello spirito, cioè come forma superiore alla grettezza, al confessionalismo (professione di una data religione), alla pedanteria, al settarismo della gente troppo religiosa: una forma simpatica da opporsi al fanatismo. In particolare questa è la concezione della vita che ha l’Ariosto:
– godere serenamente i doni della natura evitando però la rozzezza e l’eccessività.
– contemplare il gioco vario e piacevole dell’esistenza umana con distacco ed imposizione di superiorità, senza abbandonarsi a giudizi aspri e a polemiche, ad entusiasmi e a malinconie.
– dare saggio dalle proprie capacità componendo opere di ingegno e di arte facendo prove di valore utilizzando con abilità le situazioni per affermare la propria personalità.
Come vede la vita l’Ariosto.
Egli vede la vita come un gioco complicato e sempre nuovo, come moto incessante di svariate forze che si intrecciano, si combinano, si respingono, si disperdono, si affermano. Tali forze sono le seguenti:
a)- Gli impulsi che, secondo la concezione naturalistica rinascimentale, non possono e non debbono esser repressi, perché sono la sorgente stessa della vita ossia del moto.
Gli impulsi più vivaci sono i seguenti: l’amore inteso come godimento del bello e del piacevole; amore gentile e cavalleresco (Bradamante e Ruggero, Brandimarte e Fiordiligi, Isabella e Leone e Bradamante e Zerbino) amore che scervella soprattutto gli inesperti (Orlando), amore capriccioso (Angelica e Rinaldo); amore incontenibile (Angelica e Permedoro); amore geloso e dispettoso (Marfisa); amore fiero e centauresco (Rodomonte e Isabella: lui spaccamontagne e forzuto, lei umile e fragile); amore voluttuoso (Aleina e le sue vittime); amore infelice (Olimpia e Bireno) L’unico personaggio che non ama è Astolfo perché convoglia tutte le sue energie verso l’avventura che lo impegna e che lo assorbì e non gli permette di pensare alle donne. Quando l’amore raggiunge la sua meta, cioè si concluda nel matrimonio, sembra venir meno la sua energia di moto: tanto è vero che dell’Orlando (che si può definire il poema del moto perpetuo) Angelica allorché è sposa esce dall’intreccio e non ricomparisce più. E’ questo un concetto caratteristico della mentalità mondana: il matrimonio affievolisce l’amore; e l’Ariosto da smaliziato uomo di mondo sembra convinto di ciò.
b)- Il senso dell’onore che si manifesta come azione sia per difendere che per affermare la personalità propria o quella del casato. L’onore della propria religione si difende solo in quanto l’offesa alla religione è offesa per chi la professa.
c)- Il desiderio di saggiare le proprie forze in avventure difficili e pericolose, perché non si può avere coscienza del proprio valore se non lo si nette alla prova; e la coscienza del proprio valore è un motivo di compiacimento e di felicità interiore.
d)- Il desiderio del nuovo e quindi l’ansia di scoprire l’ignoto attraverso avventure mai tentate da alcuno, non è certamente estraneo a questo entusiasmo per l’avventura e la scoperta nel Rinascimento, anche la suggestione generata negli uomini di quella età dalle scoperte dei grandi navigatori e dai mirabili racconti con cui questi riferivano le meraviglie da essi vedute.
e)- La fortuna ossia una misteriosa e bonaria forza che combina le situazioni più impensate, fa cadere nella miseria e nel ridicolo gli orgogliosi, affligge i fortunati, salva all’ultimo momento i disperati. La fortuna in genere è favorevole alle persone non maligne: per i cattivi presto o tardi arriva il momento di pagare per quanto essi si diano da fare per tenersi a galla.
Quale è la legge che regola questo gioco della vita? E’ la legge della proporzione e dell’armonia: per chi ha esperienza della vita nulla è assoluto quando è positivo, nulla è irreparabile quando è negativo: nessun pregio è superlativo, nessuna situazione triste è irreparabile: alla grandezza succede la meschinità; alla felicità succede la miseria e viceversa; alla meschinità e alla miseria succede la grandezza e la felicità. Solo chi non ha esperienza della vita e non è riuscito a superarla e a guardarla nella sua complessità da una posizione elevata, si esalta o si dispera, si appassiona o si annoia: chi ha avuto la fortuna di imparare a conoscer la vita osservandola da un punto di vista superiore, sa che tutto il moto immenso e complesso dei fattori della vita va ad armonizzarsi. Di qui il tono sereno e sorridente della spiritualità dell’Ariosto.
Con quale criterio morale l’Ariosto giudica la vita?
Con il criterio di perfezione adottato dal Rinascimento: è buono tutto ciò che viene generato dalla natura e coltivato dall’uomo con discrezione e decoro, ossia la bontà consista nella sincerità, nella moderazione, nel saper fare ma senza presunzione.
Il criterio con il quale l’Ariosto giudica gli uomini e le cose è dunque un criterio di una umanità sensata e decente.
Tale criterio è assai comprensivo e tollerante, si adatta alle esigenze della vita: non è intransigente come il criterio della morale teorica. Nel c. IV dell’Orlando afferma che sebbene la frode sia di per sé riprovevole, tuttavia ha risparmiato spesse volte gravissimi mali. Un sorriso di bonaria indulgenza è il normale commento dell’Ariosto e a scene di miseria morale dovuta a inesperienza e a debolezza; ma una garbata e tenue protesta sottolinea le scene in cui è evidente la malignità.
Quale concetto ha l’Ariosto della Provvidenza divina? Non ha certo il concetto di Dante circa l’intervento di Dio nella storia umana. Parla della Provvidenza come dell’attività amministrativa di un gran signore che viva in un mondo superiore e si interessa dei mortali solo quando questi con la loro audacia e con la loro cattiveria mettono in pericolo il regno terreno che egli amministra: punisce talvolta qualche malvagio, aiuta qualche disgraziato e chiude un occhio sulle miserie umane. E’ un Dio alla rinascimentale: un gran signore e non più: non è più il centro di tutto il reale che con la forza dell’amore attrae a sé tutte le creature, come lo concepì e lo sentì l’Alighieri.
La superficialità dell’Ariosto, del resto comune alla sua generazione, è più che evidente.
Concezione politica dell’Ariosto.
Ludovico sentì anche i vari motivi della politica, ma sempre e tutto con moderazione e quasi con svagatezza. Ecco i motivi della sua mentalità politica:
a)- A reggere la vita dei popoli non sono i popoli stessi, ma i principi: il popolo è “vulgo e popolazzo, degno di morire prima che nasca” : si nota in questa concezione l’aristocratismo rinascimentale secondo cui, eccetto la famiglia del principe e quella dei nobili e la schiera dei letterati e degli artisti ossia eccetto le nature superiori, tutti gli altri sono volgo, plebe spregevole, incapace di pensare, di sentire e di operare degnamente.
b)- La storia dei popoli è fatta dai capi e dalle persone eccezionali.
c)- E’ un gran guaio che l’Italia sia straziata dagli eserciti stranieri: ma cosa ci si vuol fare? Pazienza.
d)- Quel correre e rincorrersi cogli eserciti stranieri in Italia arreca disagio è vero, ma è anche un bello spettacolo, una coreografia epica e cavalleresca, un magnifico spunto per un poema epico cavalleresco.
e)- Le iniziative dei grandi personaggi politici sono promosse non dall’interesse dei loro popoli né da esigenze ideali, ma dagli impulsi segreti dello orgoglio, dello spirito di vendetta, dell’ambizione.
f)- Gli ideali della patria e della fede in pratica non sono sentiti che da pochissime persone: per i più essi sono occasioni o motivi per fare sfoggio delle loro capacità personali nell’apparente difesa dei loro sacri valori: né Rodomonte, né Ruggero, né Orlando, né alcun altro cavaliere o saraceno o cristiano è mosso da vero spirito patriottico o religioso: l’impulso più vero è quello di affermare la propria personalità.
In conclusione Ia spiritualità dell’Ariosto presenta le seguenti caratteristiche:
– Vastissima esperienza della vita e quindi larga conoscenza degli uomini e delle cose.
– Capacità di superamento del reale.
– Osservazione del reale da un punto di vista superiore.
– Capacità di cogliere nel reale la sua immensa varietà di forme, i suoi intrecci, il suo equilibrio armonico e un tono svagato e smaliziato e un sorriso bonario nel contemplare le miserie della psicologia umana ossia le forme esagerate o rozze di esse.
– Una calda simpatia per tutte le forme medie di vita.
– Una morale liberale e serena e comprensiva.
– Interesse per tutto ciò che fa parte di una esistenza, ma passione vera e propria per nessuna cosa, neanche per i più grandi ideali, semmai sincera simpatia. L’ammirazione, la passione, la veemenza, l’entusiasmo sono forme esagerate, indegne, secondo la mentalità del Rinascimento che ha la sua più perfetta espressione nella mentalità delle corti, di una persona fine e superiore. Gli entusiasmi, i fanatismi, gli impulsi incontrollati sono da lasciarsi alla gente un po’ matta e ancora arretrata nello stile della vita perfetta.
Orlando furioso.
E’ un poema epico cavalleresco encomiastico in ottave, nel quale si svolge un triplice argomento: la guerra tra Agramante e Carlo, la forza di Orlando, le vicende amorose di Bradamante e Ruggero che alla fine sposano e danno origine alla famiglia estense. Tre motivi dunque: epico, cavalleresco, encomiastico.
L’azione del Furioso si riallaccia a quella dello Innamorato: il Boiardo aveva lasciato Angelica nella tenda del duca Mauro di Baviera in attesa di essere assegnata come premio al paladino che si fosse distinto di più nel combattimento.
L’Ariosto nella prima scena ci presenta Angelica fuggita dalla tenda del duca e alcuni cavalieri che vanno in cerca di lei lontano dai campi di combattimento. Fin dalle prime battute si rivelano la caratteristica dello intreccio cioè la complessità; la caratteristica della spiritualità, cioè l’impulsività; la caratteristica della morale,cioè la tolleranza e il senso dell’onore.
Vediamo anzitutto l’impostazione e la trama dell’Orlando Furioso. Il poema è impostato su una concezione della vita di ispirazione naturalistica e la sua trama deve servire a dimostrare a quale gioco complesso ed interessante dia luogo lo sfrenarsi libero di tutte le energie della natura umana. Per realizzare un’impostazione e uno sviluppo di questo genere, è necessaria una vastissima esperienza della vita; e non si può dire che l’Ariosto difettasse di tale esperienza. L’esperienza fornisce alimento alla fantasia e questa, quando è vivace per sua natura, riesce a creare un mondo nel settore dei sogni, così concreto, così complesso e così vasto come è quello della realtà e dell’esperienza: due mondi, quello della fantasia e quello dell’esperienza, paralleli e con le stesse caratteristiche l’uno dell’altro.
Potrebbe sembrare strano che in un Rinascimento così concreto sia stato composto un poema così fantasioso come l’Orlando Furioso: ma è da tener presente che il mondo creato dalla fantasia dell’Ariosto non è che il riflesso della vita come era vissuta o vagheggiata dai rinascimentali.
Nessuna opposizione dunque fra realtà e fantasia dell’Ariosto. La seconda non fa che creare un mondo uguale a quello della prima nel senso che anche in esso la sorgente e la legge della vita è l’impulso, anche in esso gli aspetti del vivere e dei criteri di valutazione sono quelli stessi della vita vissuta.
Il poema doveva servire in particolare a divertire le dame e i cavalieri della corte estense e in genere il pubblico cortigiano e cortese di tutta Italia. Il divertimento doveva consistere nel contemplare, come da un luogo superiore, il grande ed intricato gioco della vita umana. Le forze che entrano in questo gioco, i criteri con cui esso è giudicato nel complesso e nei particolari, il tono con cui viene presentato, sono già stati illustrati quando si è parlato della concezione della vita, del criterio morale, del tono della spiritualità ariostesca.
L’Ariosto sa che il pubblico a cui egli si rivolge è smaliziato, evoluto ed esigente; sa che il Boiardo ha tentato di impostare grandiosamente il suo poema; sa che ai suoi tempi i quadretti piccoli ma graziosi tanto cari al ‘400, sono usciti di moda, mentre è entrata in uso sia nel campo delle lettere che in quello delle arti e perfino della politica, il criterio del disegno vasto, della struttura complessa, della coloritura varia, insomma il criterio della solidità e del decoro.
Perciò imposta il suo poema su un triplice motivo e intreccia l’azione con l’intento di mostrare nella sua pienezza il gioco della vita, intesa come sfrenamento di tutte le energie della natura.
La forma e lo stile dell’Ariosto.
Forma fantastica. L’esperienza e la cultura hanno fornito all’Ariosto la materia che la sua fantasia ha celebrato con abilità e fecondità veramente ammirevoli; egli ha preso contatto con la vita in quanto l’ha sperimentata in sé e negli altri, e da quel contatto non ha preso lo spunto per approfondimenti religiosi, morali, politici, psicologici, ma per poter creare con la fantasia un mondo analogo a quello della realtà secondo il gusto allora considerato più perfetto, cioè il gusto delle corti.
La facoltà che è più impegnata nell’Orlando è la fantasia: l’intelligenza e il cuore sono impegnati l’uno nella misura del buon senso, l’altro nella misura della gentilezza e della comprensione.
L’Ariosto è un poeta che non medita, non predica, non esce in escandescenza, non geme, è un poeta che narra con costante serenità e freschezza d’invenzione cose che sembra che egli stesso abbia veduto, tanto sono concrete nei particolari, benché abbiano evidentemente una origine ed una natura fantastica.
E’ un sogno fatto con concretezza; è una realtà trasferita in un mondo di sogno: così la fantasia dell’Ariosto evita la stravaganza propria dei sogni con la fedeltà alle leggi della psicologia umana; evita la crudezza del reale con la tenuità e la finezza che è propria del sogno. Forma complessa. L’Ariosto in forza della sua vastissima conoscenza della vita, in forza della vivacità della sua fantasia, in forza della necessità di comporre un’opera ricca di motivi come quella del Boiardo suo predecessore e più ricca ancora per venire incontro alla curiosità e alla sensibilità dei lettori cortigiani, procede nel suo poema con una trama fittissima che accoglie spunti di ogni genere dalla vita reale, dai poemi classici (il fine per esaltare la famiglia, encomiastico come l’Eneide, l’episodio di Cloridano e Medoro, l’episodio di Astolfo trasformato in mirto, il duello finale) e dall’invenzione inesauribile della fantasia. Possiamo definire l’Orlando il poema del moto perpetuo.
Forma chiara. Siccome l’Ariosto riesce a controllare la materia che svolge, la complessità non nuoce affatto alla chiarezza: il controllo infatti permette di collegare con logicità i vari motivi e di presentarli con un quadro in cui ognuno di essi ha la sua precisa funzione che contribuisce allo effetto dell’insieme.
Il ‘400 ci aveva dato opere di dimensioni e di struttura assai modeste, ma perfette quanto ad elaborazione, opere di vasta impostazione, ma confuse e poco elaborate: esempi delle prime sono “Le stanze” del Poliziano e l’Arcadia del Sannazaro, esempi delle seconde sono “L’Orlando Innamorato” e il “Il Morgante”. Nel ‘500 l’Ariosto riesce a conciliare perfettamente complessità ed elaborazione.
Forma armonica. L’Ariosto che simpatizza per lo stile medio della vita, si propone di svolgere i motivi in modo da far vedere chiaramente quanto sia ridicolo cadere negli eccessi e come la fortuna stessa si preoccupi di ristabilire l’equilibrio.
Angelica che, troppo cosciente della sua bellezza, scherza con l’amore, alla fine rimane vittima di una cocente passione: non sarà un paladino il giovane che infiammerà il suo cuore, sarà un umile fante, non sarà il fante a dichiararle amore, ma sarà lei stessa e per di più con una fretta che non può tollerare indulgenza,
Rodomonte, solo entro Parigi, semina distruzione e morte: pressato dai nemici si getta nel fiume e a nuoto, mentre continua a lanciare dardi, sfugge via illeso: un eroe imbattibile e abbastanza arrogante. Ma il poeta gli prepara per così dire il contrappasso: il gran guerriero ucciderà la più gentile, la più fragile e la più infelice delle donne dell’Orlando: Isabella, la più incapace di reazioni anzi votata volontariamente alla morte. E poco dopo abbrancato con Orlando matto e nudo finirà dentro un fiume (in opposizione a Rodomonte nella Senna) .
L’Ariosto scrive per dame e cavalieri di corte: per gente evoluta e smaliziata, per gente che considera il superlativo come impossibile e considera l’ammirazione come una forma di credulità e quindi propria delle mentalità arretrate. Per ciò fa fare ai personaggi massimi le figure più misere per ristabilire l’equilibrio. Già il Boiardo aveva elaborato con questo criterio la figura di un nuovo Orlando: il paladino santo, tutto patria e religione e niente amore, era un assurdo per la corte rinascimentale, quintessenza di un naturalismo fine e malizioso: perciò lo aveva fatto innamorare e nell’amore l’aveva presentato un po’ impacciatello. I lettori avevano amabilmente sorriso. Alla corte principesca del ‘500 ancor più realistica e più evoluta di quella signorile del ‘400, l’Ariosto presenta un Orlando addirittura impazzito per la sua inesperienza in amore: un bravo paladino, un combattente che non è favorito dalla magia, né ricorre ad altre risorse che a quelle del suo valore (è lui che getta l’archibugio nel profondo del mare perché il valore non si serve delle tecnica, ma solo della proprie energie); ma è un povero uomo che entrato in quel vorticoso gioco che è l’amore, perde facilmente la testa. I cortigiani avranno certamente sorriso di questo personaggio degno di simpatia e di pietà nello stesso tempo.
Se ci sono personaggi che il poeta delinea degni di ammirazione, essi sono personaggi medi; cioè quelli che utilizzano ed esprimono con misura e con decoro le risorse che ha concesso loro la natura (bellezza, forza… ).
Forma aderente al vero. Il pregio che distingue l’Ariosto dal Boiardo è l’aver egli saputo individuare e rappresentare con esattezza la psicologia dei personaggi, anche se questi sono di pura creazione fantastica e le imprese da essi compiute sono fuori del comune.
Quanti innamorati vi sono nel Furioso: ognuno di essi vive l’amore in modo adeguato alla propria indole. Ecco Orlando, uomo abituato a servire fedelmente l’idea: crede che anche nell’amore si debba adattare lo stesso stile di fedeltà; ma non sa che se è fedele lui e se per Angelica si induce a trascurare il suo dovere di patriota e di cristiano, la donna non solo è capricciosa, ma è la più capricciosa tra le capricciose. Ecco Angelica: tutta piena di sé stessa, tutta dedita a studiare le arti per innamorare: l’unica cosa che non vuol imparare è come si resta vittima dell’amore: lei ride delle sue vittime, non si mette nella loro situazione, è sicura che non cadrà mai in quelle situazioni. Una accenditrice di focarelli: una capricciosetta; e alla fine a forza di accender fuochi resterà bruciata.
Ecco Rodomonte, un uomo di ferro in cui non è mai penetrato il senso della pietà e della gentilezza. Anche l’uomo più fiero ha il suo tallone vulnerabile: il cuore. Egli si innamorerà: sarà però un amore da spadaio, da manesco e sopratutto da primitivo, ingenuo e banale. Bradamante, Ruggero: due anime gentili e fini, il loro amore addirittura aureo, fedele, eroico e fortunato.
Si potrebbero fare tante citazioni quanti sono i personaggi per illustrare il sano realismo dello stile ariostesco.
Forma oggettiva e svagata. Forma cioè serena, sorridente e quasi distaccata. L’Ariosto dimostra interesse per le sue creature, mai si appassiona ad esse: le guarda con simpatia se sono come piacciono a lui, sorride bonariamente se non sono come le vorrebbe lui: ma non esce mai in esclamazioni né di ammirazione né di deplorazione. Egli sembra avere dinanzi un mondo che contempla con distacco, pure essendo unito ad esso dall’interesse e dalla simpatia che ogni creatore prova per le sue creazioni; e riproduce con oggettività quel che egli vede, riservandosi solo qua e là qualche leggero commento che tuttavia fa con tono umoristico e smaliziato. Egli è un narratore di fronte a persone intelligenti che non hanno bisogno di commenti perciò narra con lo stesso atteggiamento di superiorità e di svagatezza con cui gli uditori ascoltano.
Forma unitaria. Alcuni critici hanno ricercato il fattore che dà unità all’Orlando. Il problema dell’unità si presenta perché il poeta svolge tre azioni e gli episodi sono numerosissimi e svariatissimi: i poemi classici, secondo i critici hanno una unità evidente; nell’Ariosto tale unità non è chiara: alcuni ne trovano il fattore generativo nel sorriso costante dell’Ariosto; altri nel permanere costante da capo a fondo di alcuni motivi: ad es. quello amoroso e quello epico.
Si può affermare quanto segue: l’Orlando presenta una unità materiale e una unità spirituale. L’unità materiale consiste nell’intreccio armonico, dei tre motivi fondamentali: guerra, amore, elogio encomiastico. Questi tre motivi infatti sono in stretto rapporto fra loro: la guerra fa da sfondo e costituisce per così dire il nucleo a cui si rapportano tutte le azioni: le vicende della guerra sono determinate infatti dalla presenza o dalla assenza di Orlando e di Ruggero nei rispettivi campi. Così la azione amorosa (Orlando e Ruggero) condiziona l’azione bellica. Se il motivo epico costituisce materialmente il nucleo del poema, perché l’Ariosto lo ha intitolato”Orlando Furioso”?
A questa domanda si possono dare tre risposte:
1)- Perché l’Ariosto continua l’Orlando Innamorato; e siccome dall’amore alla pazzia lo spazio è breve, ha preferito continuare sulla stessa via.
2)- Perché alla corte non interessava troppo il motivo epico quanto quello psicologico, essendo la corte costituita non da guerrieri fini, ma di cavalieri e di dame.
3)- Perché all’Ariosto piaceva mettere in evidenza questo motivo: resta vittima della vita chi è inesperto di essa.
Ancor più sicura e salda è l’unità spirituale del poema: l’intreccio nel suo complesso e nei suoi particolari è destinato a costruire un quadro perfetto della vita intesa in senso naturalistico così come lo intendevano gli uomini del Rinascimento maturo: un quadro fantastico in cui si riflettessero tutti i motivi di una spiritualità ormai diffusa e storicamente consistente. Un quadro della vita inteso, come si è detto, come gioco interessante di tutti i più vivaci impulsi della natura, come moto perpetuo di incontri, di scontri, di piacevolezza, di cattiverie osservato con animo sereno e comprensivo.
Il linguaggio.
Il linguaggio della persona è in rapporto alla sua spiritualità; l’Ariosto ebbe una spiritualità media, perciò il suo linguaggio è medio, ossia non architettavo con erudizione, non elaborato con precisione scrupolosa, né d’altra parte impreciso e popolare. Egli usa un linguaggio pulito e chiaro, accessibile ai lettori delle corti, di fronte ai quali era opportuno sia l’uso di un linguaggio raffinato ed eccessivamente elaborato, sia l’uso di un linguaggio alla meglio: un linguaggio dunque né eccezionale, né troppo comune.
Siccome l’Ariosto narra con senso di distacco dalla sua materia (che guarda senza passione, ma solo con interesse), la sua parola si limita all’essenziale; il suo linguaggio non è abbondante, insistente, clamoroso, enfatico, ma limitato a ciò che è necessario per esprimere il pensiero.
Riflessi del Rinascimento sull’opera dell’Ariosto.
1)- Nell’Orlando Furioso si riflette la concezione naturalistica delle vita quale si affermò nel Rinascimento maturo (la vita intesa come espressione e utilizzazione delle risorse della natura in modo intelligente e decoroso; lo svolgersi della vita come quello di un gioco; forze che rientrano in questo gioco; criterio con cui si giudica la vita; tono con cui si guarda alla vita).
2)- Si riflette la vita così come era intesa e vagheggiata allora dagli ambienti cortesi, che erano gli ambienti più evoluti (la vita intesa come capacità o abilità, misura e decoro, come sensibilità che avverte tutto ciò che è specifico a lei e tutto ciò che al contrario pregevole secondo criteri di mondanità raffinata).
3)- Si riflette l’atteggiamento del popolo italiano di fronte al suo dramma politico: il quadro epico è osservato dall’Ariosto con quella stessa curiosità tra ammirata e seccata con cui gli italiani del primo cinquecento osservavano la triste coreografia delle marce, degli scontri, delle vittorie e delle sconfitte degli eserciti spagnoli e francesi, svizzeri, tedeschi, italiani.
Il Rinascimento concepì troppo la vita come un piacevole ed interessante
spettacolo, come un teatro in cui ciascuno fa prova delle sue virtù cioè delle sue abilità: anche l’Ariosto introdusse nel quadro epico questo senso di ambizione e di esibizionismo, togliendo via gravi e severi ideali della patria e della religione.
4)- Si riflette la tendenza del Rinascimento maturo alla creazione di basamento e di struttura vasta e solida, di ornato modesto ma signorile e di buon gusto. Vasta, solida e decorosa è l’architettura cinquecentesca (basilica Vaticana con la famosa cupola) ; ugualmente la pittura e la scultura. Solida e geniale e armonica è perfino la struttura dello stato vagheggiato dal Machiavelli (stato unitario e forte, dinamico e fiorente).
E’ naturale che l’Ariosto in una età in cui predominava il gusto del grande e del decoroso ci abbia dato un poema improntato su tre azioni, strutturato di mille episodi, condotto con utilizzazione di tutti i motivi della vita.
5)- Si riflette l’indirizzo dell’umanesimo maturo cioè di quell’umanesimo che non si preoccupa di imitare fedelmente i motivi spirituali e formali del mondo classico, ma di essi utilizzava quanto di meglio hanno creato gli antichi per esprimere in modo ampio e perfetto il più possibile i motivi della spiritualità moderna. Fu una fortuna che l’Umanesimo uscì dagli ambienti dotti ed entrò nelle corti, perché in questo modo si staccò dall’indirizzo erudito e letterato e prese contatto con la vita (non con la vita del popolo, questo fu un danno perché la vera vita è quella del popolo) ma prese contatto con la vita delle corti che pur era una forma vera di vita (non artificiosa come più tardi quella del salotto settecentesco) e per di più una forma eccellentemente evoluta.
Così perfezione formale propria degli umanisti e evolutezza spirituale si congiungono e creano quell’Orlando che è senza dubbio la sintesi più armonica e lucida dei motivi umani del Rinascimento.
TORQUATO TASSO
(1544-1595)
Il personaggio.
Indole:
– sensibile cioè facile a percepire sé stesso e a reagire alle impressioni esterne (dolori, avvenimenti).
– indole tendente al sogno e suggestionabile, cioè a vagheggiare ideali irraggiungibili e a trasformare le realtà comuni in forme ideali.
– indole timida, cioè incapace di iniziative decise: egli vagheggia un ideale nel suo cuore vorrebbe fare chissà che cosa, ma non ha coraggio di passare all’azione.
– indole sofferente e pessimistica ossia egli è portato da natura a vedere le cose sotto l’aspetto più triste.
– indole enfatica ossia tendenza alla frase grandiosa per generare l’effetto su chi lo vede e lo ascolta, pur dubitando sempre che le sue pose siano gradite agli altri.
– indole complicata cioè tendenza a girare sempre intorno agli stessi motivi per individuarne gli aspetti più svariati e tentare di conciliarli fra di loro: nessun problema per il Tasso è semplice.
L’ambiente spirituale
E’ quello del Conformismo all’inizio della sua affermazione. La sostanza di questa spiritualità si riassume nel contrasto fra la tendenza alla libertà spirituale, alla mondanità libera e la sensazione che non ci si può sottrarre alla disciplina imposta dall’autorità: l’adattamento al dovere senza lo slancio per il dovere, l’attuazione del sacrificio senza una generale e piena dedizione dell’anima al sacrificio stesso, guardare il cielo con un occhio e con l’altro la terra, sono le espressioni pratiche di questa spiritualità.
Spiritualità in dissidio.
Il Tasso vive nell’epoca di passaggio tra la libertà del Rinascimento e la disciplina del Conformismo, tra la spregiudicatezza morale e la serietà, tra l’autonomia del pensiero e degli affetti e l’obbligo di sentire e di pensare secondo un modo imposto dall’esterno.
Il Tasso presso a poco si trova nella stessa posizione del Petrarca: questi passava da un’epoca di disciplina convinta ad un’epoca di libertà avventurosa, l’altro da un’epoca di libertà spregiudicata ad un’epoca di disciplinarismo controllato; l’uno ha paura della libertà perché è abituato ad una religiosità tutta interiore, l’altro ha paura della disciplina perché abituato alla libertà senza freni; all’uno il senso religioso intimo e vivissimo desta preoccupazioni mentre si avvicina al mondo; all’altro il senso mondano genera nostalgia accorata mentre si avvicina alla religione. Come nel Petrarca anche nel Tasso vivono due Tasso; quello mondano avido di sensazioni, di libertà, d’esperienza, d’avventura, d’amore di fama e quello conformista ossequioso al dovere, in perpetuo sforzo a persuadersi che le cose del mondo sono vane.
Spiritualità incerta.
Il Tasso non risolve la crisi, o continuando a coltivare spregiudicatamente gli ideali del Rinascimento o accettando eroicamente gli ideali del Conformismo: non è né un Lutero che giustifica con una teoria audace il naturalismo, né un santo che imponga a sé stesso una disciplina per correre poi rapido nella via del vero e del bene. Egli non risolve la crisi, ma la soffre.
Spiritualità sofferente.
II Tasso tende per natura a vedere le cose sotto l’aspetto più triste e doloroso. Le cose belle e piacevoli sono fonte di dolore perché cadono troppo presto e soprattutto perché sono proibite.
I frutti proibiti sembrano infinitamente più belli e più piacevoli di quanto non siano e quindi sono fonti di ansia e di brama: quando però sono stati colti lasciano vuoto il cuore e soprattutto generano vergogna perché il coglierli è peccato. L’amore secondo il Tasso è uno dei frutti proibiti nel senso che esso tende a varcare ogni limite di convenienza e di dovere (non esclude il Tasso l’amore legittimo cioè quello coniugale: Gildippe e Odoardo).
Il poeta è cosciente della travolgenza di questa passione e perciò, mentre la brama, perché è fonte di piacere, la teme. L’amore induce Rinaldo ad abbandonare il campo: si tratta di una passione voluttuosa e snervante, di cui l’eroe alla fine sentirà vergogna. Olindo si permette di fare una dichiarazione d’amore proprio sul rogo; Tancredi ama una pagana: non abbandona il campo, però cerca di conciliare per quanto può, il suo dovere con la sua passione. Nel fervore dei combattimenti si inserisce l’amore ad incantare gli eroi, a trattenerli, a turbare il quadro epico.
L’amore inoltre è fonte di sofferenza a causa della incorrispondenza: Erminia ama Tancredi, Tancredi non ama Erminia: l’amore dell’infelice giovinetta è pieno di ansie, di brame segrete, di iniziative create e fallite, di pianto. Tancredi ama Clorinda, Clorinda non ama Tancredi. Rinaldo ama Armida, Armida non ama Rinaldo in un primo tempo, in un secondo tempo Armida ama Rinaldo, Rinaldo non ama Armida. L’amore in fine è una realtà così sublime che appena raggiunta è bene che sia seguita dalla morte: il concetto d’amore è morte; le cose sublimi appena gustate debbono essere abbandonate altrimenti le consuetudini le avviliscono (Tancredi raggiunge Clorinda solo nel momento della morte: l’amore di Tancredi nel suo contrasto morale rappresenta gli amori del Tasso; l’amore di Erminia nel suo ardore segreto e struggente incarna egualmente il tono degli amori del poeta).
Fonte di dolore è anche la religione: i cavalieri cristiani per compiere un dovere religioso debbono soffrire (“molto soffrì nel glorioso acquisto”). E’ Satana che si diletta di impacciare il cammino dei buoni per cui chiunque vuole essere fedele a Dio deve disporsi a soffrire e ricevere i colpi di Satana (la discordia, la siccità, l’incanto della selva sono cause di sofferenza al campo crociato).
Sembra che la Provvidenza divina in certi momenti trascuri i suoi fedeli e che questi siano abbandonati a sé stessi: tuttavia alla fine, dopo la prova giunge sempre la consolazione divina. Inoltre la religione è fonte di sofferenza perché frena gli impulsi del cuore: chi, come Tancredi vuol restare fedele al suo compito di crociato deve rinunciare per metà al suo cuore. E le rinunce dei cavalieri tasseschi non sono mai generose in modo integrale: la religione del Tasso non è più sentita come un tempo da Dante, quale fattore di slancio, ma quale fattore di impaccio o meglio di freno: ossia il senso religioso non è fonte di azioni generose e decise, ma di rammarichi e di incertezze a chi vorrebbe seguire l’impulso del cuore. Anche il dovere è fonte di sofferenze per chi ne senta ancora la voce.
I cavalieri dell’Ariosto scappavano e rientravano nel campo a piacere: per essi il fattore centrale dell’esistenza era l’impulso. Per il Tasso la disciplina ha un valore innegabile, ma comporta sacrificio.
Quali sono i toni, di questa sofferenza?
Si tratta di una sofferenza tutta intima senza confidenza: l’unica confidente è la natura. Quindi tono accorato tendente alla malinconia. Né manca il tono di incubo in quanto le forze di Satana preoccupano i buoni e l’ardore della passione ossessiona le anime gentili e timide.
Spiritualità suggestionata.
La suggestione è quel fenomeno psicologico per cui l’intensità e la insistenza di un motivo affettivo fa sì che la fantasia ingrandisca le cose o dia ad esse una portata maggiore di quel che hanno o addirittura dia corpo e realtà che non esistono.
La suggestione è fenomeno caratteristico delle anime sensibili, solitarie e timide. Le conseguenze di questa tendenza a ingrandire le cose sono le seguenti: tendenza a vedere le cose o molto più brutte di quanto non siano; tendenza a colorire con tinte cariche o troppo luminose o troppo scure; tendenza ad esprimersi con enfasi, cioè con tono oratorio e grandioso; tendenza ad accumulare annotazioni svariate per presentare una cosa, una specie di ammassamento di colori per creare la intensità di tono; tendenza ad insistere sullo stesso motivo quasi con tono di osservazione per inculcare meglio in chi ascolta o legge una immagine o un pensiero.
Spiritualità complicata.
I motivi della spiritualità del Tasso sono non solo numerosi, ma anche contraddittori e il poeta li intreccia con una criterio che non è quello lucido e chiaro della ragione, ma quello incerto e oscillante del sentimento. Le impostazioni dei temi che svolge non sono mai basate su una idea chiara e precisa: o meglio l’idea chiara e precisa c’è ma viene assalita e intorbidata da svariati motivi affettivi. Erminia, Tancredi, Goffredo, e nell'”Aminta” i protagonisti sono anime che preferiscono giungere al fine attraverso le vie le più complicate, essendo esse preoccupate di tener presenti svariate voci che danno svariate indicazioni. Le coscienze dei personaggi appassionati nel Tasso sono normalmente coscienze torbide, cioè impastate di castità e di lussuria: questo impasto non genera una deplorazione della coscienza stessa (come nel Petrarca) ma induce alla ricerca spesso artificiosa di motivi giustificanti (ad esempio l’ingenuità introdotta come motivo di giustificazione nei motivi dell’Aminta; o quel ricordo del Tancredi, gentiluomo che vorrebbe giustificare l’ardore passionale d’Erminia) . Non è detto che la coscienza complicata e torbida non sia poetica purché sia interpretata nel suo aspetto più significativo.
Forma del Tasso.
Forma sentimentale: cioè il poeta svolge i motivi più secondo l’esigenza del suo cuore in crisi che secondo idee o principi ben definiti. Basti pensare che la Gerusalemme Liberata doveva essere un poema epico ed egli ne ha fatto un poema epico sentimentale: troppe donzelle si aggirano tra i guerrieri e troppi guerrieri sospirano con le donzelle.
Non si può dire che il Tasso ignori il senso eroico, ma non si può negare che l’atmosfera generale in cui si inquadrano i motivi eroici è quella sentimentale (il punto culminante di questo intreccio fra eroico e sentimentale è la morte di Clorinda al tempo del duello).
Tutti i motivi anche quello religioso sfumano nel sentimentale: la religione più che con l’intelletto e la volontà è vissuta col cuore.
Forma contraddittoria: la spiritualità del Tasso accoglie motivi contraddittori anche nel condurre la trama del poema e nello svolgere la vicenda dei personaggi egli segue il metodo del contrasto: il contrasto più evidente è “amore non riamato”; altro contrasto “religione e dovere” da una parte, “impulso” dall’altra; e ancora “azione iniziata e azione interrotta“. Si può dire che i personaggi del Tasso facciano di continuo un passo in avanti e uno indietro. Notiamo il contrasto persino nella descrizione di uno stesso personaggio. Perché questa preferenza per il contrasto?
-Anzitutto perché è la forma psicologica del poeta.
-Perché è una forma patetica e quindi emotiva capace di far lacrimar i lettori.
-Perché rivela ingegnosità di invenzione.
Forma Lirica: lirismo significa espressione immediata del sentimento. Talvolta i poeti incarnano i loro sentimenti in una vicenda, in una situazione, in una scena, in un personaggio: questa è espressione indiretta del sentimento e normalmente è espressione narrativa o descrittiva.
Il Tasso narra e descrive, ma spesso interviene direttamente:
a) Con commenti più o meno accorati su situazioni o atteggiamenti dei personaggi.
b) I personaggi abbondano in sfoghi in modo che il ritmo narrativo viene spesso interrotto da appassionati intervalli sentimentali.
c) Nei personaggi che sfogano i loro sentimenti si sente l’animo del Tasso stesso. La Gerusalemme Liberata doveva essere un poema epico e quindi narrativo a tono solenne ed eroico: l’abbondanza dei passi lirici lo fa diventare poema epico lirico (e i retori lo rimproverano proprio di aver falsato il tono che è proprio dell’epica).
Forma enfatica: il poeta ama gli scenari grandiosi, i gesti teatrali, le impostazioni solenni, la sentenziosità grave, tono predicatorio (discorso di Goffredo di fronte ad Alete e Argante) anche nella scelta dei paragoni il poeta è normalmente impegnato a dare maggior grandiosità a cose di modesta portata.
Forma emotiva: il poeta sembra che vada in cerca di motivi che fanno impressione forte o commuovendo o terrorizzando (concilio dei demoni, inizio del combattimento tra esercito e svariati passi relativi ad Erminia, Tancredi, Clorinda, la selva incantata).
Forma sovrabbondante, caricata: il poeta accumula particolari visivi, colori intensi, temi svariati nella descrizione delle varie scene, ne risultano visioni non nitide ed eleganti, ma sovraccariche d’ornato, sgargianti e fastose però notevolmente confuse (il giardino di Armida). Così prelude all’ornato del secentismo.
Forma insistente: il poeta non sembra mai soddisfatto di ciò che dice, perché teme di non esprimersi con sufficiente chiarezza: perciò allunga lo sviluppo dei motivi, ripete e colorisce con eccessiva intensità per colpire meglio la fantasia dei lettori.
Forma retorica: il poeta imposta la trama della Gerusalemme Liberata, in modo tale che gli sia possibile nel corso dello sviluppo trattare tutti i vari generi letterari (l’epico che è il principale, il lirico, l’oratoria anche nella forma dell’oratoria forense: da ricordare il discorso di Aletto per persuadere Goffredo alla pace e la risposta di questi per giustificare la decisione di continuare la guerra; l’idillico).
Linguaggio del Tasso.
Linguaggio musicale:
Il Tasso è costantemente preoccupato di disporre la parola in modo da generare un suono adatto al motivo che si sta svolgendo, e allo stesso fine sceglie le parole che meglio contribuiscono a rendere più efficace il ritmo che gli serve, sacrificando spesso la precisione dei vocaboli e della costruzione. Il commento musicale (che è dato dal ritmo) spesso nel Tasso fa valere i suoi diritti sulla chiarezza e la precisione della lingua (in questo senso prelude al musicalismo marinista).
Linguaggio immaginario:
Il poeta per dare vita, senso e concretezza a tutti i concetti, ricorse il più possibile alle metafore, alle personificazioni, ai paragoni: spesso però le metafore sono strane e niente affatto naturali.
Linguaggio sovrabbondante:
Per esprimere un concetto il poeta non adopera mai una parola sola, ma per sinonimi abbonda nelle aggettivazioni per colorire meglio (ma in pratica per confondere di più): abbonda negli avverbi, quindi in genere ripete alcune parole efficaci per il suono e per il significato come si suol fare in oratoria.
Linguaggio Complicato:
Termini contraddittori, perifrasi non chiare, costruzioni contorte rendono talvolta il linguaggio del Tasso poco comprensibile.
Motivi della Gerusalemme Liberata.
Motivo epico – religioso – amoroso – idillico – pessimistico – avventuroso – morale.
Per quali motivi il Tasso scelse l’argomento della prima crociata?
– Perché era un argomento che interessava la religione che (secondo il pensiero espresso dal Tasso nel “Discorso sul poema epico”) insieme a quello patriottico è da preferirsi nei poemi epici.
– Perché non era un argomento né troppo antico né troppo moderno (nel “Discorso” dice: “Non troppo antico perché non interesserebbe; non troppo moderno perché non sarebbe possibile introdurre l’elemento meraviglioso cioè l’intervento di personaggi soprannaturali, di magie ecc.”): la prima crociata era avvenuta nel 1096-1099.
-Perché il Tasso voleva contribuire alla Controriforma risollevando lo spirito religioso con un poema in cui venisse presentata una religiosità eroica, pronta al sacrificio o spregevole qualora trepidasse di fronte ad esso .
– Perché nel 1570 era avvenuto il grande scontro fra Turchi e cristiani (Tasso incomincia il poema nel 1572).
Ariosto e Tasso
Ariosto osserva la realtà con lo spirito di un uomo di mondo libero e sereno; il Tasso con il tono di un cristiano che sente la vita come tragedia, come prova dolorosa, come rinuncia che strazia: di qui il tono sereno ed agile dell’Ariosto quando narra e il tono accorato, appassionato e suggestionato del Tasso.
L’Ariosto affida lo svolgimento della trama alla fantasia nutrita di esperienza e ricca di capacità inventiva, non legata ad alcun particolare interesse; il Tasso lo affida invece ad una fantasia che deve seguire le esigenze del cuore.
Si potrebbe dire che l’Ariosto imposta e conduce il poema su una fantasia autonoma, il Tasso su una fantasia aderente al cuore. L’Ariosto è oggettivo cioè descrive come se riproducesse quadri che per quanto lo interessino sono come fuori di lui; il Tasso è soggettivo, ossia trae intrecci, motivi, situazioni dalla sua soggettività: l'”Orando” è il sogno di una fantasia, è una invenzione; la “Gerusalemme” è il sogno di un cuore, non è invenzione, ma espressione di una sensibilità reale. L’Ariosto è più vuoto, più agile, più descrittivo; il Tasso è meno fecondo nell’inventare, ma è più vicino alla vita, più impegnato e quindi più che interessare la curiosità dei lettori, interessa il loro cuore. Per questo l’Ariosto tocca di più gli spiriti geniali, ma poco sensibili; mentre il Tasso piace soprattutto alle anime sensibili e sentimentali.
IL CONFORMISMO
nella cultura secentesca
Il Conformismo è quell’epoca della nostra civiltà che intercorre fra la metà del secolo XVI e la metà del secolo XVIII; epoca caratterizzata dal sopravvento di forze disciplinatrici autoritarie e tiranniche e dall’adattamento degli spiriti alla situazione.
L’autorità ha la funzione di educare, elevare, difendere il popolo: ma l’autorità ha la funzione di educare sia religiosa che politica, impone la legge senza eccessivamente preoccuparsi che essa venga assimilata dai sudditi e diventi promotrice di autodisciplina. La legge, appoggiata dalla forza, garantisce un ordine esteriore e interviene in tutti i campi a imporre limiti e a minacciare punizioni.
La maggior parte degli spiriti in questa epoca preferisce evitare noie e, quindi si assoggetta alle imposizioni pur senza accoglierle, a fa volentieri largo alla invadenza della autorità ritirandosi in un mondo piccino, in una specie di guscio in cui si esaurisce nella suggestione, nell’artificio, nel soggettivismo stravagante.
Si tratta di un’epoca che, come tutte le altre, ha le sue fasi d’inizio, di giovinezza e di maturazione rappresentate, rispettivamente, dagli autori della seconda metà del ‘500, dal secentismo e dall’Arcadia.
Vediamo quali sono le caratteristiche spirituali e formali di questa epoca, cioè la concezione di vita e il modo di esprimersi di essa.
Concezione della vita.
In generale, nel periodo del Conformismo, la vita è intesa come espressione delle energie umane, entro confini ben definiti, nell’ambito dei quali, però, è lecito sbizzarrirsi come si vuole. Da questa concezione risulta un atteggiamento spirituale caratteristico: una specie di indifferenza per i grandi problemi della vita vissuta e una tendenza spiccatissima alla mania del grande o del piccolo, che è propria di chiunque si aggiri in un mondo ristretto e da questo si lasci suggestionare.
Ma vediamo in particolare i più importanti aspetti della civiltà conformistica:
1)- Disciplinarismo nel campo religioso e morale.
Abbiamo visto come la libertà propugnata dal naturalismo rinascimentale fosse degenerata in libertinaggio religioso e morale. Era necessario correre ai ripari; e le autorità responsabili, che più o meno colpevolmente avevano differito la riforma, quando era possibile compierla con certezza di riuscita, furono costrette a riparare quel che Lutero aveva rovinato, o meglio, a prendere provvedimenti per salvare il salvabile. Si trattò di una riforma polemica, tanto vero che fu chiamata “Controriforma”; ed è noto che le polemiche chiarificano le idee, tuttavia inaspriscono anche gli animi, favoriscono l’intolleranza, compromettono la libertà e con la perdita della libertà viene meno la forza morale dell’uomo.
La religione a la morale sono le forze più potenti dello spirito umano; gli uomini più gloriosi sono stati, infatti, generati da esse. Per i medievali, particolarmente per Dante, la religione era principio di sublimità spirituale e la morale era passione altamente umana: al tempo della Controriforma religione e morale diventano più un limite che energie propulsive, forze impegnate più a disciplinare che ad elevare lo spirito. E non poteva essere diversamente: anzitutto religione e morale, per circa due secoli e mezzo, erano venute perdendo di serietà e di importanza e non era ormai più possibile una restaurazione mistica integrale in un mondo diventato troppo umano, e sotto certi aspetti indegno dell’umanità (basterebbe pensare al concetto del principe padrone e del volgo da disprezzarsi); in secondo luogo chi si trova nella necessità di arginare forze che straripano, non può assumere i metodi ed il tono del placido agricoltore che coltiva campi sicuri.
Né gli uomini, dunque, erano disposti ad una restaurazione mistica, né la Chiesa, di fronte alla secessione di decine di milioni di cattolici e alla crisi delle nazioni rimaste fedeli, poteva pensare ad un lavoro di approfondimento.
La gerarchia ecclesiastica riservò a sé ogni iniziativa di carattere religioso, per sottrarlo all’arbitrio ed alla interpretazione soggettiva dei singoli; si creò così una religione di autorità, che si preoccupava più di dirigere che di formare, più di contenere entro i limiti del dogma e della legge morale, che di promuovere un arricchimento positivo e una elevazione integrale dello spirito, attraverso una libera e cosciente accettazione dei sublimi principi del Cristianesimo.
Basta a questo proposito osservare con quali metodi, durante l’epoca del Conformismo, la Chiesa abbia curato la vista spirituale del popolo cristiano: si tratta di metodi preventivi di carattere disciplinare (Inquisizione, Indice, Scomunica), o di metodi educativi religioso-morali ispirati più alla paura ed all’orrore dei Novissimi (morte, giudizio, Inferno e Paradiso) che al concetto della religione intesa come esercizio di amorosa imitazione delle perfezioni divine. L’Ordine religioso esponente di questo nuovo indirizzo religioso, a carattere disciplinare, è quello dei Gesuiti: è noto che la pedagogia applicata nelle scuole di questo ordine mirava soprattutto alla formazione della volontà, cioè di quella facoltà che può accogliere o rifiutare la disciplina.
Circola nell’atmosfera spirituale della Compagnia di Gesù un tono militarista a cui va strettamente connesso il costume della decisione e della disciplina: l’intelligenza ed il cuore vengono assoggettati ad una disciplina speculativa ed affettiva che, se favorisce da una parte atteggiamenti energici e risultati proficui nel lavoro circoscritto dalla legge, dall’altra toglie la possibilità dell’iniziativa e quindi di un progresso più agile e più celere.
Non si deve pensare che questo disciplinarismo sia stato caratteristica esclusiva del mondo religioso cattolico: anche i protestanti, che avevano tanto esaltato la religione di coscienza e ricordavano le folle immense che intorno a Lutero cantavano in libertà e spontaneità di spirito le lodi del Signore, si assoggettarono ben presto all’autoritarismo del principe, diventato padrone anche della religione.
Lo stesso Calvinismo, così democratico nella sua struttura teorica, diventò intransigente e intollerante, sia all’interno con i suoi adepti, che nei rapporti con le altre religioni, particolarmente con quella cattolica o papista.
Come il Machiavelli aveva affermato che la legge suprema era l’interesse del principato, così cattolici e protestanti affermano che l’interesse della religione prevale su qualsiasi norma civile e morale. Il Botero, portavoce dei Gesuiti, afferma, proprio in questo periodo, che, in vista degli interessi della Chiesa, al principe è lecita qualsiasi violazione dei diritti naturali dell’uomo.
I furbi (e tra gli uomini politici non vi possono essere persone che non siano furbe) approfittavano di queste belle teorie e costumanze, per affermare i loro interessi, accaparrandosi, col pretesto della professione religiosa, l’appoggio fanatico delle masse.
Non si tratta, dunque, di un misticismo religioso che pervada, trasformi ed elevi lo spirito delle masse e delle classi colte delle società, ma di una religione autoritaria, fatta di formule, aggressiva e polemista, strumento opportuno per servire gli interessi dei più svariati egoismi: dalle lotte religiose in Francia e dalla persecuzioni religiose in Inghilterra, alla guerra dei trent’anni (1618-1648), assistiamo ad una serie di iniziative ipocrite che, col pretesto della fede, sono destinate a garantire il sopravvento di questa o quella famiglia principesca.
2)- Nel campo civile e politico:
La vita pubblica è stata sottratta definitivamente alle deliberazioni ed alle iniziative del popolo, fin da quando in Italia si sono affermate le signorie, durante le quali, tuttavia, è stato possibile alle famiglie più nobili più ricche conservare una certa libertà di iniziativa: alla metà del ‘500 si affermano ovunque i regimi assolutistici: monarchie assolute nei grandi regni d’Europa: principati assoluti locali e governo tirannico straniero in Italia.
In regime assolutistico chi conta è la persona del capo e chi vale è il complesso dei parenti, degli amici, degli alleati, dei servi del capo. Il popolo viene, di proposito, lasciato nell’ignoranza e nella miseria, perché possa essere più facilmente mantenuto in obbediente servitù: delle famiglie illustri, alcune entrano nell’ordita dei satelliti del capo, altre si isolano in una opposizione puntigliosa e sterile che si esaurisce in piccole rivalità e in critiche inconcludenti.
Viene meno il concetto di patria, viene meno il concetto di popolo; si afferma orgogliosamente il concetto di famiglia; famiglia del principe, quasi divina, casati nobiliari chiusi in un isolamento presuntuoso e aggressivo.
Il Rinascimento si era vantato di aver restituito l’autonomia all’individuo e la sovranità ai principi, troncando i legami che impegnavano individui e popoli di fronte al programma spirituale e alla struttura religioso-politica della comunità cristiana; il tutto per garantire agli individui e ai popoli la piena libertà di movimento.
Procedendo verso la via dell’individualismo, si doveva fatalmente sfociare nella tirannide più squallida; sopravalutando le individualità forti, al popolo doveva sostituirsi il signore, al signore il principe , al principe il tiranno, al tiranno il ministro onnipotente e la cricca degli spregiudicati.
Giustamente il Manzoni nel V capitolo dei Promessi Sposi, parlando di due Re, si esprime così: “ Luigi XIII, ossia il Cardinale di Richelieu; Filippo IV, ossia il conte d’Olivares”: i tiranni per garantirsi hanno bisogno di collaboratori che ci sappiano fare; ma i collaboratori che ci sanno fare si accorgono della inettitudine del padrone e, pur chiamandolo padrone, lo costringono a fare la parte del servo.
In certi momenti sono le dame di corte che decidono degli interessi supremi dei popoli: la corruzione, l’intrigo, il puntiglio sono i metodi che predominano durante l’epoca del Conformismo.
Il popolo, ignorante, povero e, spesso, vizioso, subisce e paga le spese dei capricci delle personalità “alte”.
La colpa di questa situazione è da imputarsi al Rinascimento, il quale, adorando la natura e identificando le nature maggiori nei potenti, favorì l’affermarsi del pregiudizio di casta, cioè del pregiudizio che bastasse nascere da famiglia nobile per essere perfetti e avere di diritto di poter fare quello che si volesse.
Così la storia dei popoli, nel periodo del Conformismo, fatalmente subisce i riflessi del capriccio, dell’orgoglio e della incapacità dei cosiddetti grandi: iniziative clamorose, architettate per dare spettacolo di grande capacità, normalmente si concludono lasciando le cose come stavano.
La storia di quest’epoca si riduce ad un intreccio di intrighi, di colpi di mano e di contro colpi organizzati in campo internazionale dagli Asburgo e dai Borboni, e nel campo nazionale dalle famiglie aristocratiche più potenti per accaparrarsi la successione o la reggenza nel caso di morte del Re senza eredi, o con eredi minorenni: una storia di famiglia, insomma, più che una storia di popoli o di civiltà.
3)- Nel campo economico.
Come negli altri campi, così anche in quello dell’economia si afferma il controllo esoso dell’autorità sulle attività produttive e commerciali senza tuttavia che chi comanda e controlla, si senta impegnato a favorire e a promuovere l’organizzazione e lo sviluppo delle attività stesse.
Domina sempre il pregiudizio che chi comanda è un privilegiato a cui la fortuna ha dato il diritto di utilizzare ai suoi fini tutti i beni che si trovano nell’ambito della sua giurisdizione.
Lo Stato non si preoccupa se le attività agricole, industriali e commerciali falliscono o si sviluppano, diminuiscono o si moltiplicano; l’essenziale è che il fisco possa trovare il campo dell’economia sempre pronto a rifornire le casse dell’erario pubblico, le quali, a loro volta, debbono essere sempre pronte a finanziare guerre più o meno capricciose, più o meno inutili.
Possiamo parlare addirittura di governi fiscali: nessun interesse da parte di essi per promuovere le iniziative agricole e industriali e l’evoluzione dei sistemi di produzione, per facilitare gli scambi interni e le esportazioni: e tanto meno per elevare il tono delle classi lavoratrici.
A somiglianza dello Stato, i grandi proprietari di latifondi si preoccupano di succhiare il più possibile il lavoro dei dipendenti, senza preoccuparsi affatto di migliorare le proprietà e tanto meno di migliorare le sorti dei contadini: si afferma il tipo del signorotto, che vive in paese o in città, fra lussi e guerricciole di antagonismo con le famiglie colleghe, e che, attraverso una gerarchia di amministratori e sub-amministratori, alla fine dell’anno, riesce a tirar fori dalle sue proprietà quel che gli sta bene.
Le classi produttrici sono quelle degli artigiani, dei contadini e dei borghesi.
Gli artigiani sono ancora generalmente organizzati in corporazioni, le quali godono in molti luoghi il privilegio del monopolio di certe lavorazioni, cioè del diritto di impedire ad un privato di impiantare la stessa industria nello stesso luogo dove esse lavorano: ma nel complesso le pressioni fiscali, le difficoltà di acquisto delle materie prime e di smercio dei prodotti, rendono precaria la vita economica dell’artigianato, sia libero che corporativo.
I contadini in molte nazioni d’Europa sono ancora allo stato di servi della gleba. In Italia, pur essendo stata abolita la servitù della gleba fin dal secolo XI, tuttavia la classe agricola è soggetta agli arbitri di padroni; e né da questi, né dallo Stato riceve alcun aiuto per aumentare la produzione e per migliorare la sua situazione; la sua miseria economica è gravata anche essa dai pesi fiscali.
Nell’epoca del Conformismo, una vera e propria borghesia in Italia non c’è, come c’è, invece, nelle nazioni atlantiche. Parliamo di grande borghesia, cioè di proprietari di grandi aziende sia industriali che agricole, o di dirigenti di potenti ditte commerciali o finanziarie: come si è già visto, con la scoperta dell’America e col venir meno dei traffici nel Mediterraneo, le grandi famiglie borghesi si erano ritirate a vita privata ed avevano comperato titoli nobiliari per godere in pace e in decoro le ricchezze ammassate.
Il piccolo borghese sente quasi vergogna della sua attività e, quando gli è possibile, o compra anche egli un titolo nobiliare o si aggrega a qualche illustre casato. E’ opportuno ricordare qui la figura del padre di Ludovico nei Promessi Sposi: quel brav’uomo avendo fatto un po’ di soldi attraverso l’attività commerciale, si sente quasi in dovere di cambiare condizione sociale; e perciò si dà a vivere da signore e, con impegno addirittura pedantesco, si sforza di cancellare ogni traccia della sua passata attività.
Del resto non valeva la pena di impiantare industrie e commerci in Italia in cui la circolazione delle materie prime e dei prodotti era ostacolata dal frazionamento politico con cui andava connesso il frazionamento doganale: in una Italia in cui, come in quasi tutte le nazioni d’Europa, i Principi assoluti fanno pagare le spese delle loro iniziative, più o meno prudenti e più o meno pazzesche, a coloro che guadagnano qualche cosa attraverso l’esercizio di attività produttive e lucrative, lasciando in pace i nobili e i preti che sono esenti da tasse.
Il fatto stesso che, durante il periodo del Conformismo, si verificarono, con impressionante frequenza, carestie e fame, sta ad indicare che la borghesia in Italia o non esisteva o non era attiva: le importazioni, infatti, avrebbero rimediato facilmente al difetto dei prodotti nelle varie località colpite.
Nell’epoca del Conformismo, dunque, le attività economiche ristagnano, la miseria è generale, l’agiatezza è privilegio di pochi fortunati: in mezzo ad una società di questo genere, senza forti interessi, senza iniziativa, senza dinamismo, non può fiorire la vera civiltà, cioè quel complesso di opere che rivelano ricchezza spirituale e agilità pratica.
4)- Nel campo dei costumi.
Le espressioni esteriori della vita, le abitudini private e pubbliche, in una determinata epoca, sono in stretto rapporto con la sua spiritualità.
Nell’epoca del Conformismo, che spiritualmente è caratterizzato dalla soggezione passiva alla autorità e alla disciplina legale, i costumi presentano queste forme particolari: inappuntabilità esteriore e ipocrisia, artificio ed enfasi, miseria e sfarzo presuntuoso, individualismo orgoglioso e schiavitù.
a)- Inappuntabilità esteriore e ipocrisia.
In atmosfera disciplinaristica, in ambiente conformistico, la prima cosa di cui ci si preoccupa è l’inappuntabilità nel rispetto delle norme per evitare noie, per non apparire scorretti, per far carriera. Ma il Conformismo non è forma morale acquisita attraverso una educazione spirituale coscienziosa e ricca di motivi, e quindi lascia l’uomo come lo trova, cioè con il suo complesso di istinti più o meno volgari, di debolezze più o meno vergognose. Solo una buona formazione spirituale è capace di elevare e fortificare l’uomo: ma siccome nel regime conformistico tale formazione viene trascurata, è fatale che, nelle epoche in cui esso predomina, l’osservanza esteriore vada connessa con una infinità di miserie interiori.
b)- Artificio ed enfasi.
Un’altra caratteristica della spiritualità conformistica è la mancanza di spontaneità: di qui lo studio costante e scrupoloso di presentarsi in pubblico con uno stile che risponda alle esigenze non della naturalità umana, ma della mentalità e delle abitudini ambientali.
Siccome nell’epoca conformistica, non è il popolo, ma sono le corti principesche e l’aristocrazia che creano l’ambiente, è naturale che il nuovo stile di vita sia ispirato alla mentalità presuntuosa e bizzarra dei cosiddetti potenti, i quali, preoccupati di distinguersi dalla plebe e in gara fra di loro per superarsi reciprocamente, studiano tutti i mezzi per fare colpo e mettersi in evidenza.
Ci troviamo, perciò, di fronte ad un artificio di tendenza enfatica, pieno di sussiego e capriccioso: vengono meno il buon senso e il buon gusto della naturalità e si afferma un indirizzo espressivo ispirato ad una mentalità, per così dire, suggestionata dall’orgoglio del casato, dalla preoccupazione della grandiosità.
c)- Miseria e sfarzo presuntuoso.
Uno stile di vita quando è espressione di una spiritualità ben nutrita, può presentare forme interessanti per genialità, buon gusto e armonia, anche se è promosso da un particolare settore sociale che lancia la moda, cioè l’aristocrazia, è misero dal punto di vista spirituale e assai modesto dal punto di vista economico.
Orbene, tutti gli stili creati dalla presunzione normalmente presentano forme sfarzose che mirano ad imporsi con clamorosità dei toni e lo sfavillio dei colori: la povertà spirituale e la mediocrità economica, quando sono unite alla modestia, si esprimono in forme semplici e talvolta anche simpatiche, almeno per la loro ingenuità: quando, invece, esse sono unite alla presunzione ed alla mania del grandioso, allora, normalmente, si esprimono in forme ampollose e bizzarre.
L’aristocrazia dell’epoca conformistica non ha una educazione spirituale, perché non studia, non coltiva ideali, non esercita alcuna attività utile, né d’altra parte dispone di adeguate risorse finanziarie per pompeggiare decorosamente: non avendo una formazione spirituale, manca di buon senso, e, mancando di buon senso, manca di buon gusto, e, mancando di buon gusto, confonde il lusso con la sfarzosità, il decoro col sussiego, la originalità con la bizzarria: non avendo sufficienti risorse economiche, si sforza di dar tono alla miseria con la sgargianza dei toni e dei colori.
Lo stile di quest’epoca è stato concordemente definito “ampolloso”: si tratta di una ampollosità destinata a coprire la miseria: si tratta di una mania del grandioso, che ha invasato anime piccole. Non possiamo fare a meno di ricordare la sfarzosità delle mode maschili e femminili: le une destinate a dare tono militaresco agli uomini più imbelli che la storia italiana ricordi: le altre a dare tono di maestà muliebre alle donne più insignificanti che la storia del sesso gentile registri; non possiamo fare a meno di ricordare quell’enorme quantità di ritratti in cui i personaggi rappresentati sono tanto più carichi di boria quanto meno hanno importanza nella vita civile.
d)- Individualismo orgoglioso e schiavitù.
Il Rinascimento esaltando le nature maggiori aveva quasi divinizzato i potenti e le loro famiglie: si era così affermato l’orgoglio di casta e nel seno della casta si era affermato l’orgoglio del casato: antagonismi insignificanti, puntigli, provocazioni, duelli provocati dall’orgoglio di famiglia costituiscono le manifestazioni più comuni del costume sociale nell’età conformistica. Eppure la plebe dei nobili, illusa di essere padrona assoluta della vita, è miseramente schiava di sé stessa, cioè delle esigenze e degli usi che ha artificiosamente creato: la personalità umana, le aspirazioni più legittime del cuore, le risorse più preziose delle indoli vengono sacrificate a quell’idolo mostruoso che si chiama “decoro del casato”.
Le ragazze vengono sposate non a chi esse amano, ma a chi può garantire la dignità sociale, l’integrità patrimoniale della casa: le ragazze non destinate al matrimonio vengono forzatamente chiuse in convento: dei figli maschi, il primogenito eredita il patrimonio e sposa, i cadetti, o restano scapoli, o si dedicano ad una vita disordinata e avventurosa, o entrano nel ceto ecclesiastico senza vocazione e vivono incoscienti dei loro doveri e delle loro responsabilità.
Esigenze di convenienza, legami di interesse, ostilità generate ed alimentata dagli antagonismi, restringono talmente la libertà dell’aristocratico che, in confronto a lui, è molto più libero il plebeo, già pur tanto schiavo.
Insomma, chi osservi i costumi dell’epoca conformistica ha l’impressione di trovarsi di fronte ad una società spiritualmente primitiva, non ostante le apparenze chiassose e pompose: non si tratta certo di una primitività infantile, bensì di una primitività adulta, e quindi astuta, maliziosa e, ad essere sinceri, notevolmente ridicola.
La colpa di questo stato di cose è da attribuirsi sia al Rinascimento che, dando un indirizzo esclusivamente umano alla vita, ha inaridito l’ideale sia agli uomini di Chiesa che non seppero o non vollero rigenerare soprannaturalmente la civiltà naturalistica in crisi, sia ai Principi che, dopo aver tolto ingiustamente l’iniziativa al popolo, si sono dimostrati indegni di un compito che avevano usurpato, credendosi solo essi in grado di esercitarlo.
5)- Nel campo della cultura.
Cultura è nutrizione dello spirito, cioè potenziamento dell’intelletto per mezzo della verità, irrobustimento e affinamento della sensibilità per mezzo della vivificazione e dell’armonizzazione degli affetti, disciplinamento e snellimento della volontà, attraverso un intenso esercizio di libertà razionale: la fonte da cui lo spirito umano trae il vero, il decoroso, l’onesto è la realtà con i suoi due settori naturale e soprannaturale
Non si concepisce cultura che non abbia rapporto con la vita: l’istruzione che è fine a sé stessa è erudizione: la sensibilità scissa dai grandi ideali della vita è sentimentalismo vuoto: l’energia di volontà scissa dall’azione è disciplina inerte.
Nell’epoca del Conformismo, lo spirito umano perde il contatto con svariati settori della realtà, perché li vede vigilati da una autorità che li considera come campi di sua proprietà; o, se osa entrare in essi, li percorre seguendo le tracce segnate dai padroni: così avviene per i settori della politica, dell’economia, della morale, della religione.
Resta libero all’accesso di chi voglia lavorarvi il campo della scienza, a patto che non si pretenda sconfinare di lì in altri campi.
Possiamo, quindi affermare che, in genere, nell’epoca del Conformismo, la cultura è scissa dalla vita e che gli spiriti che ad essa si dedicano, o sono costretti a chiudersi nel mondo piccolo e innocuo di uno sterile soggettivismo, più o meno bizzarro, o si adattano a commentare, senza sentirli, e seguendo una via obbligata, i motivi proposti dalla autorità.
Vediamo la ripercussione di questa situazione particolarmente nel campo della letteratura.
In poesia, intesa come interpretazione e rappresentazione della vita nei suoi aspetti più profondi e più significativi, è senza dubbio la sintesi più sublime della cultura. Essendo, perciò, la cultura scissa dalla vita, nell’epoca del Conformismo, ci troveremo di fronte a scrittori che, perduti di vista i più gravi ed urgenti problemi della loro età, o si ritireranno nel mondo della retorica, e faranno pompa di belle chiacchiere nelle accademie e nei salotti, o si metteranno al servizio della boria presuntuosa di chi prometteva loro di trattarli meglio.
Anzi, essendo pochissimi i poeti che possono vivere in completa autonomia, vedremo l’enorme maggioranza di essi impegnati in uno sforzo retorico degno di maggior causa, per trovare i modi più efficaci per esaltare questo o quel personaggio, a commentare questo o quel fatto.
Qualche raro spirito indipendente, per non compromettersi con nessuno e acquistare più facilmente la forma di originalità, si darà le arie del mattacchione che ha il solo scopo di divertire chiunque abbia voglia e tempo di passare la vita in allegria.
Lo stile di cui si varranno questi scrittori bizzarri o asserviti, o autonomi, sarà quello che più piace al mondo aristocratico, cioè alla classe più legata alla famiglia dei forti, nelle diverse fasi della sua evoluzione.
Il popolo, la nazione, gli interessi vitali della religione sono fuori del mondo letterario, salvo rarissime eccezioni che hanno poi una importanza assai limitata.
La letteratura né si ispira alla vita, né promuove la vita. Giustamente, perciò, il Renzo dei Promessi Sposi, espressione tipica della mentalità popolare, pensava che il poeta fosse “un cervello bizzarro e balzano” che, come dice il Manzoni, “nei discorsi e nei fatti avesse più dell’arguto e del singolare che del ragionevole”, un uomo, insomma, che dicesse delle cose curiose in momenti di euforia.
Anche le arti si allontanarono, durante il Conformismo, dalla naturalità, per seguire uno stile più o meno bizzarro, destinato a far colpo: drammaticità teatrale, esagitazione e arditezza di linee, contrasti violenti di luci e di ombre, intensità di colori sono le risorse di cui si vale la nuova tecnica artistica per esprimere non la realtà della vita della natura interpretata con spiritualità seria, ma l’audacia e la presunzione di ingegnacci che assumono posa da ispirati.
Nel complesso, sia in letteratura che in arte, ci troviamo di fronte ad un indirizzo, al culto più della forma che del contenuto, più della tecnica che dell’ispirazione.
Se è vero che ove manca una forte spiritualità, lì anche la civiltà è minore, possiamo senz’altro definire il Conformismo epoca di civiltà mediocre.
Se la poesia e l’arte sono l’espressione più alta della spiritualità di un’epoca: se la poesia e l’arte, nell’epoca del Conformismo, più che spirituali sono sensitive, cioè più che esprimere stati d’animo sono audaci avventure di tecnica nell’ansia di trovare ciò che più impressiona la fantasia, la vista e l’udito se la sensitività è caratteristica delle civiltà infantili o invecchiate, possiamo definire il Conformismo epoca o primitiva o senescente: non potendosi parlare di primitività, perché essa è continuazione del Rinascimento, bisognerà ammettere che si tratti di decadenza per vecchiaia.
IL SEICENTO
Il secentismo o Marinismo è un movimento letterario che si propone di reagire alla solenne compostezza dell’arte umanistica e di creare un poesia sfavillante e ardita, capace di sbalordire i lettori.
Lo stile umanistico aveva presentato le caratteristiche della chiarezza e dell’ornato decoroso: i marinisti si propongono di sostituire alla forma statica del classicismo, che contava già due secoli di vita, una forma spettacolare e movimentata.
Il programma marinista, nella sua parte negativa, è costituito, dunque, dal rifiuto della tradizione umanista. I classicisti dai propugnatori del nuovo movimento sono definiti “beccamorti di Parnaso”, cioè cultori di una poesia morta.
La parte positiva del programma si può riassumere in due motti: “Ricercare il nuovo”. Il Marino scriveva: “per novo cammino, dietro a nuovi pensier muovere il corso”): e “Meravigliare il lettore”. “E’ del poeta il fin la meraviglia chi non sa far stupir vada a la striglia”).
Ogni generazione riceve dall’età che l’ha preceduta un complesso di esperienze che influiscono decisamente sul suo programma e sulla sua fisionomia spirituale.
Il Rinascimento agli uomini del ‘600 dovette apparire come l’età delle innovazioni audaci, dei tentativi spregiudicati, delle realizzazioni superbe: la civiltà per opera di innovatori intelligenti e coraggiosi aveva evidentemente fatto un gigantesco passo in avanti. La scoperta di nuovi continenti, di nuove vie di comunicazione, delle armi da fuoco delle prime leggi della fisica, di nuovi espedienti tecnici nel campo della pittura, della scultura e dell’architettura persuasero gli uomini dell’età post-rinascimentale che per scoprire bisogna osare, svincolarsi dai pregiudizi del passato e avventurarsi nell’ignoto, fidando nelle risorse del proprio ingegno: ogni rinnovamento è un passo verso un Rinascimento. La serie dei rinnovamenti non ha limite. Le scoperte scientifiche non solo non si erano esaurite nell’età del Rinascimento, ma continuavano gloriosamente per opera di Copernico e di Galilei, confermando questo concetto della progressività indefinita della scoperta.
Audaci ed avventurieri, i secentisti vollero scoprire un “novo mondo” in tutti i campi.
La ricerca del nuovo in letteratura, però, non consiste, per i secentisti, in un rinnovamento dell’ispirazione (con cui andrebbe fatalmente connesso un rinnovamento della forma e del linguaggio, non essendo possibile scindere il modo di svolgere un tema dalla natura stessa del tema), ma nella creazione di una forma e di un linguaggio nuovo, senza alcuna preoccupazione di ridestare i grandi ideali della vita e di cogliere nella esistenza umana forme e motivi nuovi capaci di interessare.
E’ assurdo scindere il contenuto dalla forma e dal linguaggio: eppure i Marinisti si proposero di realizzare l’assurdità di un’arte ridotta a sola tecnica di espressione.
Il nuovo stile inventato dai marinisti è definito “concettoso”. Il concetto non è l’idea, come si intende comunemente, ma è una parola peregrina “velocemente significante un obbietto per mezzo di un altro”, ossia è una metafora ingegnosa.
Il “mondo nuovo” perciò, sarà caratterizzato da uno sforzo eroico di porre e conservare l’immaginazione in stato di incandescenza: non si tratta più di ricercare una espressione chiara e decorosamente formata per manifestare pensieri e sentimenti sgorgati da una convinzione intima, ma di ritrovare, nel serbatoio dell’immaginazione, forme sensibili le quali, con il pensiero che si vuole esprimere, abbiano una affinità così sottile e misteriosa che solo un “genio” riesca ad individuarla.
I grandi poeti, anzitutto, rivivono la vita intima del soggetto che trattano, in tutte le facoltà del loro spirito: il Marinista non medita, non sente, non interpreta; egli si impegna a ricercare le immagini più stravaganti per le sue povere idee, secondo un misterioso segreto di somiglianza noto a lui soltanto.
L’arte, perciò, si riduce ad un puro sforzo immaginativo, a linguaggio “sfavillante” di metafore. Ai fini dell’effetto linguistico, non solo viene sfruttata la metafora, ma vengono messi in uso tutti gli artifici più potenti della retorica.
Si ricorre infatti:
a)- alle aggettivazioni abbondanti;
b)- alle sinonimie incalzanti;
c)- ai paragoni moltiplicati;
d)- alle apostrofi;
e)- alle interrogazioni retoriche ed alle esclamazioni;
f)- alle personificazioni;
g)- agli epifonemi ( espressioni di chiusura che riassumono, in forma vibrata, i
concetti esposti nel corso della composizione;
h)- ai contrasti di concetti ne di parole;
i)- alle allitterazioni (ripetizione di suoni vocalici e consonantici);
l)- ai ritmi sonori e spesso onomatopeici.
Gli espedienti che la retorica umanistica aveva inventato per rendere efficace l’espressione linguistica offrivano ai secentisti risorse d’effetto ignote ai predecessori; infatti, li avevano considerati come mezzi; essi, invece, concentravano tutto il loro impegno, nella tecnica linguistica, come in un fine; quelli avevano lavorato con buonsenso, i secentisti, invasi come erano dagli eroici furori del “genio”, ed ispirati dalla voce misteriosa del “gusto” , miravano ad affogare i lettori in un mare di sonanti e colorite parole.
Infatti, per essere poeta, secondo l’estetica secentista, è necessario essere forniti di queste due facoltà: del Genio e del Gusto. Di tale estetica furono teorici Matteo Peregrini (”Delle acutezze”), Emmanuele Tesauro (“Il cannocchiale aristotelico”), e Baldassar Gracian (“ Agudeza y arte de ingenio”).
Con la parole “ingegno” noi, comunemente, intendiamo quella capacità straordinaria di una facoltà umana che riesca a realizzare conquiste inaccessibili alla massa comune dei mortali. Il genio dei secentisti è pura capacità immaginativa, cioè capacità di trovare immagini e ingegnosità nel combinarle per esprimere qualche pensiero, cioè capacità di evitare la forma e il linguaggio comune, sostituendo una forma ed un linguaggio straordinari.
IL genio è una specie di invasamento, di incendio della immaginazione per cui i concetti assumono forme esagitate (scomposte) e teatrali, e tutta la composizione procede fiammeggiante e travolgente; talvolta è una specie di fuoco d’artificio in base di batteria finale; talvolta è capriccio arguto ed elegante; talvolta è arditezza e temerarietà di immagini.
Il gusto è la capacità di individuare i bei ritmi, le belle disposizioni di parole, i bei contrasti, le ingegnose allitterazioni. Il genio è una proprietà che riguarda più la forma (cioè il modo di presentare il contenuto che, come si è detto, è immaginativo) e si riferisce all’immaginazione; il gusto esclusivamente riguarda la parola e si riferisce alla tecnica del linguaggio.
Non è difficile, ora, capire perché i secentisti si proponessero di meravigliare il lettore e come riuscissero nel loro intento.
Essi non intendono suscitare riflessioni profonde a passioni ideali e diletti superiori nell’animo dei lettori, ma si propongono di affascinare la loro immaginazione, di impegnarli maliziosamente nella interpretazione delle loro acute metafore, di dilettarli con l’ingegnosità dell’artificio. Di ottenere da loro il riconoscimento di una brava tecnica.
Motivi di ispirazione.
Essendo il contenuto della letteratura secentesca assai povero, non è difficile individuare i motivi di ispirazione di essa.
I temi costituiscono un pretesto, non per interpretare l’uno o l’altro aspetto della vita, ma per comporre “pezzi di bravura.
Abbiamo visto che la letteratura secentesca è descrittivo-immaginosa: è chiaro, quindi, che i motivi di essa saranno quelli che maggiormente si prestano ad uno svolgimento sfavillante ed immaginante.
I principali motivi sono:
a)- motivi paesistici, ricchi di colori, di suoni, capaci di produrre sensazioni languide e voluttuose.
b)- motivi elogiativi che si prestano egregiamente a favorire l’enfasi (basterebbe leggere, a questo proposito, le dediche delle varie opere secentesche).
c)- motivi macabri, capaci di destare impressioni forti e sensazione di orrore;
d)- motivi sensuali non svolti col tono svagato ed arguto dei rinascimentisti, ma con una esperienza lussuriosa, scandalosa ed ingenua nello stesso tempo.
e)- motivi polemici, svolti con baldanzosa aggressività, con tono tra il volgare e l’epico.
f)- motivi enigmatici, cioè motivi simili agli indovinelli, che si prestano assai bene a favorire il linguaggio metaforico.
Nessun tema svolto dei secentisti è impostato in modo interessante e profondo; ma non per questo si può dire che la loro produzione letteraria sia da respingere come insignificante: essa ha un significato storico assai interessante; infatti, come tutti i movimenti letterari, anche il secentismo interpreta l’esigenza più intima del mondo in cui sorse e si affermò.
La civiltà del secolo XVII è caratterizzata dalla clamorosità esteriore, dalla posa artificiosa, dalla forma fastosa.
Il Manzoni nei “Promessi Sposi” ha delineato con perfetta aderenza alla realtà storica questa civiltà bizzarra che unisce insieme la miseria e l’abbigliamento fastoso, l’onore e il puntiglio, il senso della propria dignità e la prepotenza, la signorilità e la rozzezza, la minacciosità della legge e la sua efficacia autorevolmente riconosciuta, la crudeltà più feroce e la santità più benevola, la sensualità e l’atteggiamento pietistico.
Il tono di questa bizzarria non è mai moderato o spigliato, ma è sempre eccessivo: eccesso nel male come nel bene, non tanto nelle intenzioni quanto nelle forme; è naturale quindi che anche i poeti di quel secolo siano bizzarri ed eccessivi; infatti il poeta è l’espressione più genuina di una generazione o di una età.
A causa del loro stile bizzarro, nella vita privata e nell’arte, essi furono considerati dal popolo cervelli balzani “capaci più di dire cose curiose che cose sensate”. Renzo nell’osteria della “Luna piena” dà l’appellativo di poeta ad un giocatore che ha detto una cosa curiosa e si professa anche egli poeta in quanto, nei momenti di euforia, sa dirne di cose curiose, ed il Manzoni commenta l’espressione di Renzo dicendo che nel secolo (forse anche al tempo suo) poeta non era già una sacro ingegno, un allievo delle Muse, un abitator di Pindo, ma un cervello balzano, che avesse nel dire e nel fare più dello stravagante che del normale.
E, in verità, il poeta secentesco non amiamo immaginarlo nell’atteggiamento di invasato, nella posa di uomo che, alla luce dei lampi del suo genio inferiore, capta visioni spettacolari e con linguaggio quasi da oracolo le riferisce al piccolo mondo dei mortali, affascinati ai suoi piedi.
Cause.
Il secentismo si riassume in tre principi fondamentali:
1)- l’arte (la poesia) è forma e linguaggio:
2)- la forma e il linguaggio sono belli quando sono impressionanti.
3)- le facoltà dell’arte meravigliosa sono il Genio ed il Gusto.
Ritrovare le cause per cui si sono affermati questi tre principi significa ritrovare le cause del secentismo.
Cause del primo principio.
Una prima causa della riduzione dell’arte a forma e a linguaggio è da attribuirsi alla meschinità della vita spirituale durante il periodo che va dalla seconda metà del secolo XVI alla metà del secolo XVII.
Né ideali soprannaturali, come nel Medioevo, né ideali umani come nel Rinascimento, tengono deste ed attive le coscienze delle persone colte.
Con la crisi del Rinascimento si crea una mentalità generale conformistica (di adattamento) in tutti i campi: nel campo politico si soggiace all’influsso diretto o indiretto della Spagna; in campo religioso si accetta esteriormente la disciplina della Contro Riforma, senza accoglierla interiormente; nel campo morale si continua a distinguere tra morale teorica e morale pratica, come si era fatto nel Rinascimento; e forza di adattare i principi eterni ed immutabili della morale razionale rivelata ai casi della vita, furono talvolta perduti di vista i concetti essenziali dell’etica cristiana (la casistica spesso ammazza il principio, quando essa si riduce ad accumulare eccezioni su eccezioni al principio); in campo economico, al tenore generale di vita assai misero, normalmente mediocre, ed in certi momenti addirittura disastroso, non si apporta alcun rimedio, né con iniziative private né con provvedimenti pubblici; in politica ci si contenta, come in religione, come in economia, come in morale, della forma esteriore.
Il governo Spagnolo lancia fuori a gettito continuo gride minacciose, ma non si interessa del loro effetto.
La gerarchia ecclesiastica spesso si contenta di vigilare con l’Inquisizione e l’Indice sulla integrità esteriore della fede; gli amministratori delle città, in tempo di carestia, contentano il popolo con belle chiacchiere, intanto lo lasciano morire; i moralisti invece di illustrare ed inculcare i principi, si perdono in una casistica che permette quasi ad ognuno di fare quel che vuole.
La civiltà del ‘600, insomma, più che da convinzioni e di passioni ideali, è caratterizzata dal formalismo: e questo carattere si doveva fatalmente riflettere nella letteratura: povero e quasi nullo il contenuto, eccessivi la forma e il linguaggio.
Un seconda causa del formalismo secentesco si può individuare nel culto esagerato della retorica, messo in voga dagli umanisti del ‘400, e diventato fanatismo nella seconda metà del ‘500: per i mediocri un suggerimento, una indicazione per far bene diventa legge assoluta e quasi sostanza dell’arte, e i secentisti non avendo nulla da dire, e nel complesso essendo assai mediocri, riposero tutte le loro speranze di effetto e di forma negli artifici formali escogitati dalla retorica.
Infine anche l’esempio del Rinascimento contribuì all’affermarsi della concezione formalistica dell’arte; infatti nella letteratura, nell’arte del Rinascimento, per quanto ispirazione e forma fossero andate perfettamente di pari passo, tuttavia il culto della forma aveva impegnato i letterati e gli artisti in problemi di tecnica espressiva con tanto calore che erano riusciti a trovare forme sempre più perfette, i cui motivi, i cui aspetti geniali costituivano il motivo più profondo dell’ammirazione dei dilettanti ed anche dei professionisti. Ad esempio del Mosè di Michelangelo si ammirava più la perfezione dell’esecuzione tecnica (rilievo delle muscolature e delle vene, lavoro di panneggio, certe arditezze di posa) che l’ispirazione; similmente i Profeti della Cappella Sistina erano ammirati più per il loro rilievo scultoreo (frutto di profonda conoscenza della prospettiva) che per il senso esteriore che li animava; insomma la riforma rinascimentalista è così bella, così perfetta che fa pensare, ad un osservatore comune, che l’abilità stilistica costituisce quasi il tutto, nell’arte, o l’essenziale.
Cause del secondo principio.
Una prima causa si può individuare nel fatto che di solito chi ha nulla o poco da dire, per destare interesse e impressione, in chi ascolta, si vale delle parole grosse, delle frasi ingegnose, di certi giochi di espressione che sembrerebbero voler dire chissà quali cose, e invece non dicono nulla.
Lo stile di chi vuole affermarsi a qualsiasi costo è sempre clamoroso, artificioso e presuntuoso, vivace, variatissimo, in modo da destare l’attenzione di chi sta intorno.
Una seconda causa della magniloquenza secentesca si può individuare in un traviamento dello stile maestoso del Rinascimento. Michelangelo in scultura, pittura e architettura, Tiziano in pittura, Ariosto in poesia, avevano composto, con disegno così vasto e con ricchezza di particolari così intensi, da creare esempi perfetti di maestosità artistica, e ammiratori di questa grandezza accolsero soltanto l’impressione delle forme, ma non individuarono la sostanza intima di pensiero e di sentimento che alimenta la pienezza e la robustezza delle forme, e confusero così il grande con il grandioso.
Il Tasso fu il primo a realizzare questa confusione, la quale tuttavia non gli nocque eccessivamente perché egli aveva un pensiero ed un sentimento da esprimere.
Ma alla fine del ‘500 e nei primi anni del ‘600, nei vari campi dell’arte, si nota la tendenza al movimentato: il David del Michelangelo è l’esemplare della forza giovanile concentrata in un atteggiamento di misurata e composta audacia; il David di Bernini, invece, piegato su un fianco, con lo sguardo torvo, in atto quasi di mordersi un labbro per ira, è l’espressione della forza in atteggiamento teatrale: queste due statue in cui è svolto lo stesso soggetto possono essere assunte quasi a simbolo della grandezza cinquecentesca e della teatralità secentesca.
Anche la speculazione filosofica nella seconda metà del ‘500 ha assunto un tono audace e quasi drammatico: la concezione cosmografica aristotelico-tolemaica, messa in crisi dalla ipotesi copernicana, viene decisamente annientata dalla concezione del Bruno, il quale afferma l’infinità dell’universo e la identificazione di esso con Dio; ogni singolo essere è parte del tutto infinito e tende ad abbracciare, per così dire, e a godere l’universo. In ciascuno di noi vive Dio, cioè l’Infinito; di qui l’ingrandimento smisurato della nostra piccola vita e la sua ansia di espansione illimitata, di qui il tono di perfetta effervescenza, di perpetua tensione ad evadere i limiti e, per così dire, di perpetuo invasamento divino, cioè di perpetuo eroico furore “proteso alla consecuzione dell’immenso”.
Anche nel mondo della letteratura si è notata, nel corso del secondo ‘500, una drammaticità, ora di posa, ora di vera passione: basta pensare al Tasso, ai suoi eroi in perpetua crisi, al suo linguaggio incontentabile, all’enfasi costante del suo tono. L’architettura dell’”Orlando Furioso” è più grandiosa di quella della “Gerusalemme liberata”, ma in confronto con la medesima è più lineare, più nitida; il mondo psicologico del Tasso è meno vasto di quello dell’Ariosto, ma infinitamente più ricco di contrasti e di colpi di scena improvvisi.
Alla confusione del grande con il fastoso e l’enfatico contribuì moltissimo lo stile generale della vita che si affermò in Europa, dominata dalla civiltà spagnola.
A Spagna che nel 1492 era ancora impegnata nella lotta contro l’antico invasore moro, nel 1519, in seguito alla fortunata eredità di Carlo V, diventò la più potente nazione del mondo; passò da una vita mediocre ad una vita imperiale. Ma come avviene ad un privato, che se passa improvvisamente dalla miseria alla ricchezza, mancando di un gusto affinato dall’educazione, più che di eleganza si circonda di sfarzo spesso grossolano, così avvenne alla Spagna; mancando di una vera e propria tradizione di civiltà, di lunghe ed elaborate esperienze nei vari campi dell’attività umana, improntò affrettatamente uno stile di vita che ovviasse alle deficienze interiori con forme esteriori impressionanti.
Ad esempio la Spagna non aveva una esperienza giuridica, politica ed amministrativa da poter reggere degnamente un complesso di terre e di popoli quale era quello del suo impero; non avendo un personale esperto delle attività amministrative, la Spagna si servì, per il reggimento dei vari reami e vicereami e ducati, di nobili rozzi e di avventurieri, ai quali, passati dai pascoli degli altopiani poveri ed arretrati delle Castiglie alle grandi città italiane o alle fertili e ricche zone delle Americhe, si diedero le arie di gran signori e si proposero di affermarsi di fronte alle popolazioni con uno stile costantemente enfatico e impressionante.
Le arie di Hidalgos e di Conquistadores sono comuni anche ai più modesti e più rozzi amministratori spagnoli; dall’abito, tra militaresco e cortigiano, alle gride rimbombanti di terribili parole, ai cognomi stessi artificiosamente arricchiti dalla congiunzione di più casati e spesso dal nome della città nativa, agli elenchi infiniti delle cariche, tutto rivela in quegli uomini, spiritualmente poveri, l’ansia di far colpo.
Ma gli effetti disastrosi della loro amministrazione stanno a dimostrare che rare volte essi sono andati al di là delle belle parole: basta leggere i “Promessi Sposi”per rendersi conto di questo giudizio negativo; la guerra di Casale attirò sul Ducato di Milano una infinità di mali, ma lasciò la situazione politica come era prima; durante la carestia Ferrer invece di fornire la città di viveri, fatti venire dalle regioni vicine, acquieta il popolo con belle parole; le gride contro mi bravi furono ripetute decine e decine di volte dai governatori, uno più enfatico dell’altro, ma i bravi continuarono a vivere e a vigoreggiare.
Anche le famiglie signorili italiane, alleate più o meno strettamente alla Spagna, assimilano quello stile della boria altezzosa e del fasto senza gusto; i nobili di campagna erano più o meno come don Rodrigo, cioè superbi, prepotenti e villani; i nobili di città più o meno o spavaldi come il conte Attilio o boriosi come il Conte Zio o freddi e compassati come il padre di Gertrude.
L’onore del casato è l’ideale supremo di questa nobiltà: di qui le sopraffazioni reciproche tra famiglie e famiglie, di qui le frequenti parate dei parentadi, in occasione di fatti lieti od anche luttuosi.
Anche nel mondo ecclesiastico si afferma uno stile sfarzoso nelle divise, nelle cerimonie liturgiche, nella decorazione dei templi. Particolarmente i Gesuiti (ordine di origine spagnola e di tono religioso-militaresco) si distinguono nel culto della grandiosità, sia quando costruivano edifici ad uso di Collegio, sia quando edificavano e decoravano Chiese (ad esempio “Il Gesù di Roma”), sia quando impostavano l’educazione dei giovani su un programma tipicamente eroico; anche l’oratoria sacra assunse forme teatrali e si valse di tutti gli artifici inventati dalla retorica secentista, per far colpo sull’uditorio e pascerlo di belle parole.
Insomma l’enfasi diventa, nel ‘600, uno stile o modo mentale che si rivela in tutte le espressioni della vita. E’ chiaro che, essendo il poeta l’interprete più genuino di una generazione, tutte le espressioni poetiche del ‘600 siano intonate a grandiosità eccessiva. A confermare lo scrittore nella sua posa di invasato contribuiva anche il fatto che egli in genere era al servizio di questa o di quella corte e quindi, oltre che riflettere la civiltà del secolo nella sua forma più tipica (quella cortigiana), doveva impegnarsi a dar lustro al casato del Signore, illustrandone le gesta in forma superlativa e procurandogli l’onore di possedere, in antagonismo con gli altri casati, il più illustre verseggiatore.
In arte, più che nella poesia, il secentismo ebbe le sue più belle e più piene espressioni.
In architettura (Bernini e Borromini), il Barocco ci diede chiese e palazzi dalle linee ardite, movimentate e spezzate, dalle decorazioni sfavillanti di oro e di stucco; in scultura (Bernini) ci ha dato statue colossali dalle pose teatrali, dai panneggi svolazzanti, da certi spunti veramente interessanti per arditezza di tecnica; in pittura (Caravaggio e i Carracci) ci diede quadri dalle tinte forti e dai contrasti netti.
In conclusione il secolo XVII è caratterizzato dal gusto del grandioso e dell’impressionante: tale gusto, quando è sorretto da capacità notevoli, giunge ad esprimersi in forme interessanti e belle, quando, invece, è sorretto solo da capacità mediocri, come avviene nel campo letterario, cade in un formalismo bizzarro e stravagante, e quasi a tutti i lettori antipatico.
Cause del terzo principio.
Una prima causa del terzo principio della teoria estetica del secentismo è da individuarsi in una falsa interpretazione della genialità, quale si era rivelata nei grandi artisti e letterati del Rinascimento: Leonardo, Michelangelo, Raffaello, Tiziano, Bramante, Ariosto, Machiavelli si erano imposti all’ammirazione delle persone colte per la complessità e la originalità sia di ispirazione che di forma: Leonardo era apparso come il mago che conosceva i misteri di tutte le arti; Michelangelo come il genio solitario che vive nel mondo dei suoi segreti; Raffaello come una creatura soprannaturale ispirata dalle Muse; Tiziano il Re dei colori; Bramante come il Dedalo moderno; l’Ariosto come il vulcano inesauribile di fantasie meravigliose; il Machiavelli come l’uomo “mariolo sì, ma profondo”: insomma ognuno di quei grandi personaggi rivela una capacità anormale, una specie di misteriosa abilità gli aveva permesso di uscire dal comune e dall’ordinario.
I secentisti abbagliati da questo carattere di straordinarietà del Genio confusero l’ingegno con l’ingegnosità, cioè credettero che per creare cose grandi non fosse necessaria un grande spiritualità, bensì solo una buona dose di abilità nel cercare forme nuove e complicate.
A far confondere l’ingegno con l’ingegnosità contribuì anche assai la dottrina machiavellica circa la vera sapienza. Sapienza, per Machiavelli e per i rinascimentisti in genere, non è conoscenza del vero e intelligente applicazione di esso nella realtà della vita vissuta, ma è abilità, astuzia: il principe saggio non è quello che, nell’amministrare il suo popolo, si regola secondo i principi eterni del vero, del buono e del giusto, ma quello che, in un mondo di cattivi, sa abilmente destreggiarsi, prevenendo o respingendo le iniziative della malizia altrui con piani di difesa e di offesa spregiudicatamente combinati ed attuati; la politica così diventa l’arte delle “mine contro mine” (come fa dire al Podestà il Manzoni).
Il Botero, affermando che per la difesa della religione è lecito ricorrere a qualsiasi mezzo, convalidò il metodo del Machiavelli, sebbene ne limitasse l’uso solo alle difese della fede. Le lotte religiose in Francia tra Lega Cattolica e Lega Ugonotta, e quelle in Germania tra l’Unione Evangelica e la lega Cattolica, le bricconerie e le astuzie della diplomazia europea nel secolo XVII stanno a dimostrare che, dopo le dottrine del Machiavelli e del Botero, il successo nella vita pubblica non era affidato tanto alla sapienza e alla saggezza, quanto all’astuzia ed alla abilità.
Il secolo XVII, enfatico ed orgoglioso, fu anche un secolo attaccabrighe: il senso dell’onore diventò istinto di sopraffazione e puntiglio; sia nella cittadina di provincia che nelle grandi città, le famiglie dei nobili sono in perpetua lotta tra loro, non tanto per motivi di interesse quanto per avere la soddisfazione di infliggere l’umiliazione all’avversario.
Di qui tutto un intreccio si contrasti e di alleanze, di diplomazie familiari in competizione con altre diplomazie familiari: “mine contro mine” anche nel piccolo mondo dei privati. Ed anche in questo mondo la vittoria spetta all’ingegnoso: spetta, ad esempio, ad un Conte Attilio, che sa conquistare l’orgoglio del Conte Zio, spetta ad un Conte Zio che sa far capitolare un Padre provinciale.
E’ chiaro che in un mondo dove non si apprezza la sapienza, ma l’abilità, anche il poeta disprezzi una formazione spirituale profonda e si dedichi all’avventura della forma e della parola.
Alla formazione dell’opera d’arte concorrono tutte le facoltà dell’uomo sia perché, essendo lo spirito umano unitario, non si può concepire nessuna espressione, quindi anche l’arte, se non come risultato di u n lavoro armonico delle varie facoltà dello spirito stesso, sia in modo particolare perché l’arte è l’espressione che riassume e trasferisce in un piano ideale tutte le attività del nostro mondo interiore.
L’ingegnosità tecnica perciò, cioè l’abilità nel ritrovare forme ed espressioni che destino curiosità e meraviglia, non costituisce certo la capacità artistica vera e propria; il vero ingegno è costituito dalla capacità di percepire la realtà in un modo il più possibile completo e nell’inquadrarla in una visione vasta e seria della vita, nel sentirla con passione, cioè con intensità, nel rappresentarla con precisione e con evidenza. I poeti del ‘600 erano nell’impossibilità di creare una poesia non avendo il concetto esatto della natura e della missione del poeta.
Il gusto a cui essi si appellavano e che, insieme al genio, era la fonte inesauribile di buoni suggerimenti al compositore, e, in pratica, talmente soggettivo che non vale la pena annoverarlo tra i fattori dell’arte, a meno che non lo consideriamo come una facoltà istintiva a trovare le forme più efficaci dell’espressione linguistica, di cui sono fornite certe persone che, oltre che ad una eccellente potenza spirituale, hanno anche una notevole esperienza della parola.
Ma nel ‘600, secolo, come si è detto, orgoglioso e puntiglioso, l’individualità che al gusto è naturale viene (accentrata) esagerata in quanto è considerata come garanzia di originalità, come motivo per distinguersi dagli altri ed affermarsi come scopritori.
Giudizi sul ‘600.
Giudizi opposti sono stati enunciati nei confronti della civiltà del secolo XVII: alcuni hanno svalutato questo secolo come età di decadenza generale, altri l’hanno esaltato come età di effervescente dinamismo e di notevole attività in tutti i campi.
I primi hanno confuso il seicento con il secentismo, cioè la vita intera di quel secolo, con un particolare aspetto di essa: aspetto certamente non simpatico, o meglio antipatico al nostro gusto tradizionale latino, amante delle proporzioni e dell’armonia, della sobrietà e dell’eleganza, dell’idea e della forma.
Gli altri hanno veduto nelle varie espressioni della civiltà di questo secolo l’incarnazione di una spiritualità, di un’ansia, di una forma storicamente vera dell’anima umana nel suo evolversi incessante, cioè hanno veduto espressioni appropriate di una mentalità vera e propria; e ciò, secondo essi, è sufficiente per affermare che tutte le manifestazioni della civiltà di quel secolo hanno il loro valore.
Alla svalutazione assoluta dei primi si possono opporre conquiste veramente realizzate dal ‘600, alla rivalutazione assoluta dei secondi si può notare che non è sufficiente che una espressione di vita sia sincera e genuina perché possa essere dichiarata senz’altro pregevole.
Non si può negare che nel campo dell’architettura e della pittura il ‘600 ci ha dato delle opere veramente pregevoli.
L’ansia del nuovo e dell’improvviso, tendenza all’effetto clamoroso prodotto con l’irregolare,il capriccioso, lo spezzato, hanno trovato interpreti veramente eccellenti in architetti come Bernini e Borromini: dal colonnato di Bernini alla chiesa di S. Agnese del Borromini, c’è tutta una serie di edifici sacri dalle linee bizzarre, capaci di destare curiosità ed interesse, e dall’ornato fastoso e straricco capace di sbalordire.
Il nome di Michelangelo, di Caravaggio e dei fratelli Carracci sono giustamente rimasti celebri nella storia della pittura: compongono con il metodo dei contrasti forti e delle tinte piene ed abbondanti, ma sanno veramente raggiungere l’effetto dell’impressione forte.
Questi risultati nel campo dell’arte stanno a dimostrare che solo i mediocri nel ‘600, come in tutti i secoli, abusano di una formula tecnica per sostituire la vera ispirazione: la linea spezzata, lo stracarico ornativo, il contrasto violento rimangono pure forme se lo spirito che vuol realizzarle non conosce lo slancio dell’ardimento, la passione del grandioso.
Non si può, inoltre, negare che il secolo XVII è tra i più gloriosi per le conquiste scientifiche. Galilei, famoso per le sue invenzioni nel campo della fisica, ma più famoso per l’invenzione del metodo scientifico (metodo induttive-deduttivo); il Torricelli, il Castelli, il Redi, il Malpighi, il Viviani, sono i personaggi a cui spetta il merito di aver iniziato praticamente la serie delle invenzioni scientifiche nell’età moderna.
Nel campo politico domina, come si è visto, un deplorevole conformismo al dominio spagnolo: i signorotti del tempo non conoscono l’Italia, ma solo “il Re Filippo nostro signore o il suo creato conte Olivares”, tuttavia esiste una roccaforte, se non di italianità pura e disinteressata, almeno antispagnola, nel ducato di Savoia: intorno a Carlo Emanuele I di Savoia troviamo anche due scrittori antispagnoli: il Tassoni con “Le Filippiche”e il Testi.
Traiano Boccolini ne’ “I ragguagli del Parnaso” e ne’ “La pietra di paragone politico” rivela una audace indipendenza di giudizio.
Ma a noi interessa in modo particolare il campo letterario. Qui per poter dare un giudizio, il meno possibile inesatto, dobbiamo fare delle distinzioni. Troviamo, infatti, varie forme di ispirazione e di espressione; e, nel numero, certamente qualcosa di buono si può trovare.
Anzitutto osserviamo le espressioni del secentismo vero e proprio, cioè quelle che avrebbero potuto costituire l’interpretazione autentica dell’anima del secolo XVII, cioè dell’ispirazione al nuovo e al grandioso, caratteristica di esso.
Se G.B.Marino è il più notevole interprete di questa aspirazione e quindi abbiamo il diritto di basare il nostro giudizio particolarmente sulle sue opere, non possiamo fare a meno di riconoscere che il secentismo non ha avuto in letteratura affermazioni così gloriose, come le ha avute in architettura e in pittura.
Si nota, infatti, nelle opere del Marino, più una mania di perpetua avventura, che una mentalità solida e seria; si scorge più una segreta intenzione di apparire come un mago della parola, che un nobile proposito di incarnare, in motivi e forme ben definiti, gli ideali del secolo.
Questa osservazione relativa al Marino vale anche per la maggior parte degli scrittori del ‘660. Non mancarono, infatti, in quel secolo persone di eccellenti capacità, ma quasi tutte evitarono di fare sul serio; sia per incostanza, sia per brama di originalità che confondevano con la stravaganza, sia perché forzati dalla persuasione generale che il poeta fosse un invasato incantatore di cervelli umani.
Parallelo al movimento marinista esiste nel ‘600 una corrente classicheggiante rappresentata dal Chiabrera, dal Testi, dal Guidi e dal Filicaia: ma anche la produzione di questi autori ha nulla di preciso e di serio; della poesia classica essi non hanno assimilato né lo spirito né la forma, ma si sono contentati di adottare i metri e il tono. Nel complesso fanno l’impressione di persone che volendo imitare un famoso oratore si contentato di riprodurre il tono della voce in tutte le sue varietà di modulazione. Ci troviamo di fronte al solito concetto dell’arte concepita come forma e come tono.
Il desiderio di novità ha prodotto nel campo letterario anche generi letterari nuovi: troviamo infatti il poema eroicomico (”La secchia rapita” del Tassoni), il ditirambo (Redi), la commedia dell’arte, il melodramma.
Il Tassoni, che tra gli innovatori fu certamente il più ricco di genio, ebbe una straordinaria capacità di costruire le scene e di riprodurre i particolari, con combinazioni veramente felici, e rivelò una spigliatezza ed un duttilità di linguaggio tali che, non si esagera, a paragonarlo in questo con l’Ariosto; tuttavia egli preferì essere perpetuo mattacchione che vero poeta.
Si noti come i singoli motivi della “Secchia rapita” siano condotti con arte veramente eccellente fino al passo che precede la conclusione, e come l’ultimo passo sia costantemente una specie di balletto da istrione: con la frase volgare, con l’espressione comico-popolaresca rovina, per così dire, tutta una costruzione veramente bella.
Senza dire che manca a tutta l’opera una impostazione ben chiara e seria, cioè una vera visione della vita, che egli avrebbe benissimo potuto trattare, anche in un poema eroicomico. Il bizzarro desiderio di originalità, che lo indusse a farsi ritrarre con un fico in mano, sintetizza, presso a poco, la forma sua spirituale.
Il ditirambo nacque col Redi e col Redi si può dire che sia morto: la breve vita non fu certo gloriosa: “Bacco in Toscana” non è che un elenco di buoni vini e un esempio di virtuosismo tecnico per riprodurre lo stato di ebrietà. Un genere nuovo, dunque, ma nulla di nuovo.
La commedia dell’arte, sorta alla fine del ‘500, ebbe il suo massimo sviluppo e si abbandonò a tutte le bizzarrie possibili ed immaginabili durante il corso del ‘600: nello stile della maggior parte delle compagnie comiche essa si ridusse ad un guazzabuglio farsesco destinato a far rimanere a bocca aperta e a far crepare dalle risa un pubblico di pessimo gusto: colpi di scena, buffonerie, spacconate; quindi anche qui nulla di buono.
Il melodramma, sorto anche esso alla fine del ‘500, durante il corso del secolo XVII si ridusse ad una specie di “arie” senza vera e propria azione e con un intreccio costituito, come quello della commedia dell’arte, da vicende intricate e sbalorditive. Più notevole, per opera di valenti maestri, la parte musicale che il libretto, ridotto com’è, il più delle volte, a vere e proprie meschinerie.
L’audacia della spiritualità del ‘600 ebbe qualche notevole affermazione nel campo della critica, di cui eccellenti rappresentanti sono il Tassoni e il Boccolini: l’uno con i “Pensieri diversi”, l’altro con “I ragguagli di Parnaso”: manca sia nel pensiero dell’uno che nel pensiero dell’altro una sistematicità che inquadri e problemi e li risolva con dimostrazioni coerenti e logiche.
L’unica affermazione notevole della critica secentesca è quella relativa alle regole aristoteliche, che vengono definite non imperative, ma solo indicative. Fu questa una affermazione intelligente e capace dei più preziosi sviluppi, ma, essendo frutto più di mania antitradizionalista che di una nuova mentalità estetica, rimase senza conseguenze: ad ogni modo in essa possiamo cogliere un preludio alla reazione che più sistematicamente ed efficacemente condurranno i romantici contro la retorica dei generi letterari.
Letteratura scientifica.
La produzione letteraria a cui si è precedentemente accennato è espressione immediata della mentalità enfatica e stravagante del mondo secentesco: possiamo definirla letteratura di costume e di stile, e destinata al “letterati” e agli ambienti pomposi dell’aristocrazia, oppure agli ambienti grossolani della plebe.
Appartata da questa letteratura di costume, che, non avendo nulla da dire, moltiplica e gonfia le parole, fiorisce la letteratura scientifica.
Abbiamo visto che il ‘600 è un secolo veramente glorioso dal punta di vista delle scoperte scientifiche, non solo per quanto riguarda l’Italia, ma anche per le altre nazioni: scienze avviate sulla buona strada dal nostro Rinascimento, che aveva richiamato l’attenzione degli uomini sulla realtà terrena, realizzano in questo secolo le loro prime gloriose conquiste, avendo trovato il metodo vero e più efficace, cioè la combinazione dell’indagine sperimentale con la matematica, il processo induttivo e quello deduttivo.
Il merito del metodo e delle sue prime applicazioni spetta al Galilei. Questi visse durante il seicento, ma fuori dal mondo secentista, perché la sua anima fu sempre a contatto col mondo della natura, in cui si compiacque di indagare, e in cui trovò le più belle soddisfazioni. Simile ad un nuoco Colombo egli, munito di un metodo sicuro, entrò nel mondo, si può dire, ancora vergine della natura, e, con sua grande meraviglia, vide schiudersi, uno dopo l’altro, i misteri di essa: “Merito del metodo”, diceva egli, “che si rivela chiave infallibile dei segreti della natura”.
“Nel saggiatore” e nel “Dialogo intorno ai massimi sistemi” il Galilei espresse la sua passione scientifica, il suo entusiasmo per la infallibilità del metodo, la sua felicità per aver incontrato tanta fortuna nel mondo, prima oscuro ed ignoto, della natura.
La relazione che egli fa delle sue esperienze e delle sue conquiste, non ha il tono della cronaca freddamente narrativa: ma quella di una storia meravigliosa ed appassionante: la lucidità del suo pensiero, l’ordine perfetto della realtà fisica che egli discopre, impongono alla sua relazione nitidezza e semplicità. Chiarezza e passione, severità scientifica ed entusiasmo ottimistico fanno delle sue due opere esemplari perfetti, e sinora unici, di trattati scientifici.
Galilei aveva molte cose da dire e il suo entusiasmo era uno stato d’animo vero e proprio, e perciò non aveva bisogno di assumere pose e di chiacchierare a vuoto. Il senso di umiltà e di simpatica bonarietà con cui egli attribuisce, non a sé stesso, ma al metodo il merito delle sue scoperte, lo rende caro al lettore, il quale, finalmente, si trova di fronte ad un vero scienziato senza le ciglia aggrottate e senza le arie misteriose del mago.
La ricchezza del pensiero e la passione per l’argomento, come hanno garantito serietà ed arte alle opere scientifiche del Galilei, così hanno conferito notevole importanza letteraria all’opera storiografia di Paolo Sarpi. Questo frate veneziano, ardito sostenitore delle parti della sua Patria in una contesa con la S. Sede, indotto, da questa sua presa di posizione, a scorgere nella attività della Chiesa più l’opera degli uomini che l’azione dello spirito di Dio, compone la storia del Concilio di Trento con una mentalità naturalistica e profana, degna di un Machiavelli o di un Guicciardini. L’osservazione e la critica esplicita sono rarissime: il Sarpi si contenta di descrivere con efficacia, sicuro che il lettore intelligente capirà il suo pensiero segreto. Anche egli, come il Galilei, ha molte cose da dire e, quindi, usa uno stile molto sobrio e chiaro.
Il povero cardinale Sforza Pallavicino, che si assume il compito di rispondere, con una storia documentata, alle interpretazioni tendenziose del Sarpi, aveva anch’egli molte cose da dire, dovendo confutare e difendere con prove positive, si trovò più impacciato e gli mancò la libertà di cui può usufruire chi attacca e demolisce. Tuttavia la pesantezza della storia del Pallavicino, sia essa da attribuirsi alle esigenze della difesa o a modesta capacità artistica, è innegabile e pone l’opera stessa in un grado di inferiorità rispetto all’avversario.
Conclusione
Come tutti gli altri secoli, anche il seicento ha avuto la sua forma spirituale, il suo stile mentale: a molti nel passato e ai giorni nostri quella forma mentale presuntuosa, chiassosa e pompeggiante, non è piaciuta e non piace: ma qui non è questione di gusto, ma è questione di arte.
Come di qualsiasi forma spirituale si può creare una espressione perfetta, quindi bella, così anche la mentalità fastosa del ‘600 avrebbe potuto avere la sua espressione perfetta e bella, e di fatto, come si è visto, in certi campi l’ha avuta, mentre in molti altri ha fallito: colpa di chi questo fallimento troppo esteso e troppo evidente? Non certo colpa dell’ideale perseguito, ma, senza dubbio, della mediocrità o della ambizione di coloro che si erano assunto il compito di esprimerlo degnamente.
L’ARCADIA
L’Arcadia è un movimento letterario che sorge alla fine del secolo XVII in Roma e si diffonde, specie nella prima metà del secolo XVIII, in tutta Italia; movimento che si propone di reagire alla letteratura fastosa del ‘600 e di semplificare e ingentilire il contenuto e la forma della composizione poetica.
Per raggiungere questo fine l’Arcadia si propone:
a)- di scegliere temi semplici e facili
b)- di ispirarsi a pensieri e sentimenti evidenti ed accessibili anche alle menti più
piccine, e ricchi di potenza emotiva.
c)- di adottare un linguaggio il più possibile libero dalle forme retoriche,cioè da
tutti quegli artifici che la retorica umanistica del tardo ‘500 aveva definiti
come mezzi
efficaci di espressione, ed erano stati considerati come essenziali all’arte, e quindi coltivati con religioso entusiasmo dai secentisti (che ne avevano fatto addirittura dei fini a sé stessi): si evitano le metafore, le esclamazioni, le apostrofi, i ritmi sonori, aggettivazioni e le sinonimie abbondanti; lo stesso verso è ridotto ad una specie di prosetta piana caratterizzata solo dal ritmo.
d)- si rifiuta il concetto che l’arte sia frutto del genio e del gusto, intesi come
facoltà soggettive destinate ad inventare il linguaggio sfavillante; e si accetta il concetto classico che l’arte è il frutto di ragione e di buon gusto e che non è lecito pretendere di comporre bene senza tener presenti i modelli greci, romani e italiani, cioè l’esempio dei classici i quali (secondo il vecchio concetto umanista) restano sempre insuperabili. Nel seno dell’Arcadia sorsero divergenze circa il significato di ritorno ai classici. Alcuni (come il Gravina) propugnavano un ritorno integrale al classicismo, con la rievocazione di tutti i generi e di tutte le specie della poesia antica (come il Crescimbeni) propugnavano un ritorno parziale e precisamente un ritorno ai modelli più adatti a favorire quelle semplificazioni e quell’ingentilimento della poesia che erano nelle finalità dell’Arcadia stessa; cioè ai modella della poesia idillica quali Teocrito, Virgilio, Petrarca, Sannazzaro, Tasso. La tesi del Crescimbeni trionfò e quindi la letteratura arcadica fu essenzialmente lirica e precisamente lirico-pastorale.
Origine storica e cause dell’Arcadia
Maria Cristina di Svezia, figlia de re Gustavo Adolfo, convertitasi al cattolicesimo, trasferì la sua dimora Roma ove rinnovò, benché in tono minore, il mecenatismo signorile del Rinascimento. Costituì nel suo palazzo un circolo di letterati affinché essi tenessero alto il tono spirituale della sua casa, venissero incontro al suo personale interesse per la letteratura e dessero origine ad un nuovo movimento letterario che soppiantasse il secentismo, divenuto ormai noioso e ridicolo. Il circolo di Maria Cristina formulò ben presto un programma i cui principi furono elencati e sanciti dal Crescimbeni. Con la formulazione di un programma ben definito e con il carattere di associazione stabile, che venne ad assumere il circolo cristiniano diventò Accademia e fu denominata Arcadia.
L’accademia si diffuse ben presto in tutta Italia: sorsero ovunque colonie, e con entusiasmo cavalieri e dame dell’aristocrazia, ecclesiasti ed intellettuali laici si sentirono onorati di far parte dei circoli arcadici, cosicché ben presto il farne parte significò essere persone civili e fini; il non farne parte persone ignoranti e rozze.
Prima causa – L’accademia dell’Arcadia, dunque, si può dire filiazione diretta del circolo letterario di Maria Cristina; e si può dire, quindi, che la diffusione dei circoli letterari fu la prima causa dell’Arcadia stessa. Il circolo letterario o salotto aveva avuto origine in Francia durante il secolo XVII. Questo circolo rappresenta nella storia della letteratura francese il secolo d’oro. Durante il regno di Luigi XIV si notò in Francia un diffuso entusiasmo per la cultura anche nel ceto aristocratico, il re infatti per troncare una buona volta le lotte tra la monarchia e la nobiltà, volle accattivarsi questa concedendole privilegi e chiamandola a corte. I nobili che, dietro invito del re, si stabilirono a Parigi, si trovarono nella necessità di adeguarsi alle esigenze della vita cittadina e cortigiana.
La vita della capitale, e particolarmente quella della corte, esigevano finezza di linguaggio e di vivacità spirituale, cultura peregrina e svariata, agilità ed eleganza nei movimenti, precisione di gesti. A definire tutto questo complesso di eleganza e di gentilezze, sorse una specie di codice (l’etichetta). Per venire incontro ai bisogni della nobiltà, di recente arrivata a Parigi ed alla corte, sorsero qua e là, nella capitale, i cosiddetti salotti, cioè circoli culturali e mondani nello stesso tempo in cui i nobili potessero imparare a parlare e potessero acquistare svariate nozioni, osservare le forme sempre nuove della eleganza aristocratica e far pompa della loro vanità. Chi apriva il salotto era generalmente qualche dama o qualche principe famoso, o, se non fosse famoso, desideroso di mettersi in evidenza nel mondo aristocratico. Al circolo del salotto si conversava, ci si faceva complimenti, si ascoltavano conferenze di persone dotte su svariati temi e composizioni galanti di poeti.
A noi interessa individuare lo stile culturale del salotto. I conferenzieri e il poeta si trovavano di fronte ad un complesso di uditori i quali mancano di una vera preparazione culturale e quindi sono incapaci di intendere il linguaggio difficile e di seguire esposizioni complesse e profonde. Anzitutto, quindi, essi si preoccupano di rendere semplice, il più possibile, il loro linguaggio e di procedere nelle loro esposizioni con la massima chiarezza, sacrificando le esigenze dell’indagine profonda e severa e adottando il sistema del dire in modo grazioso e gentile cose gravi e difficili (il Parini ci presenterà alcuni tipi di poeti e di dotti di questo genere qualificandoli saputi e imbroglioni). Inoltre avendo davanti a loro una raccolta di gentili dame e cavalieri e dovendo compiacerli, condiscono volentieri il loro discorso di espressioni di omaggio e di compiacimento e, quel che più conta, adeguando la loro ispirazione alla spiritualità dell’uditorio. Tale spiritualità non era certo delle più serie e delle più profonde; l’ideale del mondo aristocratico francese, nei secoli XVII e XVIII, è quello di brillare per finezza ed eleganza.
L’aristocrazia ha cessato di esercitare qualsiasi funzione politica ed esercita solo una funzione decorativa: le famiglie nobili sono l’ornamento del paese e delle città in cui vivono.
La preoccupazione degli aristocratici è quella di affermarsi, non tanto dedicandosi a compiere grandi cose di vantaggio pubblico, quanto sforzandosi di realizzare l’ideale perfetto della grazia: ma quei “bassi geni dietro al falso occulti”, non hanno il concetto esatto della grazia. Essi infatti la concepiscono come gentilezza imparata, come artificio assimilato in modo da sembrare maturale, come ornamento studiato in modo da essere compostissimo ed apparire semplicissimo; non ripongono certo la grazia nel fine senso di civiltà che è ispirato, ad esempio da una alta concezione umana e cristiana della vita.
La giornata degli aristocratici si esaurisce in toelette, in conviti, in visite, in convegni mondani, in passeggiate pubbliche e in visioni di spettacoli teatrali. Il gruppo più gentile di questo mondo aristocratico è quello giovanile delle damine e dei cavalieri, i quali sono tutti grazia, sentimentalismo, capriccio gentile, passioncelle malinconiche.
Il poeta, il quale, tra i personaggi attivi del salotto, è il più applaudito e il più ricercato, perché sa fare complimenti, sa soddisfare gli orgogli, sa mettere i n vista chi vuol farsi notare, deve adeguare l’ispirazione alle esigenze di questo mondo grazioso, ambizioso e piccino.
La nobiltà italiana, come quella francese, non esercita più che una funzione decorativa ed ha come supremo ideale di far bella mostra di sé di fronte al volgo, di fronte ai colleghi, di fronte ai principi. Tutti i beni ereditati dagli antenati servono ad alimentare l’ambizione e a garantire la soddisfazione di capricci più o meno deplorevoli.
Mancano nel mondo aristocratico italiano vari ideali umani, degni di un popolo serio ed attivo: nei paesetti come nelle grandi città la vita delle famiglie nobili è sempre la stessa: sveglia a mezzogiorno, toeletta laboriosa, pranzo, visite, passeggiate, teatro o gioco. In questo mondo, dominato anch’esso come quello francese dall’etichetta, dal complimento, dalla mania della finezza graziosa si diffonde l’Arcadia, la quale sorge appunto come circolo letterario nel salotto aristocratico di Maria Cristina di Svezia a Roma. Il circolo letterario di Maria Cristina diventa accademia e questa diffonde le sue colonie in tutta Itali a e accoglie nei suoi banchetti di aristocratici, gli ecclesiastici, e i principi. E’ chiaro che la semplicità, la grazia dell’ispirazione, della forma arcadica dipendono dal carattere aristocratico dell’accademia stessa.
Seconda causa – Cartesio aveva insistito sulla chiarezza e la distinzione delle idee per garantire una buona indagine filosofica. Bacone aveva insistito sulla chiarezza e sulla diligenza nell’osservazione sperimentale. Il classicismo francese del secolo XVIII, cioè il secolo d’oro, aveva preso a modello l’arte poetica di Orazio (di cui aveva rielaborato lo spirito e i precetti di Boileau nella sua “Art poetique”): riflessione, chiarezza, ornato sobrio ed elegante sono i principi in cui si riassume la poetica greco-romana e quella francese del secolo d’oro. Un bisogno, dunque. di chiarezza e di semplicità, di finezza di gusto e di grazia formale, è diffuso ovunque alla fine del secolo XVII, particolarmente in seguito all’influsso della cultura francese su tutta l’Europoa centro-settentrionale.
E’ chiaro che la corrente letteraria dominante nel nostro paese, all’inizio del secolo XVIII (cioè l’Arcadia), debba anche essa risentire l’influsso francese e specialmente della poetica classicista esaltata dai critici dell’epoca di Luigi XIV:
Terza causa – Sul finire del secolo XVII, in Italia, all’influsso della civiltà spagnola subentra quello della civiltà francese (la Francia è in questo momento una delle potenze più dinamiche dell’Europa): civiltà ancora raggiante nella luce del secolo d’oro e tutta spigliatezza, finezza, agilità.
Lo stile di vita francese influenzò in Italia specialmente la nobiltà. I giovani signori del ‘700 ormai sorridono maliziosamente e provano addirittura orrore dello stile dei loro vecchi.
Un don Rodrigo, molestatore di contadinelle, fa pietà al cavalier servente del ‘700; un conte zio che non riesce a contenere tutti i gravi pensieri della sua carica, fa pietà al giovin signore spensierato e vanerello: ad uno stile di vita rozzo ed enfatico succede uno stile galante e superficiale. A ciò si aggiunge il fatto (abituale nella storia) che al cadere di una civiltà si dà vita, per reazione, ad una forma di civiltà opposta, ed allora si capirà anche meglio perché allo sforzo caricato del secolo XVII si opponga nel secolo XVIII, la grazia sdolcinata e tenue.
Quarta causa – Infine non bisogna dimenticare che l’Arcadia, come già si è detto, fu prodotta in modo particolare da un bisogno di reazione contro i pazzeschi eccessi a cui si erano abbandonati i marinisti. Ma ad un eccesso di forma si rispose pure con un altro eccesso pure di forma: sia ai secentisti che agli arcadici sfuggì il principio che, in arte non è possibile rinnovare la forma e il linguaggio se non si rinnova l’ispirazione e il contenuto (essendo la forma nient’altro che il “modo” della vita intima del soggetto ed essendo il linguaggio nient’altro che il mezzo con cui il poeta comunica agli altri la sua visione della vita intima del soggetto).
La letteratura secentista, ormai, aveva fatto il suo tempo. I poeti delle corti, dei re, dei principi ove, in armonia con lo stile enfatico in esse imperante, avevano dovuto e potuto assumere pose da ispirati ed atteggiamenti da avventurieri nell’arte e nella vita, nel secolo XVIII passarono ai palazzi nobiliari privati ove, esercitarono oltre alla funzione di segretari e di precettori, anche quella di letterati “domestici” con ispirazione e linguaggio a disposizione delle esigenze della etichetta aristocratica e delle vicende del mondo familiare interno.
La nobiltà del secolo XVII (quale ce la presenta il Manzoni) è tutta boria mezzo selvatica; quella del secolo XVIII (quale ce la presenta il Parini) è tutta leggerezza e superficialità, perché, come le corti regie e principesche del ‘600 avevano chiesto al poeta la parola roboante, così i nobili del ‘700 chiesero al poeta un complimento gentile ed ingegnoso. Se passasse l’espressione si potrebbe dire che il letterato “bombardiere” succede al letterato “giardiniere”.
Anche nelle arti della pittura e della architettura si verificò lo stesso fenomeno che abbiamo verificato nell’arte della poesia: restò evidente l’intenzione dell’artificio, ma cambiò le forme dell’artificio stesso. In pittura all’artificio dei contrasti violenti si sostituì quello delle tinte sfumate in luminosità diffusa e variatissima; in architettura al barocco fastoso e ardito succede uno stile anche esso studiatissimo, ma più gentile (questo stile fu detto “rococò” da roncaille = conchiglia, in quanto la conchiglia costituì il motivo decorativo preferito per le sue volute complicate ma graziose.).
Motivi di ispirazione dell’Arcadia
1)- La vita intesa come festa graziosa. Ogni generazione umana vagheggia uno stile di vita che essa considera il più perfetto: i nobili del ‘600 avevano concepito la vita come una affermazione boriosa della propria personalità o del casato; i nobili del ‘700 la concepiscono come una festa graziosa e così la idealizzarono. Per questi la vita era un divertimento continuato: tutte le manifestazioni della vita, perfino un funerale domestico, assumevano le caratteristiche di una rivista mondana. L’etichetta regolava questa rivista dettando norme di gentilezza alle pose, ai gesti, ai sorrisi, al saluto, a tutte, insomma, le espressioni della vita.
Il letterato arcadico interpreta le esigenze idealizzando le forme di questa vita trasferendola in un mondo di sogno, cioè in Arcadia, la terra delle tenerezze pastorali, l’isola d’Amore (ricorda il quadro del francese Vatteau :”Embarquement pour Cithère”; e “Navigazione verso l’isola di Amore” del nostro Frugoni).
Il paesaggio, graziosamente stilizzato, è costituito da vallette e collinette con prati, boschetti e ruscelletti, con greggi al pascolo, mirti, zampogne, tortorelle. In questo paesaggio: amorini, ninfe, Cupido, Venere, sotto le cui sembianze rivivono questa o quella dama, questo o quel cavaliere.
In questo mondo la vita è intreccio incessante di amori, è caccia maliziosetta, è fuga soavemente sbigottita, è sospiro, è celebrazione di trionfi per conquiste e liberazioni, è gentile compianto per incidenti o decessi: è, insomma, la vita del salotto del palazzo nobiliare trasferita in Arcadia o a Cipro.
2)- Interpretazioni psicologiche. L’enfasi del ‘600 e la graziosità del primo ‘700 furono forme spirituali di due generazioni che sentirono anch’esse, come gli uomini di tutte le età, a modo loro, la vita: la prima forma della sua clamorosità è più evidente, la seconda nella sui tenuità è più complicata
La nobiltà del ‘700 non ha cultura, benché non sia ignorante: i suoi ideali sono meschini e le sue convinzioni sono addirittura nulle, poche e artificiali. Orbene, si sa che i sentimenti possono sorgere in un anima solo se sono alimentati dalla meditazione profonda e sorretti da una volontà decisa: sentire ciò che non si conosce o che si conosce male e che non si ha intenzione di tradurre in programma di vita non è “sentimento” ma “sentimentalismo”. Caratteristiche del sentimentalismo sono la capricciosità, la leggerezza, la volubilità, la svenevolezza, come sono caratteristiche del sentimento la serietà, la profondità,la saldezza e la vigorosità.
La psicologia del mondo nobiliare settecentesco, ossia dell’Arcadia, fu caratterizzata da leggerezza e da superficialità: perciò non veri sentimenti, ma atteggiamenti sentimentali, complicati dalle esigenze dell’etichetta e della moda, ritroveremo nella produzione poetica dell’Arcadia.
L’amore (specie nell’abbondante produzione lirica dei poeti minori) è complimento alla bellezza, è fiamma capricciosa, è gelosia patetica: quando fa sul serio, quando cioè tende a diventare vero sentimento (come nei melodrammi del Metastasio) non supera mai lo stadio della tenerezza e della emozione. I drammi amorosi si svolgono come “interessanti” congiunture combinate da amore e dal fato. L’ammirazione per le alte forme di vita diventa stupore senza convinzione: gli ideali patriottici, religiosi e morali si fanno vivi per ricordare ai lettori e agli spettatori che esistono: ma restano in un mondo superiore, che destano il brivido nelle anime sensibili e il sorriso scettico negli spregiudicati. Perfino gli affetti più intimi e più umani sono interpretati con aria e tono da complimento, cosicché la produzione arcadica, in generale, sembra riflettere una spiritualità gentile, ma fredda.
3)- Motivi occasionali – Nella letteratura arcadica i motivi occasionali sono mi più frequenti. E ciò si spiega facilmente perché i poeti arcadici erano letterati puri senza una spiritualità ben definita e che quindi essi non componevano per bisogno intimo, cioè per esprimere un loro mondo interiore, ma lavoravano, per così dire, su richiesta, per commentare qualche avvenimento domestico della famiglia, di cui erano al servizio. Un fidanzamento, un matrimonio, una nascita, un grazioso incidente, un polemica interfamiliare, una morte, costituivano gli spunti ordinari e, spesso, unici della ispirazione arcadica.
E’ chiaro che, in queste composizioni occasionali, l’ispirazione si riduceva ad uno sforzo di ricerca del complimento ingegnoso, si procedeva con un linguaggio enfatico, che coprisse la miseria del contenuto.
4)- Ispirazione ottimistica – Se la vita è concepita come una festa, come una gita interminabile nella soave Arcadia o nella ridente Cipro, è chiaro che le visioni della poesia arcadica saranno normalmente serene. Al massimo qualche pastore o pastorella sospirerà per ansie o delusioni, verserà lacrimette per capricci non spuntati, per cuccioli o canarini malati, o per altri simili sciagure.
Quando (come nel melodramma metastasiano) lo sviluppo di un soggetto presenta visioni troppo tragiche, si ricorre ad ingegnosi artifici per rasserenare l’atmosfera cosicché nessuno dei lettori o degli spettatori resti con tristi immagini nella fantasia e ne soffra. Anche la visione della morte viene abilmente rasserenata o col vecchio motivo dantesco e petrarchesco della bellezza che rende gentili perfino le forme di un cadavere o con l’audace affermazione che il defunto vivrà immortale nel ricordo dei posteri.
La forma della letteratura arcadica.
1)– Liricità. La montatura arcadica, generata, come si è visto, da una graziosa illusione e sostenuta dai più ingegnosi artifici (di cui l’assegnazione di un nome pastorale classico ai vari soci era praticamente il più efficace) attraeva i pastorelli e le pastorelle, i poeti e gli ascoltatori dal mondo della vita vissuta e li trasferiva in una atmosfera di sogno emozionante. Di qui il lirismo che è il modo costante con cui gli arcadi vivono e sentono il loro mondo: un lirismo a temperatura artificiosamente mantenuta, ma presuntuoso e soddisfatto di sé stesso.
Perciò, in Arcadia, fioriscono soltanto le varie specie della lirica particolarmente quelle che nel corso dei secoli si erano rivelate più adatte ad esprimere visioni e sentimenti idillici.
Il sonetto e l’agile canzonetta sono le forme metriche più comuni di cui si valgono i poeti per complimentare una persona, per commentare un gentile episodio e commuovere i cuori gentili.
La lirica teocritea, quella virgiliana, quella petrarchesca e quella dantesca sono gli esemplari della lirica arcadica, la quale pretende di concludere tutta la tradizione idillica classica con le espressioni più sfumate e più tenui del sentimento umano. Ma di fatto si tratta di un lirismo senza pensiero e senza vigoria di personalità; è un misero lirismo sentimentale, in forme piccine e graziose, e per di più stilizzate. Degli altri generi letterari rifiorisce solo il melodramma, appunto perché, è un dramma lirico che offre il più grazioso e gentile passatempo alla nobiltà che, a tarda sera, dopo il “faticoso ozio della giornata”, si reca a teatro.
Tra i due più famosi esponenti dell’Arcadia, il Gravine e il Crescimbeni, si discusse se si dovessero richiamare in vita tutti i vari generi letterari classici o solamente quello lirico: prevalse la tendenza del Crescimbeni il quale sosteneva che l’Arcadia dovesse specializzarsi nella sola lirica e precisamente nell’idillio, affinché con forme semplici, graziose riuscisse ad eliminare lo stile fastoso e clamoroso del seicentismo.
E’ per questo motivo che in Arcadia non troviamo poemi epici o didascalici, tragedie, scritti storiografici, orazioni ecc. ecc. : questi sono generi letterari più impegnativi dell’idillio e quindi inadatti ad un ambiente che si compiaceva di composizioni gentili, facili a leggersi e tali da non esigere una applicazione lunga ed intensa. La poesia arcadica, dunque, elabora tenue e modesto contenuto, in forma essenzialmente lirica.
2)- Classicismo – Il lirismo arcadico assume le forme classiche attenuandole e aggraziandole, Come i classici, i poeti dell’Arcadia amano la descrizione nitida ed idealizzata; amano la semplicità e l’ornato piacevole; ma a differenza dei classici essi sono troppo uniformi, troppo poveri di motivi, troppo semplicisti dal punto di vista della tecnica.
Per esempio l’idealizzazione classica è sempre frutto di una rielaborazione della realtà compiuta attraverso una concezione ben chiara della vita e di un’arte originalissima nel rappresentarla artisticamente; mentre l’idealizzazione arcadica è più un modo fantastico collegato con l’etichetta dell’Accademia, che una conquista di anime assorte nella contemplazione di realtà che appassionano.
Il classicismo arcadico, dunque, è freddo, poco articolato, poco originale, poco aperto alla varietà ed alla vivacità dei vari motivi ideali della vita umana vissuta. Lo potremmo definire un classicismo da salotto che sa muoversi e destreggiarsi solo nel salotto.
Il più assennato e il più ricco tra i lirici dell’Arcadia, cioè il Metastasio, paragonati ai grandi lirici della tradizione classica appare come l’uomo che sa controllare la sua espressione, riesce a renderla chiara e graziosa, ma dice quasi sempre le stesse cose, e fra i toni dell’espressione conosce quasi esclusivamente quello patetica o quello saggio, ma di una pateticità e di una saggezza da ometto galante che mira a commuovere e a persuadere più con i gesti e con il ritmo del suo linguaggio che con la serietà e la profondità di quel che dice.
3)- Semplicità – Il programma dell’Arcadia era quello di reagire alla letteratura fastosa e complicata del secentismo: quindi è naturale che gli arcadi, di proposito, adottino una forma semplice e lineare. Però, come suole avvenire ogni volta che si reagisce ad un eccesso, il proposito di riparare i mali dei secentismo doveva fatalmente sfociare in un eccesso opposto a quello a cui si voleva rimediare, cioè nel semplicismo, nella povertà.
I poeti dell’Arcadia, infatti, per realizzare la semplicità evitano le impostazioni ampie e profonde dei loro temi e conducono i loro svolgimenti con una logica quasi infantile e per dir meglio con la logica graziosa e complimentosa dei circoli mondani aristocratici. Il sistema di inquadrare tutto nel piccolo mondo pastorale, di scegliere temi cosiddetti semplici di interpretare le forme più superficiali della psicologia umana è rivelazione chiara di questa mentalità semplicista e poverella.
E’ cosa poi evidente che una semplicità voluta di proposito diventa una semplicità artificiosa, cioè una specie di contraddizione in termini. La semplicità è quella dote per cui la composizione, anche la più complessa e la più ricca di motivi vasti e profondi, rivela ben nitidi i suoi sviluppi e le sue visioni e trasferisce con facilità tutta la portata della sua ispirazione nell’animo del lettore: essa è frutto di naturalezza, di logicità, di proporzione e di armonia: volerla ottenere con la scelta di termini facili (senza dire che nessun tema è facile per chi non sa trattarlo, né difficile per chi sa trattarlo), significa confondere la semplicità con la povertà.
Alcuni poeti dell’Arcadia si accorsero di questa povertà connessa con il metodo da essi sostenuto e seguito, perciò ricorsero a particolari accorgimenti che sostenessero il tono della composizione: l’accorgimento più comune è quello della scelta di parole sonore e della collocazione astuta delle parole stesse in modo da creare ritmi travolgenti, capaci di conciliare l’applauso anche agli svolgimenti, alle composizioni più meschine.
Ci troviamo così di fronte ad una enfasi arcadica che, pur facendo uso di mezzi d’effetto diversi da quelli usati dai secentisti, è tuttavia antipatica. Il Frugoni, alla metà del ‘700, ed il Monti, nella seconda metà del secolo stesso, sono i poeti tipicamente enfatici dell’Arcadia; con mezzi ridotti, ma sfruttati abilmente, essi sono capaci di affascina l’uditorio del salotto, di strappare l’applauso fragoroso, di dare ad intendere che essi sono veramente artisti; ma ad un lettore che esiga qualcosa di più della parola, essi appaiono assai modesti e quasi poveri.
Quelli che per superare l’impressione di povertà non ricorrono all’enfasi, ricorrono al tono grazioso e sdolcinato in modo da rivelare anche essi risorse geniali.
Il linguaggio.
Mossi sempre dal proposito di reagire “all’Idra” del malgusto secentesco i poeti arcadici oppongono al linguaggio sfavillante, retorico dei marinisti una espressione chiara e semplice e, talvolta, quasi umile. Si eliminano le metafore e si usano termini propri; vengono eliminate tutte le altre forme dell’espressione retorica e il linguaggio fluisce spontaneo e facile. I ritmi metrici, anch’essi chiari e melodici, contribuiscono a creare nel lettore quella sensazione di agilità e di leggerezza che costituì l’intento dell’arte settecentesca in tutte le sue forme.
Il pregio della chiarezza e della facilità del linguaggio costituisce forse uno dei meriti più eccellenti dell’Arcadia: peccato che quel parlare così elegante ed accessibile sia usato per esprimere una ispirazione poverella.
Meriti e demeriti dell’Arcadia.
1)- Anzitutto l’Arcadia ha avuto il merito di aver eliminato dalla circolazione nel mondo letterario quelle forme ampollose a stravaganti del ‘600; tuttavia ha avuto il demerito di aver messo in circolazione forme più simili a bambole che ad esemplari di vita vissuta, forme più da presepio e da vetrina, che la realtà concreta. Ad una esagerazione reagì con un’altra esagerazione.
2)- L’Arcadia eliminò la poesia fatta di parole e sostituì una poesia che, per quanto tenue e semplicista, pure si sforzò di prendere contatto con la psicologia umana; ma ebbe il demerito di aver limitato i motivi umani solo a quelli graziosi e sentimentali. Riportò la letteratura a contatto con la vita, ma disgraziatamente la vita fu quella del salotto, tutta grazia, ma tutta falsità.
3)- L’Arcadia ebbe il merito di aver sostituito all’arbitrio e al disordine della forma un modo di comporre logico e chiaro, e di aver richiamato in vigore lo stile classico; ma ebbe il demerito di aver stilizzato e di aver rimpicciolito e impoverito gli esemplari della poesia classica latina e italiana.
4)- Ha avuto il merito di aver esaltato la chiarezza e la semplicità, ma ha avuto il demerito di aver confuso la semplicità con la povertà, e di aver fatto della semplicità un programma letterario, mentre essa presuppone la spontaneità, anzi è generate solo da essa.
5)- Ha avuto il merito di aver creato un linguaggio facile e piano; ma ha avuto il demerito di aver rinunciato alle forme espressive complesse e degne di significato per rendere accessibile il suo dire ad una società poco colta, ma presuntuosa, niente affatto appassionata delle lettere, ma desiderosa di darsi le arie da letterato.
6)- Ha avuto il merito di aver creato una associazione letteraria di cui entrarono a far parte persone provenienti da diverse classi sociali e che ebbe le sue ramificazioni in tutte le regioni della penisola: una società letteraria che, potremmo dire, nazionale; ma ebbe il demerito di non aver accolto nei suoi ambienti né ideali sociali, né ideali patriottici.
Conclusione
Il Baretti, famoso critico illuminista, nella sua “Frusta letteraria”, sotto lo pseudonimo di Aristarco Scannabue, picchiò forte contro l’Arcadia e l’annientò. Dopo il Baretti numerosi letterati, tra cui anche l’Alfieri, si fecero beffe di quella letteratura che, anche nel suo miglior rappresentante, il Metastasio, non smentì mai la sua leggerezza e superficialità.
Come per il seicento, anche per l’Arcadia bisogna adottare un criterio di giudizio equanime il più possibile. Anzitutto dobbiamo riconoscere nella letteratura arcadica l’espressione di una mentalità e precisamente di quello stile grazioso e sentimentale che caratterizzò la vita delle classi elevate alla fine del seicento e nei primi decenni del settecento, non solo in Italia, ma pressappoco in tutte le nazioni d’Europa
Fu una letteratura da salotto più per damigelle e cavalieri che per uomini che vivono la vita nella sua concreta realtà; tuttavia chi potrebbe negare che le forme di quella letteratura non abbiano interpretato bene le esigenze e gli atteggiamenti di quel mondo culturale piccino ma vivace ? Si tratta di cosette, ma sono cosette fatte benino.
Il minuetto, creazione tipica della musica settecentesca non è forse un genere leggero, ma quando è trattato bene, come dal Boccherini, non è forse simpatico e piacevole ?
Quello dell’Arcadia non fu un movimento letterario di larghe vedute, di ampio respiro, capace di impostazioni e di costruzioni complesse e grandiose: fu un movimento che di proposito volle il piccolo e, in verità, nel piccolo seppe fare discretamente. Del resto lo stesso Aristarco Scannabue rese omaggio all’arte del Sofocle italico, cioè del Metastasio, il quale non solo non fu estraneo all’Arcadia, ma si formò e lavorò in essa come uno degli esponenti più gloriosi.
Chi paragonasse l’Arcadia al ‘300 o al ‘500 o al Rinascimento e pretendesse di mettere un Metastasio di fronte all’Alighieri o all’Ariosto o al Manzoni, cadrebbe nel ridicolo: noi giudichiamo l’Arcadia in sé e, limitato il giudizio in questi termini, dobbiamo affermare che anche l’Arcadia è espressione di uno stile spirituale storicamente vero e giustificato. Ma se passiamo ai giudizi comparativi è quel che è, ossia uno stile letterario piccino, grazioso quanto si vuole, ma sempre piccino.
IL NEOCLASSICISMO
E’ un movimento letterario e artistico fiorito nel periodo che va dall’ultimo trentennio del secolo XVIII al primo trentennio del secolo XIX: movimento caratterizzato dal proposito di interpretare la vita, l’arte e la spiritualità delle generazioni moderne facendo uso dei canoni compositivi classici.
Il classicismo è stato sempre vivo nella civiltà italiana, strettamente collegata con quella greco-romana. Nel Medioevo, la Chiesa aveva conservato quanto di meglio la civiltà classica aveva prodotto nella cultura, nell’arte, nel diritto, nell’organizzazione amministrativa. Virgilio era stato scelto da Dante come maestro che gli dava il bello stile, garanzia dell’onorato successo nella poesia.
Gli scrittori medievali avevano adottato il criterio libero di adattare l’antico al moderno nell’uso del pensiero e dell’arte dei classici. Ne avevano apprezzato il pensiero e avevano fatto proprio il principio generale della spontaneità dello stile cioè della corrispondenza tra l’ispirazione e l’espressione. Dante dichiara di aver utilizzato lo stile di Virgilio nella sua opera “Vita Nova” come corrispondenza perfetta tra il dettato del cuore e la sua espressione.
Durante il Rinascimento, gli umanisti vollero seguire il procedimento di adattare la vita moderna alla mentalità e all’espressione dei classici. La vita allora venne colta nei suoi aspetti più piacevoli e più signorili, perché questi si adattavano meglio alla idealizzazione e persino la lingua fu ricalcata sullo stampo di quelle classiche. Si ebbero ottimi saggi di perfetta imitazione dei vari generi letterari creati dai Greci e dai Romani, ma la poesia perdette un po’ il contatto con la realtà complessa della vita; e si venne formando un repertorio di procedimenti compositivi, di immagini, di espressioni linguistiche, diverso da quello usato nella pratica vissuta.
Il mondo dei letterati venne a costituirsi come una specie di Olimpo dove la poesia diventò una tecnica letteraria. Nella prima metà del settecento, l’Arcadia esprimeva la letteratura accademia classicheggiante, con scritti pregevoli per grazia e semplicità di forma. L’indirizzo accademico non poteva dettare l’ispirazione che dà vitalità alla poesia. Il neoclassicismo ha due elementi essenziali: la classicità della forma e la modernità del contenuto.
Cause della modernità del contenuto.
La letteratura illuministica potrebbe esser definita una letteratura di intellettuali e di riformisti politici. Il suo pregio era la sostanziosità del contenuto insieme con l’utilità pratica del suo programma. Quanto allo stile aveva il merito della vivacità e della spigliatezza, ma aveva i difetti della disarmonia, dovuta al procedimento polemico spesso intemperante.
Rinnovato il contenuto della letteratura, si desiderava adeguare anche lo stile; e di fatto i critici, quali il Baretti, il Bettinelli e il Verri propugnavano la necessità di uno stile rinnovato, come era avvenuto in Francia ad opera di Rousseau, di Voltaire e di Montesquieu. In Italia non ci fu un esemplare tipico, ma una molteplicità di testimonianze.
Il Verri nel suo “Caffè” aveva affermato che qualsiasi stile era buono, purché non fosse noioso. Uno stile fatto non di chiacchiere ma di cose, veniva proposto da Baretti. Il Bettinelli voleva uno stile lucido e animato dall’entusiasmo. Si finì con il far prevalere lo stile adottato in Francia: vivace, con frasi ad effetto, polemico, talora prolisso, con un linguaggio spezzato ed una fraseologia innovativa, importata dall’uso straniero e in parte dalla tradizione dei libri.
Il successo riportato dagli intellettuali illuministi svalutava la fama degli scrittori mossi da intenti estetici. La prosa di propaganda sociale stava soverchiando la poesia d’arte tradizionale. Sembrava che l’urgenza del rinnovamento della società segnasse la fine della precedente letteratura in versi che non appariva adatta a svolgere una funzione utile ai fini della rinascita generale. Gli esponenti più illustri della letteratura estetista capirono che correvano il rischio di restare ingloriosi solo per il fatto che non si decidevano a toglier via il costume di trattare i temi desunti dal repertorio delle opere greche e romane con le immagini, il linguaggio e la mentalità di quelle opere; roba ormai sorpassata, salvo che nella compiacenza degli stessi estetisti. Gli scrittori illuministi facevano furore, presentandosi come uomini moderni, capaci di parlare di realtà attuali e con un linguaggio interessante, con un tono agile, sveglio e brillante. La modernità costituiva il primo fattore del successo illuminista, in un mondo ormai ostile al passato e teso con ottimismo verso un a avvenire da edificare sulle basi della ragione, della natura, della filosofia e della scienza
I letterati fedeli alla tradizione classica erano sollecitati a svecchiare il loro repertorio di termini, di immagini, di elementi di linguaggio. Erano invitati ad accogliere quanto di buono vi era nel programma e nelle realizzazioni di rinnovamento promosso dall’illuminismo, senza smentire le doti di precisione derivate dalla tradizione classica. Da qui l’esigenza di una letteratura precisa e non superficiale, moderna nei temi, nei pensieri, nei sentimenti, e diretta a potenziare la vita. Nel programma del neoclassicismo o classicismo rinnovato era di esprimere la ricca e complessa spiritualità contemporanea, senza abbandonare i migliori canoni compositivi adottati dagli scrittori greci e romani. Questa esigenza storica fu avvertita dal Parini che nelle sue opere “Il Giorno” e le “Odi” diede il primo saggio di una poesia tutta piena di realtà e mentalità moderne.
Cause della classicità della forma.
a) L’applicazione del metodo del razionalismo illuministico nella letteratura. L’Illuminismo si proponeva di comporre schemi razionali, universali e stabili, entro i quali si potesse svolgere il divenire incessante dello spirito: la razionalità costante unita al progresso indefinito. Si potrebbe esprimere questo concetto con l’immagine di un treno del progresso, ossia del divenire dello spirito, che corre lungo i binari della razionalità.
Questo principio applicato nella letteratura presentava un problema: si doveva trovare uno stile dettato dalla ragione e quindi immutabile che fosse sempre adatto ad esprimere il contenuto perennemente mutevole dello spirito delle generazioni. I letterati di professione, conoscevano lo stile dettato dalla ragione ai Greci e ai Romani e nel corso dei secoli lo stile classico era parso, agli ingegni migliori, come stile ideale. Che cosa esige infatti la ragione da uno che vuol parlare bene, per soddisfare, in modo pieno, coloro che lo ascoltano? Che di un determinato oggetto colga tutti gli aspetti più significativi e che li esprima con precisione, con semplicità, con chiarezza, con eleganza e compostezza. Queste erano le doti caratteristiche dello stile classico, da considerare dotato di perenne vitalità, come garantito dalla ragione. Lo affermava il Winckelmann nella sua opera “L’Arte presso gli antichi” e lo pensavano anche i neoclassici i italiani, dal Parini (che era un neoclassico pur non professando l’estetica neoclassica), al Monti, al Foscolo. Il neoclassicismo, dunque, applicava in campo letterario il principio razionalistico illuministico dell’elemento costante razionale, unito con il divenire storico.
b) Stile ricco di esperienza storica. Lo stile classico veniva apprezzato, perché gli illuministi avevano creato uno stile approssimativo, nonostante i pregi della vivacità e della forza. Il loro era uno stile adatto all’esposizione polemica, più che all’interpretazione integrale degli stati d’animo propriamente poetici. Erano alle prime esperienze e non valeva la pena di sostituire lo stile classico arricchito dalle testimonianze di tanti secoli.
c) La letteratura illuministica si era specializzata nella prosa divulgativa e propagandistica con trattati di contenuto dottrinale riformatore e con un procedimento espositivo polemico; ma aveva trascurato il complesso dei temi affettivi e i procedimenti lirici e narrativi. Lo stile classico invece fin dai tempi di Atene e di Roma aveva dato prove mirabili in tutti i generi letterari: dal poema epico a quello didascalico, dalla lirica al teatro, dalla storia al romanzo: era uno stile di più vasta applicazione, in confronto a quello illuministico.
d) Gli scrittori illuministi non erano ostili allo stile classico, lo apprezzavano per la sua struttura chiara e razionale. Erano ostili soltanto all’accademia che praticava la letteratura delle frasi fatte, erudita, artificiosa, pedante, fuori dall’attualità.
e) Inoltre a rialzare il credito dello stile classicheggiante contribuiva l’ultimo saggio offerto dal Parini nel Giorno, in cui veramente l’argomento di attualità era sentito con animo schiettamente moderno e veniva svolto con procedimenti stilistici che erano propri della classicità
Estetica neoclassica.
I principi fondamentali che sono a fondamento dello stile classico e che erano stati applicati più o meno integralmente, o più o meno sapientemente, nel corso dei secoli, erano questi: l’arte è imitazione della natura; ed elabora l’idea in un piano superiore a quello della natura; la facoltà dell’arte è la fantasia; le opere siano brevi ma elaborate per mezzo della cultura letteraria in modo che ci sia la bellezza a rasserenare le persone.
PRIMO PRINCIPIO: L’arte è imitazione della natura. Questo principio fu espresso la prima volta da Aristotele, fu riconfermato da Dante il quale definisce l’arte imitatrice della natura, la quale, a sua volta imita Dio. Dl concetto è stato accettato da tutta la tradizione classicistica in duplice senso:
== come la natura incarna le idee nella materia, così che l’artista le incarna nella forma sensibile che meglio la esprima;
== l’artista nell’elaborare la forma sensibile, prende a modello l’analoga forma creata dalla natura.
SECONDO PRINCIPIO: L’arte elabora in un piano superiore a quello della natura. C’è una differenza tra la creazione della natura e la creazione dell’artista: la natura crea forme che non esprimono pienamente le idee in esse incarnate, come nessuna persona incarna pienamente l’idea di persona. Aristotele afferma che ogni cosa è in continuo divenire, perché non riesce mai a realizzare l’incarnazione perfetta della suo idea. Questa adeguazione tra idea e forma espressiva, è possibile all’artista che può crearla con la fantasia.
Il mondo dell’arte, pur tenendo presente il mondo reale, si pone su un piano superiore, quello della perfezione esemplare, fuori dalla dispersività e dall’imperfezione per mezzo della idealizzazione. L’artista sceglie un soggetto che appartiene al mondo della realtà, un soggetto storico, un paesaggio, una persona e lo trasferisce dal mondo reale al mondo ideale, dalle cose ordinarie a quelle straordinarie. Questa traslazione avviene attraverso due momenti:
== dapprima l’artista coglie la l’aspetto più significativo del soggetto, cioè l’idea che in esso vive. Ad esempio: Catelina dà l’idea della scelleratezza; Augusto l’idea della potenza serena; la Fagnani Arese (del Foscolo) l’idea dell’armonia integrale.
== l’artista, dopo intuita l’idea vivente nel soggetto, la incarna nel modo più degli degno, con una forma che ha le note più adatte ad esprimere la idea. Questa forma non è solo reale è anche ideale nello stesso tempo.
Canoni compositivi di perfezione classica: idealizzazione, mitizzazione, figurazione, armonia, eleganza, compostezza, decenza.
A – Idealizzazione. L’artista ha il compito di raccogliere, in una forma vitale, le note sensibili più significative dell’idea che si trova nella natura. Dalla scelta delle componenti più belle e dalla loro unione armonica in una figura, nasce il bello ideale. L’idealizzazione ricerca tutte le note più adatte ad esprimere il reale in modo esemplare e ideale. L’idealizzazione esclude ogni componente negativa per scegliere tutte le note più positive. Per incarnare in forma sensibile ed esemplare il cimitero bello ecco il Foscolo pronto a presentarci: cipressi e cedri; zeffiri impregnati di puri effluvi; verdi rami protesi sopra le urne, come se comunicassero una giovinezza perfetta; amici affettuosi che accendono luci con gesto gentile quasi per rispondere alla richiesta di luce espressa dagli occhi del moribondo; vasi preziosi che accolgano le lacrime; fontane e viole; persone che libano latte e raccontano le pene ai morti. Il poeta immagina questo cimitero che in realtà non esiste ma è formato da elementi reali armonizzati nell’ideale di perfezione.
B – Mitizzazione. Per mezzo dell’idealizzazione si giunge alla glorificazione. Il mito, o apoteosi, idealizza un soggetto a tal punto da farne un essere divino. Il Foscolo nelle Grazie dichiara che queste ispirarono tanta idealità al primo scultore che volle riprodurre la sua donna, che egli non venerò nel marmo la sua amica ma la dea Citteria. Nei Sepolcri, il Foscolo elabora il mito del Parini venerato come poeta ideale e sacerdote di Talia; l’Alfieri, con le sue tragedie, incarna il mito dello sdegnoso patriota, spirito sacro dell’Italia fremente per la viltà degli italiani. I Greci elaborarono il mito di Maratona, la tomba dei valorosi eroi morti in guerra contro i Persiani, tomba sacra, fonte misteriosa di suggestione e di ispirazione.
Il Canova idealizzava Paolina Bonaparte nelle forme di Venere. L’Appiani faceva l’apoteosi di Napoleone raffigurandolo nelle forme di Giove.
Il mirabile e il meraviglioso sono uniti al perfetto e al sublime. Fra romantici e classicisti, ci fu una forte polemica che offrì a questi ultimi l’occasione di chiarire le loro idee circa il sublime, il mirabile, lo straordinario indispensabile nella loro arte. I romantici si proponevano una letteratura popolare e sostenevano che l’arte doveva avere le note della semplicità e della naturalezza nell’aderire al reale.
I classicisti, pur non rifiutando le note della semplicità e della naturalezza che derivavano dal realismo, sostenevano che l’arte deve ascendere dal piano del reale a quello dell’ideale, del sublime.
Il Monti affermava che senza le meraviglia non c’è arte poetica e il “nudo, arido vero dei vati è tomba”. Il Foscolo difendeva i diritti dell’immaginazione contro il vero della storia, affermando che la fedeltà radicale agli elementi reali impedisce all’artista di creare figure eccezionali, capaci di impressionare fortemente il lettore, specie nel settore della tragedia: per questo motivo criticava la tragedia storica del Manzoni ed esaltava la tragedia idealizzante dell’Alfieri. Il Pellico, sebbene romantico, criticava Il conte di Carmagnola del Manzoni dicendo che la lettura non era affascinante perché gli eroi erano lasciati troppo simili al vero. La poesia è un mondo più bello del reale; bisogna che gli abitanti di quel mondo siano ad un grado più in su di noi, nell’amore, nell’ira, nelle virtù politiche.
Il Leopardi affermava che la semplicità e la naturalezza che rinunciano ad ogni nobiltà, conducono ad una pura imitazione del vero; e l’opera così composta colpisce molto meno di quella che, insieme con la semplicità e la naturalezza, conserva l’ideale del bello, e rende straordinario quello che è comune; il che muove la meraviglia ed il sentimento profondo, mentre non si può essere commossi dagli avvenimenti ordinari della vita che i romantici esprimono fedelmente, ma senza nulla di straordinario e di sublime che innalza l’immaginazione e ispira la meditazione profonda e l’intimità e durevolezza del sentimento.
Nello stile neoclassico, la preoccupazione di creare forme mirabili ed eccezionali ha indotto il pericolo di creare, attraverso la mitizzazione, dei mondi divinizzati ma staccati dalla vita, tuttavia ha contribuito a mitigare la crudezza del puro realismo, che è un pericolo insito nel concetto dell’arte che imita la natura. Così nei migliori classicisti il realismo e le idealità si fondono in modo che la bellezza artistica ha sì la precisione del reale, insieme ha la bellezza dell’ideale.
Per raggiungere più facilmente l’idea e l’effetto idealizzante, il poeta neoclassico usa cogliere i soggetti in posa cioè nell’atteggiamento che manifesta le loro note caratteristiche, in uno stesso tempo, mentre il movimento diluisce gli aspetti nella successione. I romantici invece, erano persuasi che la posta non è l’atteggiamento vero di un soggetto, perché nella realtà tutto è in divenire e preferiscono cogliere il soggetto in movimento. Contro di essi i neoclassici osservavano che nessuna fase del suo divenire presenta aspetti ideali e tutto rimane su un piano di realtà dispersa e misera.
Un esempio. L’Alfieri segue un metodo classico, e prima di iniziare lo svolgimento di una tragedia, ha già idealizzato, nella sua fantasia, i personaggi, e rende le singole ‘comparse’, una serie di note ideali, destinate a sviluppare la concezione iniziale con pensieri, sentimenti, parlate, iniziative degne dell’ideale. Il Manzoni, invece, si propone di offrire saggi di umanità vera, non di umanità ideale; perciò preferisce far pensare, sentire, parlare, agire i suoi personaggi con la complessità e con le contraddizioni che caratterizzano le psicologie in crisi nella vita vissuta.
C – Integralità, funzionalità, essenzialità delle note. Nella composizione della forma sensibile ideale, l’artista usa i motivi che possano compiere una funzione vitale nell’integralità e nella funzionalità. Ogni motivo deve assolvere un compito funzionale, possibilmente anche decorativo, ma senza ammettere un motivo decorativo che non sia funzionale.
Francesco Milizia nella sua opera “Principi di Architettura civile” affermava che in un edificio l’ornato doveva derivare dalla sua natura e risultarvi necessario. Nulla doveva vedersi negli elementi, che non avesse una propria funzione. Da ciò deriva il concetto di essenzialità per cui era introdotto un elemento perché necessario; aggiungere il superfluo significava sovraccaricare e confondere.
Il Foscolo esprimeva brevemente e chiaramente i suoi concetti complessivi. Ad esempio: tutte le cose sono pervase dall’ansia di giungere ad una forma assoluta ed immutabile, e quindi si adattano poco alle incessanti trasformazioni a cui sono sottoposte dalla forza insita nella materia universale. Nell’espressione foscoliana: “una forza operosa affatica le cose di moto in moto”, il verbo affaticare esprime la resistenza, la pena delle cose investite dalla forza soverchiante del cosmo.
D – Nell’insieme organicità, omogeneità, proporzione, armonia, unità, semplicità, chiarezza.
D1===L’organicità è il modo con cui ciascun elemento contribuisce alla vitalità degli altri, e tutt’insieme alla vitalità dell’organismo.
D2===L’omogeneità deriva dal fatto che tutto gli i motivi appartengono al gruppo adatto ad illustrare l’idea. Ciascun motivo richiama l’altro per affinità reciproca. In una poesia i motivi si svolgono come una melodia musicale, una serie di suoni che si richiamano fra loro. Non tutte le note musicali sono armonizzabili fra loro, così nella poesia certi motivi si richiamano fra loro, per esigenze di logica concettuale e di logica figurativa, mentre altri si respingono come estranei l’uno all’altro.
D3===La proporzione e l’armonia sono considerate come essenziali per tutte le arti (pittura, scultura, poesia, musica), come affermava il Foscolo nelle Grazie. Venere, la bellezza, salendo al cielo, mandò alle Grazie, sue figliole, l’armonia affinché esse la ispirassero negli uomini e questi fossero capaci di creare il bello. Per il Monti la struttura dell’ordine delle realtà sono nella bellezza e nella sapienza. Lo afferma nella cantica “La bellezza dell’universo”. La sapienza costituisce la struttura intima delle cose e crea i rapporti fra esse secondo criteri razionali; la bellezza dà all’universo la forma dell’armonia, cioè della proporzione. Come nell’organismo umano tutte le parti sono necessarie, ma non tutte hanno la stessa importanza, ed a ciascuna è assegnata una funzione propria, così nel creare l’armonia è essenziale sia come proporzione fra i motivi della figurazione sia inoltre come armonia fra l’ispirazione e la forma sensibile.
Un’anima bella quando è dotata di comprensione mentale ampia, di vivacità e calore di sentimento; ed è capace di comunicare il suo mondo interiore armonioso. Per il Foscolo sono belle le donne che, non solo sono dotate di eleganti forme fisiche, ma sono anche capaci di creare l’armonia dei suoni, dei moti, dei colori, dell’abbigliamento. La capacità di creare l’armonia rivela lo stato dell’armonia interiore, dello spirito. I fattori della bellezza integrale sono l’armonia di forme, l’armonia di spirito, la capacità creativa di ricreare l’armonia. Il Foscolo presenta Luigia Pallavicini, l’Amica risanata, Teresa dell’Ortis (romanzo). Di ognuna di esse si può dire che tutta l’armonia scorre dal corpo e dallo spirito: “ e un moto, un atto, un vezzo manda agli sguardi venustà improvvisa”.
Le elaborazioni dell’artista non devono essere incerte, né approssimate nella figurazione, ma debbono essere composizioni ricche di pathos e di significato, perfette nella figurazione.
D4===L’unità esiste quando gli elementi sono congiunti armonicamente e proporzionati fra di loro in modo che l’effetto generale stia a significare la vita intima del soggetto. Quando il compositore non riesce a legare vitalmente i motivi e non sa proporzionarli, si notano slegature e confusione. Le singole immagini tendono a fare da sé, ad affermarsi per conto proprio, estranee al fine dell’unità. Ciò avviene quando l’autore approfitta del tema per cedere alle sue simpatie ed alle sue antipatie nello svolgere alcuni motivi in modo troppo vivo ed esteso, a danno di altri, forse più importanti, ai quali riserva uno sviluppo mediocre, perché a lui meno cari.
D5===La chiarezza e la semplicità ossia l’evidenza e la naturalezza sono conseguenze della armonia organica e dell’unità con cui si legano in modo logico e i passaggi, i richiami reciproci delle parti. La chiarezza dei neoclassici è da intendersi come evidenza; la semplicità è da intendersi come spontaneità. All’opposto della chiarezza si trova la confusione farraginosa, cioè la mescolanza disordinata di elementi eterogenei, incapaci di diffondersi in modo vitale e logico nel pensiero e nelle immagini. La semplicità o naturalezza ha si oppongono all’artificio e alla forzatura. Nell’Iliade, nell’Eneide, nella Commedia dantesca, nell’Orlando furioso, nei grandi capolavori, i motivi svolti sono svariati, ma la linea di svolgimento e i collegamenti dei passaggi, sono costantemente logici. Il lettore li percepisce nella loro interezza. Diceva il Winckelmann che l’unità e la semplicità sublimano la bellezza, quindi la beltà deve essere come l’acqua che è giudicata tanto più salubre quanto più è pura di corpi eterogenei.
E – Concretezza; plasticità; elaborazione minuta e precisione accompagnano il procedimento nella composizione neoclassica. I procedimenti per esprimere uno stato d’animo possono essere di tre tipi: il procedimento discorsivo o concettuale; il procedimento effusivo o sentimentale; il procedimento figurativo per immagini.
Il procedimento discorsivo esprime i concetti e i sentimenti in forma espositiva e con un linguaggio concettuale. Il procedimento effusivo traduce i concetti in sentimenti e conserva a questi il loro calore nativo, attraverso un’espressività il più possibile immediata.
E1=== Concretezza. Il procedimento figurativo trasferisce i pensieri e i sentimenti nella fantasia per tradurli in immagini, così che il discorso risulta, non un’esposizione concettuale, né un’effusione sentimentale, piuttosto una serie di figure organicamente composte in un quadro (affresco) e legate tra loro dalla logica di simpatia fra esse reciproca e di concetto unitario.
I neoclassici adottano costantemente il procedimento figurativo. Secondo essi, infatti, l’arte ha il compito di dar vita sensibile all’idea. Il poeta classico evita costantemente le espressioni concettuali astratte dei filosofi e degli scienziati, e si preoccupa di dare figuratività alle idee. Orazio affermava che la poesia agiva come la pittura. Il Monti precisava che quello della poesia è parlare “visibile”. Per il Winckelmann la scultura è l’esemplare di tutte le arti, perciò anche di poeti con la parola “scolpiscono”. Il Foscolo nella dedica delle Grazie al Canova diceva “Anch’io pingo spiro a’ fantasmi anima eterna”; e sosteneva che la poesia è una specie di armonia visibile che penetra soavissima nei cuori umani.
I neoclassici fanno uso di tre mezzi adatti a illustrare le idee con immagini: attraverso la personificazione; attraverso il mito; attraverso la descrizione. Un esempio: il Foscolo, nell’introduzione dei Sepolcri, afferma questo concetto: una lapide non compensa la perdita della vita. Questo concetto viene incarnato in modo descrittivo personificato. Presenta da una parte il poeta che stava contemplando il sole che scalda la bella famiglia di erbe e di animali, in estasi di fronte all’incanto delle graziose illusioni, ascolta compiaciuto e commosso la recita artistica del suo amico Pindemonte, accoglie nella sua anima l’onda dolce dell’amore e della poesia; dall’altra parte si vede un immenso ossario che copre le terre ed i fondi marini, e in mezzo a questa macabra visione (figurata con sobrietà) una lapide, rimpicciolita nelle forme di un sasso, custodisce alcune ossa.
Il concetto viene svolto attraverso una serie di immagini. Il Monti nel suo “Sermone sulla mitologia” difende il mito contro i romantici, appunto perché questo contribuisce mirabilmente a dare vita concreta ai concetti astratti.
E2===Plasticità è la dimensione scultorea che dà rilievo alla visione poetica. I neoclassici presentano l’immagine nella sua interezza figurale: il disegno di una figura non deve essere abbozzato, né accennato, ma svolto integralmente. Al poeta, talora, bastano pochi elementi per creare una visione. Un esempio. Il Foscolo, nei Sepolcri, parla delle tombe Santa Croce, e presenta Vittorio Alfieri che viene ad ispirarsi presso di queste. La figurazione è presentata alla fantasia del lettore con una visione completa, ben rilevata, plastica, come un bassorilievo nella prima parte; e nella conclusione come una statua libera.
“ E a questi marmi
Venne spesso Vittorio ad ispirarsi.
Irato a’ patrii numi errava muto
ove Arno è più deserto, i campi e il cielo
desioso mirando; e poi che nullo
vivente aspetto gli molcea la cura,
qui posava l’austero; e aveva sul volto
il pallor della morte e la speranza” (Sepolcri 188-195).
Elaborazione minuta nei minimi particolari per rendere completo e ben visibile l’insieme.
E3=== Elaborazione minuta per cui la figurazione è elaborata nei minimi particolari, affinché l’insieme risulti completo e ben visibile. Le strutture e gli ornamenti richiedono la stessa cura che si pone nell’ideare e nell’armonizzare l’insieme. L’approssimazione, la sbozzatura, l’indefinitezza rendono la figurazione rozza ed imprecisa ed affliggono la fantasia del lettore che vuol vedere chiaro.
Tra i poeti italiani che hanno lavorato con finezza di particolare si distinguono il Parini ed il Foscolo. Quest’ultimo nei Sepolcri, ad un certo punto, per necessità di sviluppo logico, parla del cimitero campestre: non si contenta di un semplice cenno di passaggio, ma indugia sul motivo fino a svolgerlo con una raffigurazione completa:
“ Senti raspar tra le macerie e i bronchi
la derelitta cagna ramingando
su le fosse e famelica ululando” (Sepolcri 78-79)
La figurazione minuta non è un saggio di estetismo ozioso o ingombrante, ma serve a mettere in evidenza il contrasto tra la Milano dei Sardanapali, e l’abbandono, la miseria a cui la città corrotta condanna i suoi cari e perfino i suoi geni, nelle zone isolate della remota campagna; e nello stesso tempo prepara, per contrasto, la visione del cimitero che è un giardino.
E4=== La precisione si raggiunge nel curare le immagini, nel realismo ed nei vocaboli appropriati; l’immagina è scelta come la più significativa; la figurazione segue le esigenze della realismo e della idealizzazione; il poeta trova il termine linguistico più adatto alla visione interiore, quello che meglio rende l’essenza e il suono di una cosa. Ben difficile è la scelta del migliore termine linguistico. Non è difficile alla pittura, alla scultura, all’architettura di incarnare un’idea in una forma concreta in quanto esse si servono dei mezzi visivi, quali il disegno, i rilievi, i colori, i giochi di luci e di ombre.
La poesia, invece, deve rappresentare concretamente facendo uso del solo mezzo della parola, la cui percezione non impegna tanto i sensi, (come l’udito), quanto lo spirito: l’orecchio percepisce il suono, ma la portata spirituale della parola è percepita soltanto dall’intelletto, dal cuore, dalla fantasia. La bravura tecnica di un poeta consiste nell’utilizzare integralmente la triplice funzione della parola: concettuale, figurativa e musicale.
“Sdegno il verso che non crea e che suona” dice il Foscolo nella dedica delle Grazie al Canova, cioè rifiuta l’espressione creata con criteri puramente musicali, senza la preoccupazione di trasfondere in essa un contenuto di pensiero e di immagine. I difetti più gravi dell’arte, secondo i neoclassici, sono l’imprecisione e l’approssimazione: nessun discorso è efficace, quando non è preciso e nitido. Due uomini forniti di genio, di cultura, di buon gusto, abituati alla meditazione profonda, al lavoro paziente sono il Parini e il Foscolo che inventano le immagini e le figurano con precisione. Il Parini riesce splendido nel presentare la scena della Vergine Cuccia. Il Foscolo ha scene mirabili per il paesaggio fiorentino nei Sepolcri, la Vergine Romita e il lago di Lario nelle Grazie.
F – Grazia; eleganza; finezza, morbidezza; sobrietà; decenza; compostezza si addicono ad una visione ideale fatta di gentilezza di pensiero, di sentimenti, di disegno, di colorito, di suono.
F1 === Grazia. Il Monti nella Misogonia, il Foscolo nelle Grazie, il Manzoni nell’Urania, insistono tutti e tre sul concetto che la dote più preziosa dell’arte è la grazia. Sono le Grazie che compongono in armonia lo spirito degli artisti e concedono loro l’arcana armoniosa melodia pittrice, come dice il Foscolo. Ed il giovane Manzoni nell’Urania: “ da loro sol viene se cosa tra i mortali è di gentile”.
F2 === Eleganza: la preferenza va ai motivi che sono piacevoli per serenità, eleganza e fulgore. Da qui si comprende la profusione di luci, di colori, di profumi e i toni signorili e decorosi, i sentimenti dolci e sublimi che caratterizzano soprattutto la poesia del Foscolo. Qualora il poeta dovesse accogliere motivi spiacevoli, osceni o tempestosi, c’è modo di ingentilirli e di renderli piacevoli.
F3 === Finezza, morbidezza e proprietà servono ad evitare assolutamente il realismo crudo. La realtà spiacevole viene tradotta in un’immagine più fine e viene espressa con i vocaboli scelti del vocabolario umanistico. Il Foscolo, all’inizio dell’ode A Luigia Pallavicini chiama le medicine “balsami beati”.
Oppure le realtà spiacevole vengono accennate con sobrietà essenziale per distrarre l’attenzione del lettore dalla visione oggettiva ed elevarlo all’estasi. L’arte redime il brutto. Un classico esempio è la figurazione del cimitero nei Sepolcri del Foscolo. Uno scrittore romantico, dalla tendenza forte, avrebbe abbondato in particolari orridi; il Foscolo invece sceglie le note più significative nella misura della sobrietà, e colorisce piacevolmente con arte il cimitero campestre di sua invenzione.
F4 === Decenza. Alla visione ideale disdicono la trivialità e la volgarità. L’artista neoclassico mette in evidenza l’armonia delle forme, nel mondo dell’idealità. La passione e il nudo vengono velati mentre si distinguono le forme belle. Il Foscolo nelle Grazie afferma che la bellezza ha il potere di redimere lo spiacevole, e anche l’osceno. La voluttà passionale è trasformata in piacere estetico. Ma è bene che le Grazie siano velate. La bellezza, creatura letteraria ideale, sostanziata di pura armonia, è di per se casta; ma non sono casti i cuori degli uomini che la contemplano. È necessario, allora, l’aiuto con cui Pallade, e le belle arti (Flora, Iride, le Ore, le Parche, Psiche) tessano e decorino un velo mirabile per le tre caste dee.
Il poeta che affliggesse le Grazie con oscenità, è deplorevole, anche se non gli si nega l’abilità poetica. “Dioneo le Grazie afflisse. – scrive il Foscolo in riferimento al Boccaccio – Or vive il libro dettato dagli dei, ma sfortunata la damigella che mai tocchi il libro”. Il Parini, nell’ode La Caduta, reagisce sdegnosamente contro un cittadino che gli consiglia di convertire la sua musa al mestiere di vile denaro che il pudore insulti, dilettando, scurrile, i bassi geni, occulti dietro al fasto. E l’Alfieri afferma che la passione amorosa deve essere introdotta nella tragedia, solo con l’intento di mostrare, agli spettatori, la miseria a cui essa può condurre, se non è frenata fin dal principio.
F5 === Compostezza. Nel mondo idealizzato dall’arte, ogni espressione deve essere controllata, così che le parole e i gesti siano decorosi. A nessuno è permesso di gridare, contorcersi, irrompere con veemenza: anche le situazioni più cariche di forza drammatica e tragica, debbono essere contenute dentro i limiti della moderazione. Il poeta neoclassico rinuncia così alle espressioni travolgenti che sconvolgono il lettore e sono care all’uso romantico. Se si perde nell’immediatezza, l’accoramento pacato, l’impeto contenuto in forme composte sono considerati più efficaci della effusività violenta. La grazia neoclassica non è graziosità, non è sdolcinature è soltanto armonia.
TERZO PRINCIPIO: La facoltà dell’arte è la fantasia.
L’arte dà forma sensibile ai pensieri e ai sentimenti, trasformandoli in immagini nella fantasia per cui questa è la facoltà elaboratrice delle visioni poetiche. Alla creazione artistica concorrono la fantasia, l’intelletto e il cuore. L’attività della fantasia dà forma sensibile, mentre il solo pensare, di per sé, non è attività poetica, finché non interviene l’attività della figurazione nella fantasia.
I neoclassici superano la posizione della poetica illuministica che impegnava solo l’intelletto dello scrittore, e nello stile esigeva soltanto la vivacità espositiva. Gli illuministi erano scrittori divulgativi: ad essi bastava redigere trattati con una buona sostanza di pensiero e con uno stile che non fosse noioso. I neoclassici sono poeti e per essi è necessario l’impegno di tutte le facoltà dello spirito. Proprio all’inizio del secolo XVIII, troviamo lo scrittore G. B. Vico che indica nella fantasia la facoltà creatrice dell’arte; e la stessa poetica sensistica, individuando il compito dell’arte nel tradurre il pensiero in immagini sensibili, viene implicitamente ad affermare la funzione primaria de la fantasia.
QUARTO PRINCIPIO: Opere brevi, ma elaborate: la poesia esige cultura letteraria. I neoclassici avvertono che le generazioni moderne, dinamiche ed operose, non hanno né tempo né pazienza di leggere le opere complesse e lunghe. La vita del salotto, arcadico o illuminista, è orientata verso l’opera semplice e nitida: nitidi ed emotivi i melodrammi di Metastasio; semplici e vivaci il “Contratto sociale” di Rousseau, e il trattato Dei delitti e delle pene del Beccaria; brevi ed eleganti le Odi del Parini.
I neoclassici sembrano rievocare il gusto della Scuola Alessandrina ( terzo secolo avanti Cristo) e Scuola Romana dei ‘poeti nuovi’: “un gran libro, un gran male” aveva detto Callimaco, il capo degli alessandrini; e Nugae cioè brevi testi gradevoli aveva composto Catullo, esponente dei poeti nuovi. Queste brevi opere erano elaborate ed impreziosite con il valido aiuto di una cultura letteraria elevata, in grado di rievocare miti antichi e di crearne di nuovi, inventare immagini appropriate, ritmi brillanti: era stato questo il programma degli alessandrini e dei poeti nuovi. Identico appare il programma dei neoclassici.
Il Monti e il Foscolo non scrivono poemi, bensì carmi (Sepolcri e Le Grazie). Parini, Foscolo lavorano con una tecnica fine nella precisione e nell’armonia.
A facilitare il lavoro compositivo e decorativo della fantasia c’è l’intervento della cultura letteraria. La fantasia, se non è educata dallo studio, seppure fosse originale, sarà però più grezza di quella che unisce un gusto raffinato nello studio della tecnica, alle sue energie native. Questo concetto è affermato dai neoclassici in polemica contro i romantici, alcuni dei quali credevano che, per rendere più accessibile la poesia al popolo, fosse necessario smetterla con le immagini e con il frasario umanistico, per cui si poteva fare a meno anche della cultura letteraria.
QUINTO PRINCIPIO: La bellezza rasserena e ingentilisce la vita.
L’armonia ha la potenza di estasiare lo spirito umano e di trasferirlo in un mondo ideale, in cui le passioni si acquietano, i pensieri e i sentimenti si rasserenano, i costumi si ingentiliscono e si affinano. Gli stilnovisti avevano attribuito effetti mirabili alla bellezza angelica; i neoclassici li attribuiscono ad ogni forma bella, creata o dalla natura o dall’arte: l’armonia genera la grazia che si impone con il decoro e con la finezza.
La bellezza genera nell’animo umano tre effetti:
= infonde un piacere divino, il gaudio che si prova di fronte alle la perfezione. L’arte apre uno spiraglio nel mondo dell’assoluto ed astrae dalle passioni;
= genera abitudini ideali. Lo affermano il Monti nella Musogonia e il Manzoni nell’Urania, soprattutto il Foscolo nelle Grazie dove si legge: “Quando apparian le Grazie, i cacciatori e le vergini squallide e i fanciulli, l’arco e il terror deponean ammirando”… “In noi serpe un natio delirar di battaglie” … ma alla presenza delle Grazie “ dolce sentiamo per l’anima un incanto, lucido in mente ogni pensiero”. Nell’ode All’amica risanata, lo stesso Foscolo scrive: “ L’aurea beltade, onde ebbero ristoro unico ai mali, le nate a vaneggiar menti mortali”.
Jacopo Ortis, sconvolto dalla disperazione, allorché si trova di fronte a Teresa, che, bella come una Grazia, suona l’arpa “non sente più il peso di questa vita mortale”.
Cause del Neoclassicismo: rinnovamento, razionalità, progresso, cultura e arte nuova, rivoluzione, archeologia, classicità, catarsi.
I Rinnovamento generale: la rinascita generale della vita, come si verifica nella seconda metà del secolo XVIII, è promossa dal razionalismo illuminista e dal naturalismo russoniano, con ripercussioni nel campo della tradizione classicista: modernità di contenuto, vitalità e vigoria di ispirazione, concretezza e perfezione di stile esprimono un classicismo proteso ad allinearsi agli altri settori della vita in avanzata verso forme sempre più perfette.
II Costante razionale e progresso indefinito erano idee del razionalismo illuminista che andava alla ricerca di strutture stabili entro le quali sistemare l’evoluzione indefinita della vita. Il neoclassicismo formulò nell’arte canoni compositivi classici, eternamente validi perché razionali, e contenuti sempre nuovi e vivi.
III Il bisogno di superare le forme culturali illuministe porta a rivalutare gli insegnamenti della storia. Non bastava tener presente solo la forma dell’uomo-ragione, e dell’umanità ragione, prescindendo dalla tradizione; ma occorreva guardare alle circostanze concrete in cui gli individui e i popoli vivevano. I neoclassici accolgono il reale nella sua concreta integralità. La natura non presenta solo aspetti utilitari, anche aspetti belli, ed è fonte e di emozioni profonde.
IIIa: Concetto della cultura. L’uomo reale ha sentimenti e non apprezza solo i ragionamenti politici, economici scientifici; vuol sentire parlare di cose che interessano il suo cuore e sublimano la sua fantasia; vuol sentire parlare dei drammi interiori e trovare consolazione nelle pene, vuol conoscere i suoi simili, quelli che lo hanno preceduto, quelli che vivono con lui, e quelli che verranno dopo di lui. La cultura neoclassica non accetta di studiare l’uomo soltanto nella sala anatomica della ragione; bensì preferisce vederlo nel campo della storia, trasferita dall’arte sul piano delle idealità. Foscolo, nel discorso inaugurale dichiara: “ o gli italiani io gli esorto alle storie… Secondate i cuori palpitanti dei giovanetti e delle fanciulle; a sue fateli a compiangere gli uomini, a conoscere i loro difetti nei libri… Osservate negli altri delle passioni che voi sentite, dipingete, testate la pietà che parla in voi stessi. Per imparare a vivere da magnanimi non è sufficiente ragionare bisogna vivere in contatto spirituale con gli spiriti magnanimi di tutti i tempi”.
IIIb: Concetto della vita. L’uomo studiato dagli illuministi, con criteri esclusivamente scientifici, era apparso come pura forma della materia, destinato a compiere un ciclo vegetativo e sensitivo, più o meno doloroso, e poi cadere nel nulla come tutte le altre cose. L’illuminismo proponeva il materialismo enciclopedista, sostenuto da alcuni scrittori dell’Enciclopedia quali Voltaire e Diderot o da pensatori aderenti al sensismo tra cui Lemaitre e Condorcet. In tal modo la vita perdeva ogni significato ideale, si rivelava desolata; né vi era alcun fattore che la redimesse.
Tra la fine del secolo XVIII e gli inizi del XIX, lo spirito europeo sentì il bisogno di evadere da questa concezione mortificante dell’esistenza. Il Manzoni diede valore e significato alla vita illuminata dalla fede religiosa, altri, come il Foscolo, potenziavano gli ideali terreni di bellezza, amore, fama, patria e famiglia, elevandoli a forme assolute attraverso l’idealizzazione.
L’arte neoclassica venne incontro al bisogno dell’assoluto che ispirava le opere del Foscolo, creando visioni sublimi, per cui le anime in crisi, e non illuminate dalla fede, trovavano così quell’assoluto di cui erano assetate.
Mentre il materialismo enciclopedistico si compiaceva spregiudicatamente di presentare l’uomo- macchina, come materia soggetta alla ferrea pressione che affatica le cose di “moto in moto” (Foscolo), il neoclassicismo creava il mito della bellezza rasserenatrice e potenziava al massimo la suggestione dell’arte, neutralizzando il pessimismo dei pensatori. Così erano restituite alla vita le idealità che un tempo avevano consolato i grandi spiriti di Grecia e di Roma, prima della nascita del cristianesimo.
IIIc Superamento dello spirito illuminista per non ispirarsi al solo dettato dell’intelletto, né contentarsi di uno stile brillante. La novità era nell’accogliere il dettato del cuore, nel risvegliare la fantasia, in quanto cuore e fantasia non impacciano il ragionamento. Lo scrittore illuminista si contentava di essere divulgatore di riforme politiche, economiche e sociali, mentre avrebbe potuto essere un artista. Lo scrittore neoclassico è un poeta creatore di visioni belle e perciò impegna il cuore e la fantasia insieme con il suo intelletto.
Giovan Battista Vico nella sua opera “ Principi della scienza nuova intorno alla comune origine delle nazioni “ agli inizi del secolo XVIII, esaltava la fantasia come la vera facoltà creatrice dell’arte. Secondo lui la poesia si distingue dalle altre attività dello spirito perché, mentre queste elaborano il reale secondo la ragione, essa lo elabora attraverso la fantasia e si esprime con un linguaggio essenzialmente fatto di immagini.
In questo secolo caratterizzato dal razionalismo, Antonio Conti, contemporaneo del Vico, individuava nell’entusiasmo, (cioè nella fantasia accesa dal sentimento), la facoltà dell’arte. Bettinelli definiva la poesia: “un sogno fatto in presenza della ragione”. L’estetica dei sensisti sosteneva, come principio primo dell’arte, che il poeta deve pensare e parlare per immagini.
Il neoclassicismo può considerarsi come il movimento che raccoglie, sistema in dottrina, ed applica nella pratica, le affermazioni con cui già all’inizio di questo secolo si era tentato di rivalutare il sentimento e la fantasia nell’arte, contro l’esclusivismo della ragione.
IV Il particolare momento storico e politico era caratterizzato in Francia dalla rivoluzione e dall’impero napoleonico nel periodo 1789-1815. Uno dei più fervidi ed epici periodi di idealità. Libertà, uguaglianza, fraternità, popolo, progresso erano ideali assolutizzati, in forme quasi divine. Il Bonaparte, che di questi ideali apparve il sicuro realizzatore, fu considerato come il nume tutelare delle generazioni nuove.
In tempi di idealità e di epicità si afferma il gusto della bellezza elegante e decorosa, espressa con uno stile classicheggiante, specializzato nella idealizzazione luminosa e dignitosa. Genialità e giovanilità militare avvolgevano, nella luce degli ideali rivoluzionari, il Bonaparte ed i suoi ufficiali. Si comprende come fosse adottato lo stile sostanziato di lucida armonia e di sobria eleganza che già si era evoluto nelle epoche classiche di Pericle e di Augusto e durante le signorie italiane dell’epoca rinascimentale.
Ritornano in vigore alcuni nomi classici: consolato, tribunato, senato, Repubblica cisalpina, legione italica. Questa nomenclatura rievocava le glorie ed il fascino della potenza dell’Impero Romano, e serviva a dare solennità e decoro alle nuove istituzioni politiche, militari ed amministrative.
V Novità archeologiche. Gli importanti scavi archeologici di Ercolano e di Pompei (sepolte dall’eruzione del Vesuvio nel 79), e di Roma, realizzati nell’ultimo trentennio del secolo XVIII, secondo le ricerche favorite dal papa Pio VI, e condotte da uomini qualificati come Quirino Visconti e Winckelmann, riportarono alla luce numerose statue, pitture, architetture classiche. Il materiale artistico tornato alla luce negli scavi promosse profondi studi sull’arte antica soprattutto per cogliere i criteri dello stile classico, cioè il rapporto tra le forme e l’ispirazione nel modo di comporre da parte degli antichi. Da questi studi si viene a formare il nuovo gusto con le forme più adatte a soddisfarlo. Con grande favore fu accolto in tutti gli ambienti lo stile neoclassico, specie nei settori dell’architettura e della scultura.
VI Il gusto per le forme chiare ed intelligenti favorì la diffusione di uno stile che sintetizzasse la concezione intelligente con l’espressione spontanea e decorosa. Allo spirito del ‘700 educato dal razionalismo e dal naturalismo, parve irrazionale lo stile secentista, artificioso e confuso; parve fanciullesco, lezioso e falso lo stile arcadico e rococò. Si cominciò a desiderare uno stile degno di una umanità evoluta, come era quella che i contemporanei erano persuasi di avere creato.
Motivi preferiti dai Neoclassici:
1 ) La bellezza viene celebrata come armonia del corpo e dello spirito: bellezza rasserenante e civilizzatrice della vita.
2 ) L’arte viene celebrata come creazione dell’armonia e come espressione dell’anima giunta al grado del perfetto equilibrio e della sublimità.
3 ) l’amore viene celebrato come passione estetica che sublima lo spirito.
4 ) I sentimenti gentili come la pietà, gli affetti verso i cari, verso gli amici, verso i grandi, la cortesia, il buon gusto, sono celebrati come espressione di un’anima veramente evoluta e fine.
5 ) La patria è celebrata come stirpe eletta dal fato, fornita di energie superiori, destinata ad un’alta missione di civiltà, attraverso la creazione incessante di opere d’ingegno.
6 ) L’attività eroica è celebrata come espressione concreta e sincera di un’anima educata alle idealità e come mezzo per riempire il “vuoto” della vita e darle un valore superiore.
7 ) La fama è celebrata come garanzia di sopravvivenza, nel ricordo dei posteri, per chi non crede nell’immortalità dell’anima.
8 ) Il dramma dell’anima assetata di assoluto è celebrato come espressione di spiritualità energica e sublime, anelante ad evadere dall’atmosfera languida e soffocante di una vita comune, come tipiche evocazioni di quest’ansia del sublime, il Foscolo evoca Jacopo Ortis nel romanzo e l’Alfieri nei Sepolcri.
Esponenti del Neoclassicismo
A . IN ITALIA. Mentre gli scrittori illuministi e quelli romantici, per desiderio, e talora per mania, di modernità, abbandonavano la tradizione classicista e si avvicinavano con grande entusiasmo alle letterature illuministiche come quella francese o a quelle romantiche come la tedesca e l’inglese; un buon gruppo di scrittori, non meno progressisti degli illuministi, e non meno patrioti dei romantici, si proposero di dimostrare praticamente quanto fossero vigorose e vive le risorse del classicismo per allontanarsi alla mania forestiera. Erano mossi a queste posizioni dai seguenti motivi:
1 – La tradizione letteraria italiana sembrava un patrimonio preziosissimo creato dal contributo di tanti menti geniali, che, dal tempo di Omero fino al nostro Rinascimento, praticavano uno stesso metodo con una ricchezza di apporti da non trascurare. Riporre in soffitta il Vocabolario della Crusca che raccoglieva il patrimonio linguistico creato da Dante, Petrarca e Boccaccio, e che aveva insegnato a parlare e scrivere in italiano a tutti gli autori, appariva ora un gesto inconsulto, come se, per fare un esempio, uno volesse gettare a mare carico di merci preziose. La lirica del Petrarca, la prosa del Boccaccio e del Machiavelli, il mirabile poema dell’Ariosto non dovevano cedere il posto a Shakespeare, Ossian, Schiller, Goete, Bayron.
Nell’ardore della polemica tra neoclassici e romantici, i meno equilibrati, dell’uno o dell’altro schieramento, non capivano che si potevano conciliare, accogliendo entrambe le ipotesi: conservare il meglio della tradizione classica, ed aggiungere quanto di buono vi era nelle nuove proposte degli illuministi e dei romantici. Alcuni lo capivano. Il Foscolo dava forma classica alla spiritualità italiana moderna. Il Manzoni dava una forma moderna alla medesima spiritualità senza scinderla dalla tradizione ma collegandola ad essa.
2 – Inoltre i neoclassici combatterono la loro battaglia in difesa del classicismo perché sentivano che non si poteva rinunciare all’equilibrio fra ragione e sentimento, tra natura e cultura, a favore di una nuova letteratura che voleva l’immediatezza e l’utilità, sacrificando la chiarezza, la armonia e il decoro.
3 – Infine, i neoclassici difendevano la tradizione letteraria italiana in difesa della Italianità. Essi avevano l’impressione che lasciare la tradizione per la novità, significasse tradire i padri spirituali italiani, quali Virgilio, Orazio, Livio, Cicerone, Petrarca, Ariosto, Machiavelli per elemosinare nuovi sentimenti e nuove immagini dagli stranieri. Per non disprezzare la tradizione di questi padri a favore del forestierume, il Cesarotti consigliava di potenziare la lingua italiana con forme tratte dalle lingue straniere, in particolare da quella francese; mentre, dai tradizionalisti, il vocabolario della Crusca veniva considerato sufficiente ad esprimere il contenuto della spiritualità italiana.
Tra gli esponenti del neoclassicismo italiano, alcuni erano soprattutto artisti, mentre altri erano teorici e critici.
== Parini, Alfieri, Monti, Foscolo, Pindemonte erano artisti, più che teorici, erano capaci di conciliare l’antico con il moderno. Non hanno elaborato formalmente le dottrine neoclassiche. Il Parini è neoclassico per i contenuti moderni da lui illustrati e per l’uso dell’idealizzazione, del mito, dell’espressione figurativa, inoltre per la lucentezza, la armonia e l’eleganza dello stile. L’Alfieri è neoclassico per l’idealizzazione costante dei personaggi e per la compostezza delle forme, nella veemenza delle forti psicologie.
Il Monti è artista e teorico neoclassico, ma un po’superficiale e ‘bravone’: svolge principi neoclassici nel Sermone sulla mitologia. Adotta questi principi in tutte le sue opere, specie nella Feroniade.
Il Foscolo svolge i principi neoclassici, scrivendo nel 1803, il Commento alla chioma di Berenice, poemetto del poeta alessandrino Callimaco, tradotto in latino da Catullo e tradotto in italiano dallo stesso Foscolo: esemplare perfetto di un’opera breve ed elaboratissima, in cui si svolge un argomento di attualità, in forma di mito. Questo genio metodico, profondo, è capace di creare una letteratura che sintetizza l’antico e il moderno. Nel 1809 apriva il ciclo delle sue lezioni presso l’università di Pavia con la “Lezione inaugurale” invitando gli italiani a valorizzare la tradizione storica. Nel 1818 pubblicava il Saggio sulla letteratura italiana del secolo XIX. I principi neoclassici sono da lui svolti nella Ragione poetica delle Grazie. Pubblicò un saggio Della nuova scuola drammatica in Italia, in riferimento alla tragedia storica e libera composta la prima volta da A. Manzoni: Il Conte di Carmagnola; l’Adelchi. Il Foscolo non soggiace alla mania esterofila e fa apprezzare i nostri grandi poeti tra i quali si esalta in particolare Dante (nei Sepolcri e soprattutto nel Discorso sul testo della commedia) ; Petrarca (nei Sepolcri “ dolce di Calliope labbro” e soprattutto nei tre Saggi sul Petrarca definendolo il poeta delle Grazie); il Machiavelli (nei Sepolcri) ; il Tasso (in varie pagine delle opere di critica). Egli adotta i principi neoclassici in tutte le opere: nelle due Odi, nei Sepolcri, nelle Grazie, nei Sonetti. Nella prosa del suo romanzo su Jacopo Ortis volle adottare lo stile immediato proprio dei romantici.
Ippolito Pindemonte è un poeta nitido e gentile nella sua ispirazione malinconica e sentimentale, e tradusse l’Odissea.
== Tra i neoclassici che furono più critici che artisti ci sono i sostenitori intransigenti della tradizione, specialmente riguardo alla lingua. Antonio Cesari,Pietro Giordani, Carlo Botta sono gli esponenti del “purismo” cioè del movimento linguistico che si oppone all’imbarbarimento della lingua a motivo della francesizzazione degli scrittori illuministi e delle teorie del Cesarotti. Essi sostengono il ritorno alla lingua ‘pura’ del ‘300, quella di Dante, Petrarca, Boccaccio, codificata nel vocabolario della Crusca. Il Cesari, per quanto riguarda la prosa, sostiene il ritorno al latineggiare del Boccaccio ed al periodare complesso. Il Giordani invece consiglia il periodare greco, più semplice e più agile di quello latino. Il Botta propone come modelli di lingua, i toscani non solamente del ‘300 anche quelli delle ‘500 come Machiavelli, Guicciardini, Varchi, Nardi, Gelli, Fiorenzuola, ai quali egli riconosce il merito di aver arricchito e ripulito il linguaggio dei tre grandi trecentisti.
Nella questione della lingua intervennero anche il Monti e il suo genero Giulio Perticari. Essi erano avversi sia alla teoria dei puristi, che seguono come maestri di lingua solo i toscani, sia alla teoria dei romantici che considerano come unico maestro l’uso vivo da parte delle persone colte di tutta Italia. Il Manzoni precisava: l’uso vivo delle persone colte fiorentine. Monti e Perticari considerano come maestri di lingua il letterati di tutti i secoli, i quali hanno elaborato quel linguaggio “illustre” che offre tutti gli elementi necessari per esprimersi bene a chi voglia parlare con decoro e con efficacia.
Questa proposta del Monti fa eco in parte a quella di Dante Alighieri che aveva proclamato: “ La lingua italiana è quella che si parla negli ambienti colti di tutta Italia”. Mentre il Monti propone, come esemplare, la lingua scritta dei letterati; Dante aveva proposto la lingua parlata delle persone colte. L’opera che raccoglie i risultati degli studi linguistici del Monti è la Proposta di alcune correzioni ed aggiunte al vocabolario della Crusca.
Nel campo delle arti alcuni esponenti Neoclassici
Nell’architettura: Giuseppe Piermarini autore della facciata del Teatro della Scala a Milano, e della villa Reale a Monza.
Luigi Canonica autore dell’Arco della Pace e dell’Arena a Milano.
Iacopo Quarenghi autore di numerosi edifici a S. Pietroburgo
Nella scultura: Canova autore del gruppo delle Grazie, delle statue di Paolina Bonaparte, Clemente XIII, Clemente XIV e Pio VI.
Nella pittura: Andrea Appiani ha affrescato il palazzo reale di Milano dove Napoleone è effigiato come Giove.
B===== IN FRANCIA i rappresentanti del neoclassicimo
Nella letteratura: Andrea Chénier ricerca la perifrasi alla greca e l’eleganza negli Idilli nelle Odi, nei Giambi, scritti in carcere nel 1794 in attesa di morire sulla ghigliottina del governo del Terrore.
Nelle pittura: David ritrattista era autore di quadri storici a soggetto classico ed idealizzatore del Bonaparte.
C===== IN GERMANIA il neoclassicismo ebbe il suo ideatore in Winckelmann Gioacchino archeologo insigne vissuto a Roma e autore della “Storia delle arti presso gli antichi” in cui indica i pregi supremi di tutte le arti nell’armonia, nella compostezza e nell’unità, secondo l’esemplarità classica.
Il poeta neoclassico della Germania è Goethe che iniziò con il romanticismo dello “sturm”(assalto) in Goetz von Berlingen e nei Dolori del giovane Werter. Per lui, secondo l’insegnamento dell’Herder, la poesia è grido della natura e gridava contro la tirannide e contro la disperazione del cuore a cui era negato l’amore. In seguito preferì dare al dolore le forme della compostezza e della semplicità. Il vigore della natura e della psicologia umana era stato espresso da Omero in forme piene di grazia. Il Goethe scrisse: Ifigenia; Arminio e Dorotea; Elegie Romane con le note della semplicità, del vigore e della grazia.
D==== IN INGHLTERRA il neoclassicismo è espresso da John Keats che vive amando e adorando la bellezza. Dice: “una cosa bella è una cosa creata per sempre”.
Conclusione
I neoclassici espressero una sensibilità tutta moderna di anime complesse, inquiete, protese verso il sublime. Si suol dire che questa psicologia sia stata romantica. È un errore: questa psicologia era propria delle generazioni abituate dal naturalismo al “sentire caldamente” e ad esprimersi liberamente e che si compiacevano di emozioni profonde e sublimi come erano le generazioni che vissero tra la fine del secolo XVIII e gli inizi del secolo XIX.
I neoclassici espressero questa spiritualità emotiva e sublime in forme elaborate e composte, al modo dei greci e dei romani; mentre i romantici usavano forme immediate, da essi ritenute più adatte a garantire forza e genuinità all’ispirazione. Ogni movimento diffondeva un proprio gusto espressivo: i classicheggianti volevano una forma composta, aggraziata e disciplinata dall’arte; al contrario i romantici, una forma prorompente, primitiva, regolata solo dalla natura.
I temi, i pensieri, i sentimenti sono tutti dettati dalla natura personale, persino in uomini geniali, solo dalla loro natura, che, a sua volta, è il riflesso della spiritualità generale del mondo nel quale vivono. Perciò non è giusto, ad esempio, dire che il Foscolo ebbe ispirazione romantica e si espresse in forma classica; perché egli considerò il romanticismo come mortificatore dell’arte, gli appariva troppo realista, incapace di idealizzare. Il dolore, la storia, le visioni fosche si trovavano nell’animo del Foscolo che si vantava di essere classicheggiante e non le riceveva da un’ispirazione romantica. Si dovrebbe parlare piuttosto di stile classico o romantico, per ritrovare l’origine degli atteggiamenti spirituali, comuni ai classici ed ai romantici, nell’anima delle generazioni in mezzo alle quali fiorirono il neoclassicismo ed il romanticismo.
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L’ILLUMINISMO
La prima metà del secolo XVIII è dominata nel campo letterario dall’Arcadia: la seconda metà invece è sotto l’influsso dell’Illuminismo.
L’Illuminismo è un movimento culturale che si propone di razionalizzare tutte le attività umane.
Esso si propone quindi di rinnovare integralmente le basi e la struttura della vita umana, individuale, collettiva: a tale rinnovamento si procede attraverso due momenti:
1)- la demolizione del passato, cioè della tradizione;
2)- la ricostruzione razionale, la quale si realizza attraverso:
a)- l’adozione del metodo induttivo-deduttivo nel condurre le indagini;
b)- le forme pacifiche;
c)- la rivoluzione, cioè il sovvertimento violento degli ordinamenti
tradizionali, considerati come irrazionali.
Origine storica dell’Illuminismo.
Prima causa I preludi remoti dell’atteggiamento e del programma illuminista li troviamo nel nostro Rinascimento: l’esaltazione della ragione umana come facoltà capace di realizzare da sola tutte le conquiste del vero; lo studio della natura colta nelle sue leggi e nei suoi aspetti positivi; l’indirizzo pratico delle indagini e l’incipiente diffidenza nei confronti della metafisica, e, infine, il disprezzo orgoglioso della tradizione, cioè di quella medievale, sono i fenomeni caratteristici del nostro Rinascimento, ma sono anche fenomeni propri dell’Illuminismo.
Ricordiamo la spregiudicatezza di certi scrittori e filosofi del Rinascimento: Erasmo da Rotterdam – Pomponazzi – molti nostri umanisti – Bernardino Telesio – Campanella – Giordano Bruno; l’indirizzo pratico dato alla loro indagine politica da Machiavelli e dal Guicciardini e il loro aperto disprezzo per le formulazioni teoriche; ricordiamo le prime affermazioni della scienza per opera di Leonardo da Vinci, e le grandi scoperte geografiche per opera di Colombo e Vasco de Gama, e la prima affermazione dell’eliocentrismo per opera di Copernico, le quali rivelano l’interesse più vivo per il mondo fisico e una precisa intenzione di procedere all’indagine di esso attraverso ipotesi ed esperienze; ricordiamo infine la critica aspra mossa dagli umanisti al Medioevo dal punto di vita letterario, la critica mossa ad alcune affermazioni storiche credute sacrosante ( la critica alla donazione di Costantino), la critica a tutta la tradizione cattolica mossa in forma rivoluzionaria da Lutero.
Nel Rinascimento si afferma il diritto dell’uomo ad esprimersi in modo integrale, senza limitazioni; si afferma per la prima volta perfino il diritto di pensare come si vuole in fatto religioso.
Quando tramonta il nostro Rinascimento, sorgono movimenti culturali potentissimi fuori d’Italia, specie in Francia ed in Inghilterra.
Seconda causa – Come presso di noi era stata la borghesia ad avviare il Rinascimento, così presso le altre nazioni, che in seguito alla scoperta dell’America, monopolizzarono il commercio atlantico, succeduto a quello mediterraneo, furono i borghesi a dar vita alla cultura, specie in Inghilterra, in Olanda e in Francia; sotto la protezione dei rispettivi governi, viene sorgendo su una classe di cittadini intraprendenti che, ben presto, si arricchiscono in modo incredibile, attraverso l’esercizio dei traffici, delle industrie e delle colture nella madre patria e nelle colonie.
Questi cittadini in Inghilterra, verso la metà dell’600 acquistano la coscienza che essi, e non la monarchia e gli aristocratici, sono la forza vera della nazione e perciò reclamano di poter partecipare anche essi alla vita pubblica, propugnano l’uguaglianza di tutti i cittadini e la abolizione dei privilegi.
Dopo la prima rivoluzione, di cui fu vittima Carlo I°, una seconda rivoluzione del 1688, portò in Inghilterra l’affermazione definitiva della monarchia costituzionale, cioè alla partecipazione della borghesia alla direzione del Paese.
Nel 1689 Giovanni Locke, nel trattato “Governo civile” commentava la dichiarazione dell’anno precedente. Dichiarazione che si riassumeva in questo concetto: libertà dell’individuo nel campo politico-religioso-economico; uguaglianza di tutti di fronte alla legge; sovranità del popolo e concezione del governo come organo delegato dal popolo.
Le conquiste realizzate dai borghesi in Inghilterra diedero origine a tutta una letteratura sui principi della libertà, dell’uguaglianza e della sovranità popolare, di cui il saggio del Locke fu il primo, e i cui scrittori si proposero non solo di consolidare quello che era stato fatto nel paese, ma di diffondere i loro principi anche fuori dell’Inghilterra per illuminare tutte le nazioni del mondo, così sorse l’Illuminismo.
I borghesi inglesi avevano strenuamente lottato contro l’assolutismo della monarchia, contro i privilegi della nobiltà, contro il professionalismo anglicano e cattolico (i borghesi in gran maggioranza erano puritani), cioè avevano lottato contro una tradizione che dal Medioevo in poi aveva (secondo essi) oppresso il libero perfezionamento dell’individuo a vantaggio di famiglie o gruppi privilegiati, e contro il clero e la monarchia che facevano risalire la loro autorità a Dio, mentre non erano che servi mandati dal popolo: contro una tradizione di schiavitù avevano affermato i principi e le forme della democrazia e i diritti sacri dell’individuo.
La situazione politico-sociale tradizionale abbattuta in Inghilterra, permaneva nelle altre nazioni d’Europa, dove, tuttavia, la classe borghese veniva vigorosamente affermandosi.
In Francia, ove il feudalesimo politico era stato eliminato con l’affermarsi dell’assolutismo (al tempo di Luigi XI prima e di Luigi XII e XIV poi), rimaneva ancora in piedi una specie di feudalesimo sociale costituito dai privilegi di cui godevano certe classi (nobiltà e clero) a svantaggio di altre (borghesia e proletariato).
In Francia era ancora in vigore la servitù della gleba e i nobili godevano ancora i diritti feudali e economico-sociali, anche se non politico-amministrativi; la borghesia francese, a cui appartenevano molti degli intellettuali della nazione, accoglie le dottrine illuministiche sulla libertà, sulla uguaglianza, sulla sovranità popolare già elaborate in Inghilterra. Montesquieau – Voltaire – Rousseau e gli Enciclopedisti sono gloriosi propagandisti delle nuove idee.
Il tono aggressivo contro la tradizione assume le forme più svariate, nella opere di questi scrittori: tutti sono concordi nella svalutazione del Medioevo, considerato come l’età della tirannia politico-religiosa, come l’età dell’arbitrio, della superstizione, del fanatismo, dell’ignoranza e del pregiudizio, come l’età che ha posto le basi di un costume politico, sociale e civile, deplorevole e irrazionale.
Terza causa – La clamorosa smentita a certe affermazioni tradizionali ritenute come sacrosante nel campo della geografia, dell’astronomia e delle scienze in genere; smentita resa ancora più umiliante dall’atteggiamento testardo di aristotelici pedanti, aveva compromesso irrimediabilmente, di fronte agli occhi dei focosi innovatori, tutta la tradizione in generale. Dal campo scientifico si passava a quello religioso, morale, politico, economico, sociale e si coinvolgeva tutto quello che era stato affermato nel Medioevo in un unico intransigente disprezzo.
Quarta causa – L’esempio di Bacone e di Cartesio, i quali, trattando la questione del metodo (di quello induttivo Bacone, di quello deduttivo Cartesio), avevano posto come condizione della ricostruzione della scienza e della filosofia il distacco totale con la speculazione passata, avevano offerto motivi per confermarsi nei loro propositi a quelli che volevano innovare, non tanto per motivi speculativi, quanto per motivi pratici.
La “Restauratio magna ab imis fundamentibus” di Bacone enumera come punto da realizzare la lotta contro i famosi “idola”; la filosofia a stile matematico di Cartesio postula come punto di partenza il dubbio metodico.
D’ora innanzi non sarà più legittimo fare una affermazione in campo scientifico o filosofico che non sia evidente; perfino ciò che è sembrato evidente fino a questo momento, cioè la testimonianza dei sensi, viene sottoposta a critica (Hume); perfino ciò che è sembrato conclusione necessaria e metafisicamente oggettiva della ragione viene sottoposta a critica da Kant; Spinoza, Leibniz tentano di realizzare l’indagine filosofica a carattere matematico. La filosofia e la scienza, dunque, davano buoni esempi di disprezzo verso il passato e di severità razionale per le indagini future.
Non si accetterà più nulla che non sia evidente alla ragione o non risulti da una severa esperienza scientifica. La rivelazione e la storia in siffatto ambiente hanno ben poco da sperare.
Quinta causa – Ad accrescere la fiducia dell’illuminista nelle sue forze e rendere più viva la coscienza della sua superiorità sulle generazioni passate, contribuisce efficacemente anche il processo scientifico e meccanico che nel secolo XVII si afferma vigorosamente.
Leonardo da Vinci, Galileo, Newton erano stati i fondatori della fisica e della astronomia moderna. Particolarmente le scoperte nel campo della fisica conducono alla invenzione di macchine che sostituiscono le braccia umane, moltiplicano e migliorano la produzione e permettono maggiore rapidità di comunicazione. L’invenzione della macchina a vapore e del telaio meccanico costituiscono le prime e fondamentali invenzioni della tecnica moderna.
L’uomo riuscendo ad assoggettare e sfruttare le forze della natura si sente entusiasmato della potenza del suo ingegno, e, abbandonandosi all’ottimismo più roseo prevede che, in poco tempo, coi lumi della ragione e della scienza, riuscirà a realizzare uno stato felice sulla terra.
I borghesi, forniti di ricchezza mobile e ansiosi di sfruttarla investendola nell’acquisto di capitali produttivi, monopolizzano, per così dire, le invenzioni della tecnica, per impiantare industrie ed alimentare i loro commerci.
Siccome, però, la libera iniziativa, nei regimi assolutistici era coartata, essi sentivano tanto più sdegno contro lo stato sociale del tempo, quanto più si vedevano sfuggire le possibilità di un arricchimento facile e quasi favoloso.
Da qui un altro motivo per cui la borghesia appoggiò e talvolta finanziò il movimento illuminista.
Principi dell’illuminismo.
1)- Nel campo giuridico. Gli uomini hanno tutti la stessa natura ineriscono dei diritti che ne difendono l’esistenza e la potenziano. Dunque tutti gli uomini hanno gli stessi diritti naturali. La legge positiva non fa che definire nei particolari e garantire i diritti naturali, ed essendo questi eguali per tutti, anche la legge è uguale per tutti; se la legge è uguale per tutti sono aboliti i privilegi, sono abolite le classi privilegiate e si afferma l’eguaglianza sociale. Se un privilegio può restare, resti solo per chi acquista particolari meriti nel servire il popolo.
In conseguenza di questi principi viene proposta l’abolizione della esenzione dalle tasse goduta dai nobili e dal clero; l’abolizione di certe cariche politico-militari riservate ai nobili; la abolizione del diritto d’asilo; la abolizione dell’esenzione dal tribunale laico di cui godevano gli ambienti e le persone ecclesiastiche; insomma si propongono svariate riforme per applicare il principio che la legge è uguale per tutti e che, essendo essa l’espressione della ragione e della natura, non deve essere svigorita da limitazione alcuna, cioè il principio che la legge è sovrana.
2)- Nel campo politico. La società sorge non per esigenza di natura, ma in forza di un contratto (Bobbes – Locke – Rousseau). La sovranità risiede nel popolo, il quale la delega, con la condizione della revocabilità, al governo. Il governo è scelto dal popolo ed ha la funzione di mandatario, funzione che deve esercitare a servizio della comunità. Qualora, invece di servire, il governo pretenda di tiranneggiare, cioè invece di garantire i diritti naturali dei cittadini e di promuovere il progresso privato e collettivo, leda gli uni e soffochi l’altro, la comunità ha il diritto di revocare la sovranità con sistemi pacifici e con sistemi violenti.
In forza di questi principi si afferma la concezione democratica; il popolo è considerato come la forza vera della nazione, come il motore della storia, come il padrone dei suoi destini.
Si propugnano nuove costituzioni, in base alle quali (sull’esempio di quella inglese del 1698, ossia la dichiarazione dei diritti dell’uomo), si esige la trasformazione dei regimi assolutistici in regimi costituzionali. Se l’assolutismo si adatta, se si impegna con il suo metodo a servire il popolo cioè se i monarchi assoluti si illuminano) anche l’assolutismo può essere tollerato: famosi monarchi illuminati furono Federico II di Prussia, Maria Teresa d’Austria, Giuseppe II, Caterina II di Russia, e sono anche da ricordare dei famosi ministri illuminati: il Du Tillot, il Tanucci, il Pombal, il Turgot, il Necker, il Kannitz.
La legge che è l’espressione della volontà del popolo, e nello stesso tempo l’espressione della ragione deve essere una interpretazione razionale dei bisogni della comunità e una garanzia di perfezionamento.
3)-Nel campo economico. Fu particolarmente la borghesia che elaborò i principi economici dell’Illuminismo. I borghesi infatti:
a)- volevano comperare e vendere liberamente, ma si trovavano di fronte a limitazioni imposte dall’inalienabilità dei beni immobili appartenenti agli ecclesiastici ed agli aristocratici (si può dire che in ogni nazione i 4/5 dei possessi fondiari fossero in mano al clero ed alla nobiltà); volevano vendere a prezzi di concorrenza, dato che essi, con le macchine, producevano di più con spesa minore, ma erano limitati dai prezzi fissi delle corporazioni, volevano assumere la manodopera anch’essa a prezzo di concorrenza, sfruttando il più possibile le braccia del proletariato, (il quale in questo momento si accresce per la introduzione delle macchine), ma erano impacciati dalle organizzazione corporative.
b)- avevano bisogno di libertà di traffico, perciò propugnavano l’abolizione delle dogane e dei pedaggi e delle diversità delle misure e dei pesi, che rendevano impossibile e ostacolavano notevolmente la circolazione delle materie e dei prodotti all’interno della nazione; erano avversi alla importazione di prodotti stranieri, ma erano fautori ardenti di una esportazione potenziata al massimo, in modo da poter guadagnare molto e nel commercio interno e nel commercio estero.
Libertà di circolazione delle merci all’interno, protezionismo delle merci nazionali contro la concorrenza di quelle straniere, sono i due principi propugnati nel campo dei traffici.
c)- i borghesi, i quali, non potendo acquistare i capitali immobili nell’interno della nazione, compravano vaste estensioni di terre nelle colonie, per organizzarvi piantagioni specializzate, i cui rari prodotti saranno utili alla madre patria, esigono dallo Stato libertà assoluta in tutto ciò che riguarda iniziative di questo genere, e pretendono da esso perfino finanziamenti, in vista appunto della utilità comune delle loro iniziative.
Giungono perfino a chiedere allo Stato il suo intervento per la soppressione di attività economiche coloniali da parte di ordini religiosi, perché nocive ai loro interessi.
d)- borghesi i quali, con la loro ricchezza, assumono la direzione della produzione industriale, in quanto possono acquistare le macchine, esigono la più assoluto libertà d’iniziativa, e, siccome alcune attività industriali erano state monopolizzate dallo Stato e le corporazioni non permettevano che sorgessero altre industrie nei luoghi ove da tempo fiorivano i loro laboratori, essi propugnano l’abolizione dei monopoli statali di qualsiasi genere e l’abolizione delle corporazioni.
Concludendo nel campo economico, gli illuministi insistono specialmente nel principio della libera iniziativa, della libera circolazione, del libero contratto, della libera concorrenza. E la libertà politica che essi difendono è solo in funzione della libertà economica.
4)- Nel campo religioso-morale.
A)- Nel campo religioso. Gli illuministi accettano soltanto quei principi religiosi che si possono dimostrare razionalmente, cioè l’esistenza di Dio e i suoi attributi: tuttavia l’attributo della provvidenza, se non viene completamente negato, è certamente limitato: gli illuministi infatti riducono l’azione di Dio sul mondo ad una direzione generale del movimento dell’universo.
Del resto Dio stesso è da essi presentato come un essere necessario per spiegare il movimento del reale e la razionalità che è diffusa nell’universo.
I doveri dell’uomo verso la Divinità si riassumono in quello di accogliere la voce della ragione che proclama l’esistenza di un essere e in quello di rispettare l’ordine da lui definito: in altri termini il dovere, imposto dalla ragione di credere che Dio esiste, è quello di aderire a Lui attraverso l’adesione perfetta alla voce della ragione, la quale è l’interprete viva dell’ordine cosmico.
Vengono così abolite le religioni positive o rivelate e tra queste specialmente quelle che si è rivelata più intollerante ed ha tenuto più vincolate le menti (secondo gli illuministi) nel corso dei secoli, cioè il Cristianesimo.
La massoneria si propone, come programma costante, quello di combattere contro i pregiudizi, le superstizioni e le pretese politiche della Chiesa Cattolica.
I misteri, i miracoli, l’infallibilità del Papa, il culto dei Santi, vengono considerati come cose del Medioevo; i periodi storici, in cui la Chiesa ha esercitato più efficacemente il suo influsso, sono definiti periodi di oscurantismo. La Chiesa viene, inoltre, accusata di aver compresso il libero pensiero, di aver osteggiato sempre la scienza e la ragione per tenere in piedi la sua impalcatura della sua organizzazione, esclusivamente umana, e, infine, di aver puntellato con le sue teorie, con la sua prassi, le varie forme storiche della tirannia.
Il Medioevo, appunto, perché influenzato al massimo dal predominio morale e politico della Chiesa, viene definito come l’epoca più nera della storia umana; la condanna di Giordano Bruno ed il processo a Galilei alimentavano la propaganda illuminista contro la Chiesa, considerata come persecutrice della scienza e del libero pensiero.
Essendo praticamente impossibile e teoreticamente contraddittorio abbattere la Chiesa con le persecuzioni violente, oltre alla propaganda calunniosa e al discredito gettato sui dogmi e sulle istituzioni della Chiesa, gli illuministi massoni e liberali propugnano un rigido controllo, da parte dello Stato, di tutte le attività svolte dalla gerarchia ecclesiastica entro i confini della nazione; si propugnano la censura delle encicliche e delle bolle papali e la approvazione governativa delle decisioni della gerarchia cattolica, interna alla nazione.
Il complesso dei principi e dei metodi escogitati dagli illuministi, riguardo ai rapporti tra Stato e Chiesa, si chiama giurisdizionalismo.
Di queste teorie fu propugnatore ardente in Italia lo storico Pietro Giannone e furono spregiudicati esecutori, più,o meno in buona fede, il Tanucci a Napoli, il Pombal in Portogallo, Giuseppe II in Austria.
Che certi privilegi, goduti dalla Chiesa nel corso dei secoli, dovessero cadere, in seguito alla affermazione di un più chiaro concetto della sovranità dello Stato, è innegabile, ma è anche innegabile che alle proposte giurisdizionalistiche era di base una mentalità non troppo benevola verso il cattolicesimo.
B)- Nel campo morale. Il bene e il male sono definiti dalla ragione; non si accettano criteri morali dettati dalla religione positiva, perché il criterio della ragione è sufficiente ed esclusivo. La ragione ci dice la natura umana è buona, essendo facoltà umana ordinata all’esercizio di una funzione che contribuisce al perfezionamento totale dell’individuo, e attraverso questo, al perfezionamento della società.
Il peccato originale, con tutte le conseguenze che gli si suole attribuire, è una invenzione delle religioni positive, tuttavia non si può negare che, a chi osservi bene l’uomo, appare evidente in lui uno squilibrio innato tra la parte irrazionale e quella razionale.
Il principio fondamentale della morale perciò è il seguente: bisogna seguire la natura alla luce della ragione.
Il perfezionamento morale dell’individuo e della società si realizzerà con l’affermarsi progressivo della ragione, e alla affermazione della ragione contribuirà efficacemente l’esperienza anche se talvolta di carattere moralmente negativo (una specie di “errando discitur”, che evidentemente contraddice al razionalismo assoluto degli illuministi).
L’uomo si perfeziona passando da esperienza in esperienza, superando continuamente sé stesso, in forza delle energie intime della ragione, che, in campo morale, si chiama coscienza; e così abolire l’educazione dall’esterno; la formazione morale é autoformazione (Rousseau).
Gli illuministi nutrono fiducia che, eliminati gli educatori tradizionali, che avevano oppresso lo spirito umano con precetti e paure, e sostituite ad essi le guide rette e sicure della natura e della ragione, si avrà una umanità più buona, più sincera, più agile, più dinamica e spigliata e quindi più capace di progredire sulle vie della civiltà (e siccome gli ordini religiosi in genere, e specialmente i Gesuiti, avevano esercitato nel corso dei secoli una funzione primaria nel campo dell’educazione della cultura,
gli illuministi propugnarono l’abolizione delle congregazioni religiose, e, calunniando i Gesuiti, fecero sì che gli Stati cattolici stessi richiedessero la soppressione, che fu attuata da Papa Clemente XIV nel 1773).
5)- Nel campo letterario. La letteratura troppo spesso, nel corso dei secoli, si era fatta
serva degli interessi e degli orgogli di famiglie aristocratiche e di ambienti oziosi: l’esempio più recente era quello dell’Arcadia. Troppo spesso anche le lettere erano state fine a sé stesse e si erano chiuse nei circoli dotti e nelle accademie: belle frasi, belle immagini, ritmi ricercati, molte parole, ma poche cose. La poesia, per servirci di una espressione manzoniana era, si può dire diventata l’ultima, la più vile, la più servile delle professioni, avendo essa il fine di divertire quella classe di uomini che non faceva altro che divertirsi.
Gli illuministi si sono proposti di fare sul serio, anche perché al trionfo delle loro idee è collegata tutta una riforma politico-sociale-amministrativa, che deve rivendicare e garantire i diritti della borghesia. Perciò essi hanno bisogno di diffondere le loro idee in mezzo a tutte le classi, per vedere quanto prima realizzato il sogno di una società più ragionevole e, quindi, più umana.
Il mezzo di propaganda più efficace è la letteratura, ma una letteratura rinnovata nei temi, nell’ispirazione, nella forma, nel linguaggio:
a)- nei temi. Gli argomenti che uno scrittore moderno deve preferire sono quelli relativi ai vari campi della speculazione illuministica: temi di giurisprudenza, di politica, di economia, di religione, di morale e di pedagogia. Sono eliminati i temi fantasiosi, mitici, lirici; i temi suggeriti dalle circostanze di una vita di complimenti e di artifici.
b)- nella ispirazione. Il popolo italiano del secolo XVIII si accorge, svegliandosi come da un sonno durato due secoli, che i popoli ai quali egli era stato maestro di civiltà, hanno compito tali progressi in ogni campo dell’attività umana, che hanno lasciato molto indietro il loro vecchio maestro. La Francia del ‘600 contava un Corneille, un Racine, un Moliere, un Pascal, un Bossuet, un Fenelon, un Cartesio, e nel ‘700 contava scrittori famosissimi in tutta Europa (anche se non proprio degni di gran fama), quali Montesquieu, Voltaire, gli Enciclopedisti e Rousseau.
L’Inghilterra, nel campo letterario, poteva già contare un Shakespeare, un Milton, e una recente fioritura di romanzi di avventure e di sentimento; in filosofia contava già F. Bacone, un Locke, un D. E Hume, un Berkeley; nel campo della meccanica vantava la scoperta del battello a vapore e del telaio meccanico; nel campo dei commerci e della colonizzazione vantava il predominio su tutti i mercati del mondo e la fondazione di città anglosassone in tutti i continenti; e nel campo della politica interna vantava la più democratica fra le costituzioni europee.
Anche la Germania si stava svegliando politicamente ed economicamente per opera dei re di Prussia e degli imperatori Maria-Teresa e Giuseppe II, e in letteratura erano già noti in Europa di Klopstoch, autore della “Messiade”, di Wieland e di Lessing: in filosofia erano noti i nomi di Leibniz, di Wolf e Kant stava preparando la sua rivoluzione filosofica.
Perfino la Russia, per opera di Pietro il Grande prima e Caterina II più tardi, incomincia a svecchiarsi.
Gli Italiani, di fronte ai giovani popoli stranieri (specialmente di fronte agli Inglesi, agli Olandesi, ai Prussiani) riconoscevano di essere vecchi, di aver dormito troppo, di essere arretrati.
Allorché, quindi, penetrano in Italia, per la prima volta, le teorie illuministiche, attraverso le opere degli autori francesi del ‘700, la nostra classe colta, umiliata dal progresso straniero, sente la viva ansia di svecchiare, di aggiornarsi e di contribuire, coi loro scritti, alla modernizzazione della vita nei vari Stati della penisola.
La fonte di ispirazione, perciò, a cui essi attingono è il complesso delle teorie illuministiche relative ai vari campi dell’attività umana.
Dovendo svecchiare e modernizzare, essi esprimono le loro antipatie nei confronti della tradizione letterario-politico-economica italiana e la loro ammirazione per il progresso compiuto all’estero e le loro speranze per un rinnovamento rapido e sicuro.
La critica letteraria aggredisce la nostra letteratura da Dante alla metà del ‘700, demolendo spietatamente anche i più grandi scrittori, e dal punto di vista del contenuto, considerato irrazionale o inutile, e dal punto di vista della forma e del linguaggio, considerati come retorici e accademici.
Ma la critica letteraria colpisce particolarmente la letteratura del ‘600 e dell’Arcadia, come artificiosa, vuota e inutile; si propugna una letteratura più concreta, più aderente alla vita, più degna di esercitare la funzione di alimentatrice del progresso.
La letteratura, perciò, non è più intesa come la creazione di belle visioni fantastiche, come descrizioni colorite di mondi immaginari, ma come interpretazione acuta e sicura delle esigenze e delle aspirazioni del mondo moderno; spariscono, perciò, poemi, romanzi, liriche ispirate a fantasia più o meno oziosa o a sentimenti più o meno superficiali e sensati.
La lirica stessa, come genere letterario, si riduce di molto, perché predominano i generi didascalici in prosa e talvolta in versi.
Alla lirica di ispirazione soggettiva delle crisi e degli entusiasmi del poeta, si sostituisce una lirica di ispirazione sociale e umana, che possa suscitare l’interesse di tutti. Il senso di umanità, di dignità morale, il senso di schiettezza e di dinamicità, ispirano la lirica di questo periodo, la quale poi, in fondo, si riduce a quella Pariniana.
Non mancano nella produzione lirica del Parini stesso motivi occasionali e complimenti, ma sostanzialmente la poesia diventa seria e si propone di essere utile.
Tutto ciò che di buono propongono gli illuministi nel campo morale, sociale, politico, economico e tecnico-scientifico, viene elaborato dalla nuova lirica, con entusiasmo sincero e spirito ottimistico.
c)- nella forma. La letteratura essendo destinata ad esercitare la missione propagandistica dei lumi della ragione presso il maggior numero possibile di uomini, deve adottare una forma spigliata, chiara e semplice; cosicché attragga i lettori e comunichi con efficacia la verità.
Siccome i soggetti che vengono trattati riguardano problemi politici, economici, scientifici, morali, giuridici, è chiaro che la forma con cui essi vengono svolti non può essere che quella espositiva o didascalica.
In questo periodo, perciò, fiorisce il solo genere letterario della didascalica nelle sue specie di trattato in prosa, del poemetto in versi, della commedia e della tragedia a fine educativo; della lirica, come è stato già detto, resta quasi esclusivamente la forma dell’ode di ispirazione morale e civile.
Tra le specie del genere didascalico predomina quella del trattato. In questa specie si erano già resi famosi i francesi, e i nostri scrittori illuministi, sull’esempio di quelli, si proposero di dare forma spigliata e chiara alle loro opere; per dare spigliatezza e vivacità al trattato, essi all’esposizione serratamente logica, aggiunsero descrizioni ed esemplificazioni colorite.
Il tono ora è serio e cattedratico, ora invece ironico, spregiudicato e, talvolta, appassionato. E siccome il trattato, nella forma tradizionale, per quanto ravvivato dalla vivacità delle descrizioni e dalla varietà dei toni, rimaneva sempre un po’ pesante, furono accolte forme espositive nuove, già in uso presso gli Inglesi e i Francesi, cioè quella del trattato epistolare e quella del trattato periodico.
Uno scrittore che vuol esporre al pubblico alcuni principi importanti nei vari campi dell’indagine illuministica, immagina di viaggiare all’estero presso popoli che, o in forza dell’attuazione di quei principi hanno realizzato ottimi progressi, o, a causa di ignoranza di quei principi, sono ancora in stato di primitività civile; e fingono di comunicare per lettera le loro impressioni e i loro commenti ad amici o a parenti.
Oppure lo scrittore finge che un illustre personaggio invii ad una accademia o a qualche persona colta particolare, delle lettere in cui esprima le sue opinioni ed i suoi giudizi su svariati argomenti; gli esempi più illustri del trattato epistolare erano stati in Francia quelli del Montesquieau (“Les lettres persanes”) e del Voltaire (“Lettere francesi”); in Italia adottano la forma epistolare il Baretti, il Bettinelli, l’Algarotti.
Più vivace del trattato in forma tradizionale, e di quello in forma epistolare, è il trattato periodico, cioè un complesso di articoli, di svariato argomento, che vengono pubblicati periodicamente (il periodico aveva avuto i suoi preludi nei nostri “annunzi letterari” della metà del ‘500, che erano recensioni delle opere più degne di nota, e nei “Ragguagli” del Boccalini. Ma il periodico come lo intendiamo oggi, cioè come pubblicazione a intermittenze regolari, sorge in Inghilterra con lo “Spectator” di Addison; in Italia, nella seconda metà del ‘700, abbiamo i famosi periodici del “Caffè”, della “Frusta letteraria”, dello “Osservatore veneto” e della “Gazzetta veneta”.
Il teatro, che tra i generi letterari di propaganda, è tra i più efficaci, si mette anche esso a disposizione del movimento illuminista con le opere del Goldoni e dell’Alfieri.
Il poemetto didascalico ha la sua affermazione maggiore per opera del Parini. E’ da notare che tutti gli scrittori di ispirazione illuministica sono d’accordo che bisogna svecchiare la forma, cioè che bisogna evitare le impostazioni solenni, le esposizioni sostenute e barbose, il tomo uniforme, e che è necessario liberarsi, una volta per sempre, dalla tirannide della retorica, cioè dalle forme fisse ed immutabili.
Il Beccaria nell’opera intitolata “Ricerche intorno alla natura dello stile” dichiara: “lo stile va posto nell’analisi del pensiero; e poiché esso è formato da idee e sentimenti, il modo di esprimere deve essere corrispondente ai sensi dai quali si sente mosso l’autore”.
Insomma si è tutti d’accordo che quando si scrive bisogna essere originali, cioè capaci di adattarsi alle esigenze dei temi, delle ispirazioni e alla capacità dei lettori.
Ciò non vuol dire che si propugni la eliminazione del classicismo: si rifiuta la tirannide della retorica classicista, ma la forma nitida, sensata, il tono vivace e intelligente, l’ornamento sobrio dei classici antichi vengono considerati come ottimi esempi di bello scrivere da imitarsi, specialmente da chi vuole, come gli illuministi, parlare con chiarezza e con decoro.
Orazio, specie quello delle satire e delle epistole, per il suo buon senso, per la sua arguzia, per la sua esposizione decorosa e vivace nello stesso tempo, viene considerato come il migliore dei maestri.
Il tono battagliero e spregiudicato non manca nella letteratura illuministica: ne sono esempi famosi “La frusta” del Baretti e “Le lettere virgiliane” del Bettinelli; ma e l’asprezza polemica e la spregiudicatezza di giudizio sono dettati da un istintivo bisogno dei reagire a tutta una tradizione accademica, paludata e complimentosa.
Nel complesso il rinnovamento della forma, insieme al rinnovamento del contenuto, fece sì che le opere dei nostri scrittori uscissero dalle accademie e dai circoli dotti e incominciassero a circolare in mezzo al popolo.
d)- nel linguaggio. Se gli scrittori illuministi volevano farsi capire dal maggior numero possibile di lettori, dovevano anche svecchiare il linguaggio e affrontare il problema della lingua italiana, correggendo la soluzione che ne aveva fatto il Bembo. Questi, agli inizi del ‘500, aveva affermato che la lingua delle persone dotte italiane, per gli scritti e per la conversazione decorosa, era quella degli autori toscani del ‘300, e particolarmente quella del Petrarca e del Boccaccio.
Il vocabolario della Crusca, compilato alla fine del ‘500, aveva codificato la lingua proposta dal Bembo e, alla metà del ‘700, quando l’ansia del rinnovamento e lo stile della praticità si affermava vigorosamente, le persone colte italiane si esprimevano ancora con un linguaggio arretrato di quasi quattro secoli.
Il ragionamento che fecero gli illuministi nel campo linguistico fu assai semplice: la lingua, essi dissero, è un mezzo convenzionale per esprimere pensieri e sentimenti; il pensiero e il sentimento sono sempre in evoluzione; dunque anche la lingua è soggetta a continui rinnovamenti: a forme nuove di vita, forme nuove di linguaggio.
Essi, perciò, propongono l’abolizione del vocabolario della Crusca e l’adozione di un linguaggio vivo delle persone colte di tutta Italia; e qualora in questo linguaggio vivo ed attuale, uno scrittore non trovi alcune forme linguistiche che gli sono necessarie, può ricorrere a forme straniere o addirittura può crearne delle nuove (tenendo però in questo caso presente la natura della lingua italiana).
Il “Caffè” del Verri, cioè “I soci dei pugni”, si impegnò a combattere la battaglia linguistica, affiancato da Melchiorre Cesarotti, autore del saggio “Sulla filosofia delle lingue”.
Il Granelleschi dei Venezia, con a capo Carlo Gozzi (l’antimodernista per spirito di contraddizione), passarono alla difesa, senza riserva, del vocabolario della Crusca.
Una via di mezzo, tra i rivoluzionari del “Caffè” e i conservatori granelleschiani tennero i “Trasformati” di Milano, con a capo Giuseppe Imbonati: essi cioè sostennero che il patrimonio linguistico racchiuso nel vocabolario della Crusca doveva essere rispettato, ma era necessario anche aggiornarlo (il Monti insieme al suo genero Giulio Perticari, propose di attuare il programma dei “Trasformati” nell’opera “Proposta di aggiungere correzioni al vocabolario della Crusca”.
Le tre correnti non vennero mai ad una conciliazione: i seguaci del “Caffè” si espressero troppo spesso con linguaggio infarcito di barbarismi, con periodi spezzati, capricciosi, come quelli degli scrittori francesi, e costituirono oggetto di scandalo per i conservatori e per gli stessi moderati.
Il Parini, che fece parte della “Accademia dei Trasformati”, è stato l’unico scrittore del tempo che abbia saputo conciliare la decorosità e la sceltezza del vecchio linguaggio con le esigenze della novità e della vivacità. Così il rinnovamento letterario proposto dai nostri scrittori, che simpatizzavano per gli illuministi, non si limitò alla demolizione del passato, come comunemente si afferma, ma delineò i principi fondamentali su cui dovevano basarsi gli scrittori che avessero voluto fare sul serio e riportare finalmente la letteratura a contatto con la vita.
L’unico appunto che si può fare ai critici di quel periodo è che non abbiano saputo creare una vera e propria teoria estetica che sistemasse e giustificasse le proprie affermazioni generalmente ispirate al buonsenso.
Caratteristiche generali dell’Illuminismo.
1)- Ansia di rinnovamento e diffidenza nei confronti del passato.
2)- Naturalismo, cioè esaltazione del culto delle forme della natura umana
considerata come buona.
3)- Esaltazione della libertà come condizione essenziale per lo sviluppo delle
forze della natura.
4)- Esaltazione dell’individuo come sacro in forza della natura umana che
possiede.
5)- Esaltazione degli individui più potenziati da natura e più benemeriti della
società in forza della loro attività benefica.
6)- Esaltazione del merito individuale, disprezzo dei privilegi non meritati con
forze proprie.
7)- Mentalità razionalistica e propositi di severità scientifica, atteggiamento
spregiudicato e sprezzante nei confronti del passato.
8)- Cultura enciclopedica.
9)- Ottimismo, ossia fiducia nelle forze della natura e certezza di un
rinnovamento radicale della vita umana attraverso le conquiste e le
affermazioni della ragione e della scienza.
10)- Antistoricismo, cioè svalorizzazione della storia in quanto incapace di
essere maestra della vita (di cui sono uniche maestre la ragione e la
scienza); in quanto considerata come puntellatrice di istituzioni, privilegi,
usurpazioni contrarie alla ragione e al diritto naturale; in quanto
considerata come custode delle memorie non del popolo ma dei tiranni;
come custode non di conquiste positive, ma di pregiudizi e di affermazioni
stravaganti, insensate di generazioni degne di eterno oblio.
La storia, purché non pretenda di insegnare e di giustificare ciò che non sa
insegnare e ciò che non può giustificare, perché contrario alla ragione,
resti come storia documentaria. Una volta accertata, attraverso prove
documentarie, l’origine di certi istituti, di certe pretese, di certi privilegi, la
storia illuminista sarà in grado di investire con la critica tagliente quegli
istituti, quelle pretese, quei privilegi. Così la storia è ridotta a ricerca
documentaria e a critica polemica del passato.
11)- Antimedievalismo, anticlericalismo (non tanto in Italia, quanto all’estero),
ammirazione per tutti i movimenti a carattere naturalistico e
individualistico, quali il nostro umanesimo e protestantesimo;
ammirazione per i grandi ingegni che hanno fondato la filosofia, la scienza
moderna e, particolarmente, per quelli che hanno dovuto soffrire nella
scoperta e nell’affermazione della verità.
12)- Esaltazione del progresso, del dinamismo in ogni campo.
13)- Filantropismo e cosmopolitismo, ossia esaltazione della fraternità umana
e della mentalità internazionalistica, non più basata sul Vangelo, ma sulla
eguaglianza della comune natura.
Meriti dell’Illuminismo.
1)- L’Illuminismo, proponendo di razionalizzare la vita ha contribuito ad eliminare istituti, pregiudizi, usurpazioni consacrati da una tradizione ultrasecolare e svecchiando organismi inadatti a compiere funzioni della società moderna, tutta protesa verso il progresso e la uguaglianza, ha accelerato la affermazione di vita più rispondente alla dignità e ai diritti dell’uomo. Questo merito si estende al campo della giurisprudenza, come a quello della politica e della economia.
Degna di particolare rilievo è l’insistenza con cui gli illuministi illustrano, rivendicano i diritti naturali dell’uomo, conculcati, nel corso dei secoli, dalle più svariate forme di tirannia; essi infatti difendono il carattere sacro della vita dell’individuo e i principi che ne garantiscono la inviolabilità e il potenziamento, cioè il diritto della libera iniziativa, il diritto della libertà di pensiero (e quindi della libertà di religione e di stampa); il diritto di sposare chi si vuole.
Non erano cose nuove quelle che essi rivendicavano, ma ebbero tuttavia il merito di aver richiamato in vita principi sacri ed eterni, troppo facilmente dimenticati in un mondo che era ancora un miscuglio di anarchia feudale e di tirannide monarchica.
2)- Particolarmente in Italia il movimento illuminista ha avuto il merito di aver trovato una tradizione letteraria che si stava esaurendo nella mitizzazione dei classici e negli artifici retorici, di aver posto fine ad una letteratura oziosa e vanitosa, creando una letteratura a servizio della vita, tutta moderna nei temi, nell’ispirazione, nella forma e nel linguaggio. Agli inizi dell’800 il nostro Romanticismo propugnerà uno svecchiamento ed una modernizzazione della letteratura, ancora più radicale e con spirito assai diverso da quello degli illuministi: ma l’iniziativa della rinascita letteraria è merito dell’Illuminismo.
Difetti dell’Illuminismo.
1)- Gli illuministi, demolendo indiscriminatamente tutta la cultura passata si sono anzitutto mostrati ingiusti nei confronti del lavoro compiuto dai grandi geni nel corso dei secoli, e in un secondo luogo, si sono messi nella condizione di ripetere cose che dalla ragione, la quale è eterna, e più o meno ha funzionato in tutte le generazioni umane, erano già state affermate da tempo: i principi del diritto naturale, della uguaglianza giuridico-sociale, della libertà individuale, della democrazia, erano concetti vecchi quanto erano vecchie le civiltà greco-romana e cristiana: ha tutti infatti è noto il concetto che della società e del governo avessero i Greci e i Romani nelle loro età repubblicane, e a tutti è nota l’espressione di Gesù Cristo: “Tra voi chi vuol comandare sia come colui che serve”.
2)- Gli illuministi hanno riassunto l’uomo nella ragione, dimenticando che egli è anche fantasia, sentimento e volontà: tale dimenticanza ha riflessi particolari sulla letteratura, la quale, eccetto pochi rari casi, si riduce ad esposizione di principi intellettualistici in forma più o meno spigliata, ma sempre espositiva.
Svalutando il sentimento, a vantaggio della sola ragione, hanno anche rifiutato di prendere in considerazione certe proteste del cuore umano che dalla ragione, inflessibile spesso si vede intercludere certe aspirazioni che non possono essere appagate dalle aride conclusioni della logica (ad esempio le conclusioni degli illuministi non soddisfano l’innata aspirazione dell’uomo all’infinito, il bisogno che egli sente di una intima unione con la divinità, l’esigenza di esprimersi in certe forme di tenerezza e di intimità in circostanze particolari della vita).
3)- Altro errore è l’esagerato ottimismo nei confronti della natura e delle capacità umane; ottimismo da cui deriva la spavalda certezza che sia sufficiente l’affermazione della ragione per realizzare infallibilmente lo stato di felicità sulla terra.
Prescindendo dal fatto che la ragione umana è limitata e che specialmente nei riguardi dei problemi più gravi (Dio, l’origine, la natura, il fine dell’uomo) essa può dire ben poco, è da notare soprattutto che gli illuministi non hanno fatto i conti con la volontà umana e con le tendenze irrazionali della nostra natura, cioè con l’incostanza, l’indolenza e l’incertezza della nostra facoltà volitiva e la pesantezza di certe forme moderate dei nostri istinti.
E’ sfuggito così agli illuministi il dramma dello spirito umano che è dato appunto dalla lotta fra il bene e il male.
4)- La fiducia cieca di metodi di ricerca, da essi valorizzati, e nella capacità delle
facoltà umane li ha condotti troppo spesso alla faciloneria.
Spesso la critica si è ridotta al fanatismo demolitore, e, troppo spesso, la cultura enciclopedica si è ridotta ad infarinatura generale; troppo spesso gli scrittori illuministi hanno tentato di coprire la loro autentica ignoranza con uno stile spregiudicato e sbarazzino (questo però si deve dire non tanto degli scrittori italiani quanto di quelli francesi).
5)- Gli illuministi hanno propugnato una rigenerazione morale dell’umanità.
6)- Gli illuministi predicarono la democrazia e l’uguaglianza di tutte le classi, ma in pratica essi lottarono per l’abolizione dei privilegi della nobiltà e del clero, ma non riuscirono a garantire al proletariato una condizione di parità, né politica né tanto meno economica.
L’illuminismo fu di ispirazione borghese e, quindi, osteggiò da una parte l’aristocrazia, e non si preoccupò, dall’altra, di elevare le condizioni dei lavoratori; l’economia nazionale, secondo loro, dipendeva tutta dal capitale dalle iniziative dei capitalisti, e l’apporto efficace al benessere comune, dato dalle braccia dei lavoratori, era totalmente svalutato.
Per quanto la manodopera fu considerata come una merce soggetta al gioco della libera concorrenza e per questo, ovunque lo spirito illuminista si affermò, ci si affrettò ad eliminare le vecchie corporazioni che, se sotto certi aspetti rappresentavano un intralcio al progresso industriale e commerciale, costituivano però l’unico organo di difesa della dignità e dei diritti dei lavoratori.
Si può definire la democrazia illuminista: la democrazia borghese, cioè una democrazia a metà.
7)- La svalutazione della storia intesa come campo sperimentale, come specchio vivente della natura umana, è un altro difetto dell’illuminismo.
L’aver sostituito alla storia, come rivelatrice dell’uomo, la storia documentatrice e polemica, rivela più un grande desiderio di cogliere le generazioni passate con le mani nel sacco, che un nobile proposito di intendere la natura umana attraverso le opere degli uomini.
8)- Gli illuministi hanno infine criticato molto la cultura passata, hanno affermato sovrabbondantemente i loro principi, ma hanno trascurato e sono stati incapaci di dare una sistemazione organica al complesso delle idee e dei propositi che costituirono il programma teorico-pratico del loro movimento.
Conclusione.
Il movimento illuminista rappresenta il primo tentativo fatto dall’umanità moderna di prendere contatto con i problemi concreti della vita, alla luce non più del Cristianesimo, ma della ragione, cioè alla luce di una ideologia che, nella mente dei suoi propugnatori, doveva riunire gli uomini in un unico blocco morale, senza più distinzione di cattolici, di protestanti, di pagani, di aristocratici, di popolo; il movimento storicamente rappresenta il principio del risveglio di tutte le nazioni di Europa, e il Risorgimento italiano inteso come rinascita del popolo italiano in tutti i campi, come cessazione di una tradizione senza ideali, retorica e conformista, e inizio di un’epoca in cui i cittadini riacquistano il senso dei loro diritti e doveri civili e individuali e il senso della fraternità nazionale incomincia proprio con l’affermarsi delle idee illuministiche nella nostra penisola.
GIUSEPPE PARINI
(1729-1799)
Il Parini, nato nel 1729, svolge la sua attività poetica nella seconda metà del settecento.
La seconda metà del settecento può essere definita età del Riformismo. L’età del Riformismo fa parte di un’epoca che viene denominata “Epoca del rinnovamento europeo”. Di questa epoca sono tre le età o le fasi: illuminazione delle menti – riforma pacifica – rivoluzione violenta.Epoca del rinnovamento: possiamo farla incominciare con la seconda rivoluzione inglese del 1688, quando fu cacciato Giacomo II Stuart e fu instaurata (per la prima volta in Europa) la Monarchia Costituzionale; e possiamo farla terminare con la seconda metà dell’800, quando il movimento liberale, dopo aver subito radicali mutamenti di indirizzo, in fatto di politica internazionale (infatti da cosmopolita che era all’inizio, poi diventò nazionalista), realizzò l’indipendenza di quasi tutte le nazioni europee. Il movimento di rinnovamento include un duplice programma: distacco da un passato che si deplora: restaurazione di un ordine nuovo, che si considera sufficiente a garantire il progresso umano. Per quanto riguarda il proposito di distacco dal passato, il rinnovamento può aver avuto i suoi anticipi nei seguenti fenomeni storici:
a)- l’affermazione della libertà spirituale e il conseguente criticismo, che
svincolarono la mente umana, nel Rinascimento, dalla soggezione alla
autorità e alla fede religiosa;
b)- il distacco del Protestantesimo dalla tradizione cattolica.
c)- il distacco della filosofia rinascimentale dalla tradizione aristotelico-tomista.
d)- il distacco dalla tradizione geografica: infatti in seguito alla scoperta
dell’America fu dimostrato praticamente che la terra è rotonda e non
piatta; e che i continenti non sono solo tre (Europa-Asia-Africa).
e)- il distacco dalla tradizione cosmografica: infatti in seguito alla ipotesi
eliocentrica di Copernico (dimostrata vera da Galilei), cadde la tesi
tradizionale del geocentrismo.
f)- il distacco della scienza dalla filosofia (che nella tradizione aristotelica erano
congiunte), ad opera di Bacone, il quale parla di una “Restauratio magna ab
imis fundamentis” della scienza (“Novum Organum”).
g)- il distacco da tutta la tradizione filosofica per ricominciare da capo ad opera
di Cartesio.
Per quanto riguarda la restaurazione della nuova cultura e della nuova civiltà in generale, si propongono già prima del Rinnovamento, metodi ben precisi da seguire:
– libero esame (cioè interpretazione personale della Sacra Scrittura) o libertà di
coscienza in campo religioso;
– metodo sperimentale in campo scientifico (metodo induttivo e deduttivo
ossia sperimentale e matematico congiunti ad opera di Galilei);
– metodo deduttivo-matematicoo del ragionamento puro in campo filosofico
ad opera di Cartesio.
Nell’epoca del Rinnovamento ritroveremo accentuate e ben coordinate fra loro, in un programma che andrà man mano evolvendosi e arricchendosi, queste due tendenze : avversione al passato -restaurazione della vita umana sulle basi della natura e della ragione.
Il passato (o tradizione) è inteso come un complesso di istituzioni (politiche, sociali, religiose o familiari) e di costumi (privati e pubblici) basati sull’assurdo, sul pregiudizio testardo. La storia non insegna nulla di positivo: può insegnare solo nel senso che, osservando gli errori passati, si intuisce meglio la via razionale da seguire in futuro.
La riforma è basata sulla natura e sulla ragione. La natura (ricordare Rousseau) è considerata come un organismo unitario, infinito, razionale e sano in tutta la sua struttura e in tutte le sue manifestazioni (come dimostrano la fisica, la chimica, l’astronomia, la medicina ecc.) La ragione è considerata come l’occhio cosciente della razionalità universale. L’uomo vero è l’uomo che basa tutta la sua vita sulle esigenze della natura e sul dettato della ragione.
La società perfetta è quella le cui istituzioni politiche, sociali, economiche., religiose, morali, si ispirano alla razionalità.
Prima fase del rinnovamento: Illuminismo.
E’ un movimento che si propone di abbattere la tradizione con tutte le sue irrazionalità e di ricostruire la vita privata e pubblica su basi di razionalità pura.
l movimento è detto Illuminismo perché si propone di diffondere i lumi della ragione per fugare le tenebre dell’irrazionalità, cioè dei costumi crudeli e superstiziosi, dei pregiudizi politici, religiosi, morali ecc.
Si dice che il movimento inizia nel 1688, perché il Locke prendendo spunto dalla rivoluzione di quell’anno, scrisse il “Trattato del governo dello Stato”, in cui gettò le basi di quei principi politici sui quali l’Illuminismo fondò la sua polemica contro la tirannide: sovranità popolare, delega della sovranità al governo da parte del popolo, il governo al servizio del popolo, giustificata la rivoluzione qualora il governo non eserciti bene il mandato popolare.
Al problema politico si aggiunsero ben presto tutti i problemi più importanti della vita umana: quello giuridico, che costituisce la base di quello politico; quello religioso, quello morale, quello economico, quello letterario.
Lo Hume, traendo le estreme conseguenze dell’empirismo, dichiara vana ogni ricerca metafisica e insiste sulla necessità di aderire al dato di fatto, al dettato della scienza.
Lo Smith elabora la teoria de fiosiocratismo, secondo la quale l’economia segue le leggi della natura e quindi non può essere forzata da leggi dello Stato.
In Francia le idee illuministiche furono rielaborate, ampliate, approfondite ed organicamente sistemate dal Rousseau, dal Montesquieau, dal Diderot, dal Voltaire ecc. Spetta ai francesi il merito di aver divulgato in tutta Europa le idee illuministiche in forma chiara, brillante ed accessibile a tutti. La lingua e la cultura francese si affermano in mezzo alla classe colta di tutte le nazioni dell’Europa ed anche in America. Attraverso questa illuminazione generale si prepara la via alle riforme, e, ove queste no n siano attuabili con la ragione, si pongono le premesse della rivoluzione.
Vediamo brevemente quali sono le critiche che si fanno al passato, nei vari settori, e le nuove proposte di ricostruzione razionale in ciascuno di essi.
Campo Giuridico: nel passatosi era pensato che i diritti dei cittadini fossero una benigna concessione da parte del sovrano. Gli illuministi affermano che gli individui ricevono dalla natura stessa il diritto a vivere, a possedere, a pensare liberamente, a professare liberamente il proprio pensiero, ad associarsi, a professare la religione che meglio risponde all’esigenza della coscienza, ad esercitare l’attività economica che vogliono (questa teoria che fa derivare dalla natura i diritti accennati si chiama Giusnaturalismo).
Se i diritti sono stabiliti dalla natura, la legge dello Stato non deve fare altro che ispirarsi ad essi, rispettarli e farli rispettare da tutti. Siccome i diritti naturali sono eguali per tutti, anche la legge statale e positiva, che da essi deriva, è uguale per tutti; se la legge è uguale per tutti sono aboliti i privilegi; se sono aboliti i privilegi, per distinguere un cittadino dall’altro, non resta che il merito personale acquistato facendo del bene in qualche modo alla società.
(Il privilegio consiste nell’immunità da un onere a cui sono sottoposti gli altri; oppure nel godimento di un diritto che non è concesso agli altri).
Campo politico: la sovranità è nel popolo – il popolo la delega al governo – il governo è al servizio del popolo – è lecita la rivoluzione contro il governo che non esercita il mandato popolare a vantaggio del popolo – la migliore forma di organizzazione statale è quella in cui i tre poteri dello Stato (legislativo, esecutivo, giudiziario) sono divisi fra te organi distinti (parlamento per il potere legislativo – consiglio dei ministri per quello esecutivo – magistratura indipendente per quello giudiziario). La monarchia costituzionale, secondo gli illuministi, è un regime accettabile perché attua la divisione dei poteri.
Campo economico: l’illuminismo propugna la libertà di iniziativa nell’industria o nel commercio: la libertà d’iniziativa consiste nel diritto, che ogni uomo ha da natura, di dedicarsi alle attività commerciali o industriali che più gli aggradano, senza dover subire impacci da parte di alcuno. A quei tempi erano in vigore i monopoli dello Stato e quelli delle corporazioni (cioè alcune attività industriali e commerciali erano riservate allo Stato o alle corporazioni di arti e mestieri). I commerci tra Stato e Stato, nell’ambito della stessa nazione, erano impacciati dai dazi e dalle dogane e dalla diversità delle unità di misura.
Campo religioso: l’illuminismo ammette soltanto l’esistenza di Dio; la ragione esige che esista una causa prima del moto dell’universo. Però si tratta di una divinità che, non si occupa del mondo e degli uomini (deismo); le religioni rivelate vengono definite superstizioni.
La religione positiva viene rifiutata perché presuppone un intervento divino nella storia umana e perché è basata sui miracoli, che sono considerati assurdi, perché contrari alle leggi della natura. Di qui la lotta degli illuministi contro il cristianesimo, alcuni di essi furono addirittura atei ad esempio Voltaire che dal Parini è severamente criticato nel “Giorno”).
Campo dei rapporti internazionali: gli uomini sono tutti eguali a qualsiasi razza appartengano, perché tutti sono forniti di ragione. Il genere umano costituisce una unica patria (cosmopolitismo e il filantropismo e umanitarismo deve impegnare le nazioni più evolute ad aiutare quelle che sono rimaste indietro nella civiltà, degne anche esse di attenzione, perché, sotto certi aspetti, sono più sane di noi, in quanto vivono secondo natura (rivalutazione dello stato primitivo inteso come stato di natura).
Campo morale: si accettano soltanto i principi etici dettati dalla ragione:nessuna etica religiosa.
Campo letterario: per gli illuministi l’unica facoltà che può e deve essere utilizzata nella vita, è la ragione: quindi vengono svalutate le facoltà del sentimento, della fantasia e del gusto. Perciò la poesia, la quale è il prodotto soprattutto della fantasia, del sentimento e del gusto, fine decisamente bandita. La letteratura può continuare a vivere a fianco della filosofia e della scienza (le due attività che sono espressione genuina della ragione) a patto che si metta a servizio di esse. Al poeta e al letterato puro si sostituisce ora il pensatore o ideologo; e se il pensatore sa anche parlare e scrivere, è in grado di fare propaganda delle sue idee. Perciò l’illuminismo non bandisce la letteratura, ma la coltiva come mezzo di propaganda dei lumi della ragione: solo esclude la letteratura narrativa e quella lirica, cioè la letteratura che manca di contenuto razionale.
La critica illuministica sostiene che la letteratura deve essere:
a)- interessante e utile nel contenuto;
b)- spigliata, chiara e piacevole nella forma;
c)- moderna e agile nel linguaggio.
L’illuminismo in Italia.
L’Italia nel corso del secolo XVIII, è sotto l’influsso della cultura francese, e quindi anche dell’illuminismo. Tuttavia le nuove idee nel nostro paese furono accolte con moderazione e conciliate saggiamente con la nostra tradizione culturale.
1)- Anzitutto l’illuminismo italiano attenua il contrasto fra la tradizione e il razionalismo radicale propugnato dai francesi. Pur aspirando ad un rinnovamento generale della cultura e del costume civile su basi di concretezza, di naturalezza, di giustizia e di umanità, noi italiani evitiamo la pretesa assurda di ridurre l’uomo ad uno schema razionale e di eliminare dalla vita la funzione del sentimento, della fantasia e dell’arte. Gli italiani si contentano di procedere col “buon senso” e di infondere uno spirito più moderno e più dinamico nella loro tradizione culturale, che costituisce un patrimonio, non solo da ammirare e da conservare, ma anche da arricchire e da rinnovare di continuo.
La storia continua ad essere per noi, non solo una fonte di gloriosi ricordi, ma lo specchio delle nostre possibilità, dei nostri pregi e difetti. Proprio quando l’illuminismo antistoricistico si affermava in Francia, presso di noi il Vico affermava il valore della storia come incarnazione degli attributi e dei modi dello spirito umano nei “corsi e ricorsi”. Secondo il Vico lo sviluppo della storia segue norme ben precise e quindi può essere sistemato in leggi (tale sistemazione razionale e scientifica della storia in leggi era proprio negata dall’illuminismo). All’antistoricismo illuministico in Italia fanno da moderatori il rispetto per la grandezza della nostra tradizione culturale, artistica e politica, e il senso della organicità dello sviluppo storico.
2)- L’illuminismo italiano non assunse mai atteggiamenti antireligiosi. La polemica di certi nostri scrittori (come il Giannone, autore della “Storia civile del reame di Napoli”) contro i privilegi ecclesiastici non decadde mai nell’antireligioneria del Voltaire e di certi enciclopedisti francesi.
3)- L’illuminismo italiano non rinnegò mai il valore della patria in nome del cosmopolitismo predicato dai francesi. Per tutti i nostri scrittori individuare i difetti della nostra nazione e propugnare riforme sul modello di altri Stati non significava umiliare la patria, ma renderla degna di competere con i popoli più progrediti.
4)- L’illuminismo italiano non riduce la letteratura alla semplice funzione di far propaganda delle nuove idee politiche, sociali, economiche, morali, religiose, ispirandosi al puro dettato della ragione.
I nostri critici si contentano di esigere che la letteratura sia utile, cioè dica cose sostanziose, e soprattutto che riesca a persuadere. Qualunque argomento, anche se non è strettamente razionale, è valido purché persuada; il sentimento e la fantasia non debbono essere esclusi dal mondo della letteratura, a patto che lo scrittore si valga di queste facoltà per inculcare nel lettore idee utili.
La nostra letteratura illuministica si varrà soprattutto del trattato, del teatro, del poemetto didascalico e della lirica didascalica, cioè utilizzerà soprattutto i generi letterari adatti a diffondere le idee e a riformare gli spiriti. I maggiori centri della letteratura illuministica furono Napoli e Milano.
Gli illuministi meridionali si dedicano alla soluzione di problemi economici (Genovesi), finanziari (Galiani), giuridici (Filangeri), seguendo in prevalenza un indirizzo teoretico.
Gli illuministi del Nord (dove si sta formando la classe borghese e l’Austria sa governare meglio), si dedicano di più alla riforma pratica nel campo economico (Verri), giuridico (Beccaria)letterario (Verri, Baretti, Carlo Gozzi e Gaspare Gozzi, sociale, morale e politico (Goldoni, Parini, Alfieri).
Il trattato: deve esse agile, spigliato, interessante per il contenuto e piacevole per la forma. Il nostro trattato del ‘500 (Baldassar Castiglione: “Il cortigiano” – Machiavelli: “Il principe” – “I discorsi sulla prima deca di Tito Livio”) era condotto con stile architettato alla latina, cioè con un periodo che era costituito da numerose preposizione secondarie, con il verbo principale alla fine. Il trattato illuministico ha la spigliatezza e l’agilità del trattato francese, sul tipo del “Contratto sociale” del Rousseau e dello “Spirito delle leggi” di Montesquieau: un periodare breve con la preferenza per il sistema coordinativo, ad andatura spezzata e veemente, sul tipo di un discorso familiare, fatto con tono vivace ed aggressivo.
Siccome nella trattazione degli argomenti, in genere lo scrittore illuminista indugiava sulla critica delle posizioni opposte a quella che egli difendeva, il trattato aveva un tono polemico quasi costante e quindi piaceva ai lettori; mentre la parte propositiva o costruttiva , dovendo essere svolta in forma espositiva, la riducevano a ben poco.
Per rendere più attraente e più accessibile l’esposizione di u n argomento di inventa il
periodico , che è una forma di trattato svolto in una serie di articoli: articoli vivaci, chiari, accessibili a tutti. Da ricordare in Italia il periodico della “Accademia dei Pugni” di Milano, intitolato “Il caffè”. In esso scrivevano i fratelli Pietro ed Alessandro Verri, Beccaria ecc. Da ricordare inoltre il periodico del baretti intitolato “La frusta letteraria”, nella quale l’autore, con lo pseudonimo di Aristarco Scannabue, frusta tutta la letteratura inutile.
Un altro modo di trattare gli argomenti utili è l’Epistolario. L’autore immagina di scrivere lettere a confidenti, ed espone in esse i suoi pensieri sui più svariati argomenti. In Francia usò questo metodo il Montesquieau (autore delle “Lettere Persiane”). In Italia lo adottarono il Baretti (autore delle “Lettere famigliari ai fratellini”), l’Algarotti (autore delle “Lettere sulla Russia”) e Bettinelli (autore dlle “Lettere virgiliane”).
In conclusione: trattato vero e proprio – trattato in forma di periodico – trattato in forma di epistolario.
Nel complesso sono trattati che si leggono volentieri, perché sono abbastanza spigliati, specie i periodici e gli epistolari; ma hanno quasi tutti il difetto della superficialità
Dal punto di vista della lingua, gli illuministi sono avversi al vocabolario della Crusca (cioè a quel vocabolario che era stato compilato alla fine del ‘500 dall’Accademia della Crusca sulla base del principio affermato da Pietro Bembo: “La lingua italiana è quella degli autori toscani del ‘300, particolarmente di Petrarca e di Boccaccio”. La lingua della Crusca era dunque la lingua del ‘300, cioè antiquata; mentre gli illuministi per la loro letteratura di propaganda avevano bisogno di una lingua viva. Perciò essi adottarono la lingua parlata dalle persone istruite d’Italia “dalle Alpi alla Sicilia” ( come si dice all’inizio del “Caffè”). Melchiorre Cesarotti scrisse un “Saggio sulla filosofia delle lingue” in cui difendeva questa tesi: la lingua è un mezzo convenzionale per esprimere il pensiero –
il pensiero è in continua evoluzione – dunque anche la lingua è in evoluzione – perciò è un assurdo adottare la lingua del ‘300 – perciò bisogna adottare la lingua delle persone colte contemporanee, utilizzando vocaboli presi anche dalle lingue straniere, o creandone di nuovi sul modello di quelli già esistenti, qualora nella lingua nostra non si trovino i mezzi necessari per l’espressione. Così gli illuministi italiani introdussero nel loro linguaggio il periodare francese e svariati termini francesi.
Contro gli illuministi reagirono i soci dell’Accademia dei Granelleschi di Venezia, i quali difesero strenuamente il vocabolario della Crusca (a capo di essi c’era Carlo Gozzi).
Tenne una via di messo, tra i demolitori e i sostenitori della Crusca l’Accademia milanese dei Trasformati, di cui era socio anche il Parini: essa sosteneva che la lingua italiana è sostanzialmente quella della Crusca, ma era necessario sostituire certi vocaboli desunti dagli autori toscani del ‘300.
Il teatro: Il secolo XVIII è senza dubbio il più glorioso per il nostro teatro, in quanto contra tre grandi autori: Metastasio nel melodramma, Goldoni nella commedia e Alfieri nella tragedia. Si spiega facilmente il fiorire del teatro per due motivi: anzitutto perché i nobili a quei tempi avevano come svago serale il teatro; in secondo luogo perché in età illuministica e riformistica il teatro era il mezzo più efficace di propaganda delle idee, in quanto il teatro adotta il metodo intuitivo che è accessibile a tutti.
Il melodramma del Metastasio lineare, organico, semplice, capace di interessare il pubblico, fu considerato dai critici illuministi come l’esemplare perfetto dell’arte razionale. Secondo la critica illuministica, infatti, poeta sommo è quello che sa persuadere o convincendo l’intelletto o commuovendo il cuore. Il Barotti, pur lottando contro la letteratura inutile e fanciullesca dell’Arcadia, a cui apparteneva il Metastasio, ammirava di questi la capacità di interessare gli spettatori attraverso le situazioni commoventi, le intuizioni psicologiche e lo stile chiaro e persuasivo.
Il Goldoni, attraverso la sua commedia, contribuì alla riforma illuministica della società italiana, nel senso che si preoccupò costantemente di inculcare nel pubblico quella forma elementare di razionalità che si chiama “buon senso”. Il modello da lui costantemente seguito fu la “Natura “, cioè la psicologia umana e le situazioni della vita, come realmente sono in natura. Piacque agli illuministi proprio per questa aderenza alla razionalità elementare.
L’Alfieri, attraverso la tragedia, contribuì alla riforma politica del popolo italiano, nel senso che inculcò in esso l’odio alla tirannide e gli comunicò la passione della libertà.
La sua tragedia piacque agli illuministi , oltre che per la sua ispirazione politica, anche per la forza e per la sua efficacia persuasiva.
Il poemetto didascalico: il più famoso è quello del Parini, il quale ha rivolto a funzione didascalica anche la lirica (da ricordare le sue 19 odi).
Concetto della storia.
Una osservazione dobbiamo fare circa il concetto che gli illuministi ebbero della storia.
Distinguono tra storia e storiografia.
La storia intesa come il complesso delle istituzioni politiche, sociali, economiche, religiose ecc., dell’umanità passata, per gli illuministi non ha alcun valore, essendo tutte un ammasso di irrazionalità e di pregiudizi. La storia intesa come ”sviluppo della vita umana nel tempo” non è riducibile a scienza, perché essa non si svolge secondo una logica razionale, ma procede caoticamente.
Se non è razionalizzabile e quindi non è riducibile a scienza, la storia non merita alcuna attenzione.
La storiografia (specie in Italia) è molto curata dall’illuminismo, perché gli scrittori vogliono rievocare istituzioni e fatti del passato per dimostrare che fino ai loro tempi tutto era sbagliato nella vita privata e pubblica. Si tratta di una storia polemica.
Conclusione sull’illuminismo.
L’illuminismo ebbe il merito di richiamare l’umanità ad una vita più razionale, più fattiva e più costruttiva. Ebbe il demerito di bandire tutto ciò che non poteva giustificarsi con la ragione (i sentimenti, la tradizione, la fantasia, la fede religiosa, il sentimento patriottico). Ebbe anche il demerito di svalutare tutto il passato in blocco, con la pretesa di criticare tutto, e, nello stesso tempo si dimostrò assai incerto nel delineare le forme della vita futura dell’umanità: bravo nel demolire, poco bravo nel costruire.
L’educazione illuministica.
L’umanità nuova, sognata dall’illuminismo, doveva essere fondata sulle basi della natura e della ragione, anzi si potrebbe dire della natura soltanto. Infatti la natura in questo tempo viene intesa in tre sensi: come ragione evoluta e colta (illuminismo in genere) – come impulso sicuro e sano (Rousseau) – come buon senso (Goldoni e Parini).
Perché mai questo ritorno alla natura ? La risposta è facile se si pensa che giunta agli inizi del secolo XVIII la tradizione europea trascinava con sé una infinità di artifici irrazionali. Che il Re e la sua dinastia fossero i padroni della nazione era un pregiudizio contro il dettato naturale della ragione; che la vita degli individui fosse legata da una infinità di controlli ingiustificati, era ugualmente contrario alla ragione; che autorità esterne avessero il diritto di imporre la fede religiosa con la minaccia, era contro ragione; che il poeta dovesse sottostare alle regole dei retori e sacrificare ad esse la libertà del suo genio, era contro ragione; che nella società alcune classi godessero dei privilegi (non pagar tasse, essere esenti dal servizio militare, avere accesso alle cariche pubbliche), era contro natura la quale fa gli uomini tutti uguali nei diritti. Innaturali erano i costumi particolarmente della nobiltà; innaturali i procedimenti che si adottavano nella istruttoria penale (ad esempio la tortura, contro la quale protestò il Beccaria nel trattato “Dei delitti e delle pene”); innaturali i sistemi in uso nell’avviare i figli e le figlie alla professione, in quanto si stabilivano le professioni e i matrimoni prescindendo dalla inclinazione degli interessati.
Di fronte a questo complesso di storture e di pregiudizi evidentissimi nel mondo sociale, le persone colte vedevano nel campo della natura fisica una perfetta razionalità.
La scienza metteva in evidenza che la natura è tutto un mirabile complesso di rapporti razionali: l’irrazionalità si trovava solo nel settore della vita umana. Eppure gli uomini non sono altro che forme della natura anch’essi: vuol dire che, se la natura negli uomini non opera razionalmente, la colpa non è sua, ma è dell’uomo stesso. Di qui la necessità di ritornare alla natura per rettificare la vita umana. Ritornare alla natura significa ritornare alla razionalità.
Gli illuministi attaccano battaglia contro tutti i pregiudizi e le istituzioni ingiuste proprio per rivendicare la dignità della natura umana.
Conseguenze del naturalismo.
a)- Ponendo la natura come forza razionale che opera nell’intimo, gli illuministi,
anzitutto, vengono a garantire l’autonomia dello spirito umano.
Se la natura, ossia l’impulso o il buon senso o la ragione, che dirige dall’intimo la vita degli individui e dei popoli, consegue che individui e popoli possono fare a meno della legge esterna: ognuno dà legge a sé stesso in base al dettato della sua natura.
In campo politico è il popolo che detta legge a sé stesso (democrazia); in campo pedagogico è la natura che educa (naturalismo pedagogico del Rousseau); in campo religioso è la coscienza o ragione che detta la religione (religione naturale o deismo); in campo morale la legge è dettata dalla coscienza (imperativo categorico di Kant); in campo letterario lo scrittore non accetta più le norme dei retori, ma segue il dettato del suo genio (uguale libertà del genio esaltata più tardi dai Romantici).
b)- Intonazione più libera, più sincera, più genuina di tutte le attività della vita.
c)- Senso progressista in tutti i settori, in quanto la natura è concepita come energia creatrice che non si arresta mai e procede sempre lungo i binari della razionalità.
d)- Riformismo, cioè svecchiamento delle istituzioni politiche, religiose, sociali, economiche, per liberarla dalla irrazionalità e impostarle su basi nuove e razionali.
Il Riformismo costituisce un movimento che accompagna la propaganda illuministica in Europa. Nel campo politico sono da ricordare in Italia il Du Tillat, ministro riformista del Ducato di Parma e Piacenza; Il Tanucci, ministro riformatore a Napoli; Pombal ministro riformatore in Portogallo; Kaunitz in Austria; l’imperatore Giuseppe II pure austriaco; Federico II di Prussia; Caterina II di Russia.
Tra gli scrittori propugnarono riforme quelli della scuola napoletana (ad esempio il Genovesi che propugna la libertà di commercio; il Galiani che propugna la riforma monetaria; il Filangeri che propugna le riforme giuridiche; a Milano il Beccaria propugna la riforma del diritto penale, con l’abolizione della tortura nell’istruttoria e della pena di morte; il Giannone, napoletano, propugna riforme nei rapporti tra Chiesa e Stato sulle attività interne della Chiesa).
Si tratta di riforme non decisive, condotte senza un criterio organico, ma che dimostrano l’ansia di svecchiare, di razionalizzare, che è comune a scrittori ed uomini politici in questo secolo.
Particolarmente in Italia il Riformismo andò in rilento a causa della suddivisione politica della penisola: in Lombardia il riformismo fu assai attivo ad opera di Maria Teresa e del figlio Giuseppe II, qualcosa si fece in Toscana (governata dalla dinastia tedesca dei Lorena); qualcosa si fece a Napoli ad opera del Tanucci; quasi nulla si fece in Piemonte e nello Stato Pontificio.
Le riforme in Italia incominciarono un secolo più tardi e precisamente nel 1848, quando saranno concesse le costituzioni e si instaureranno regimi democratici.
Un certo impulso alle riforme, prima del 1848, lo diede la rivoluzione francese, quando l’Italia fu occupata dal Bonaparte e rimase sotto di lui dal 1796 al 1814.
Le riforme stabili furono quelle compiute, magari a rilento, dal 848 in poi: per giungere a questa data che rappresenta l’inizio della riscossa generale dell’Italia, debbono passare cento anni di vicende più o meno dolorose, e soprattutto deve realizzarsi quella formazione spirituale degli italiani che rappresenta la base della rinascita politica ed economica.
Il nostro Risorgimento, prima che iniziativa rivoluzionaria contro l’assolutismo, prima che guerra contro l’Austria, fu rinascita spirituale: se non ci fosse stata questa, non ci sarebbero state neanche le rivoluzioni dei liberali e dei mazziniani, né vi sarebbero state le guerre di indipendenza.
Alla rinascita spirituale del popolo italiano, contribuì la rinascita degli intellettuali e delle classi elevate; alla rinascita degli intellettuali e delle classi elevate contribuirono il movimento illuminista, il Goldoni, il Parini, l’Alfieri, il Foscolo, il Manzoni e tutti gli scrittori romantici in generale.
Per cui, si può giustamente affermare, che il nostro Risorgimento abbia avuto origine alla metà del ‘700 on le opere degli illuministi che propugnarono riforme, con l’opera del Goldoni che combatté l’irrazionalità difendendo il buon senso; con il Parini che combatté la vita inutile e scandalosa egli aristocratici, per ridurre questa classe a forme di vita più serie, più utili; con l’Alfieri che combatté la tirannide, diffondendo l’ideale della libertà e il senso della dignità politica dell’individuo.
Spetterà al Foscolo inculcare nei giovani il senso eroico e al Manzoni il senso religioso della vita.
La riforma del Parini.
La riforma che il Parini condusse costantemente attraverso “Il Giorno” e le sue 19 odi, è di carattere morale e civile. Egli comprese che nessuna riforma pubblica è efficace se i singoli cittadini non sono capaci di vivere secondo i principi di una morale seria e attiva: è l’intimo dell’uomo quello che conta: “dall’alma origin solo han le lodevol’opre” (da “L’educazione”).
Il suo proposito è quello di “render saggi e buoni i cittadini suoi” (lettera a De Martini); perché è convinto che il “buon cittadino al segno cui natura e i primi casi ordinar, lo ingegno guida così, che lui la patria estimi” (“La caduta”).
Vediamo ora l”ambiente in cui si trova a vivere il Parini e in cui egli svolge la sua attività di educatore. La società italiana del secolo XVIII è divisa in due classi soltanto: la nobiltà e la plebe. Poco consistente è la classe intermedia della borghesia, che generalmente in ogni nazione e in ogni tempo, ha avuto il merito di promuovere le attività economiche in grande stile e di contribuire all’arricchimento della nazione.
La plebe è costituita da:
a)- da una massa immensa di contadini che, da quanto appare nel “Giorno”, sono disonestamente sfruttati dai padroni avari, che vogliono accumulare denaro, per comprare poi titoli nobiliari, e scialacquare, in mezzo ai lussi stolti della vita aristocratica, le ricchezze accumulate.
b)- da artigiani che vivono più o meno miseramente, alle prese con i clienti
aristocratici, che non pagano mai. I prodotti dell’agricoltura e dell’artigianato
italiano sono disprezzati, poiché la classe che consuma molto, cioè quella
aristocratica, preferisce i prodotti con l’etichetta straniera.
Al tempo dei Comuni le famiglie aristocratiche avevano esercitato cariche pubbliche e attività economiche; nel Rinascimento avevano protetto artisti e letterati. Quando, alla metà del ‘500, si instaurò, in quasi tutta la penisola, l’assolutismo dei principi e l’Italia decadde economicamente (perché con l’occupazione dell’impero bizantino e di tutto il Mediterraneo centro-orientale cessò il commercio in questo mare) mentre si affermavano le potenze colonialiste: Inghilterra, Francia, Olanda, Portogallo, Spagna, le famiglie aristocratiche italiane decaddero dal punto di vista politico ed economico: si ridussero a vivere vita privata, a coltivare le glorie di famiglie con vane ostentazioni di fasto e a difenderle con litigi spesso sanguinosi, che funestarono la vita della nostra aristocrazia delle nostre città e campagne.
Tutto questo nel corso del ‘600 (ricordare la vita della nobiltà lombarda del ‘600 rappresentata nei Promessi Sposi). Nel ‘700 l’Italia è sotto l’influsso della Francia (come nel ‘600 era stata sotto l’influsso della Spagna orgogliosa, fastosa e vuota di spirito). In Francia durante il regno di Luigi XIV (1661-1715) la nobiltà realizzò una svolta decisiva nel corso della sua storia. Essa aveva prima sempre lottato contro la monarchia: ora invece accettò l’invito di Luigi XIV di trasferirsi nella sua reggia di Versailles.
Qui i nobili francesi ebbero incarichi e stipendi. E siccome molti nobili erano inesperti della vita raffinata della corte, alcune famiglie aristocratiche più in vista aprirono i cosiddetti salotti, ossia circoli culturali e mondani, nei quali si adunava l’aristocrazia emigrata a Parigi, per apprendere nozioni di cultura varia, esposte da bravissimi conferenzieri, in forma semplice e vivace. Questi salotti andarono moltiplicandosi e nel ‘700 furono frequentati dagli esponenti più illustri dell’illuminismo e dagli stessi enciclopedisti, che ne organizzarono di propri. In questi salotti, allorché penetrarono le idee illuministiche, si insegnavano anche teorie spregiudicate in fatto di religione, di morale e di politica. Non bisogna dimenticare che alcuni esponenti della nobiltà francese erano imbevuti di idee rivoluzionarie ed atee; e che alcuni di essi furono anche scrittori famosi: Montesquieau era barone, Condorcet era marchese, il D’Holbach era barone. La vita della nobiltà, a Parigi, era diventata una gara di finezza e di eleganza: ci si allontanava sempre più dalla natura e ci si inoltrava sempre più nell’artificio, quasi che i nobili, che un tempo erano vissuti nelle campagne, sentissero il bisogno di fuggire il più lontano possibile dalla vita naturale, considerata come arretrata e meschina.
In Italia, in cui non era ormai possibile alcuna iniziativa perché i principati erano in decadenza e la classe aristocratica era abituata alla passività, l’influsso francese fu soverchiante; i nostri nobili imitarono i costumi immorali (tra cui il cicisbeismo), la mania di fuggire lontano dalla natura, la mania dell’artificio, la mania del lusso e della moda, la mania dell’esotico, l’ostentazione di una cultura enciclopedica senza alcuna consistenza. Anche presso di noi si istituirono salotti, se tali possono essere chiamati i circoli dell’Arcadia i cui soci erano in maggioranza aristocratici, trasformati in pastori e pastorelle. In tali circoli si coltivava una poesia fatta di complimenti e di tenerezze, tutta leziosità e falsa eleganza. Sia in Francia che in Italia vige il pregiudizio che la sensibilità (in Francia detta “sensiblerie”), cioè la capacità di commuoversi è indizio di nobiltà d’animo: chi si commuove di più rivela maggiore finezza, è più nobile. Di qui la tendenza del sesso femminile aristocratico alla commozione e la tendenza dei poeti arcadici ad intenerire i lettori. La nobiltà del ‘700 viene man mano distaccandosi dalla natura e dalla vita comune dei mortali, persuasa com’è che per essere nobili e per dimostrare di esserlo, è necessario sostituire alle esigenze della natura comune e ai modi comuni di vivere, qualcosa di più fine, di più degno della classe che è superiore a tutte le altre.
Mentalità e vita della nobiltà.
Il pregiudizio centrale, che costituisce il fondamento di tutti gli artifici e di tutte le irrazionalità della vita dei nobili, è la persuasione che essi hanno, di avere una natura superiore a quella comune. In forza del sangue aristocratico essi credono di appartenere ad una classe che il Parini definirà dei “semidei terreni”. Il sangue nobile comporta capacità ed esigenze ignote al volgo. Il sangue nobile impone il distacco dall’umanità comune, incarnata nella plebe.
Vediamo quali sono i pregi che la nobiltà di sangue comporta:
a)- La nobiltà di sangue comporta una intelligenza superiore, per cui i nobili non hanno bisogno di studiare. Ad essi basta una saltuaria e superficiale applicazione per apprendere una infinità di cose e saper parlare di tutto con competenza. Basta ricordare gli studi del giovin Signore: il tempo della toilette è anche tempo dello studio, i libri che egli legge sono quelli più licenziosi dei francesi (“La pulcelle d’Orleans” di Voltaire, “Le lettere” di Ninon de Lenclos famosa amante di uomini illustri del secolo XVIII in Francia. “I racconti” di La Fontaine). Per apprendere la lingua francese riceve il maestro quando ancora è a letto: apprende qualche frase di cui poi farà sfoggio nel bel mondo durante il giorno.
Gli uomini comuni parlano la lingua nazionale, il nobile che non può essere pari agli uomini comuni preferisce libri e lingua esotica. Durante il pranzo i nobili fanno sfoggio della loro cultura: parlano di tutto, a che se non si intendono di nulla. Il pranzo è il momento meno adatta per parlare dei grandi problemi, eppure i nobili fanno sfoggio di cultura proprio durante il pranzo. Il Parini con tristezza fa notare che si permettono di parlare durante il pranzo anche di argomenti religiosi e di fare sfoggio di empietà: si danno le arie di liberi pensatori, quando, di fatto, sono incapaci di pensare.
E’ opportuno ricordare, a proposito della boria intellettuale dei nobili, la satira sull’educazione dell’Alfieri. Fa parlare un conte con un prete a cui egli offre l’incarico di educare i figli. Per costringere il maestro ad accettare l’incarico ad un prezzo molto basso, il conte gli fa vedere che in fondo il suo compito non è molto difficile, perché il primogenito è di “eloquenza naturale un fiume”, in quanto ha ereditato il fior fiore del sangue paterno e materno. Una certa difficoltà, dice il conte, può presentarla l’educazione dei figli minori, in quanto non hanno preso dai genitori tutta la ricchezza del sangue nobiliare: tuttavia anche il compito di educare i minori è facile, dice il conte, perché il latino deve essere messo da parte, e l’istruzione deve servire soltanto a ché i ragazzi sappiano “di tutto un po’” (in armonia con quella cultura enciclopedica ad infarinatura in uso nel salotto francese e che più o meno fu un difetto anche dell’illuminismo francese).
Più o meno questa era l’educazione di tutti i nobili italiani, salvo qualche lodevole eccezione(ad esempio il Parini fu l’educatore di due bravi giovani nobili: Carlo Imbonati e Febo D’Adda: il primo cantato nell’ode “L‘educazione”: il secondo nell’ode “Alla Musa” come cantore di poesia). Nel complesso dunque ci troviamo di fronte ad una nobiltà che è estremamente ignorante, ma anche estremamente presuntuosa e capace di coprire la sua miseria mentale con saccenteria e l’improntitudine.
b)- In forza del sangue la nobiltà crede di saper far tutto. Nello stesso tempo, però, i nobili, desiderosi di distinguersi dagli uomini comuni, si guardano bene dall’esercitare le attività utili per la vita: non amministrano i loro beni – non si dedicano alle cariche pubbliche – non si dedicano agli studi ed alle arti – il lavoro, di qualsiasi specie, è per il volgo e per le bestie. Essi sanno esercitare una sola professione: quella di cavalieri serventi viziosi e ipocriti. Tuttavia essi si arrogano il diritto di discutere di arte, di economia, di letteratura, di filosofia.
c)- In forza del sangue nobile gli aristocratici credono di aver superato gli istinti della comune natura. Ecco gli istinti che essi credono di aver superato: l’istinto sessuale che si conclude con il matrimonio: sposare significa accoppiarsi come si accoppiano le bestie; e perciò sposano soltanto i plebei. Per gli aristocratici il matrimonio è solo un mezzo per garantire la continuità del casato e un erede al patrimonio familiare. Il matrimonio, come unione di animi e fonte di alti ideali domestici, è ignoto. Essi sono convinti che il matrimonio spegne l’amore, e con l’amore bandisce quel complesso di avventure galanti che rendono gaia la loro vita, tetra e viziosa. E’ permesso amoreggiare liberamente: il cicisbeismo è un vero e proprio istituto della vita nobiliare. Il cavalier servente era scelto dalla donna e dal marito di lei. Tra il cavalier servente e la dama i rapporti erano decisamente equivoci: del resto i mariti erano contenti di questo istituto, perché anche essi potevano fare da cavalieri.
Il secondo istinto che i nobili credono di aver superato è quello dell’appetito: essi non mangiano perché hanno fame, ma solo per piacere, avendo ricevuto da natura un apparato gustativo ipersensibile. Per i plebei bastano i cibi comuni, che saziano la fame; per i nobili sono necessari cibi prelibatissimi, ghiottonerie a raffinatezze esotiche. Un altro istinto è quello della pietà per i simili: i plebei sentono questa pietà; ma gli aristocratici, che hanno superato la comune natura e sono forniti di “sensiblerie” ipersensibile, non sentono più pietà per gli uomini, ma sentono pietà per le bestie.
Gli uomini comuni amano i figli , hanno simpatia per i bambini; gli aristocratici escludono dal loro mondo i piccoli e considerano noioso e volgare che nelle conversazione si permette di parlare di essi. I figli sono affidati alle cure di educatori estranei; crescono senza veri affetti, vengono educati ai pregiudizi della casta aristocratica e alle irrazionalità che in essa dominano.
Un altro istinto che essi credono di aver superato è il criterio naturale di valutazione delle cose buone e pregevoli. Il nobile del ‘700 è infatuato delle novità dell’esotismo. Il suo gusto ha superato la mentalità comune, e per apparire raffinato e buon intenditore di finezze, egli disprezza i prodotti della sua terra e dell’artigianato locale; ed esalta con fanatico entusiasmo i prodotti stranieri. Il tutto per non apparire simile agli altri mortali.
Infine, i nobili credono di aver superato perfino l’azione distruttrice che il tempo e la natura compiono sull’organismo umano, senza alcuna pietà e distinzione. Le ciprie, i cosmetici, le parrucche ecc. sono i mezzi inventati dall’arte per garantire ai nobili perpetua giovinezza.
Conclusione
Da quanto si è detto risulta che la nobiltà italiana del secolo XVIII, sull’esempio di quella francese, si propone di allontanarsi il più possibile dalla natura, per distinguersi dagli uomini comuni. Allontanarsi dalla natura significa corrompere e falsare la vita, in quanto le energie naturali sono sane, e qualsiasi surrogato di esse non può avere la sanità. A confermare la nobiltà in questa vita innaturale, venivano i governi stessi, i quali, per non avere i nobili all’opposizione, avevano loro concesso dei privilegi: non pagavano le tasse, non facevano il servizio militare, avevano cariche onorifiche.
Criteri della riforma pariniana.
Il Parini si propone di riportare la nobiltà italiana a vivere secondo natura e secondo ragione. Infatti solo la vita ispirata al dettato della natura e della ragione, è utile agli individui e alla società. Il Parini sapeva che in certe nazione d’Europa i nobili erano più attivi di quelli italiani: i nobili inglesi, ad esempio, prendevano parte alla vita politica della Camera dei Lords; in Olanda si dedicavano ad attività commerciali; in Prussia si dedicavano ad attività militari; nell’impero asburgico le grandi cariche erano esercitate da nobili molto intelligenti e attivi.
In Italia i nobili marciscono nell’ozio, chiusi nei loro ambienti fisicamente e moralmente viziati; reputano indegne di un aristocratico le attività utili; il popolo non ha né denaro, né istruzione, né libertà per dedicarsi ad attività utili. Nell’ode “La salubrità dell’aria” il Parini accenna ad un triste fenomeno generale nella società milanese: una stolta inerzia dei privati nei confronti delle leggi igieniche, favorisce il sudiciume personale e pubblico e le conseguenti epidemie. Fra gli Stati italiani la Lombardia era senza dubbio la meglio governata al tempo del Parini, perché l’Austria di Maria Teresa e di Giuseppe II si era proposta di attuare utili riforme; tuttavia il popolo lombardo (sia la plebe che l’aristocrazia) è una massa pigra e tarda a rispondere. Negli altri Stati italiani le cose andavano ancora peggio.
Il Parini vede la assoluta necessità di scuotere l’aristocrazia italiana, in modo che abbandoni i suoi pregiudizi e le sue forme di vita inutili e innaturali, per dedicarsi finalmente ad attività utili.
Vediamo ora la base sulla quale il Parini vuole ricostruire la vita della nobiltà italiana. L’abbiamo già accennata: la natura e la ragione. La natura e la ragione, senza essere nel Parini divinizzate, sono tuttavia da lui considerate come due ottime guide degli uomini, perché sono sane e illuminate.
Vediamo ora che cosa il Parini intende per natura:
a)- i bisogni e gli istinti naturali della specie umana;
b)- le inclinazioni naturali degli individui;
c)- le doti dell’intelligenza e del buon gusto, il dono della salute e della vigoria del corpo; lo spettacolo della bellezza umana e del mondo fisico, i prodotti sani e gradevoli della terra.
Il pregio della natura è la sanità; il beneficio che essa dona ai suoi cultori è quello della sanità fisica e morale. Nell’ode “Il messaggio” il Parini parla dei “liberi doni” della natura di cui il suo genio personale gli ha dato di godere nella vita. Chiama i doni di natura “liberi” sia nel senso che la natura li offre liberamente, sia soprattutto nel senso che sono doni genuini (libero = immune da artifici e falsificazioni).
Vivere secondo natura significa, dunque, seguire le proprie aspirazioni, le proprie inclinazioni, in modo da rendersi utili a sé e agli altri; significa godere moderatamente dei doni della natura; significa vivere a contatto con la natura fisica che è fonte di sanità fisica e morale.
Vediamo che cosa il Parini intende per ragione.
Il Parini non fu filosofo e per di più visse in un’epoca in cui la filosofia, divulgata dagli illuministi, , era comune a tutti ed aveva perduto di profondità e di serietà: si trattava di una filosofia facile, spregiudicata e spericolata. Perciò il Parini si contentò si seguire il dettato della ragione, intesa come “buon senso” e mantenne fede ai valori della nostra tradizione umanistica e cristiana.
La ragione del Parini non assunse pose orgogliose, non si autodivinizza, ma è modesta, senza complicatezze, anche se intransigente: capace di vedere dove è il giusto e l’ingiusto, il merito e il demerito, l’utile e il dannoso, il decoroso e l’indecoroso.
La natura (cioè le risorse psicologiche innate nell’individuo), costituisce il materiale su cui lavora la ragione. Nell’ode “L’educazione” il Parini afferma “perché sì ardenti affetti nel cuore il ciel ti pose ? Questi a ragion connetti e tu vedrai gran cose: e quindi l’alta rettrice somma virtude alice”. Il senso di questi versi è il seguente: il poeta si sta rivolgendo al giovinetto Carlo Imbonati e gli riferisce i precetti che il Centauro Chirone dava al suo discepolo Achille; Chirone diceva ad Achille così: perché il cielo ti ha posto nel cuore sentimenti e impulsi così vivaci ? Affida questi impulsi alla ragione e otterrai grandi vantaggi: l’alta rettrice, cioè la ragione trae fuori la virtù da qui (quindi), cioè da questi impulsi sani della natura.
Secondo il Parini, dunque, la natura è sana di costituzione, però non è illuminata ed è grezza; perciò ha bisogno di essere guidata dalla ragione e ingentilita dall’arte. Per questo motivo, egli si distacca dal naturalismo primitivo del Rousseau e si avvicina all’illuminismo, in quanto affida le risorse della natura alla ragione; ma nello stesso tempo supera anche l’illuminismo, in quanto tempera la freddezza e la nudità del razionalismo con l’eleganza sobria e decorosa del gusto classico, che costituisce la nota dominante della sua spiritualità Il Parini, infatti, si è formato allo studio dei classici, specialmente di Virgilio e di Orazio, dei quali ha assimilato il naturalismo sano, sereno e decoroso. Se volessimo trovare nel mondo latino un poeta che gli somigli di più, dovremmo accostarlo senz’altro ad Orazio, la cui “aurea mediocritas” (= aureo giusto mezzo) e la cui onestà naturale egli riproduce nel carattere e nella vita.
Dal poeta latino lo differenziano soltanto un maggiore impegno morale ed un sentimento umano più profondo e più appassionato.
La virtù, dunque, per il Parini consiste nel seguire la natura secondo il dettato della ragione e del buon gusto.
Le virtù più care al Parini sono le seguenti:
a)- la sincerità, la schiettezza che consiste nella genuinità del pensiero, del sentimento, della parola e della azione.
b)- la rettitudine che non viene mai meno per nessun motivo. Nell’ode “La caduta” il Parini al cittadino che gli ha consigliato di adulare i potenti e di scrivere oscenità per divertirli, affinché possa anche egli guadagnare denaro e avere una certa agiatezza, risponde che buon cittadino è colui che sa utilizzare le proprie inclinazioni naturali a vantaggio proprio e a beneficio della società in cui vive, e giammai abdica alla sua dignità morale né per ambizione, né per bisogno: non s’alza per orgoglio, né si abbassa per duolo.
c)- la moderazione che consiste nell’uso sobrio e decoroso dei beni di natura (la
moderazione è esaltata particolarmente all’inizio dell’ode “Alla Musa”).
d)- culto e amore di tutto ciò che nella vita è bello, gentile, decoroso e utile (concetto espresso nell’ode “Il messaggio”. Fervore per ogni forma di progresso (l’ode “Per l’innesto del vaiolo” e “La salubrità dell’aria”).
e)- il senso di umanità, di comprensione per tutti gli uomini (l’ode “Il bisogno”) e lo spirito di generosità.
f)- il senso della responsabilità individuale e sociale.
g)- il senso religioso inteso come culto intimo della divinità. “Nell’alma è d’uopo alzare Achille, il primo altare” (da “L’educazione”).
h)- simpatia e favore per ogni forma di progresso umano (ode “Innesto del vaiolo”).
i)- amore al lavoro svolto con intelligenza e buon gusto.
Fattori della formazione spirituale del Parini
1)- la nascita in campagna che lo avviò al culto di tutto ciò che è semplice e sano, alla austerità, alla simpatia per gli umili e per le loro attività, al culto del lavoro, al senso dell’utile.
2)- la formazione ecclesiastica la quale sebbene non abbia generato in lui una spiritualità soprannaturale vera e propria, tuttavia lo ha confermato nelle virtù della morale naturale (che sono quelle poco fa accennate).
3)- Il contatto con il mondo aristocratico. Il Parini fu educatore in casa Serbelloni. L’abate-precettore era una figura tipica della famiglia nobiliare. Egli era considerato, più o meno alla stregua del cocchiere, del capo-cuoco, del maggiordomo.
Il Parini era orgoglioso e ci teneva molto alla sua dignità, cosciente come era di essere un galantuomo e una persona colta; d’altra parte avvertiva di trovarsi dinanzi ad un mondo di vanitosi, senza alcun merito e don molti demeriti. In casa Serbelloni egli poté conoscere la nobiltà con tutte le sue sciocchezze; e, mentre osservava, per reazione si staccava da quel mondo e si confermava nelle sue convinzioni e nello stile di vita. Per reazione, dunque, rinforzò quella sua coscienza morale fatta di austerità e di rettitudine.
4)- La sua attività di scrittore e di insegnante. Avendo concepito la letteratura e l’insegnamento come una missione di educazione della gioventù italiana del suo tempo, egli si sentì in dovere di coltivare quegli ideali di vita decorosa, onesta e utile che si proponeva di inculcare negli altri.
Nella vita e nell’arte il Parini fu essenzialmente educatore; e dell’educatore possedette in sommo grado il senso di responsabilità e tutto quel corredo di virtù che rendono venerabile il maestro al discepolo (basta pensare al senso di venerazione con cui lo ricordano il Foscolo e il Manzoni giovane).
IL GIORNO
Le opere maggiori del Parini sono due: “Il giorno” e le “19 odi”.
Si suol dire che con il primo il Parini abbia demolito le irrazionalità della società aristocratica e con le seconde abbia ricostruito la spiritualità nuova sulla base della natura e della ragione e di tutti quegli ideali che rendono utile, sana e bella la vita.
“Il giorno” è un poemetto satirico didascalico i n versi sciolti (cioè non legati da rima).
La particolare forma di satira adottata si chiama ironia. Il poemetto è una composizione nella quale o si narra una vicenda o si intreccia in modo organico una serie di descrizioni.
C’è il poemetto didascalico georgico, in cui vengono dati precetti di vita campestre fra una serie di belle descrizioni (famose sono le “Georgiche” di Virgilio, poemetto in quattro libri; famosa è anche la “Coltivazione dei campi” di Alamanni del ‘500.
C’è il poemetto didascalico filosofico (come il “De rerum natura”di Lucrezio).
C’è il poemetto didascalico morale come quello del Parini.
Il verso è l’endecasillabo: cioè verso di undici sillabe con questo schema accentuativo: 4.7.10/4.8.10/6.10- Gli endecasillabi sono sciolti, cioè non legati da rima.
Satirico è detto il poemetto perché deride i difetti umani. La satira fu una delle prime forme letterarie dei Romani: era detta “satura” (= piatto misto) una forma teatrale in cui rientravano il dialogo, la mimica, la danza, il canto presso a poco come il nostro varietà). In genere il dialogo era a battute comiche mordaci. Il primo compositore di satire a Roma fu Lucilio: scrittore che criticò, come dice Orazio, ad una ad una le 33 tribù della città. Scrittore di satire fu anche Orazio: arguto e bonario (molto simile per il gusto e per la sua “aurea mediocritas” (aurea moderazione) al nostro Parini. Fu scrittore di satire Persio, giovanetto filosofo, predicatore morale; scrittore di satire fu Giovenale, aggressivo e realistico. Presso di noi scrittore di satire è stato l’Ariosto con uno stile molto simile a quello di Orazio: arguzia e bonarietà; anche l’Ariosto per la sua aurea moderazione somiglia molto al Parini. Dopo l’Ariosto e assai più grande di lui è il Parini. Dopo il Parini il Porta compone satire in dialetto milanese: satire realistiche di tono bonario e malinconico, ma sempre arguto. Il Belli, in dialetto romanesco compone sonetti satirici di stile realistico e di tono scherzoso. Dopo il Porta e il Belli notevole è il Giusti che nei suoi “Scherzi” deride in tono canzonatorio le varie forme di presunzione, di ipocrisia, di arrivismo comuni nella vita privata e pubblica.
Una particolare forma di satira è l’ironia, che consiste nel fingere di approvare ed esaltare un difetto, con l’intenzione evidente di metterlo maggiormente in ridicolo.
Perché il Parini adotta la forma della satira e non quella del trattato per riformare?
A quel tempo il trattato era comune ed aveva raggiunto una spigliatezza e una vivacità tali da suscitare l’interesse della classe colta in generale. Ma ben sappiamo cosa leggeva la gioventù aristocratica al tempo del Parini: cose che piacevano a Momo (= dio dello scherzo piuttosto volgare) e a Venere (= dea dell’amore), cioè cose spiritose e licenziose. Essa non avrebbe mai letto un trattato che, per quanto spigliato, avrebbe sempre avuto il difetto dell’esposizione astrattamente moraleggiante.
Di qui la necessità di attaccare direttamente il giovin signore, per costringerlo ad interessarsi di sé stesso.
Perché tra le varie forme di satira sceglie proprio quella dell’ironia ?
Vediamo anzitutto quante forme di satira vi possono essere:
a)- la satira predicatoria: che attacca i difetti umani in quanto nemici della virtù: ed appone ad essi, con begli elogi, le virtù opposte (esempio la satira di Persio) così come è la satira degli oratori religiosi quando mettono in cattiva luce i vizi.
b)- la satira realistica e aggressiva: consiste nel rappresentare con gusto maligno e con realismo spregiudicato gli aspetti ridicoli e volgari dei difetti umani, e nell’inveire con animosità contro di essi. Così fece Giovenale e qua e là, nella Commedia, Dante.
c)- la satira comica: ogni satira veramente induce a ridere, o almeno a sorridere, perché io difetti umani sono sempre ridicoli; ma la satira comica è specializzata a mettere in
evidenza i lati ridicoli nei difetti umani con l’intenzione di divertire. Tale fu la satira del Goldoni, il quale utilizzando gli aspetti comici dei difetti umani seppe divertire e insieme correggere il pubblico. Goldoni considera i difetti umani non come espressioni di cattiveria, ma di eccentricità, cioè di sfasatura mentale: ciò che è eccentrico è di per sé ridicolo. Il Goldoni alla sfasatura delle eccentricità oppone il buon senso e la moderazione, doti incarnate sempre nei personaggi simpatici.
Vediamo per quale motivo il Parini non poteva adottare nessuna delle tre forme citate: la satira predicatoria, per essere efficace, presuppone una discreta sensibilità morale nel satireggiato; e tale sensibilità mancava alla nobiltà. La satira predicatoria inoltre è troppo impersonale, ossia combatte il difetto in genere. In terzo luogo essa cade facilmente nel difetto della noia. La predica sarebbe il richiamo meno adatto per la gente che è convinta di essere al più alto grado della perfezione.
Non poteva adottare la satira aggressiva, perché chi aggredisce passa facilmente dalla parte del torto, e può apparire mosso da animosità e malignità e offre all’attaccato il pretesto di atteggiarsi a vittima. Il Parini non vuol fare polemica, ma porre l’aristocrazia di fronte a sé stessa affinché, vedendosi quale effettivamente è, si vergogni di sé stessa.
Non poteva adottare la satira comica perché questa tende a divertire e quindi evita di prendere in considerazione gli aspetti odiosi dei difetti umani (che nel giovin signore non erano né pochi, né piccoli).
Il ridere sui difetti non sempre è sufficiente a generare vergogna di essi, specie se il riso è bonario. Il Parini si trovava di fronte ad una classe indurita dall’orgoglio e altezzosa; perciò la satira comica l’avrebbe appena sfiorata.
Non restava che la satira ironica: con questa il poeta poteva conservare un tono dignitoso e corretto e soprattutto intelligente e fine; e nello stesso tempo poteva colpire la gioventù aristocratica con la verità dei fatti, in quanto quello che veniva rappresentato costituiva la realtà vera. Dall’ironia sgorga il ridicolo, perché il contrasto tra quello che uno crede di essere e quello che realmente è, costituisce sempre fonte di comicità. Nello svolgimento del suo tema raramente il Parini perde la calma ed esce dai limiti dell’ironia: solo qua e là scende alla caricatura o al grottesco, cioè alla esagerazione di certe note ridicole; o al sarcasmo, cioè all’espressione pungente e aggressiva; oppure al riso sdegnoso (come nella conclusione dell’episodio della Vergine cuccia: “e tu idol placato delle vittime umane isti superba”).
Fine che si è proposto il Parini nel comporre “Il giorno”.
In una epistola in versi al signor De Martini (giurista incaricato dal governo imperiale austriaco di riformare i tribunali lombardi) il Parini afferma che egli ha inteso, nel “Giorno” “espor l’utile e il ver scherzando”; e che con l’”acre riso” della sua satira ha “tentato frenar gli errori dei fortunati e degli illustri”. La sua satira perciò non ha fine a sé stessa. Il Parini, nobile figura di educatore, non fu mai mosso dal gusto della caricatura e della beffa velenosa: egli non scrisse per sfogare rancori personali né per demolire la nobiltà mettendola in cattiva luce di fronte alle altre classi, bensì intese soltanto riformarla.
“La superbia prepotente, e il lusso stolto ed ingiusto, e il mal costume e l’ozio – e la turpe mollezza, e la nemica di ogni atto egregio vanità del core” (vanità del core = votezza dell’animo, insipidità spirituale): ecco la massa dei difetti della classe aristocratica, di quella classe che dovrebbe essere la migliore (àristos in greco significa migliore, l’ottimo), ed è invece la peggiore e costituisce una “fonte , onde sul popolo poi discorre (scorre giù) il vizio”. La classe aristocratica non solo non è il buon fermento della società italiana, ma è la causa della corruzione e della decadenza generale della nazione.
Il proposito costante del Parini (evidente nelle odi e nel Giorno) è quello di “ render buoni e saggi i cittadini suoi”: e a tale scopo vuole che la classe più influente smetta di dare scandalo e di costituire un peso morto per la società italiana, e cominci a dare esempio di virtù e a lavorare seriamente per l’elevazione economica, morale, civile e sociale della patria. Invece di appartarsi nel “bel mondo” da cui sono bandite le forme sane e belle della natura, e in cui, perciò, avvizziscono fisicamente e intisichiscono moralmente; invece di considerare il popolo come una massa schifosa e spregevole e di segregarsi da esso, i nobili tornino a vivere secondo natura e a contatto con essa: si pongano alla testa del popolo e lo guidino alla realizzazione di forme di civiltà sempre più alte: riconoscano di essere mortali e si sforzino di rendersi immortali con le “belle opre”. Il Parini è convinto che i nobili costituiscono la classe più capace di promuovere la rinascita della nazione: hanno mezzi finanziari, tempo libero, influenza sociale; e perciò possono dedicarsi agli studi e farsi onore nell’esercizio di attività amministrative, economiche e militari. A lui, laborioso ed onesto, ansioso di vedere una società italiana intelligente, attiva e moralmente sana, ripugna lo spettacolo di una gioventù che potrebbe fare molto e non fa nulla, e che, anzi, pretende sfacciatamente di imporre all’ammirazione e al rispetto del popolo le sue stupidaggini e i suoi vizi.
Alla gioventù aristocratica del suo tempo egli contrappone i nobili delle età precedenti. L’aristocrazia medievale e rinascimentale, idealizzata dal Parini, diventa esempio di vita seria e costruttiva, spesa a servizio delle arti e delle lettere, nelle attività amministrative e guerresche, e nel culto delle virtù familiari.
A questo ideale di vita egli vuole ricondurre i nobili; e per indurli a ravvedersi, li mortifica con la sua satira o meglio li costringe a vergognarsi, presentando loro il ritratto di sé stessi. Riformata la nobiltà egli spera di vedere tutta la società italiana ritornare “saggia e buona”: infatti dalla classe da cui ora scorre giù sul popolo il cattivo esempio del vizio, potrà scorrere il buon esempio di una vita utile ed onesta.
In tal modo il Parini rientra nella schiera dei riformatori italiani, anzi si afferma come il riformatore più decisivo, se è vero che, come dice egli stesso, “dall’alma origin solo han le lodevoli opre”. Il fatto che durante il nostro Risorgimento molti nobili si sono resi utili alla patria (basta ricordare Confalonieri, Porro, Lambertenghi, Massi D’Azeglio, Cavour ecc) sta a significare che l’opera educativa del Parini, rinforzata da quella del Foscolo e del Manzoni, favorita dagli effetti sociali della rivoluzione francese, ebbe i suoi risultati.
Possiamo domandarci perché il Parini abbia scelto come protagonista del suo poemetto proprio un giovane dell’aristocrazia.
I motivi sono pressappoco i seguenti. Anzitutto l’attività educativa in generale si rivolge non agli anziani, ma ai giovani, perché l’avvenire della società è affidato a questi ultimi. Riformare la gioventù significa porre le premesse per un rinnovamento della società. In secondo luogo, perché i giovani sono più sensibili alla critica, in quanto sono più capaci di vergognarsi; e sono più sensibili agli ideali, in quanto il loro spirito, non essendo stato ancora modificato dai pregiudizi e dall’egoismo, accoglie più facilmente il bello e il buono. In terzo luogo perché la gioventù fornita com’è di energia, e capace, quindi, di grandi cose, è maggiormente deplorevole quando dà spettacolo indecoroso di ozio e di vizio. I vecchi con gli stessi difetti sono ridicoli, ma i giovani, oltre che ridicoli, sono anche dannosi per la vita della società. Di qui lo sdegno del Parini e la sua preoccupazione di ricorrere ai ripari facendo uso della satira più pungente, quale è l’ironia.
Impostazione dell’ironia del Giorno.
Trattandosi di un poemetto ironico, l’impostazione è basata sulla finzione. Il Parini, stando a contatto con la nobiltà, ha individuato negli aristocratici soltanto “bassi geni dietro al fasto occulti” (“La caduta”), cioè anime volgari che mascherano la loro volgarità col fasto e con l’artificio. La loro vita gli è apparsa come un “faticoso ozio” (“Alla musa”); negli ambienti in cui vivono, si respira aria viziata in senso sia fisico che morale. Il “bel mondo” gli è apparso come uno strano e ripugnante miscuglio di sciocchezze, di falsità, di corruzione, di ciprie, di profumi, di eleganze.
Egli è convinto che dall’”alma origin solo han le lodevoli opre” e che “mal giova illustre sangue ad animo che langue”. Eppure finge di credere alla “sublimità” del “bel mondo”, finge di accettare il pregiudizio secondo il quale, in forza del sangue aristocratico, i nobili hanno superato la natura umana. Essi sono persuasi di costituire una classe intermedia tra gli dei e il volgo, la classe dei “semidei terreni”, dotata di ogni pregio fisico, intellettuale, morale.
1)- In forza del sangue essi credono anzitutto di essere intelligentissimi.
Il Parini finge di credere a questa superiorità intellettuale: “a voi, divina schiatta vie più che a noi mortali il ciel concesse – domabile midollo dentro al cerebro – sì che breve lavor basta a stamparvi – novelle idee. Inoltre a voi fu dato – tal dei sensi e de’ nervi e degli spirti – moto e struttura, che ad un tempo mille – penetrar puote e concepir vostr’alma – cose diverse, e non però turbarle o confonder giammai, ma scevre e chiare – nei loro alberghi ricoverarle in mente”. La superiorità intellettuale non si manifesta soltanto come agilità e vastità di apprendimento, ma anche come squisitezza e infallibile capacità di giudizio: capacità che il Parini chiama “gusto” (una specie di istinto, innato nel sangue, con cui i nobili distinguono il vero e il bello senza che abbiano bisogno di conoscere le norme dell’arte o di acquistare cultura):” ma che non puote quel d’ogni precetto – gusto trionfator che all’ordin vostro – in vece di maestro il ciel concesse – et onde a voi coniò le altere menti – acciò che passan de’ volgari ingegni oltrepassar la paludosa, – e d’aere più puro abitatrici- non fallibili scorre il vero e il bello”.
Il Parini, dunque, finge di credere che gli aristocratici siano davvero intelligentissimi e infallibili nei loro giudizi. Quando però egli riferisce intorno agli studi del giovin signore, intorno ai libri che egli legge, intorno alla presunzione ed alla fatuità con cui giudica e sentenzia circa gli argomenti più svariati, viene delineando la figura del perfetto ignorante e presuntuoso. Quella del giovin signore non è cultura e tanto meno è sapienza: è soltanto saccenteria sciocca.
Per acquistare cultura bisogna studiare e studiare sodo; ma il giovin signore riceve i suoi maestri (quello da ballo, quello di canto, quello di francese) mentre è ancora a letto; e si dedica alla lettura durante la toilette. I libri che egli legge vengono tutti dalla Francia, e si tratta di libri osceni o empi. Gli bastano queste letture per darsi le arie di pensatore spregiudicato e progressista. Durante il pranzo, in casa della dama, ci dà un bel saggio della sua saccenteria e della sua miseria mentale.
2)- In forza del sangue nobile gli aristocratici credono di saper far tutto. In pratica le
uniche attività in cui gli aristocratici, giovani e vecchi, sono esperti sono gli amoreggiamenti incessanti, la maldicenza, il gioco; la coreografia impeccabile dell’etichetta e della moda. Alcuni tra essi hanno conseguito, a forza di lungo e paziente esercizio, certe abilità particolari e specializzazioni; uno è celebre per lo schioccare della frusta; un altro è famoso perché sa imitare egregiamente col corno il suono della tromba del postiglione; un altro è notissimo come arrabbiato frequentatore del caffè; un altro è specializzato nei segreti del gioco e tiene consulenze su questo argomento; un altro è appassionato, anzi maniaco delle carrozze, noto ai tifosi ed ai carpentieri di tutta Italia. Non trovando altro modo per mettersi in evidenza, i nobili più ambiziosi cercano di farsi una fama con le loro stravaganze: uno, per esempio, fa professione di dottrine pitagoriche e si nutre nei pranzi solo di pane e di erbe: un altro fa professione di epicureismo e mangia come un bue, per attrarre su di sé l’attenzione dei commensali. “in nulla cosa esser – mediocre a gran signore non lice; abbia il popol confini; a voi natura – donò senza confini e mente e cuore. Dunque a la mensa, o tu schifo rifuggi – ogni vivanda, e te medesmo rendi – per inedia famoso, o norma acquista – d’illustre voratore”.
I nobili, dunque, non fanno nulla di utile; non sanno far nulla di serio; e, se fanno qualche cosa, sono mossi soltanto da ambizione che si risolve in mania e si sfoga in stravaganza.
3)- In forza del sangue nobile gli aristocratici credono di aver superato gli istinti comuni.
a)- l’istinto dell’appetito. Il giovin signore è mosso al cibo non dall’appetito, come i comuni mortali, ma dal piacere. Le papille gustative degli aristocratici hanno una conformazione tale che i cibi comuni non riescono a solleticarle: per esse sono necessari cibi piacevoli o (per usare la parola appropriata) ghiottonerie. I nobili dunque non solo non hanno superato l’istinto dell’appetito, ma sono raffinatissimi ghiottoni.
b)- L’istinto sessuale. I nobili considerano il matrimonio come la tomba dell’amore, come un “modo più penoso”, come una rinuncia formale alla vita del “bel mondo”: il marito per essi è un “stallon ignobil de la razza umana”. Ma in pratica il giovin signore è un lussurioso di classe: egli visita “devotamente di tanto in tanto le aree di Venere” in Francia e in Inghilterra: egli ogni giorno amoreggia liberamente con la dama, in forza dei diritti che gli competono come cavalier servente: “Pèra, dunque, chi a te nozze consiglia – ma non però senza compagna andrai – che sia giovin dama, d’altrui sposa; – perché sì vuole inviolabil rito – del bel mondo onde tu sei cittadino”. Il rito, la norma a cui si accenna, è spiegata dal Parini assai bene col mito di Amore e Imene.
Questo mito è stato introdotto per spiegare il modo ipocrita con cui i nobili pretendono ammantare la loro lussuria e le usurpazioni di Amore (= libero amore) a danno di Imene (= matrimonio).
4)- In forza del sangue gli aristocratici credono di aver superato la sensibilità comune. Gli
uomini comuni sentono pietà per le miserie dei loro simili: “Qual anima è volgar – dice ironicamente il Parini – la sua pietade – all’uom riserbi”. L’aristocratico, invece, “sdegna comun affetto; e i dolci moti – più lontano limite sospinge”.
La dama, che come donna e come gentildonna, dovrebbe avere un animo sensibile e tenero, nell’episodio della Vergine cuccia ci dà un esempio pratico della magnanimità aristocratica. I nobili amano le bestie e disprezzano l’uomo: a questo si riduce la loro sensibilità. Quando poi si infuriano col parrucchiere o col cameriere, escono in escandescenze bestiali.
5)- In forza del sangue gli aristocratici hanno superato il mondo ambientale.
Il volgo è contento della sua terra e delle sue arti, e si compiace dei prodotti del suo lavoro “la plebe si nutra e vesta delle fatiche sue”. Gli intellettuali all’antica ammirano e venerano la nostra lingua nazionale, la nostra tradizione artistica e letteraria, il nostro patrimonio religioso e morale, gli aristocratici, per distinguersi dal volgo, ammirano, apprezzano, acquistano e pagano profumatamente solo ciò che viene dall’estero. Le bevande, i tessuti, gli oggetti di ornamento, perfino la lingua (quella francese): tutto deve venire dall’estero “ a le grand’alme – di troppo agevol ben schife Cillenio – il comodo presenti, a cui le miglia pregio acquistino e l’oro”.
In pratica, però, si tratta di cose che hanno pregio solo perché vengono da lontano e perché sono pagate di più: molti prodotti che vengono spacciati per esteri, sono comunissimi prodotti italiani a cui è stata appiccicata l’etichetta francese o inglese. Così il giovin signore non solo non dimostra di avere buon gusto, ma si rivela autentico babbeo: lo sa bene “il merciaiol – pronto inventor di lusinghiere fole – e liberal di forestieri nomi – a merci che no mai varcaro i monti”.
Quanto alla moda, la manie dell’esotismo è inesauribile fonte di assurdità. Un esempio, l’acconciatura dei capelli dovrebbe essere fatta, come ogni opera d’arte, in base al criterio dell’armonia: per usare una immagine pariniana, l’architettura del capo dovrebbe armonizzare col resto della persona: “accordar al sembiante l’edificio del capo”. Ma se il parrucchiere osasse seguire questo criterio, povero lui ! Bisogna “prender legge da colui che giunse – pur ier di Francia”.
Quanto alla lingua, la mania frencesizzante fa sì che gli aristocratici non parlino bene né il francese (perché non lo studiano), né l’italiano (perché lo disprezzano). Quanto alla cultura, la mania francesizzante ha diffuso, in mezzo agli aristocratici, la saccenteria, che è un misto di ignoranza e di presunzione, quando non è antireligioneria o sconcia spregiudicatezza morale.
6)- In forza del sangue gli aristocratici hanno superato i difetti fisici. I comuni mortali si
adattano alle imperfezioni naturali del volto e al logorio prodotto dal tempo sui loro lineamenti. I nobili, invece, a forza di cosmetici e ciprie, di nei finti e di acque odorose, eliminano le rughe, combattono la vecchiaia, rabberciano le irregolarità del volto, eliminano le sgradevoli esalazioni del corpo proprio e di quello altrui.
Eppure sotto quella maschera c’è l’uomo con i suoi irrimediabili difetti fisici: sotto la parrucca incipriata potrebbe esserci ”odiato rosso dei capelli”; sotto i cosmetici di cui si imbellettano i vecchi ci sono le rughe; sotto i vestiti eleganti c’è un corpo che si insudicia e che “di lavacro universal convien bagnare”. Non parliamo delle realtà ripugnanti che si nascondono sotto il lusso e la toeletta delle dame anzianotte.
Né parliamo della tracce, che, sul volto del giovin signore, lasciano le fatiche notturne del gioco e i vizi.
7)- In forza del sangue e per distinguersi dal volgo, gli aristocratici credono di aver superato le ripartizioni naturali del tempo: dormono di giorno e vegliano di notte.
In conclusione l’orgoglio del sangue si traduce in uno sforzo infelice di superare le esigenze di natura e quindi la vita del popolo che si regola secondo la natura.
Gli aristocratici credono di aver superato la natura, ma i pratica sono scesi al di sotto di essa; credono di aver superato le virtù comuni; ma in pratica si vantano e si compiacciono dei vizi più volgari; credono di aver creato un’etica superiore, quella della moda, ma in pratica sono schiavi volontari di un’etica e di un gusto che, oltre ad essere assurdi, sono estremamente ridicoli. Al Parini non è difficile dimostrare tutto questo: a lui, infatti, è sufficiente riprodurre la vita dei nobili come essa è realmente. Dal contrasto fra le loro convinzioni e la realtà della loro vita scaturisce spontaneo e naturale il ridicolo.
Schema del Giorno.
Il poemetto è impostato su un presupposto generale: il giovin signore e un “eroe del belmondo”, “un campione della moda”, “un eroe della dama”. Questo concetto evidentissimo in tutta l’opera, è enunciato chiaramente e con la solita fine ironia, nel “Mattino” e precisamente nel punto in cui il poeta invita Marte in persona a cingere la spada al suo “giovine eroe”, paragonato ad un cavaliere del ciclo di Artù. Il Parini allorché inizia l’elenco degli arnesi da combattimento che il giovane eroe dovrà portare con sé, invoca regolarmente le Muse come fanno Omero, Virgilio, Tasso allorché cominciano i famosi “cataloghi” (= elenco degli eroi e dei reparti che prendono parte ad una guerra): anche questo particolare sta ad indicare che l’autore ha voluto dare al “Giorno” l’impostazione del poema epico. Tale impostazione, evidentemente, contribuisce a rafforzare l’ironia, che risulta appunto dal contrasto fra il tono epico della trattazione e le sciocchezze trattate.
1)- Il mattino, si potrebbe definire “il momento della preparazione dell’eroe”.
Preparazione culturale (letture) – preparazione estetica (toeletta) – preparazione
strumentale (arnesi) . Da tutte le parti del mondo, specie dalla Francia, confluiscono sulla ”ara sacra” della toeletta e nel guardaroba del giovin signore.
Mentre artisti eccellenti (il parrucchiere e gli altri ministri della toeletta in primo piano nel chiuso di una stanza, tra mille profumi, lavorano intorno all’eroe, si vedono nello sfondo, in lontananza, masse plebee di contadini e di artigiani lavorare in tutti i continenti per fornire al “bel mondo” le armi della moda, i piaceri e il lusso.
Intermediari, tra questa plebe “dannata a lavorare” e “il bel mondo” si muovono mi commercianti: gente furba, espertissima nel darla a bere allo sciocco signore, da cui è rispettata e ben pagata.
2)- Il mezzogiorno. E’ il primo combattimento dell’eroe a fianco della dama, in un
ambiente ristretto e scelto in un momento di alta intellettualità, quale può essere quello del pranzo: “fia la mensa – il favorevol loco ove al sol esca – dei brevi studi il glorioso frutto”. Appena entra in campo tutti gli fanno largo e gli cedono il posto: il più frettoloso è il marito della dama. Nella prima impresa (trinciamento delle vivande) conquista il primo brillante campionato: “i convitati inarcheran le ciglia sul difficil lavoro, e d’oggi in poi si fia ceduto il trinciator coltello”. Quindi l’intermezzo patetico della commozione della dama per il ricordo della Vergine cuccia: anche lei conquista così un campionato: quello della sensibilità. Poi le discussioni dotte: “fia la mensa il favorevol loco ove al sol esca – dei brevi studi il glorioso frutto”. E così conquisterà un altro campionato: quello della cultura: “or tu, signore, col volo ardito del delice ingegno – t’ergi sopra d’ogn’altro. Il campo è questo dove più splender dei: nulla scienza – sia quant’esser si vuole arcana e grande – ti spaventi giammai”. Il primato che conquisterà nella sua esibizione culturale sarà quello dello scherno contro la religione: “qui ti segnalerai coi novi Sofi, schernendo il fren che i crudeli maggiori – atto solo a stimar ecc”- “ il mio signor come aquila sublime – dietro ai Sofi novelli il volo spieghi…. applauda intanto tutta la mensa al tuo poggiare ardito”.
Il campionato nello scherno contro la religione è il più facile, perché (essendo l’argomento il più arduo di tutti) per conquistarlo basta essere ignoranti.
3)- il vespro. O la giostra dei cavalieri al Corso. E’ la seconda fase dell’epopea nobiliare:
una specie di giostra o rivista in cui i grandi casati mettono in evidenza la loro magnificenza e si scontrano in competizione di finezza e di lusso. In pratica tutto si riduce ad una gara di cafonate da sbalordire.
Il cavaliere e la dama affrontano la competizione insieme, proprio come nei grandi poemi epico-cavallereschi.
Con l’ampliarsi della visione il Parini ha modo di presentare un campionario assortito di esemplari del bel mondo, cosicché i lettori abbiano una idea più completa dell’ambiente aristocratico.
Come nei grandi poemi, dopo le battute iniziali con azioni di massa, l’episodio prende il sopravvento sull’impresa collettiva, così nel Giorno, dopo la compatta discussione dei convitati che, sotto la direzione del giovin signore (rinforzato dalla dama) sono stati tutti concordi nel dir male degli italiani e nel deridere le credenze religiose, l’azione epico-cavalleresca si fraziona in diversi episodi destinati a porre meglio in evidenza la individualità dei personaggi e i costumi dell’ambiente.
Il primo tema, quello delle visite e dell’amicizia, è quanto mai adatto ad illustrare i rapporti reciproci tra le famiglie nobili. Al biglietto di augurio del giovin signore, l’amico, malato, risponde: “or venga il giorno – che si grate alternar nobili veci – a me sia dato !”. La visita della dama all’amica isterica si concluderebbe con una zuffa fra le due “amiche”, se il cavalier non intervenisse affrontando l’ira dei ventagli.
4)- la notte o la veglia. “Loco è, ben sai, na la città famoso….. ivi la turba della gioverntù divina – scende a pugnar con le mutabil arme di vaghi giubboncel, d’atti vezzosi, di bei modi del dir stamane appresi….. Quanta folla d’eroi ! Tu, che modello – d’ogni nobil virtù, d’ogni atto eccelso – esser dei fra i tuoi pari, i pari tuoi a conoscer apprendi; e in te raccogli quanto di bello e glorioso e grande, sparse in cento di loro arte e natura”. E’ lo stesso mondo del Corso visto a distanza ravvicinata. Nelle stanze “folte di cavalieri e dame” il giovin signore combatte l’ultima fase della sua battaglia quotidiana: “ardito e baldo – vanne, torna, ti assidi, ergiti, cedi – premi, chiedi perdono, odi, domanda – sfuggi, accenna, schiamazza, entra e ti mesci – ai divini drappelli; e a u punto empiendo – ogni cosa di te, mira e conosci”.
Siamo (nella Notte) alla fase della battaglia generale, combattuta a corpo a corpo. Nelle sale splendenti, turbina una assortita folla di nobili: adolescenti, giovani, vecchi, damigelle, dame, vecchie matrone. Ognuno è mosso dalla ambizione di dare la migliore prova di sé stesso.
Poi la battaglia del gioco: impegnativa al massimo, e spesso rovinosa. L’ultima visione è, senza dubbio, la più penosa: la dama, dimentica dei suoi doveri di madre e della sua dignità di donna, si ingolfa nel gioco colla foga del giocatore più maniaco.
Perché il Parini ha preferito descrivere la “giornata” del giovin signore ?
Per satireggiare la nobiltà sarebbe stato ugualmente inventare una trama di avventure in cui fossero implicati uno o più giovani aristocratici, con i loro modi di pensare e di agire. Anzi, seguendo questo procedimento, il Parini avrebbe evitato la forma del diario, che presenta notevoli svantaggi:
a)- perché è difficile legare le varie parti in modo organico (nel diario si lega solo col ”poi” e col “dopo questo”, cioè col solo rapporto della successione temporale, che è il rapporto meno vitale).
b)- perché la materia è arida, in quanto non presenta nulla di eccezionale e
difficilmente si presta a lasciarsi vivificare dalla fantasia e dal sentimento.
c)- perché è facile il pericolo della ripetizione e della monotonia.
Un trama inventata, con situazioni ed episodi svariatissimi, con avventure di ogni genere in Italia e all’estero, sarebbe certo stata più facile e più avvincente per un poeta che non avesse avuto la coscienziosità del Parini.
Parliamo di coscienziosità perché, senza dubbio, egli fu indotto a sobbarcarsi al peso del procedimento più difficile per tutti i motivi di impegno morale e civile. Il suo proposito, infatti, era quello di riformare la nobiltà, satireggiandone la vita vera e reale, quella di ogni giorno, non quella dei momenti eccezionali. E’ la giornata vera degli aristocratici, sono le loro attività reali, insignificanti e scandalose, che incidono sulla vita della società e determinano il grado di arretratezza del popolo italiano.
In sostanza, dunque, il Parini preferisce come tema la giornata del giovin signore, per due motivi:
a)- perché è un tema rispondete alla realtà dei fatti;
b)- perché è un tema più valido ai fini della riforma civile e sociale che egli si è
proposto.
Mezzi con cui il Parini rinforza l’ironia.
1)- L’impostazione epica che fa contrasto con la miseria della vita aristocratica;
2)- L’introduzione di numerosissime divinità pagane a servizio dei semidei terreni, come nei poemi classici.
3)- La creazione di miti nuovi per spiegare certe usanze del bel mondo: il mito di Amore e Imene – quello della cipria – quello del Piacere – quello del canapè.
4)- Richiami storici famosi e paragoni con personaggi illustri di poemi epici o epico-cavallereschi, per illustrare i momenti più ridicoli della giornata dei nobili.
5)- Il tono fra ammirato e scanzonato con cui il volgo osserva e commenta la vita degli aristocratici.
6)- Lo stile elegante e l’impegno serio con cui il poeta tratta un argomento così
meschino.
Lo stile del Parini
Il Parini adotta ,lo stile classico; e si potrebbe dire che egli è di fatto il primo poeta neoclassico italiano.
Il neoclassicismo è un movimento artistico-letterario che fiorisce dalla seconda metà del ‘700 al primo trentennio dell’800, caratterizzato dal proposito di trattare temi moderni con spirito moderno, facendo uso dei procedimenti compositivi classici.
Classici furono detti i più grandi scrittori dell’antichità greco-romana; e i classicisti sono tutti coloro che nel corso dei secoli imitano gli scrittori classici. La nostra tradizione culturale e artistica è strettamente collegata col pensiero e con l’arte classica: i greci ispirarono i Romani – i Romani lasciarono la loro eredità agli Italiani dell’epoca post-classica. Nel Medioevo pensatori e poeti usavano prendere lo spunto generale dal pensiero e dallo stile classico, per elaborare in modo originale il loro pensiero ed esprimere il loro mondo interiore. S. Tommaso si rifà alla filosofia di Aristotele, ma la elabora secondo il pensiero cristiano. Dante si dichiara discepolo di Virgilio: “tu sei lo mio maestro e il mio autore – tu se’ colui da cui mio tolsi – lo bello stile che m’ha fatto onore” (Inf. C.I vv 85-87). Se c’è un poeta originale nella nostra letteratura è proprio Dante: e in che senso, allora, egli si dichiara virgiliano o classicista ? Nel senso, certamente, che egli ha adottato la precisione, la concretezza figurativa, la chiarezza che sono le caratteristiche essenziali dello stile classico in generale e di quello virgiliano in particolare.
Il classicismo medievale non imita, dunque, passivamente le impostazioni, le immagini, le forme linguistiche dei greci e dei romani: adotta l’indirizzo generale dello stile classico, ma lavora per conto proprio.
Nel Rinascimento, invece, specie durante la fase dell’Umanesimo, l’imitazione dei classici assunse un indirizzo radicale: spesso furono passivamente riprodotti gli atteggiamenti spirituali, le immagini, il frasario caratteristici dei più grandi autori latini. Si tentò perfino di sostituire il volgare con la lingua latina dell’età aurea. La nostra letteratura, allora, si staccò dalla vita e divenne libresca: per intenderla bisognava essere versati negli studi classici. La retorica ( una specie di codice letterario basato sui modelli antichi) fissò le regole per i vari generi letterari. L’Ariosto, Machiavelli, Guicciardini, dotati com’era di genio, furono gli unici che lavorarono secondo la loro ispirazione, attenendosi soltanto nelle linee generali ai modi dello stile classico.
Nel seicento, l’aspirazione al ”nuovo” indusse i marinisti a ripudiare lo stile classico.
Il Marino definiva i classicisti “beccamorti di Parnaso”, cioè cultori di cose morte e sorpassate. Nonostante questa avversione al passato, tuttavia i marinisti ripetono anch’essi le immagini classiche e abusano della retorica: anzi la letteratura del ‘600 può essere senz’altro un concentrato di artifici retorici, non escluso il frasario mitologico classico che, anzi, costituisce l’elemento ornamentale preferito.
Nella prima metà del settecento l’Arcadia sorge col proposito di combattere il “cattivo gusto” del seicentismo; e per riportare la letteratura alla semplicità ed alla chiarezza, torna al classicismo. Ma si tratta di un classicismo di imitazione, come quello umanistico, e, per di più, ristretto agli atteggiamenti, alle immagini ed al frasario della poesia pastorale.
Alla metà del ‘700 la critica illuministica demoliva il classicismo accademico e retorico in generale e quello arcadico in particolare. Temi sciocchi ed inutili, atteggiamenti falsi ed anacronistici, immagine vecchie e prive ormai di vitalità, espressioni linguistiche cadute in disuso: a questo si era ridotto il classicismo delle varie accademie. Non fu difficile, perciò, alla letteratura illuministica guadagnarsi la simpatia del pubblico degli intellettuali con la modernità e l’interesse degli argomenti trattati, con la utilità del contenuto, con l’espressione viva. Tuttavia i nostri illuministi non seppero creare uno stile che alla agilità ed alla vivacità congiungesse anche la precisione e l’eleganza.
Spetta al Parini il merito di avere salvato il classicismo dalla morte tirandolo fuori dalle accademie e riportandolo a contatto con la vita; e nello stesso tempo il merito di aver utilizzato quanto di buono offriva la letteratura illuministica; egli, infatti, congiunse la modernità dei temi e del contenuto con la precisione e l’eleganza dello stile classico.
Il Parini non riprodusse passivamente temi, situazioni, atteggiamenti, immagini, frasi desunte dai classici ; ma adottò soltanto i procedimenti compositivi usati dagli antichi per trattare temi moderni, con spirito moderno. Il suo classicismo non è imitativo, ma creativo: è un classicismo nuovo o neoclassicismo.
Vediamo in particolare quali sono i principi fondamentali dell’estetica classica:
1° Principio: l’arte imita la natura. Aristotele definisce l’arte “mimesis” ovvero imitazione della natura. Dante afferma: “natura lo suo corpo prende da divino intelletto e da sua arte….. l’arte vostra quella (la natura) quando puote – segue…. sì che vostr’arte a Dio quasi è nepote”. L’artista, o con le parole o con i mezzi figurativi, crea persone, paesaggi, vicende, situazioni simili a quelle della realtà: crea il verosimile.
2° Principio: l’arte, a differenza della natura, crea il perfetto, cioè forme nelle quali si incarna pienamente l’idea corrispondente al soggetto trattato. In natura, ad esempio, non c’è nessun albero che riproduca perfettamente l’idea di albero; ma un artista può crearlo tale che esso sia l’incarnazione piena di quell’idea.
Perciò il principio enunciato sopra come primo si completa in tal modo: l’arte imita la natura, ma lavora su un piano ideale e crea il perfetto. L’arte è sintesi di natura più ideale.
3° Principio: alla creazione della forma ideale concorrono le seguenti facoltà: capacità di osservazione – capacità di imitazione – intuito intellettuale – senso delle proporzioni e quindi dell’armonia nel disporre la struttura dell’insieme e nell’elaborare i particolari – possesso sicuro ed uso intelligente dei mezzi di espressione. Tutto lo spirito, insomma, partecipa alla creazione artistica.
4° Principio: per creare la forma ideale è opportuno seguire i seguenti procedimenti compositivi.
a)- Idealizzazione, che consiste nell’attribuire ad un soggetto tutte le note più significative in modo da farne un esemplare perfetto nella sua specie. Un esempio: il Parini, all’inizio della “Notte”, vuol descrivere la notte del passato con le sue tenebre e i suoi orrori per opporla alla notte moderna in cui tutto “si irradia di nuova luce”. Ebbene egli raccoglie e organicamente compone le note più significative di una notte orrida: note che nella realtà si possono cogliere isolatamente, mai congiunte insieme, perché nessuna notte reale le possiede tutte nello stesso tempo. Ecco le note: un’atmosfera di tenebre e di pericoli che incombono dall’alto rendono “timida la terra – i deboli raggi delle stelle remote e de’ pianeti che nel silenzio camminando vanno” permettono una percezione confusa e quindi più paurosa delle cose – edifici alti coperti dalle tenebre – teschi antichi ai piedi delle vecchie torri – fortezze – uccellacci notturni che svolazzano e stridono sinistramente – fiamme smorte dei fatui fuochi vaganti per l’aere “orribilmente tacito ed opaco” – la figura bieca dell’adultero col cappello “su le ciglia”, avvolto in un mantello e armato – fantasmi che “lungo le mura dei deserti tetti spargono lungo acutissimo lamento” – cani che “da lontano, per lo vasto buio rispondono ululando” al lamento dei fantasmi.
Tutto questo insieme di note non si trova mai in una notte reale, e quindi in natura non esiste una “notte orrida” perfetta. L’arte raccogliendole tutte insieme, crea una forma o visione che incarna perfettamente l’idea di “notte orrida”: siamo di fronte ad una notte orrida idealizzata.
b)- Mitizzazione, che consiste nel trasferire uomini e cose in un mondo soprannaturale, in cui assumono aspetti divini: o nello spiegare l’origine di una cosa, ovvero il significato di un concetto, con un mito. Ad esempio il Parini trasferisce ironicamente i personaggi e le cose del bel mondo su un piano divino: e spiega l’origine del libero amore, della cipria, del piacere, del tric-trac, del canapè, con miti da lui creati ex-novo. Quando il mito serve a spiegare l’origine di una cosa si chiama etiologico: miti di tal genere furono creati dal greco Callimaco (“La chioma di Berenice”), da Ovidio (nelle “Metamorfosi” e nei “Fasti”), da Properzio (nelle “Elegie romane”).
La mitizzazione serve a rinforzare l’idealizzazione, anzi è la più efficace forma dell’idealizzazione stessa: e nel “Giorno” essa serve ad accentuare il contrasto tra la meschinità della vita aristocratica e il tono solenne con cui il poeta la tratta, cosicché dal contrasto scaturisca più evidente il ridicolo.
c)- Armonia, che consiste nel proporzionare fra loro le parti costitutive di una forma , cioè nel dare a ciascuna di essere il posto e lo sviluppo che le competono in forza della funzione che svolgono nel complesso dell’opera e in base alla importanza che hanno in rapporto alle altre. Per i classici l’armonia costituisce l’essenza della bellezza; e risulta dalla proporzione delle parti che entrano in competizione. Perché una cosa sia bella occorrono tre cose: che abbia tutte le parti che la costituiscono – che queste parti siano organicamente collegate – che esista tra esse un rapporto di proporzione reciproca . (bellezza = armonia; armonia = proporzione; proporzione = rapporto razionale tra le parti. Ad esempio: un volto umano è bello, quando non manca nessuna delle parti che lo costituiscono (naso, occhi, bocca ecc); quando ogni parte è al suo posto; quando ugni parte è proporzionata alle altre (ad esempio un naso troppo voluminoso rompe la proporzione e quindi diminuisce la bellezza). Il poeta che svolgerà ampiamente questo concetto della bellezza intesa come armonia sarà il Foscolo nel “Carme delle Grazie”.
d)- Concretezza, che consiste nel rendere intuitiva il più possibile l’idea che si vuole esprimere. A tale scopo l’espressione concettuale viene sostituita il più possibile con l’espressione figurativa. Ad esempio: invece di dire “gli aristocratici sono insensibili alle miserie umane ed amano più le bestie che gli uomini” (che sarebbe una espressione concettuale), il Parini descrive (o figura) l’episodio della Vergine Cuccia, in cui lo stesso concetto è visto, intuito in una scena.
“Ut pictura poesis” disse Orazio: la poesia è come la pittura, cioè il poeta dipinge immagini precise con le parole. E il Foscolo nelle “Grazie” dirà: “sdegno il verso che suona e che non crea” (ossia sdegno il verso che è puro suono e non crea nessuna immagine in chi ascolta); ed ancora: “a voi chieggio – l’arcana armoniosa melodia pittrice – della vostra beltà…. anch’io pingo e spiro a fantasmi anima eterne”.
Il Parini, oltre che del classicismo fu seguace anche delle teorie estetiche del sensismo, secondo il quale l’arte parla ai sensi e alla fantasia, con immagini precise e concrete, come quelle create dalla pittura e dalla scultura.
Per rendere intuitiva l’idea il classicismo adottò i seguenti procedimenti:
– descrizione precisa e completa fino nei minimi particolari. L’immagine appena abbozzata o mancante in qualche parte, non rende intuitiva l’idea ma piuttosto la confonde; e perciò l’imprecisione e l’incompletezza sono considerati come i difetti più gravi del comporre.
– personificazioni di identità astratte o di esseri inanimati (uso frequentissimo nel “Giorno).
– paragoni per chiarire e rendere concreto un concetto.
e)- Eleganza e decoro, che consiste nel preferire le immagini piacevoli a quelle spiacevoli; e nell’evitare la nota rozza o l’espressione usuale e volgare, quando non si può fare a meno di riprodurre una immagine spiacevole. Il Parini, ad esempio, accenna a molte cose e a molti usi volgari e osceni, ma ingentilisce sempre l’espressione o modellandola sul linguaggio mitologico o sul frasario comune ai grandi scrittori di Grecia e di Roma, o creandola egli stesso con squisito senso di signorilità. Basti citare, a tal proposito, “l’altrui donna a te sì cara”, per indicare la dama del giovin signore che, in pratica è una adultera legale; oppure i rapporti poco puliti dei nobili con le signore della borghesia, espressi con l’elegantissima frase: “le belle cittadine che ai tetti loro dedussero gli dei”.
Questi sono i procedimenti per creare la forma e l’immagine ideale. Si tratta, come si vede, di procedimenti, non di pezzi già fatti e destinati ad essere utilizzati passivamente. Il procedimento è un modo di lavorare, e come tale, non impedisce affatto l’originalità dell’opera. Ad esempio: il procedimento della mitizzazione fa sì che il Parini non ripeta i miti vecchi, ma ne crei di nuovi per conto proprio.
5° Principio: la bellezza, che è armonia, genera armonia, serenità nello spirito di chi la contempla. Anche l’arte, che è creatrice di bellezza, ingentilisce l’animo. Il Parini nell’ode “Alla Musa”, afferma che la poesia educa “al decente, al gentile, al raro, al bello”. Il Foscolo nell’ode “All’amica risanata”, parlando della bellezza, afferma:”l’aurea beltade, ond’ebbero ristoro unico ai mali le nate a vaneggiar menti mortali”; e nelle “Grazie” illustra poeticamente l’opera di civilizzazione della specie umana compiuta dalle Grazie, cioè dalle figliole della bellezza.
6° Principio: l’arte oltre che dilettare con la bellezza delle forme, deve educare l’animo umano al vero e al bene; anzi l’arte educa dilettando. Orazio dice testualmente: “omne tulit punctum qui miscuit utile dulci lectorem dilectando pariterque monendo” (= consegue ogni approvazione chi mescola l’utile col dolce, dilettando ed insieme educando il lettore). Il pensiero del Parini, a questo proposito, è stato già ampiamente illustrato: egli ha scritto per educare.
Questi principi dell’estetica classica furono accolti ed applicati dal Parini, che li considerava dettati dalla natura stessa: ”i gran principi cui creò la natura e che sopra il senso degli uomini regnaro gran tempo in Grecia; e nella Tosca terra rinacquer poi più poderosi e forti”. Il Parini afferma che tali principi sono stati adottati dalla natura nel senso che i primi artisti, imitando la natura, li hanno scoperti nelle cose, le cui forme sono ben definite, proporzionate, armoniche e chiare.
Nel trattato “Principii delle belle lettere” il Parini espone più particolarmente ed organicamente le sue idee estetiche. In esso esamina l’origine dell’arte in generale e la fa risalire all’istinto dell’imitazione innato nell’uomo, al bisogno di rendere più decorosa la propria vita, alla necessità di esprimere i propri sentimenti. Parlando delle attività che intervengono nella creazione artistica, insiste sull’osservazione della natura, sull’imitazione di essa e sull’elaborazione compiuta dalla fantasia. Parlando, infine, dei fini dell’arte insiste sul concetto che essa mira all’utile e al dilettevole.
Pregi del Giorno.
Li distinguiamo in pregi di contenuto e pregi di stile.
Pregi di contenuto ovvero di sviluppo del tema.
1)- Ampiezza di svolgimento nonostante la ristrettezza del tema. Abbiamo già notato la difficoltà costituita dalla scelta del diario del giovin signore come argomento del poema. Tuttavia col giovin signore entra direttamente in scena tutta l’aristocrazia e indirettamente anche il popolo; e quindi tutta la società italiana del sec.XVIII°.
Di questa società il Parini ha individuato e rappresentato, non gli aspetti contingenti ed esteriori, bensì l’anima: da una parte una classe orgogliosa, che vive contro natura e, quindi, si rivela totalmente vuota di ideali e di affetti sinceri; dall’altra il popolo che ancora vive secondo natura e perciò si rivela moralmente sano, lavoratore, assennato.
Quello che colpisce e rimane in chi legge il poemetto, non è tanto il complesso delle sciocchezze obbligate della vita del giovin signore e dei suoi colleghi, quanto il voto miserando di quella vita: nessun vero affetto, nessun ideale, perfino nessuna vera passione. Siamo di fronte a quella vanità o vuotaggine del cuore che nella lettera al De Martini, il poeta definiva “nemica di ogni atto egregio”.
Perciò il tema vero è ben più vasto della giornata del giovin signore: esso è il vuoto assoluto di una classe, e precisamente della classe più influente, con tutti i suoi tristi riflessi sulla vita sociale della nazione italiana. Più volte il poeta ci presenta di scorcio l’Italia che invano spera in questa gioventù indolente ed inutile. I motivi del Giorno, perciò, saranno validi fino a che sulla terra ci saranno uomini vanitosi ed inutili : di qui l’universalità del poema.
2)- La varietà dei tipi che il poeta ci presenta. Man mano che la scena si allarga dal Mattino al Mezzogiorno, al Vespro (i tipi e non i caratteri perché gli aristocratici sono senz’anima) si moltiplicano, fino a diventare folla nella Notte. In ogni tipo si incarna un aspetto della vita degli aristocratici, una forma particolare della loro vanità.
Dall’inizio alla fine del poema, passa dinanzi ai nostri occhi una serie svariatissima di ritratti, delineati con impareggiabile finezza psicologia e precisione di note esteriori. Si vede bene che il Parini è un osservatore acutissimo e sa abilmente armonizzare l’aspetto esteriore di un personaggio, con le sue caratteristiche interiori. Basta pensare al ritratto dell’epicureo e del vegetariano e a quello dell’aristocratico forestiero nel Mezzogiorno.
3)- La passione con cui segue i movimenti del protagonista e dei suoi colleghi.
Il Parini è uno spirito ricco di umanità e di senso morale: perciò è sempre presente nel suo poema con il suo sdegno represso e il suo piglio ironico. Questa partecipazione continua ed intensa dell’autore conferisce a tutto il poema una immediatezza lirica assidua ed appassionata. Al potenziamento di questa immediatezza contribuisce efficacemente il discorso diretto: il poeta, infatti, si rivolge di continuo al giovin signore o, qua e là, ad altri personaggi, per tenere più legati al suo spirito i motivi particolari e tutta la materia in generale. E’ questa liricità costante (ossia questa partecipazione appassionata) che conferisce alto valore poetico a tutta l’opera, in quanto la arricchisce di umanità.
4)- L’abilità con cui lega i passaggi. Forse una delle difficoltà maggiori che presentava il tema del diario era la saldatura organica e vitale dei vari momenti della giornata del giovin signore. Il Parini ha saputo quasi sempre superarla, ricorrendo alle soluzioni più geniali: ora associando motivi particolari che si richiamano perché insieme costituiscono un motivo più generale (ad esempio: i vari motivi della toeletta rientrano nel tema, più generale, della preparazione dell’eroe) -ora associando motivi che si richiamano per somiglianza – ora associando motivi che si richiamano per opposizione – ora facendo ipotesi (ad esempio. All’inizio della Notte: dove sarà il mio signore “ Forse sta facendo questo; forse potrebbe essergli capitato quest’altro….) – ora fingendo che la sua attenzione, già rivolta ad una scena, sia richiamata da un suono o da una visione di tonalità più intensa – ora assumendo la funzione di un fotografo che, tra mille scene interessanti, riprende quelle che maggiormente lo colpiscono.
Gli elenchi stessi perdono la loro aridità dell’enumerazione in serie, per assumere la funzione di particolari inseriti organicamente in un quadro generale. Ad esempio: l’elenco degli arnesi del mattino, non solo è ravvivato dalla personificazione dei singoli oggetti (ognuno dei quali cerca di mettersi in evidenza per certe sue attrattive), ma costituisce il complesso pittorico di un tema che può essere enunciato presso a poco così: “le armi dell’eroe”. L’elenco dei commensali si traduce in una serie di particolari di un quadro generale: “belli spiriti ad intellettual convegno”; l’elenco del Vespro illustra il tema: “campionario di lusso stolto”; l’elenco della Notte: “orgogli e sciocchezze in competizione serrata”. Non si tratta di elenchi, ma di particolari di un quadro, che si richiamano per somiglianza o per contrasto e sempre sono collegati dal concetto che nel mondo aristocratico un tipo vale l’altro, perché tutti son tipo di sciocchi.
5)- La ricchezza dei motivi con cui riesce a variare e a ravvivare la materia: descrizioni precise e nitide, richiami mitologici e miti nuovi – richiami storici – richiami a motivi famosi di poemi classici – paragoni appropriati e condotti con mirabile arte descrittiva – discorsi di questo o di quel personaggio.
Pregi di stile.
1)- Espressione intuitiva. Il Parini parla costantemente per immagini; non discorre ma rappresenta; o pittura o scolpisce. Le frequentissime personificazioni stanno a dimostrare che intendeva parlare alla intelligenza dei lettori attraverso la loro fantasia e che l’espressione figurativa gli sembrava la più adatta ad inculcare idee, anche se artisticamente era la più difficile.
2)- Figurazione precisa e nitida. Di ogni oggetto, di ogni gesto di ogni fisionomia, di ogni stato d’animo il Parini sa individuare e riprodurre la nota o le note più significative e rivelatrici. Ci troviamo costantemente di fronte a pitture o sculture tratteggiate con proprietà, elaborate nei minimi particolari e chiare.
3)- Senso delle proporzioni e quindi armonia. E’ questa forse la nota stilistica più difficile del Giorno. Infatti la satira, animata com’è da uno spirito critico, è portata ad esagerare, cioè a vedere il male perfino là dove esso non c’è, oppure è di lieve entità: di qui il costante pericolo che essa, insista troppo su certi motivi (negativi), che cada nelle lungaggini e nelle esagerazioni.
Veramente questo è il rimprovero più comune che viene fatto al Parini; ma, salvo qualche rarissima occasione, nella distribuzione delle parti, nello sviluppo dei motivi, nella composizione dei quadri e dei ritratti, le proporzioni sono sempre rispettate. Se, talvolta, il poeta inserisce numerosi particolari nel quadro, lo fa per esigenze di chiarezza e di completezza.
4)- Signorilità ed eleganza di immagini e di espressione. Anche nei punti più scabrosi il Parini, da vero poeta classicista, evita costantemente la trivialità e l’oscenità: egli ignora la descrizione cruda, il linguaggio veristico, che è spesso proprio dei poeti satirici (ad esempio di Giovenale). L’immagine mitologica, il vocabolo classico, la perifrasi appropriata, sono i mezzi con i quali egli riesce ad esprimere in forme piacevoli, anche gli aspetti più riprovevoli della vita aristocratica.
5)- Il linguaggio preciso e forbito. Al tempo del Parini era viva la lotta fra l’Accademia milanese dei Pugni e l’Accademia veneziana dei Granelleschi. Esponenti della prima erano i fratelli Verri, che propugnavano l’abolizione del vocabolario della Crusca (denominato così perché era stato compilato dall’Accademia della Crusca di Siena alla fine del ‘500), in cui erano raccolti i vocaboli e i modi di dire dei grandi autori toscani del trecento, specie del Petrarca e di Boccaccio (secondo la teoria linguistica del Bembo). Secondo i soci dell’Accademia dei Pugni, la lingua da adottare era quella viva della persone colte di tutta Italia, con l’aggiunta di vocaboli e modi di dire desunti dalle lingue straniere (specie da quella francese), qualora la nostra non offrisse i termini necessari ad esprimere certi concetti.
Esponente dell’Accademia dei Granelleschi era Carlo Gozzi, il quale sosteneva l’intangibilità del vocabolario della Crusca.
IL Parini fece parte dell’Accademia dei Trasformati, la quale sosteneva che la nostra lingua non doveva essere imbarbarita con l’introduzione di elementi stranieri e che perciò il vocabolario della Crusca costituiva sempre il codice linguistico fondamentale del vocabolario medesimo, con l’abbandono di termini antiquati e con l’accettazione di vocaboli che i grandi scrittori rinascimentali avevano introdotto nell’uso.
La lingua usata nel Giorno ha i seguenti pregi:
a)- italianità pura e modernità.
b)- precisione e chiarezza.
c)- sceltezza ed eleganza.
Dalla lettura del poemetto si trae l’impressione che i Parini doveva essere un conoscitore formidabile delle lingue classiche e di quella italiana. Si dice che egli abbia limato moltissimo il linguaggio del Giorno (il Manzoni in un sermone satirico intitolato “Contro i verseggiatori d’occasione” dice che il Parini spesso “faceva oltraggio al crin canuto”, cioè si strappava i capelli quando non riusciva a trovare il termine esatto); tuttavia non si nota nessuna forzatura nella sua espressione e tutto sembra naturale e spontaneo. La scelta esatta dei vocaboli non solo fa in modo che egli pitturi e scolpisca con la massima precisione e concisione le immagini, ma garantisca al verso una varietà melodica appropriata alla varietà dei motivi trattati (basta ricordare l’episodio della Vergine Cuccia e l’introduzione della Notte). I versi onomatopeici (ossia che riproducono il suono delle cose descritte) sono frequenti e soprattutto sono naturalissimi. Talvolta incontriamo iperbati alla greca (costruzioni inverse: ad esempio. “per lungo di magnanimi lombi ordine”, e perifrasi ingegnose (ad esempio “l’altrui donna a te sì cara”): il poeta le usa non solo perché costituiscono un modo efficace di esprimere il pensiero, ma perché servono a dare solennità classica al linguaggio, in quanto lo avvicinano a quello di Omero.
Difetti del Giorno.
1)- Non accenna ad alcun pregio del giovin signore. Mette in evidenza i pregi dell’aristocrazia antica, ma in quella moderna vede soltanto difetti. Il vuoto assoluto (dato che il Parini ha voluto mettere in evidenza la “vanità del cuore” della gioventù aristocratica), non esiste neanche nello spirito umano. Tuttavia, forse, i pregi erano così pochi in confronto ai numerosi e rovinosi difetti, che il Parini non ha creduto rivolgere ad essi la sua attenzione.
2)- Insiste troppo su certi motivi: ad esempio: sugli equivoci rapporti del giovin signore e la dama; sulla dabbenaggine del marito; sulla descrizione dei giochi nella Notte; su particolari, talvolta, inutili ai fini del motivo che sta svolgendo.
3)- Qua e là alcune immagini imprecise (ad esempio: le grazie delle mani della dama quando, durante il pranzo, trincia le pietanze), un po’ oscure e, talvolta, ricercate e forzate.
4)- Certe espressioni linguistiche non chiare e un po’ artificiose.
Si tratta di difetti che, messi a confronto coi pregi, non tolgono nulla alla grandezza del capolavoro pariniano. Orazio dice che lo stesso Omero talvolta sonnecchia, cioè procede alla stracca e lavora alla meglio.
Il problema dell’unità del Giorno.
I critici si sono domandati quale sia il motivo che dà unità al Giorno. Alcuni hanno individuato questo motivo nella presenza costante del parini quale “precettor d’amabil rito”. Altri lo hanno individuato nell’ironia che domina da capo a fondo il poemetto e che, perciò, conferirebbe ad esso l’unità di tono.
Tuttavia il primo motivo non appare sufficiente a spiegare l’unità dell’opera. Infatti qui non si tratta di sapere se c’è un personaggio che rimane in scena dall’inizio alla fine: in tal caso varrebbe la pena di proporre un personaggio di legamento, per così dire, lo stesso giovin signore. Ma il problema consiste nel vedere se la presenza costante di un personaggio riesca a collegare i motivi di un’opera. No n è difficile capire che un legame di tal genere è esteriore: infatti con il pretesto che è sempre lo stesso personaggio ad agire a a raccontare, uno scrittore potrebbe parlare di tutto quello che vuole, senza che tra i vari motivi svolti ci sia un rapporto organico e vitale.
Meno ancora regge il legame dell’unità di tono: con lo stesso tono uno potrebbe parlare di tutto quello che gli viene in testa, anche se si tratta di cose che non hanno nessun rapporto fra di loro.
Allora bisognerà trovare un motivo, un tema unitario più profondo e vitale. Questo tema è indubbiamente proprio quello che il Parini ha trattato, inteso nel senso che egli ha voluto dargli. Il tema è la giornata del giovine aristocratico, anzi della classe aristocratica. La giornata di un individuo o di una classe, in pratica si identifica con la sua vita: “signor, tu vedi di quest’opre ordirsi de’ tuoi pari la vita, e sorger quindi la gloria e lo splendor di tanti eroi”. Perciò, descrivendo una giornata intessuta di sciocchezze vissute con presunzione, il poeta intende svolgere il tema seguente: “la vita inutile e presuntuosa della classe sociale più responsabile”: un tema sempre attuale in tutti i tempi e in tutti i luoghi. I motivi particolari che il Parini introduce nella sua opera non sono altro che mezzi di cui egli si serve per illustrare questo tema.
Ed è proprio questa funzione comune da essi svolta, è proprio questa finalità comune a cui essi sono destinati, che li collega vitalmente fra loro. L’unità, quindi, nel Giorno c’è:
essa è costituita dal tema che, superando l’arido diario ed assumendo un significato etico e sociale di portata universale, vivifica i vari motivi e li salda organicamente. D’altra parte, a lettura finita, noi abbiamo una idea abbastanza precisa della vita del “bel mondo”: se l’impressione che si riceve è unitaria, bisogna concludere che, il quadro a noi presentato dal poeta, è anch’esso unitario.
Le fonti del Giorno.
Il Carducci chiama “fontanieri” coloro che si accaniscono a trovare le fonti da cui i grandi poeti avrebbero attinto per comporre i loro capolavori.
Per quanto riguarda il Parini, i fontanieri avrebbero trovato le seguenti fonti:
1)- Il “Ricciolo rapito” di Pope 8pubblicato tra il 1712 e il 1714). E’ un poemetto satirico che nel titolo richiama “La secchia rapita” del nostro Tassoni.
Alla bella giovinetta Belinda il silfo (= spiritello benigno dell’aria) Ariele preannuncia i sogno una prossima sventura. Quando ella si svegli ha inizio la toeletta e il poeta la descrive minutamente, soffermandosi soprattutto sui due riccioli della fanciulla, che hanno fatto invaghire Achille, un nobile cavaliere. Ariele raduna i suoi silfi e ordina loro di vigilare perché nulla accada di male a Belinda.
Sta scendendo la notte ed il poeta elenca tutti i tipi di malfattori che popolano le tenebre notturne. Belinda su un cocchio dorato giunge ad un grande palazzo, dove sono adunati per giocare a bridge, i più alti esponenti della nobiltà inglese.
All’arrivo della fanciulla tutti tacciono, appunto perché stavano parlando male di lei.
E’ presente anche il prode Achille, col quale Belinda ingaggia una partita a carte. Durante il gioco Achille taglia un ricciolo alla sua avversaria, che in precedenza aveva rifiutato a lui il suo amore. Lo gnomo (=spirito cattivo) Rancore del regno della notte, ascende nella sala dove è avvenuto il misfatto e coi suoi fluidi malefici suscita ire nel petto della giovinetta Talestre, che partecipa per Belinda, e in quello di Clarice che, innamorata di Achille, approva l’offesa fatta a Belinda. Si accende una mischia furibonda in cui volano tazze, carte da gioco, collane spezzate; ed anche ventagli.
Alla lotta prendono parte anche Venere e Marte a favore di Talestre; Minerva ed Apollo a favore di Clarice. Alla fine interviene Giove, che incita Belinda ad aggredire personalmente Achille. La fanciulla getta sul volto dell’avversario tutto il tabacco della sua tabacchiera e lo accieca, lo fa starnutire e lo fa stramazzare su una poltrona. Mentre Belinda sta per pungerlo con uno spillo, interviene il barone Piuma 8una specie di Patroclo) che induce il suo amico Achille a restituire il ricciolo. Ma questo no n si trova più nelle tasche di Achille: è salito misteriosamente in cielo e si è trasformato i n costellazione.
2)- “Le lutrin”(= leggio) di Boileau (pubblicato tra il 1674 a il1683). La Discordia vuol turbare la pace dei canonici della cappella a Parigi; e perciò svela, in sogno, al canonico tesoriere che, mentre egli dorme, il canonico cantore usurpa il suo ufficio. Il tesoriere, per vendetta, fa collocare davanti al posto del cantore u n leggio che lo copra. Mentre tre aiutanti del tesoriere spostano il leggio, nel profondo della notte, il cantore, avvertito in sogno, sveglia tutti i canonici e corre ad impedire l’affronto: il leggio è abbattuto. Il tesoriere ricorre alla Giustizia, nel cui palazzo trova il Cavillo che lo incita alla lotta. Mentre egli scende le scale del palazzo, incontra il cantore e i suoi alleati; e attaccano una battaglia a colpi di libri di cattivi autori, presi da una libreria che è nei pressi. Il tesoriere stesso pone termine alla mischia, benedicendo i contendenti. Il saggio Ariosto risolve la lite: il leggio sarà rialzato nello stesso luogo in omaggio alla volontà del tesoriere; e poi sarà rimosso in omaggio alla volontà del cantore.
3)- Il “Cicerone” di G. Carlo Passeroni (sacerdote e poeta come il Parini e suo caro amico). Il Cicerone è un poema di 101 canti. L’autore narra la vita di Cicerone, ma prende lo spunto dai vari momenti di essa, per fare confronti con la vita e i costumi del secolo XVIII°. Le digressioni di questo genere sono tante e costituiscono i due tersi del poema: in schizzi, quadri, episodi, il Passeroni parla con arguzia ed assennatezza dei vizi della nobiltà, della moda, delle bizzarrie donnesche, delle monacazioni forzate, del cicisbeismo.
4)- Un satira in latino di un certo Lorenzo Lucchesini (gesuita del ‘600) intitolata: “In antimeridianas improbi iuvenis cura” (contro le occupazioni antimeridiane di un malvagio giovane.
5)- L’abbondante letteratura del ‘600 e del ‘700 , sia italiana che francese. Basta ricordare in Italia: il Tassoni col suo poema eroicomico “La secchia rapita” – il Goldoni con le sue Commedie; in Francia il La Fontaien con le sue “Fables” (che lo stesso autore definì: “un’ampia commedia in cento atti diversi e la cui scena è l’universo”).
6)- Due operette del Parini stesso. Un “Discorso sopra le caricature” (letto ai soci della Accademia dei Trasformati) in cui ritrae una serie di macchiette della società del tempo. “Il dialogo della nobiltà” (in cui si anticipa sia il pregiudizio del sangue, sia l’intento del Parini di smontare l’orgoglio dei nobili).
Siamo in un’epoca non eroica, e quindi è naturale che fiorisca la satira di costume; siamo in periodo di riforme, e quindi è naturale che la critica si affermi come presupposto del rinnovamento.
Ebbene, nonostante che nel Giorno si ritrovino svariati motivi e situazioni di opere precedenti; nonostante che l’atmosfera in cui Parini vive, sia carica di spirito satirico, tuttavia la personalità della sua opera poetica è inconfondibile. Egli non imita nessuno; semmai utilizza situazioni, procedimenti ed immagini suggerite da altri per esprimere quel suo mondo interiore, che ha una fisionomia ed una vitalità tutta particolare, anche se si inquadra, com’è naturale, nello spirito del suo tempo.
Composizione del Giorno.
Il Giorno come lo abbia mo attualmente, non fu pubblicato dal Parini, ma dal Reina (che dal 1801 al 1804 curò l’edizione di tutte le opere edite ed inedite dell’amico poeta, in sei volumi).
Il Parini fin da quando incominciò a lavorare intorno alla sua opera, aveva intenzione di comporre e pubblicare tre poemetti: Il Mattino, il Mezzogiorno, la Sera. Infatti, nella dedica del Mattino alla Moda, afferma: “se a te piacerà il riguardar con placid’occhio questo Mattino, forse gli succederanno il Mezzogiorno e la Sera”. Che egli avesse intenzione di intitolare l’opera completa “Il giorno”, risulta dall’ode “La caduta”: “E te molesta incita di porre fine al giorno”. Questo sarebbe stato il titolo generale di tutti e tre i poemetti, qualora egli fosse riuscito a completarli e a pubblicarli in un’opera sola.
Il Mattino uscì nel 1763. Tutti i letterati, concordemente ne riconobbero i pregi. Il conte di Firmian (ministro dell’imperatrice Maria Teresa a Milano e amico del poeta) lo ammirò. Il Baretti, in un articolo della Frusta letteraria definiva l’autore del Mattino “uno di quei pochissimi buoni poeti che onorano la moderna Italia”.
Ricordando che la Frusta del Baretti non risparmiava nessun letterato inutile, bisogna concludere che al terribile critico l’opera apparve utile alla riforma della società.
Nel 1765 uscì il Mezzogiorno, a cui furono fatte le stesse accoglienze del Mattino.
La Sera, invece, non uscì che dopo la morte del poeta, per l’interessamento del Reina, divisa in Vespro e Notte.
Dai documenti risulta che fino all’anno1779 il Parini intese mantenere alla terza parte il titolo di Sera. In quell’anno, però, un poeta ignoto, sfruttando l’impazienza del pubblico, che attendeva l’ultima parte del lavoro pariniano, pubblicò una “Sera”. Il Parini, allora, si sentì nella necessità di cambiare la sera, a cui egli stava lavorando, in Vespro e Notte, in modo da distinguerla da quella del poetastro rivale. E tale distinzione fu mantenuta dal Reina nell’edizione del 1801.
Ora vediamo per quali motivi il Parini non portò a termine e non pubblicò la terza parte.
Subito dopo la pubblicazione del Mezzogiorno (1765) egli cominciò a lavorare intorno alla Sera. Ma già nel 1766 egli dichiara di aver “ quasi dimesso il pensiero della Sera” perché gli stampatori gli hanno ristampato il Mattino e il Mezzogiorno “in mille luoghi”, senza tener conto che, per il diritto della proprietà riservata, a lui spettava parte dell’incasso.
Da un documento del 1770 risulta che egli sta lavorando alla “Sera”. Nel 1785 il Pindemonte si reca a far visita al Parini e questi gli recita alcuni passi della Sera. E nello stesso anno 1785 nell’ode “La caduta” egli dimostra di essere consapevole dell’attesa del pubblico per la terza parte: la patria lo “incita a por fine al Giorno”. Nel 1791 il Parini, in una lettera, diceva: “nella primavera ventura spero e quasi tengo per certo di avere in pronto due poemetti (il Vespro e la Notte), per seguito e termine di quelli altri due antichi, che hanno avuto la fortuna di non dispiacere”. Ma i due poemetti non uscirono finché egli fu vivo; e la Notte non fu completata.
I motivi possono essere i seguenti.
Due sono di carattere pratico e poco significativi:
a)- il disonesto atteggiamento degli stampatori che sfruttavano il suo lavoro, senza dargli alcun compenso, per cui egli non se la sentiva di dedicarsi ad un lavoro che apportava vantaggi finanziari solo agli altri.. Il motivo morale capace di fargli superare questa considerazione utilitaria, non era ormai più urgente: infatti quello che doveva dire ai nobili per indurli a cambiar vita, lo aveva detto nel Mattino e nel Mezzogiorno; e se anche avesse lasciato l’opera a quel punto, il suo compito sociale era quasi assolto.
b)- gli incarichi scolastici che gli furono assegnati nel 1769 (insegnamento di belle lettere nelle scuole Palatine e nel 1776 (la presidenza e l’insegnamento presso l’Accademia delle belle arti di Brera); ed altri incarichi di carattere culturale non gli permisero di lavorare con la stessa lena con cui aveva lavorato dal 1760 al 1765, quando era libero da ogni impegno.
Quattro motivi sono di carattere morale e molto impegnativi.
1)- una volta assunto ad incarichi scolastici ed educativi, il Parini non vedeva opportuno continuare nella sua attività satirica; anzitutto perché molti alunni che frequentavano le sue scuole appartenevano alla nobiltà; ed egli quale insegnante e quale preside doveva apparire, ormai, soltanto nella veste di educatore imparziale; e, in secondo luogo, l’opera educativa, a vantaggio della nobiltà, poteva svolgerla direttamente nella scuola.
2)- Dopo la pubblicazione del Mattino e del Mezzogiorno, il Parini, in seguito alla
animosa reazione dei nobili ed al plauso concorde della classe intellettuale, comprese che aveva colpito nel segno; e, perciò, non sentì più urgente la necessità di continuare nella critica demolitrice. Si dedicò, piuttosto, alla fase positiva, che è rappresentata dalle “Odi”, nelle quali insegnò costantemente principi di vita naturale e civile. In questa fase ricostruttiva, forse, al Parini non riusciva più facile, come prima la demolizione attraverso la satira; gli sembrava , forse, un compito ormai superato; e, d’altra parte, l’insegnamento del bene gli sembrava ormai più utile della critica del male. Da questo rallentamento della vigoria satirica, deriva il rallentamento della composizione della Sera.
3)- Avendo svolto quasi tutti temi fondamentali della sua satira nel mattino e nel
Mezzogiorno, sentiva la difficoltà di procedere ancora sulla stessa linea, col rischio di ripetersi e di non trovare motivi interessanti. D’altra parte, l’entusiasmo con cui il pubblico aveva accolto il Mattino e il Mezzogiorno, se da una parte lo confortava, dall’altra lo spaventava perché costituiva per lui un impegno, non solo a mantenersi nello stesso piano di perfezione artistica, ma a fare anche meglio. Di qui la lentezza con cui condusse la composizione della Sera (cioè del Vespro e della Notte): sembrava quasi che la sua vena si fosse esaurita.
4)- Dal 1789 in poi (cioè dopo l’inizio della Rivoluzione francese) egli fu trattenuto dal pubblicare quello che aveva scritto (Il Vespro e la Notte fino all’argomento del gelato) da una considerazione profondamente umana.
Anzitutto stava vedendo che dal tempo in cui aveva scritto il Mattino, cioè da circa venti anni, la nobiltà si era scossa dal suo torpore: molti nobili partecipavano attivamente alla vita pubblica; e, d’altra parte, egli stesso, stando a contatto con persone autorevoli appartenenti alla aristocrazia, si era accorto che non tutti i nobili erano come il giovin signore.
In secondo luogo, non ritenne opportuno che, mentre la nobiltà veniva ghigliottinata in Francia, egli rincarasse la dose dell’odio antiaristocratico con la pubblicazione del Vespro e della Notte. Per questi motivi il Parini morì senza aver pubblicato l’ultima parte del suo poema. La pubblicazione fu fatta, come si è detto, più volte dall’amico Reina. Questi ristampò il Mattino secondo l’edizione del 1763, e il Mezzogiorno, secondo l’edizione del 1765, togliendo, però, da esso tutto l’episodio relativo alla passeggiata al Corso , incorporandolo nel Vespro (come del resto era nell’intenzione del Parini stesso.)
Il testo del Vespro (su cui fu fatta l’edizione) era quello scritto a mano dal Parini; e la Notte fu riordinata dal Reina in base ai vari testi autografi tutti più o meno frammentari.
Conclusione.
La “dolce vita”, espressione della naturale tendenza dell’uomo all’ozio, al vizio e alla sfacciataggine congiunti insieme, non ha mai avuto un fustigatore più intelligente ed impegnato del Parini. Il tema, eternamente valido fino a che ci saranno individui e classi sul tipo dell’aristocrazia cicisbea del ‘700, pone il Giorno fra le opere di contenuto universale; l’arte squisita con cui il Parini ha svolto il tema, lo pone fra le opere più pregevoli della nostra letteratura.
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VITTORIO ALFIERI
(1749-1803)
Il Parini ha risvegliato negli Italiani una coscienza civile, ossia ha voluto fare di
essi cittadini onesti, laboriosi e sani.
L’Alfieri risvegli in essi la coscienza politica, insistendo sui diritti dell’uomo e del cittadino, e anche sui doveri. Egli vive in un’epoca in cui i regimi sono ancora tutti assolutistici (salvo quello inglese), ma in cui si affermano anche le idee illuministe, circa la sovranità popolare, i diritti naturali dell’uomo, la lotta contro le varie forme di tirannide.
Pensiero politico
Per comprendere bene il pensiero politico dell’Alfieri è necessario tener presente il suo temperamento. Nato da famiglia nobile, in uno Stato (quello piemontese) fra i più arretrati d’Italia, egli, dotato dalla natura di un temperamento orgoglioso e ribelle, sentì subito, fin da bambino il contrasto fra la sua aspirazione alla libertà e le catene del costume famigliare dei nobili e dell’ambiente politico in cui era costretto a vivere.
Il contrasto fra il temperamento ribelle e indipendente e le varie forme di schiavitù famigliari e sociali acuì la sua aspirazione alla libertà, fino a farlo apparire una specie di anarchico, molto simile ai seguaci dello “Sturm und drang” che si affermò nello stesso tempo in Germania nell’ambiente dei giovani (sturm und grand = tempesta ed impeto), ed è un movimento sociale e letterario che ha, come programma, la distruzione totale del passato e l’affermazione totale della libertà individuale.
Forse l’Alfieri fu influenzato anche dalla lettura del Rousseau e degli illuministi in generale leggendo il “Mattino” e il “Mezzogiorno” del Parini (divulgati nel 1763 e 1765); egli sentì vergogna di appartenere alla classe dei “giovani signori”, e, per distinguersi da questi, assunse atteggiamenti da rivoluzionario. Rinunciò alla parte del patrimonio avuta in eredità dal padre, a vantaggio della sorella Giulia, ma si riservò il diritto di avere da lei un assegno annuo e conservò il titolo di conte: in tal modo egli credette di “svassallarsi”, cioè di uscire dal mondo dei vassalli e dei feudatari.
Quando ebbe raggiunta la indipendenza economica si dedicò ai viaggi all’estero: Francia, Olanda, Inghilterra, Prussia (che egli definì una “caserma” e Federico II “re sergente”, Austria dove a Vienna egli vide il Metastasio, che faceva la genuflessione davanti a Maria Teresa, e che egli definisce “Musa appigionata” (che sta a pigione).
Attraverso le letture degli autori illuministi, attraverso le esperienze acquistate in viaggi, il contatto con intellettuali europei progressisti, e soprattutto in forza del suo temperamento ribelle ad ogni coercizione, si innamorò della libertà a tal punto che divenne un feroce odiatore della tirannide.
L’ideale della libertà in Alfieri non è sorretto tanto da convinzioni filosofiche, quanto sul sentimento: un sentimento caldo, addirittura travolgente, che si manifesta con la più assoluta immediatezza e sincerità: sincerità che si rileva soprattutto nella “Vita di sé stesso”, ove pare che si compiaccia di mettere in evidenza i suoi difetti, quasi per riscuotere dai lettori il riconoscimento e l’applauso di questa sua dote.
In altri termini l’ideale della libertà in Alfieri è un sentimento innato a causa del suo temperamento e rafforzato da esperienze e letture. Egli sostiene che l’educazione è autoeducazione. Si parte tutti da uno stato deplorevole, fatto di ignoranza, di vizi, di istinti selvatici: però seguendo la natura si può giungere allo stato di magnanimità. Il processo autoeducativo parte dall’impulso naturale che egli definisce “un bollore” di mente e di cuore, per cui non si trova mai pace né requie finché non si sia diventati i migliori fra gli ottimi o nulla. L’impulso naturale spinge ad agire, a fare esperienze indefinite. Le esperienze possono essere positive o negative: forse le negative superano quelle positive: ma in questo caso interviene “magnanima bile”, cioè lo sdegno contro sé stesso, scoperto e ritrovato in atteggiamenti indegni: sdegno accompagnato dalla brama furiosa di liberarsi da quegli atteggiamenti. La “magnanima bile” è dunque fattore di autocritica e di autosuperamento continuo. Attraverso il continuo superamento, per cui l’io migliore prende di petto, mortifica e reprime l’io inferiore, si giunge allo stato di magnanimità che è costituito dal culto di un “degno oggetto per l’intelligenza e di un degno amore per il cuore”. Un “degno oggetto per l’intelletto” furono per lui le letture.”Il degno amore per il suo cuore” fu quello per la contessa D’Albany.
Un uomo dal temperamento ribelle e dal sentimento ardente, capace di biasimare sé stesso e gli altri. Com’era l’Alfieri non avrebbe mai potuto tollerare la schiavitù politica. Incominciò la carriera militare e subito l’abbandonò, per non diventare un sostenitore armato della tirannide; e quando andò all’estero lo fece per “spiemontizzarsi” , cioè per liberarsi dalle forme di vita schiavesche caratteristiche dello Stato sardo-piemontese, chiuso a qualsiasi riforma.
Per conoscere il pensiero politico dell’Alfieri, e quindi per comprendere bene la maggior parte delle sue tragedie, che ad esso si ispirano, bisogna tener presente il trattatello della “Tirannide”.
In quest’opera egli parla dell’origine della tirannide, degli appoggi di cui essa si vale, del modo con cui essa si abbatte. Anzitutto egli afferma che “il solo pensiero che la mia vita, i miei pensieri, i miei movimenti debba no dipendere dall’arbitrio di uno solo, mi fa fremere di sdegno”.
La tirannide nasce quando un uomo ambizioso, di forte volontà, spregiudicato si propone di imporsi a tutta una società, favorito dalla ignoranza e dalla fiacchezza morale di coloro ai quali egli vuole imporsi: “l’ignoranza e il vizio di un popolo sono il terreno migliore per il tristo seme della tirannide”. Nel suo proposito di imporsi a tutto un popolo il tiranno è favorito ed appoggiato:
a)- dagli aristocratici ai quali egli concede onori e privilegi;
b)- dai militari che, invece di mettere le armi a servizio del popolo, preferiscono
metterle al servizio del tiranno contro il popolo perché da lui avranno alte
paghe e onori.
c)- dai sacerdoti che, invece di educare il popolo al culto dei grandi ideali, fra cui
quello della libertà, lo educano al servilismo nei confronti del tiranno., da cui
essi ricevono privilegi e onori.
Nelle tragedie in cui il poeta svolge il motivo della lotta fra il tiranno e l’eroe,
il tiranno ha sempre, come alleati, i nobili, i militari e i sacerdoti (per
quest’ultimi fa accezione la tragedia “Saul”).
Come si rimedia alla tirannide ?
Non con le congiure, perché questa falliscono quasi sempre, a causa di un traditore.
D’altra parte, dice l’Alfieri, il tiranno sa instaurare un regime di terrore tale da scoraggiare qualsiasi tentativo di rivolta. L’unico rimedio è l’iniziativa di uno solo che si chiama “eroe”, che definisce così: “un animo sdegnoso e fiero che schifito dalle prepotenze del tiranno decide di rimediare ai mali suoi e a quelli di tutti, da solo e col ferro”.
Anche l’eroe, come il tiranno, è mosso da un particolare impulso naturale; ma mentre il tiranno da questo è spinto ad imporsi a tutti per soddisfare la sua ambizione, l’eroe dal medesimo impulso a spinto a rivendicare la dignità ed i diritti dei suoi simili.
Quali doti ha l’eroe ?
Il tiranno è egoista, sfrenato, ambizioso, crudele, capace di interferire perfino nei segreti più intimi dei suoi sudditi, rapitore di fanciulle, simulatore di religiosità ed empio nel suo intimo; l’eroe è altruista, generoso, onesto, umano, rispettoso della dignità altrui e intransigente rivendicatore della propria. Insomma il tiranno è il pessimo fra gli uomini, l’eroe l’ottimo.
Come si divide la società ?
In tre classi: i pessimi (il tiranno e i suoi alleati); gli ignavi o vivi o egoisti, che sono la maggioranza, che vivendo nell’ignoranza e nel vizio, permettono ai pessimi di spadroneggiare; i buoni, che sono pochi, ma che posseggono una forza tale da sconvolgere il regno dei pessimi, qualora uno dia il segnale della rivolta: quella forza è l’amore alla libertà basata su un forte senso dei propri diritti e dei propri doveri.
Chi ha la coscienza dei propri diritti, ma non ha quella dei propri doveri, è un tiranno in potenza: infatti il tiranno conosce solo sé stesso e crede che gli altri siano stati creati solo per servire lui. Il segnale della rivolta verrà dato dall’eroe: allora i buoni si uniranno a lui e la loro forza morale sarà sufficiente a battere il nemico, anche se questo è materialmente più forte.
L’Alfieri inneggiò allo scoppio della rivoluzione francese con l’ode “Parigi sbastigliata”, perché quello era stato l’inizio della lotta contro la tirannide di uno solo; a quella di uno solo egli considera pari quella dei pochi (oligarchia).
Quando nel 1792, alla metà del ’93, assiste in Parigi alle esplosioni bestiali della violenza popolare, e rischiò egli stesso di rimanerne vittima, allora capì che esiste anche una tirannide dei “troppi” (demagogia). Quest’ultima forma di tiranni apparve all’Alfieri pari, se non addirittura più grave, di quella di uno solo: infatti dal tiranno unico ci si può guardare, evitandolo, ritirandosi sdegnosamente a vivere per conto proprio, rifiutando ogni collaborazione; mentre dal popolaccio e dai tiranni popolari possono essere uccisi anche i buoni, solo per sospetto, per invidia o per vendetta.
Per questo motivo, cioè per evitare che, caduta la tirannide di uno solo, si affermi la tirannia dei troppi, l’Alfieri nel trattato “Del principe e delle lettere” sostiene che per abbattere la tirannide non è sufficiente l’opera dell’eroe, se al suo fianco non ci sono altri eroi, che sono gli scrittori, che egli definisce così: “Arditi e veraci scrittori sono dunque gli onorati, naturali e sublimi tribuni del popolo non libero” (tribuno in antico era il difensore dei diritti della plebe contro la tirannide dei patrizi).
In che senso gli scrittori arditi e veraci sono tribuni dei popoli non liberi, cioè difensori delle virtù politiche che, come egli stesso dice, si riassumono nella parola libertà?
“Nel senso che gli scrittori in forza del natural loro impulso, sotto mille forme diverse, ma tutte calde e convincenti ed energiche, scolpiscono nel cuore dei popoli l’amore del vero, del grande, dell’utile, del retto e della libertà che da tutti questi necessariamente deriva”.
Siamo dunque sulla scia degli illuministi che considerano lo scrittore come protagonista delle idee utili al progresso umano. Perciò l’Alfieri critica gli scrittori osceni e antireligiosi (ha di mira Voltaire), perché essi ha contribuito a diffondere il vizio e la spregiudicatezza stolta in mezzo al popolo, che sono i presupposti per l’affermarsi della tirannide.
Era religioso l’Alfieri ? Non era certo cristiano: forse come tutti i deisti del periodo illuministico, credeva in una causa prima che ha mosso l’universo; ma non andava oltre questa credenza. Forse negli ultimi anni della sua vita ha capito che l’Impulso naturale dell’uomo più dotato, nonostante le presunzioni che lo accompagnano, specie nell’età giovanile e matura, alla fine, sconfitto dalle esperienze della vita, deve soggiacere ad uno sforzo che gli sfugge, comunque esso di chiami o Dio o destino: è evidente questa sensazione della limitatezza umane nel “Saul”, che certamente riproduce molte delle esperienze psicologiche di Alfieri. Fra le satire che egli ha scritto (sono sette di cui una sull’educazione) ce n’è una intitolata “L’anti-religioneria”, cioè la lotta alla religione fatta in modo stupido e volgare.
Quanto al Cristianesimo egli è convinto che si tratta di una religione ormai morta, per cui non vale la pena neanche di attaccarla.
Le tragedie dell’Alfieri.
L’Alfieri ha scritto 19 tragedie – 4 commedie (“Uno” – “I pochi”- “I troppi” – L’antidoto”) – 7 satire – la “Vita di sé stesso” – 2 preziosissimi trattatelli della tirannide – “Del Principe e delle lettere”, che sono fondamentali per capire il pensiero politico e letterario dell’Alfieri- “Il Misogallo”.
La sua fama però è legata soprattutto alle tragedie. La nostra tragedia ha inizio del ‘500: si delineano due indirizzi in quel secolo: quello classicheggiante alla greca, di cui è esponente Pietro Aretino, autore dell’”Orazia” – quello classicheggiante senechiano (caratterizzato da azione fortemente tragica e da scene orride) di cui è esponente Giovan Battista Giral di Cintio. Una ne scrisse anche il Tasso: “Il torrismondo”.
Nel ‘600, nonostante il cattivo gusto del secolo, abbiamo due buone tragedie di Della Valle: “La Giuditta” e “La regina di Scotia”.
All’Alfieri spetta il merito di aver fatto della tragedia uno strumento di formazione civile-politica. Il tema di quasi tutte le sue tragedie è il contrasto fra il tiranno e l’eroe; il primo con il seguito dei suoi appoggi; il secondo appoggiato segretamente dai buoni.
Perché l’Alfieri ha scelto il teatro per diffondere l’ideale della libertà ? Perché il teatro usa il metodo intuitivo, cioè le idee le fa vedere in atto attraverso una vicenda, il dialogo, le scene. Forse influì nella scelta anche il fatto che nel 1776 (anno in cui egli si convertì alla attività letteraria), avendo scritto, mentre vegliava una donna malata che egli amava, una tragedia intitolata “Cleopatra” e avendo ottenuto un discreto successo, si sentì incoraggiato a proseguire lungo quella strada. Abbiamo detto che il tema dominante delle tragedie dell’Alfieri è quello politico, ma la ripetizione dello stesso tema e per di più con la stessa impostazione (il tiranno pessimo coadiuvato dai pessimi – l’eroe ottimo coadiuvato dagli ottimi) rende la tragedia piuttosto monotona: con la sua abituale sincerità l’Alfieri stesso dice che “letta una, sono lette tutte le sue tragedie”. Tuttavia ci sono 3 tragedie che sfuggono allo schema solito, e nelle quali il poeta si impegna ad interpretare psicologie più complesse, più varie, più ricche di umanità: sono le tragedie “Saul” – “Mirra” – “Agamennone”.
Caratteristiche stilistiche della tragedia dell’Alfieri.
In ogni opera si riflette il carattere dell’autore, e siccome l’Alfieri aveva un carattere impulsivo, forte, sprezzante di tutto ciò che è eleganza, artificioso e superfluo, si è proposto di creare una tragedia che fosse tragica e concentrata il più possibile, essenziale il più possibile. Perché fosse tragica egli preferì temi forti, cioè quelli in cui i contrasti tra il protagonista e antagonista fossero violenti; e i caratteri dei personaggi fossero carichi di passione in sommo grado. I caratteri non si sviluppano durante l’azione tragica, ma sono già definiti in precedenza; il tiranno sarà pessimo fin dall’inizio, l’eroe ottimo fin dall’inizio. Quindi l’azione tragica si ridurrà ad uno scontro tra protagonista e antagonista , che si concluderà con la morte di uno dei due.
Il genere il poeta fa morire l’eroe affinché resti nel pubblico più vivo l’odio contro il tiranno e il desiderio di vendicare l’eroe.
Quella dell’Alfieri non è la tragedia di Schakespeare, che si vale dell’azione tragica, per rappresentare l’evoluzione di un carattere sotto la spinta degli avvenimenti. I personaggi dell’Alfieri sono tutti di un pezzo, dall’inizio alla fine; sono, come si dice, psicologia concentrata perché risultino più forti.
Per rendere la tragedia più tragica e più forte, egli la rende anche rapida, togliendo via le parti narrative e liriche , che per tradizione classica dovevano far parte della tragedia (le narrazioni erano affidate ai messi che narravano cose avvenute fuori della scena, o dai confidenti, che confidandosi con una persona cara, rievocano episodi passati. La parte lirica era affidata o al coro, un personaggio collettivo che seguiva l’azione tragica e la commentava nei suoi passi più salienti, o ad un personaggio principale, che in un momento di alta tensione lirica, si sfogava in un discorso carico di emozione), così la tragedia scorre rapida verso la conclusione.
In genere nel primo atto si presenta il tiranno che manifesta ai suoi amici le sue preoccupazioni per il comportamento dell’eroe, nel secondo atto si presenta l’eroe che manifesta le sue intenzioni; nel terzo atto il primo incontro fra i due; nel quarto atto incomincia lo scontro; nel quinto c’è la catastrofe.
Anche il linguaggio è concentrato ed essenziale proprio per garantire la forza della tragedia: un linguaggio senza ornamenti, fatto di battute brevissime (talvolta addirittura di monosillabi; un linguaggio come di dice “metallico” , che rende piuttosto dura ed aspra la tragedia dell’Alfieri.
Tutto quello che abbiamo detto vale per le tragedie di argomento politico in generale, ma si possono dire le stesse cose per il “Saul” – “Mirra” – “Agamennone”.
Nel primo momento egli inventa la trama generale della tragedia, nel secondo momento scrive la tragedia intera mettendovi dentro tutto quello che viene in mente, nel terzo momento rivede la tragedia, toglie le parti che ritiene inopportune e le mette in versi.
Caratteristiche della lingua usata dall’Alfieri.
L’Alfieri i n gioventù aveva studiato molto poco e male. Quando nel 1776 decise di darsi all’arte drammatica, sentì quanto fossero limitati i suoi mezzi espressivi. Sentì allora il bisogno di studiare il latino, imparandone la grammatica e la sintassi (“mi immersi nel vortice grammatichevole”), e traducendo svariati autori per costringersi ad usare un linguaggio preciso. Riuscì ad acquistare un certo patrimonio di vocaboli, sufficienti per il suo stile concentrato ed efficace; ma quando tale patrimonio non gli era sufficiente, secondo il consiglio di Cesarotti, inventava vocaboli nuovi (“disvassallarsi” – “spiemontizzarsi” – “grammatichevole”).
L’Alfieri scrittore tragico.
A 27 anni l’Alfieri aveva già fatto svariate esperienze; e attraverso queste era venuto superando le forme inferiori della vita ed era venuto avvicinandosi allo stato di magnanimità. L’impulso naturale, cioè il “bollore” di mente e di cuore che lo spingeva a fare, come nel passato, quando egli era ancora spiritualmente grezzo, l’aveva spinto all’avventura mediocre e inconcludente, così allora, essendosi ormai il suo spirito purificato, lo spingeva all’attività utile e nobile E così nel 1775 egli decide di dare sfogo alle sue energie irrequiete e veementi, nell’esercizio della sublime attività di scrittore.
Nelle sue esperienze egli ha conosciuto tiranni e servi; ed ha sentito disprezzo per gli uni e per gli altri. Ha conosciuto anche persone rette e magnanime che attendono un rinnovamento della società sulla base della libertà, della rettitudine, del dovere, della giustizia, della magnanimità. L’Alfieri si sente in dovere e soprattutto sente il bisogno intimo di denunciare al disprezzo dell’umanità i tiranni ed i vili; e di far coraggio ai pochi buoni che ancora esistono nella società.
Perché dunque si dedica all’attività letteraria ?
a)- per dare sfogo alla potente necessità interiore, per incanalare l’impulso naturale in una attività degna.
b)- per annientare moralmente gli esseri che più provocano il suo sdegno e ai quali egli, uomo libero per natura, fatalmente si sente avverso.
c)- per esprimere la sua adesione e la sua simpatia ai buoni.
Perché fra i generi letterari ha scelto il teatro ?
a)- perché il teatro a differenza di tutti gli altri generi letterari ha un pubblico di appassionati straordinariamente vasto: non così, infatti, è per il poema, per la lirica, per il trattato ecc. Frequentano il teatro tanto le persone colte, tanto le incolte; e assistere ad una rappresentazione non è affatto pesante, ma è affatto piacevole.
b)- perché il teatro adotta il metodo intuitivo, cioè fa vedere un ideale attraverso uno scenario reale ( cioè non descritto). Il metodo intuitivo fa sì che le menti meno evolute possano capire. “Tra la tante miserie della nostra Italia, che ella sì bene annovera, abbiamo anche questa di non avere teatro. Fatale cosa è, che per farlo nascere si abbisogni di un principe. Questa stessa cagione porta nella base un impedimento necessario al vero progresso di quest’arte sublime. Io credo fermamente che gli uomini debbano imparare in teatro ad esser liberi, forti, generosi, trasportati per la vera virtù, insofferenti di ogni violenza, amanti della patria, veri conoscitori dei propri diritti, e in tutte le passioni loro ardenti, retti e magnanimi. Tale era il teatro in Atene; e tale non può essere mai un teatro cresciuto all’ombra di un principe qualsivoglia. Io scrivo con la sola lusinga che, forse rinascendo degli italiani, si reciteranno un giorno queste mie tragedie; non ci sarò allora: sicché egli è un buon mero piacere ideale per parte mia. Del resto, anche ammettendo che i principi potessero far nascere un teatro, se non ottimo, buono, e parlante esclusivamente d’amore, non vedo aurora di tal giorno in Italia.
L’aver teatro nelle nazioni moderne, come nelle antiche, suppone da prima l’esser veramente nazione, e non di dieci popoletti divisi, che messi insieme non si troverebbero simili in nessuna cosa; poi suppone educazione privata e pubblica, costumi., cultura, eserciti, commercio, armate, guerra, fermento, belle arti, vita”. Ecco cosa pensava l’Alfieri della funzione educativa del teatro.
Perché nel genere del teatro egli sceglie proprio la tragedia ?
a)- perché la sua spiritualità forte lo portava a preferire l’azione tragica piuttosto
che l’azione comica.
b)- perché egli concepisce lo scrittore e quindi sé stesso come tribuno del
popolo: e al tribuno non si addice il discorso che desta il riso bensì quello
che fa fremere.
c)- perché per educare al sensi della libertà e della rettitudine era necessario
scuotere le anime intorpidite e avvilite con visioni impressionanti, quali sono
appunto le visioni tragiche.
Come possiamo definire la tragedia dell’Alfieri ?
Così egli esprime il suo pensiero circa la sua tragedia: “ho tentato di fare la tragedia in cinque atti, pieni, per quanto il soggetto dà, del solo soggetto; dialogizzata dai soli personaggi attori e non consultori o spettatori; la tragedia ordita di un sol filo (sono tre caratteristiche della essenzialità); rapida per quanto si può servendo alle passioni, che tutte più o meno vogliono pur dilungarsi; semplice per quanto uso d’arte comporti; tetra e feroce per quanto la natura lo soffra; calda quanto lo era in me” (caratteristiche della tragedia concentrata).
La tragedia dell’Alfieri si può definire dunque:
a)- Tragedia essenziale, ossia che svolge l’azione attraverso scene essenziali, evitando scene o battute di abbellimento o di compiacimento sentimentale, estetico, ideologico, cioè scene nelle quali lo scrittore elabora con cura certi sentimenti per commuovere il pubblico, anche se tale commozione non è richiesta ai fini dell’azione, ma solo per lasciarsi sfuggire una battuta emozionante; ovvero fa esprimere a qualche personaggio certe sue convinzioni politiche, religiose, morali; ovvero fa descrivere a qualche personaggio in modo bello e particolareggiato qualche episodio passato o avvenuto lontano dalla scena).
Sono tolti i dialoghi tra i personaggi necessari all’azione e i loro confidenti: dialoghi destinati nella tragedia francese e greca a mettere in evidenza la psicologia del protagonista, ovvero richiamare parti precedenti all’azione svolta. Sono abolite le scene nelle quali la vecchia tragedia faceva parlare i messi per esporre in forme descrittive smaglianti fatti avvenuti fuori dalla scena. Insomma la vecchi tragedia si preoccupava di inserire nell’azione questi motivi lirici, descrittivi, narrativi, sentenziosi: l’Alfieri considera questi motivi come estranei all’azione tragica che di per sé mè soltanto costituita di contrasti forti ed impetuosi.
Perché preferisce la tragedia essenziale ?
Anzitutto per la sua indole incline alla essenzialità, in secondo luogo per garantire maggiore forza alla tragedia.
b)- Tragedia concentrata, ossia tragedia in cui la psicologia dei personaggi, le situazioni vengono saturate al massimo grado della passionalità e di contrasto(cioè di logicità). Per saturare la psicologia e le situazioni l’Alfieri accoglie solo motivi forti, sublimi, feroci, tetri. Motivi forti : cioè psicologie dotate di straordinaria vigoria di impulso e di volontà (può essere sia la psicologia dell’eroe che quella del tiranno); motivi sublimi, cioè slancio appassionato del magnanimo verso la luce e la libertà di una vita vissuta idealmente (psicologia dell’eroe e dei buoni); motivi feroci: come forte è il carattere dell’eroe così forte è il carattere del tiranno: le potenti energie del primo sono a servizio dell’ideale, le potenti e malefiche energie del secondo sono a servizio del suo egoismo.
Ferocia è da intendersi come fierezza, in senso latino, cioè senso della propria personalità e reazione decisa contro chiunque lo provochi (sia il tiranno che l’eroe); motivi tetri: ossia stati d’animo e situazioni che destano orrore.
c)- Tragedia rapida: cioè tragedia la cui azione corre spedita verso la conclusione: è una conseguenza della essenzialità e della concentratezza.
Perché l’Alfieri ha strutturato la sua tragedia in modo tale che risultasse essenziale, concentrata, forte, sublime, tetra e rapida ?
Perché il pubblico fosse scosso più facilmente. Egli, infatti, si rivolgeva al pubblico italiano del ‘700, addormentato nella schiavitù a causa dell’ignoranza, del vizio e della paura. “A così fatti popoli per farlo a pena, a pena sentire invece che parlare è necessario tuonare. Per aizzare la tigre ed il leone basta poco, ma per inferocire il ,placido e aggiogato bue nessun pungolo è mai abbastanza acuto. Quindi ogni libro debole di pensieri e di stile riuscirà tra noi di nessunissimo effetto; ed ogni libro forte di piccolissimo effetto riuscirà”.
E per tuonare l’Alfieri ha scelto la tragedia forte: “gli uomini, specie i più schiavi, come siamo noi, peccano nel poco sentire: in essi bisogna suscitare impressione calda, forte, vivissima”.
Atteggiamento dell’Alfieri nei confronti delle unità drammatiche.
L’unità d’azione è sempre rispettata perché “quando uno narra o fa vedere un fatto, chi ascolta non vuole vedere né udire cosa che lo disturbi da quello”: nell’azione si accoglie solo ciò che riguarda strettamente il fatto. Anche l’unità di tempo e di luogo quasi sempre rispettate.
Perché l’Alfieri accoglie le tre unità ? Perché esse contribuiscono alla essenzialità, alla concentratezza, e quindi alla forza, in quanto legano meglio le varie parti ed esigono, (specie quella di tempo) che le passioni siano saturate al massimo, altrimenti non esplodono in breve giro di tempo. Indipendente come era di indole, egli accettò queste tre regole: ma lo fece non per tradizionalismo, bensì perché vedeva in esse ottime garanzie per la riuscita della tragedia forte.
Modo con cui l’Alfieri componeva.
“Per intelligenza del lettore mi conviene spiegare queste mie parole di cui mi vo servendo così spesso, ideare, stendere e verseggiare. Questi tre respiri, con cui ho dato sempre l’essere alle mie tragedie, mi hanno per lo più procurato il beneficio del tempo, così necessario a ben ponderare un componimento di quella importanza; il quale se mai nasce male, difficilmente poi si raddrizza. Ideare io dunque chiamo il distribuire il soggetto in atti e scene, stabilire e fissare il numero dei personaggi, in due paginucce di prosaccia farne quasi l’estratto scena, per scena di quel che faranno e diranno. Chiamo poi stendere, qualora ripigliando quel primo foglio, a norma della traccia accennata ne riempio le scene dialogizzando in prosa come viene la tragedia intera, senza rifiutare un pensiero, qualunque ei siasi e scrivendo con impeto quanto ne posso avere, senza punto badare al come. Verseggiare finalmente chiamo non solamente porre in versi quella prosa, ma col riposato intelletto assai tempo dopo scernere tra quelle lungaggini del primo getto i migliori pensieri, ridurli a poesia e leggibili. Segue poi come di ogni altro componimento il dover successivamente limare, levare, mutare; ma se la tragedia non v’è nell’idearla e distenderla, non si trova certo mai più con le fatiche posteriori”.
Concetti circa il verso e lo stile.
“Resta, amatissimo amico, che io le risponda circa allo stile; e questo farò, se ella me lo concede, allungandomi alquanto di più. Delle di lei osservazioni sopra i passi citati, mi risulta che le parti dello stile che a lei dispiacciono, siano le due che spettano all’armonia, e alla chiarezza: e di queste discorrerò.
L’armonia dei versi tragici italiani dee pur essere diversa da quella di tutte le altre nostre poesie, per quanto la stessa misura di verso il comporti, poiché altra sventuratamente non ne abbiamo.
Ma però questa armonia tragica aver dee la nobiltà e magniloquenza dell’epica, senza averne il canto continuato; e avere di tempo in tempo dei fiori lirici, ma con giudizio sparsi, e sempre (siccome non v’è rima) disposti con giacitura diversa, che non sarebbero nel sonetto, madrigale, ottava e canzone. Così ho sentito io; e dalla sola natura delle cose ho ricavato queste semplici osservazioni. Ho ecceduto nei pronomi principalmente, nelle trasposizioni, e nelle collocazioni di parole; perché quando si imprende una cosa, il timore d’un difetto, finché non ci si vede ben chiaro, facilmente fa incorrere nell’altro. Così in me la paura di essere fiacco, che mi pare il vero delitto capitale dell’autore tragico, mi ha reso alle volte più duro del dovere.
Resta a parlarsi della oscurità, altra parte dello stile rimproveratami. E di questa me ne sbrigo col dire…. che a voler essere brevissimo, cosa indispensabile nella tragedia, e che solo genera l’energia, non si può esserlo che usando modi contratti, che oscuri non sono a chi sa le proprietà di questa divina lingua, ma possono ben parerlo alla letteratura per chi non le sa.
Qual rimprovero meritatamente ci fanno ad una voce gli stranieri ? Di non aver teatro; e le poche nostre recite, che tal nome si usurpano di essere sdolcinate, cantate, snervate, insipide, lunghe, noiose insoffribili. A dire il vero, mi pare tale l’indole della lingua nostra da non mai tener in lei la durezza, bensì, molto la fluidità troppa per cui le parole sdrucciolano di penna a chi scrive, di bocca a chi recita e, con la stessa facilità dagli orecchi di chi ascolta.
Di tutte le parole pregiatissime, che ella nella sua onorevole lettera mi dice, la sola che io non ricevo, è: negletto lo stile; perché l’assicuro anzi che moltissimo l’ho lavorato, e troppo; poiché i difetti rimproveratimi ed in parte da me riconosciuti gli ho trovati con fatica e studio; da altro non provenendo, che dall’aver sempre avuto di mira di sfuggire la cantilena e la trivialità”.
Argomenti preferiti dall’Alfieri.
Sono preferiti argomenti antichi e per di più mitologici, perché la realtà storica, specie recente, impicciolisce i fatti e le passioni; mentre le vicende sono remote nel tempo e appartengono al mondo della leggenda, è più facile al poeta idealizzare i personaggi saturandone al massimo le idealità e le passioni.
L’Alfieri, come si vede, è ancora fermo al concetto (tra poco avversato dai Romantici) che la potenza dell’arte consiste nella idealizzazione, e che questa è possibile tanto più, quanto più il soggetto è remoto nello spazio e nel tempo: ciò che si conosce direttamente è sempre più meschino di ciò che si vede nel mondo della pura fantasia.
E’ un pregiudizio: in tal caso infatti non si potrebbe far poesia della storia contemporanea. La verità è che l’essenza dell’arte non è l’idealizzazione, bensì l’interpretazione della vita intima del soggetto sia questo leggendario o storico.
Nuoce alla potenza tragica “la troppa modernità del fatto, per cui questi Carli e Filippi n on sono ancora consecrati nei fasti delle eroiche scelleratezze; e che, per non essere consecrati ancora dal tempo, costoro suonano essere meno maestà negli orecchi, che gli Oresti, gli Atrei, e gli Edippi; e quindi paiono aver sempre presa in accatto la grandiloquenza. Se il luogo della scena della tragedia, invece di essere la moderna Pisa, fosse l’antica Tebe, Micene, Persepoli o Roma, il fatto (del don Garzia) verrebbe riputato tragico in primo grado…… Ma per lo regno di Firenze di Pisa, non si può mai tanto innalzare un eroe che a chi lo ascolta egli venga a parere veramente sublime” (Alfieri).
Sono argomenti originali quelli trattati dall’Alfieri ?
Gli argomenti originali sono appena sei su diaciannove tragedi (Congiura dei Pazzi, Don Garzia, Maria Stuarda, Rosmunda, Saul e Mirra).
Riguardo a questa originalità vediamo come pensa lui stesso: “Se la parola invenzione in tragedia si restringe al trattare soltanto i soggetti non prima trattati, nessun autore ha inventato meno di me… Se poi la parola invenzione si estende fino a far cosa nuova di cosa già fatta, io sono costretto a credere che nessun autore abbia inventato più di me; poiché nei soggetti appunto i più trattati….., io credo di avere in ogni cosa tenuto metodo, e adoperato mezzi, e ideati caratteri, in tutto diversi dagli altri”.
Pregi della tragedia Alfieriana.
1)- La forza: l’Alfieri si è proposto di scuotere dall’avvilimento politico il popolo italiano addormentato:
– dalla esclusione assoluta dalla vita politica (dal tempo delle Signorie in qua, circa 4 secoli).
– dall’ignoranza assoluta dei diritti e dei doveri.
– dall’esempio deplorevole della nobiltà viziosa e vile.
– dal terrore incusso dai Principi con una disciplina di ferro.
– dalla impossibilità di pensare, di parlare, di scrivere, di associarsi liberamente;
e quindi dalla impossibilità di criticare l’operato del governo, e dalla necessità
di approvare qualsiasi decisione di esso.
Per scuotere il popolo italiano addormentato l’Alfieri crea la tragedia forte. Per
creare la tragedia forte:
– sceglie argomenti in cui i contrasti siano forti e si aggirino sempre intorno al
motivo della schiavitù e della libertà politica.
– sceglie argomenti di fatti non vicini nel tempo, lontani dal controllo diretto
Degli ascoltatori, affinché possano essere maggiormente idealizzati, cioè le
passioni dei personaggi che in essi agiscono, possono essere ingrandite al
massimo.
– elimina le battute liriche, descrittive e narrative, e procede per scene
essenziali.
– crea caratteri vigorosi, indomiti, fieri e tempestosi.
– crea situazioni di contrasti irriducibili e per così dire spietati.
– la psicologia dei personaggi che coltivano l’ideale è presentata in forma
sublime, cioè energica al massimo ed elevata.
– procede con la massima rapidità.
2)- La sublimità: cioè il tono intensamente ideale, lo slancio costante della psicologia dei buoni verso i grandi ideali di libertà, giustizia, uguaglianza.
3)- La organicità saldamente unitaria: nell’azione e nella psicologia: forte e rapida l’azione: forti e veementi le passioni.
4)- La moralità elevata e severa: dice egli stesso: “se uno scrittore tragico vuole trattare il motivo dell’amore, deve farlo solo per mettere in evidenza quanto rovinosa sia la passione dell’amore se non viene contenuta”.
Difetti della tragedia Alfieriana.
1)- Nel contenuto:
a)- eccessiva prevalenza del motivo del contrasto politico, per cui è riservato
pochissimo posto a tutti gli altri motivi tragici che pur si notano nella vita
umana e che sono svariati e numerosi. Difetto collegato con la
intenzione quasi esclusivamente politica dell’Alfieri, con il concetto che
egli ha dello scrittore quale “tribuno dei popoli non liberi.
b)- psicologie troppo caricate e unilaterali; eroi troppo eroi, e soltanto eroi;
tiranni troppo tiranni e soltanto tiranni.
2)- Nella forma.
a)- L’uniformità, nel senso che nella maggior parte delle tragedie si ritrova lo
stesso schema generale: contrasto fra tiranno ed eroe, e presso a poco lo
stesso schema particolare , cioè il succedersi dei momenti dell’azione
strutturato quasi sempre allo stesso modo. Dice egli stesso, parlando del
difetto della uniformità: “chi ha osservato l’ossatura di una, le ha quasiché
tutte osservate. Il primo atto, brevissimo; il protagonista, per lo più non
messo in palco se non al secondo; nessun incidente mai; molto dialogo;
pochi quattr’atti; dei vuoti qua e là quant’all’azione, i quali l’autore crede di
aver riempiti o nascosti con una certa passione di dialogo; i quinti atti
strabrevi, rapidissimi, e per lo più tutt’azione e spettacolo, i morenti
brevissimi favellatori; ecco l’andamento similissimo di tutte queste tragedie.
Altri osserverà poi (che lungamente e meglio il potrà far dell’autore) se
questa costante uniformità di economia nel poema vi venga costantemente
compensata dalla varietà dei soggetti, dei caratteri, e delle catastrofi”.
Il primo atto, in genere, serve a preparare l’apparizione del protagonista che quasi sempre avviene nel secondo atto; nel terzo atto il primo incontro tra i protagonisti; il quarto è l’atto delle risoluzioni con cui i due avversari intendono risolvere il contrasto; nel quinto si attua la risoluzione: in genere muore l’eroe:
– perché l’eroe è il personaggio più simpatico agli spettatori, e chi lo uccide diventa per questo estremamente odioso; e proprio quest’odio contro il tiranno
vuole suscitare l’Alfieri nel pubblico.
– perché con la morte dell’eroe accende nel pubblico il desiderio della vendetta.
– perché la psicologia sublime dell’eroe non può trovar quiete nella atmosfera meschina della terra e la morte è per lui una liberazione, l’ultimo gesto ideale di una vita ideale.
b)- La mancanza di sviluppo psicologico e la riduzione della tragedia a puro
contrasto esterno di psicologie già definite in antecedenza e che restano costantemente le stesse. Il contrasto, il travaglio psicologico che rende così ricca la tragedia di Schackespeare, raramente si ritrova nella tragedia alfieriana.
Ciò dipende da questi fatti:
– dal bisogno di non perder tempo: tempo che verrebbe richiesto dallo
sviluppo di travagli interiori.
– dal metodo di idealizzazione tratto dallo stile classico: un carattere
idealizzato viene presentato in blocco fin dal principio e resta sempre lo
stesso.
– dal bisogno di presentare tipi eccezionali e i tipi eccezionali sono tutti di un
pezzo, e tipi di questo genere non ammettono crisi interiori.
– dalla sua preferenza per indoli senza crisi, assolute e sublimi, che
armonizzavano con la sua indole.
La tragedia alfieriana è chiamata anche tragedia metallica perché l’azione si
svolge per cozzi esteriori delle passioni, non per contrasti interiori.
c)- Abbondanza di soliloqui: cioè il poeta fa parlare troppo spesso i personaggi
con sé stessi, perché ha bisogno di far conoscere la loro psicologia attraverso
le loro riflessioni più intime e più sincere. Il colloquio spesso è destinato a
sostituire messi e confidenti. “Ecco che fra i difetti della sceneggiatura
risultanti da questa maniera di inventare e di condurre la parola, già vedo
dai più annoverar come il primo, e capitalissimo la frequenza dei soliloqui. E
questa frequenza certamente è difetto; ma non vien riputato uno dei
maggiori per altra ragione, fuorché per esser questo uno dei difetti più facili
ad esser rilevati da chiunque. Né io voglio affatto difenderlo, né interamente
condannarlo coi più”.
3)- Nel linguaggio: per essere forte l’Alfieri è diventato troppo duro e talvolta troppo conciso fino alla oscurità.
a)- Durezza: “Qual rimprovero meritatamente ci fanno ad una voce gli stranieri ? Di non aver teatro; e le nostre poche recite, che tal nome si usurpano, d’essere sdolcinate, cantate, snervate, insipide, lunghe, noiose, insoffribili. A dire il vero, mi pare tale l’indole della lingua nostra da non mai tener in lei la durezza, bensì molto la fluidità troppa per cui le parole sdrucciolano di penna a chi scrive, di bocca a chi recita, e, con la stessa facilità, dagli orecchi di chi ascolta”.
b)- Oscurità: “Resta a parlarsi della oscurità, altra parte dello stile rimproveratami. E di questa me ne sbrigo col dire….. che a voler essere brevissimo, cosa indispensabile nella tragedia, e che solo genera l’energia, non si può esserlo che usando modi contratti, che oscuri non sono a chi sa le proprietà di questa divina lingua, ma possono ben parerlo alla lettura per chi non le sa”.
Quali sono le migliori tragedie dell’Alfieri ?
Sono quelle in cui l’autore evade dal solito schema del contrasto fra il tiranno e l’eroe e accoglie svariati altri motivi della vita, e dà più sviluppo al contrasto psicologico.
Se il difetto fondamentale della tragedia alfieriana è l’essenzialità esagerata, l’asciuttezza quasi scheletrica che non permettono alla vita di circolare con pienezza nel corpo dell’azione tragica, belle saranno quelle tragedie nelle quali la psicologia umana si presenta ricca e varia, pur senza nuocere alla forza, alla rapidità, all’unità dell’azione.
Tali sono le tragedie “Saul” (in cui la psicologia del protagonista si sviluppa attraverso contrasti intimi e vengono accolti i motivi della amicizia, dell’amore filiale, della religione); “Mirra”: tragedia tutta interiore, fatta di contrasti psicologici; “Filippo II°” (in cui al motivo del contrasto fra tiranno ed eroe si aggiunge il motivo della passione amorosa): “Agamennone”.
L’Alfieri fu romantico o classico ?
Per rispondere a questa domanda dobbiamo definire le caratteristiche dello stile classico e di quello romantico.
a)- Caratteristiche dello stile classico: idealizzazione dei personaggi, delle situazioni, dei paesaggi – compiacimento e indugio su particolari decorativi – (compiacenza della decorazione estetica) – la precisione, l’armonia, la nitidezza delle figurazioni – la compostezza e la signorilità del tono – la preferenza per le immagini, i procedimenti compositivi, le forme linguistiche che sono in uso nel mondo della letteratura tradizionale avviata dai Greci e dai Romani.
b)- Caratteristiche dello stile romantico:
– la tendenza ad esprimere lo stato d’animo conservando ad esso il più possibile
il calore nativo, ossia l’immediatezza.
– il tono veemente ed impetuoso
– il compiacimento per gli sfoghi sentimentali – la cura dell’originalità nella
ispirazione, nella forma e nel linguaggio
– una certa compiacenza del confuso e del disarmonico, quasi ad ostentazione
di mentalità e di costume libero e spregiudicato.
Nell’Alfieri di classico vi è soltanto:
a)- l’idealizzazione dei personaggi secondo il criterio plutarchiano della
magnanimità,
della forza di carattere, della attività intelligente e irrefrenabile;
b)- la organicità e la unità della composizione.
Lasciò da parte le compiacenze estetiche perché ritardavano lo sviluppo dell’azione, che egli voleva rapida, e perché la sua indole, sdegnosa ed essenziale, non si adattava ad abbellire con grazia e con gusto da esteta.
Nell’Alfieri romantico vi è:
a)- l’immediatezza e la veemenza delle battute del dialogo;
b)- la vigoria delle passioni;
c)- lo slancio verso il sublime;
d)- una certa indipendenza nel trattare motivi già trattati e nel creare forme
linguistiche nuove;
e)- l’ammirazione per le forme di vita rivoluzionarie.
Insomma l’Alfieri si propose di curare la tragedia forte e utilizzò per questo la idealizzazione e la organicità classica da una parte, in quanto la prima gli facilitava la figurazione di personaggi eccezionali e magnanimi, e la seconda gli serrava saldamente lo sviluppo dell’azione; la vigoria, la immediatezza, la veemenza dei romantici dall’altra, perché tali doti contribuivano a dare il tono sublime ed aggressivo alla sua tragedia forte.
Quindi l’Alfieri è classico e romantico nello stesso tempo.
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VINCENZO MONTI
(1754-1828)
Il Leopardi ha dato del Monti la seguente definizione: “ Poeta dell’orecchio e della immaginazione, del cuore giammai”.
La definizione del Leopardi, nel complesso, è valida anche per la critica di oggi. Il Monti fu un tecnico geniale dell’immagine e della parola, ma spirito poco profondo: letterato di buon gusto e di esperienza raffinata, ma un uomo di levatura sentimentale modesta.
Eppure il Monti era stato dotato dalla natura di intelligenza viva e acuta, e di una fine sensibilità. Mentre nei grandi scrittori la profondità del pensiero e l’ardore del sentimento sono pari alla capacità espressiva, come mai in Monti l’ispirazione rimase inferiore all’arte dell’immagine e della parola, cioè alla capacità espressiva?
Il Monti proveniva dall’Arcadia romana, e, secondo l’uso di questa accademia, fin da giovane si era abituato a comporre per la declamazione su temi in genere occasionali, di fronte ad un pubblico che gustava la poesia con l’udito. E una volta imboccata la strada della poesia declamatoria non ne uscì più. La poesia declamatoria deve strappare l’applauso degli uditori e, per strappare l’applauso, in genere, si avvale di immagini colorite e grandiose, del tono enfatico, di ritmi travolgenti mollemente melodiosi.
Il Monti componeva come avendo di fronte a sé un pubblico, al quale, con l’effetto magico della sua tecnica musicale e immaginifica, doveva strappare l’applauso. Dunque, può essere anzitutto definito “poeta di circolo e poeta declamatorio”, in quanto la sua formazione avvenne nei circoli letterari romani; e al poeta di circolo, che compone per declamare ed essere applaudito, il successo è assicurato dalla bravura tecnica. Era fatale che la sua arte attirasse chi bramava di passare alla storia in forza dei versi brillanti di un poeta di grido.
Solo chi compone per la lettura si preoccupa di dire cose profonde in modo efficace, perché chi legge ha tutto l’agio di meditare sui pensieri e sui sentimenti del poeta, e di rilevare i pregi e i difetti reali della sua espressione. Chi legge, infatti non approva il poeta che sa soltanto parlare bene, mentre avverte che l’espressione da lui creata è un artificio retorico. Il poeta autentico esprime una voce fedele del suo spirito e, attraverso la parola precisa, comunica pensieri e sentimenti profondi: “Sdegno il verso che suona, e che non crea” dice il Foscolo.
Un’altra definizione che possiamo dare del Monti è poeta “di professione” (nel senso nobile della parola) cioè cosciente di possedere gli strumenti per comporre bei versi su qualsiasi argomento. Scrive ogni volta che gli si offre l’occasione di dare un saggio della sua bravura. Possiamo, perciò, definirlo poeta che fa il mestiere del “compositore”, scrive su tutto e su tutti con la voglia di comporre per soddisfare le aspettative del committente, sia per amore di gloria, sia per opportunismo.
Non si può negare che il Monti amasse la sua arte, che ne avesse un alto concetto e che avesse una preparazione eccellente per esercitarla; ma non si può neanche negare che egli la considerasse come una professione più che come un’attività vitale del suo spirito; perciò egli si preoccupò più di far bella figura presso l’ingaggiatore, che di esprimere il suo proprio mondo interiore.
Poeta ‘di professione’ si oppone a poeta ‘d’ispirazione’. Il primo scrive su commissione di un cliente, per così dire; il secondo scrive per usare un’espressione di Dante “quando amor lo ‘spira” cioè quanto sente il bisogno di esprimere il suo animo commosso. Il poeta ‘d’ispirazione’ si preoccupa di trovare i modi espressivi più adatti per trasferire il suo stato d’animo nell’animo dei lettori. Il poeta ‘di professione’ si preoccupa di accontentare il cliente. Quel comporre per far bella figura di fronte agli altri impedì al Monti di esprimere sé stesso, gli impedì, per usare un’espressione del Manzoni di “sentire e meditare”.
Si preoccupò più dei mezzi per ottenere l’effetto che dell’approfondimento dei suoi pensieri e dei suoi sentimenti. I contemporanei e i posteri rimproverarono al Monti di aver cambiato troppo spesso bandiera. Il rimprovero era giusto; ma il Monti, avendo concepito l’arte come professione, per forza di cose doveva cantare quello che piaceva al cliente. In tal modo doveva rinunciare ad esprimere il proprio sentimento e doveva limitarsi ad impegnare a fondo soltanto la sua capacità tecnica.
Più che un interprete di sé stesso, il poeta ‘di professione’ è, per forza di cose, interprete degli altri. Può essere paragonato al professionista della musica che trova naturalissimo musicare un inno religioso ed un inno ateo, perché, secondo lui, l’arte dei suoni non impegna le convinzioni. Dal fatto che il Monti concepiva la sua arte come una professione esteriore, scaturisce naturale il fatto che egli fosse “poeta ufficiale”, con il dovere di commemorare gli eventi più importanti del mondo in cui esercita il suo servizio. Se si tratta di eventi gloriosi si deve entusiasmare anche se non prova alcun entusiasmo; se si tratta di eventi tristi, deve piangere anche se non è commosso. Il Monti, spirito suggestionabile, riuscì talvolta ad entusiasmarsi e a rattristarsi; ma il suo entusiasmo o il suo dolore è quello di un attore che si immedesima nella sua parte.
L’impostazione della sua poesia è quella del ‘poeta ufficiale’, che non coglie negli eventi i significati profondi e universali che interessano tutta l’umanità, ma solo quegli spunti che si prestano ad una celebrazione d’effetto, altisonante e clamorosa. Poeta ‘ufficiale’ non nel senso che il Monti fosse stipendiato per comporre le sue opere, ma nel senso che, stimando sé stesso compositore valente ed essendo stimato tale anche dagli altri, egli si assunse spontaneamente l’ufficio di cantore dei vari regimi per i quali successivamente simpatizzò.
Inoltre possiamo definire il Monti anche poeta ‘d’occasione’ che prende lo spunto dall’occasione e rimane chiuso nel significato contingente di essa. Costretto a commentare gli eventi in qualità di ‘poeta ufficiale’, più che di approfondire l’ispirazione si preoccupò di far appello a tutte le risorse della poesia declamatoria. Ai grandi poeti l’occasione offre soltanto lo spunto per esprimere tutto il loro mondo interiore. Essi sono capaci di trascendere l’episodio, per entrare nel mondo delle idee grandi dei sentimenti profondi. Il Monti, invece, coglie l’occasione per un “pezzo d’effetto” e solo raramente riesce a superare il motivo occasionale, e in ciò egli non manifesta una concezione profonda della realtà e della vita.
Nel 1782 il pontefice Pio VI partiva da Roma alla volta di Vienna. Il Monti che allora era poeta ufficiale del Papa, scrive un poemetto dal titolo “ Il pellegrino apostolico ” in cui fa addirittura scendere dal cielo San Pietro per porgere gli auguri di buon esito del viaggio al suo angustiato successore. Nel 1789 viene scoperto un busto di Pericle fra le rovine di una villa romana a Tivoli. Il Monti compone “ La prosopopea di Pericle “ in cui il celebre mecenate ateniese si compiace di essere tornato alla luce proprio sotto il pontificato di Pio VI che a lui somiglia per il suo mecenatismo.
Nel 1801 muore il poeta e matematico bergamasco Lorenzo Mascheroni, professore dell’università di Pavia. Il Monti, che è diventato poeta ufficiale di Napoleone, immagina che l’anima del Mascheroni, dichiari quanto i buoni sperino nelle opere del giovane Bonaparte, di cui si esaltano le sublimi doti di stratega e di un uomo politico. Esempi di poesia occasionale sono le opere del Monti.
Infine possiamo definire il Monti poeta ‘letterato’, abilissimo esperto di tutte le finezze della tecnica letteraria,appresa attraverso lo studio amoroso ed intelligente delle opere dei classici greci e latini, italiani e stranieri moderni. Per svolgere bene la funzione di poeta oratore è sufficiente una buona preparazione letteraria. Le metafore colorite, le personificazioni, le similitudini, le interrogazioni retoriche, le esclamazioni, i ritmi variati, il vario periodare sono i suoi mezzi d’efficacia.
Il Monti era dotato di una formidabile capacità di assimilazione, in forza della quale le immagini più belle, i metri più musicali creati dai poeti da lui prediletti entravano a far parte del suo stile e del suo linguaggio nel modo più naturale e spontaneo. Attingendo al suo ricchissimo repertorio letterario degli riesce sempre ad intessere una smagliante veste per le sue idee (talora piuttosto modeste).
Si ritrovano nelle sue poesie tracce dei poeti insigni per grandiosità di stile come quelle derivanti dai Profeti dell’Antico Testamento, da Omero, da Dante, da Milton, da Shakespeare, da Klopstok, da Ossian. La padronanza perfetta delle risorse figurative, musicali e coloristiche della parola. Io rende capacissimo di riprodurre con la parola la grande creazione altrui: ecco perché il Monti riesce bene nella traduzione dell’Iliade. Il compito del traduttore infatti non è quello di creare, ma solo quello di rivivere e di rendere con parole appropriate lo spirito del testo originale.
Opere del Monti
La produzione letteraria del Monti può essere divisa in gruppi ben definiti che corrispondono ai periodi del servizio poetico che egli prestò, in qualità di scrittore ufficiale, a vari regimi.
1 ) Il primo periodo è detto “romano” e comprende gli anni dal 1778 al 1797 nel quali prestò servizio a Pio VI. Comprende: “La prosopopea di Pericle”.” Ode al signor di Mongolfier”.” Pensieri d’amore”.” La bellezza dell’universo”.” Il Pellegrino apostolico”. In questo periodo inizia anche”La Feroniade” che condurrà a termine nell’1828.
Le migliori sono: l’ode Al signor de Mongolfier, in cui il poeta, dopo aver lamentato che la prima navigazione aerea non abbia un cantore pari ad Orfeo che celebrò la prima navigazione marittima degli Argonauti, esalta la scienza e l’ingegno umano che sono stati capaci di superare le leggi della natura, e si augura che presto o tardi l’uomo riesca ad infrangere il dardo della morte.
“ Pensieri d’amore “ sono 10 frammenti lirici in cui il poeta effonde le sue pene d’amore nel ricordo di Carlotta Stewart che non ha potuto sposare perché di classe sociale aristocratica. Imita il Werte di Goethe e certi atteggiamenti spirituali e stilistici di Ossian. È un’opera influenzata dalla moda preromantica che si afferma in Inghilterra e in Germania negli ultimi decenni del secolo XVIII e che è caratterizzata da passioni forti, da sentimenti dolorosi, da visioni tempestose della natura, da stile ardente e vigoroso.
“ La bellezza dell’universo “ è un poemetto in cui l’autore presenta le varie creature che escono dalla mano di Dio, ciascuna con le note più significative che la caratterizzano. L’argomento offre alla autore la possibilità di dar prova delle sue abilità descrittive. Il Monti, affidando il compito di strutturare e modellare l’universo alla Bellezza e alla Sapienza, secondo il principio umanista e neoclassico (Sapienza unita a Bellezza). La bellezza si identifica con quell’armonia che è frutto di proporzione e che, a sua volta, nasce dal ragionamento.
“ La Basvilliana “ è un poema in terzine, in forma di visione, come la Commedia di Dante di cui riproduce situazioni ed immagini. Nel 1792 viene ucciso in Roma un certo Ugo Basville, emissario della Francia rivoluzionaria. Il Monti, inquadrato allora nel regime ‘clericale’ ed avverso alla rivoluzione, immagina che l’anima di Brasville all’ultimo momento si sia pentita, ma che, per espiare il suo peccato, debba aggirarsi per le varie città della Francia, ad assistere alle scene più atroci della crudeltà rivoluzionaria. L’ultima scena è la morte di Luigi XVI, “santo re”.
“ Il Pellegrino apostolico “Pio VI si reca a Vienna per incontrarsi con l’imperatore Giuseppe II al fine di indurlo a desistere dalle sue intromissioni nelle cose della Chiesa. San Pietro gli augura un buon viaggio.
“ La Feroniade “ Pio VI ha deciso di prosciugare le paludi Pontine. Il poeta per celebrare il progetto, inventa un mito. La ninfa Feronia, che ha dei magnifici giardini a sud di Roma, è amata da Giove. Giunone, per gelosia, le distrugge i giardini, inondandoli. Feronia fugge via in esilio, e mentre una notte dorme, Giove la consola mostrandole Pio VI, che un giorno, prosciugando le paludi, le restituirà i giardini più belli di prima. È un poemetto schiettamente neo-classico, in quanto il Monti non utilizza, come in altre opere, le immagini create dai classici, bensì crea un mito nuovo ed originale per illustrare un fatto storico contemporaneo.
2 ) Il secondo periodo detto “giacobino” dal 1797 al 1800 ha tre poemetti: “ Il fanatismo”. “ La superstizione”.” Il pericolo”. Il Monti voleva dimostrare ai rivoluzionari della Repubblica Cisalpina che egli aveva rinunciato alle sue idee conservatrici. Sono tre poemetti di poco valore poetico e di spirito antitirannico e anticlericale.
Per il 21 gennaio 1798 (anniversario del regicidio) compone un’ode che è musicata e cantata al teatro della Scala (Milano). In essa Luigi XVI (chiamato “santo re” nella Basvilliana) viene definito vile e tiranno. Nell’1799, quando scendono in Italia gli Austro-Russi, il Monti fugge in Francia, dove traduce il poema di Voltaire intitolato “ La pulcelle d’Orleans. “
3 ) Il terzo periodo è detto “Bonapartista” dal 1800 al 1814. Nel 1800, dopo la battaglia di Marengo, il Monti compone l’ode “Per la liberazione d’Italia”. In essa esalta il Bonaparte per aver cacciato via dal “giardino di natura” (Italia) i barbari; e fa un confronto tra Napoleone ed Annibale, assegnando naturalmente la superiorità a Napoleone “muore ogni astro in faccia al sol”.
“ La Mascheroniana “ è un poemetto in forma di visione, come “Il pellegrino apostolico” e come “La Basvilliana”. Il poeta immagina che lo scienziato Lorenzo Mascheroni, morto, ascenda al cielo ove incontra le anime dei grandi lombardi Parini, Verdi, Beccaria, Spallanzani ai quali riferisce quanto tristi siano le condizioni dell’Italia a causa della demagogia rivoluzionaria,e con i quali parla di un giovane meraviglioso, Bonaparte, che con il suo genio e la sua energia è riuscito a ridare la libertà ai popoli ed a frenare le intemperanze della libertà nella rivoluzione.
Il Monti preferisce impostare molti suoi poemetti in forma di visione al modo dantesco, perché questa si presta all’ingrandimento degli eventi e dei personaggi e all’enfasi declamatoria e spettacolare.
Nel 1805 Napoleone vince l’Austria in quella che fu la sua battaglia più bella (ad Austerlitz). Monti subito compone un poemetto “ Il bardo della Selva Nera “, in cui immagina che un certo Terigi, ufficiale dell’esercito napoleonico, ferito ad Austerlitz, sia stato raccolto da un “bardo” poeta popolare medioevale delle nazioni nordiche, e che si innamora della sua figlia Malvina. Durante la malattia e la convalescenza, egli narra al “bardo” e a Malvina le imprese alle quali ha preso parte sotto le bandiere di Napoleone. L’introduzione della figura del bardo (che era un personaggio caro ai pre-romantici) sta ad indicare che al Monti piace anche la poesia medioevale per la sua vigoria rude e potente.
Nel 1806, dopo la battaglia di Vienna, Napoleone entra in Berlino, nella città di Federico II di Prussia. Il Monti compone allora il poema intitolato “ La spada di Federico II “ due in cui il Bonaparte è messo a confronto con il famoso re di Prussia a cui è infinitamente superiore come stratega e come uomo politico.
Dal 1802 al 1806, viene traducendo l’ Iliade: traduzione ottimamente riuscita, perché il Monti non doveva creare nulla; ma doveva soltanto riprodurre, con le risorse del linguaggio italiano, le creazioni di Omero. Siccome il Monti era espertissimo di tutte le risorse della lingua ed aveva un ottimo gusto letterario, la sua traduzione è rimasta fino ad oggi insuperata. Nel 1810 Napoleone sposa Maria Luisa d’Austria. Il Monti compone “ La ierogamia di Creta “ cioè le nozze sacre tra Giove e Giunone. Nell’1811 nasce “il re di Roma”. Il Monti scrive “ Le api panacridi di Alvisopoli.“
4 ) Il quarto periodo montiano è detto “austriaco”. Il 6 aprile 1814 Napoleone abdica ed il 23 dello stesso mese subentrano a Milano gli Austriaci. Il Monti compone “ Ritorno di Astrea “ e “ Invito a Pallade. “
Ritorno di Astrea. Astrea è la dea della giustizia e con il ritorno dell’Austria, finiscono le ingiustizie del periodo napoleonico e comincia un’era di giustizia.
Invito a Pallade. Pallade è la dea delle arti pacifiche. Tornata l’Austria, anche Pallade può ritornare in Italia, da troppi anni e straziata dalle guerre, provocate da Bonaparte.
Nel 1825 il Monti entra nella lotta fra Romantici e Classicisti, con il suo “Sermone sulla mitologia”, in cui afferma che il romanticismo, propugnando il vero nell’arte, uccide la poesia, perché questa è frutto dell’immaginazione: “Senza portento, senza meraviglia, nulla è l’arte dei carmi \ il vero, il nudo arido vero dei vati è tomba.”
Due anni prima della morte, nel 1826, compone l’ode “Per il giorno onomastico della sua donna” (Teresa). E’ un’ode veramente pregevole per il calore del sentimento, per la chiarezza e per la pacatezza del stile.
Conclusione
Poeta declamatore, letterato, professionista, occasionale, oratore, letterato il Monti si trovò a cambiare più volte la sua bandiera. Tuttavia ci sono dei motivi per scusarlo, se non giustificarlo: un motivo è quello stesso che egli addusse, cioè che egli amò sempre la libertà, l’Italia ed il progresso e che perciò non poté fare a meno di nutrire simpatie per questo o per quel personaggio, per questo o per quel l’indirizzo politico, che a lui sembrasse adatto a garantire il trionfo dei suoi sogni di patriota. Effettivamente il Monti, facilmente entusiasmabile, credette sinceramente che il Papa, Napoleone, l’Austria, il pacifismo dei conservatori, o l’impeto dei rivoluzionari, potessero essere tutti ugualmente accettati, purché garantissero libertà e progresso all’Italia.
Un altro motivo è da individuarsi nella persuasione che egli ebbe di essere un professionista della poesia per cui non trovava affatto indecoroso l’offrire i suoi servizi al potente che di volta in volta emergesse dalla confusione e dal tumulto di quell’epoca, che, del resto, non ingannò soltanto il Monti, ma, se osserviamo, un po’ tutti gli intellettuali italiani.
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UGO FOSCOLO
(1778-1827)
Spiritualità del Foscolo.
Il Foscolo vive negli ultimi decenni del secolo XVIII e nei primi decenni del secolo XIX: in un periodo storico agitatissimo in cui avviene una svolta decisiva per la storia moderna, ed ha inizio la nostra azione rinascimentale; egli riassume in sé la dirittura di carattere del Parini ed il furore eroico dell’Alfieri, ed incarna la figura del poeta soldato, cioè dell’uomo che vive intensamente, combinando insieme l’ideale e l’azione.
Il mondo spirituale del Foscolo, infatti, è caratterizzato dalla fusione fra una mentalità idealistica ed una realistica, ambedue di tono intenso, ambedue decisive.
La filosofia enciclopedistica aveva spazzato via l’assoluto dalla vita: ora l’anima va in cerca di esso, perché senza di esso non può vivere. Foscolo lo ricostruisce per illusione assolutizzando il finito.
Benché educato in seminario egli, fin da giovane, assimilò il pensiero filosofico dell’ideologia enciclopedistica, che gli fece concepire la realtà come materia in continua evoluzione, sotto la spinta di una forza interiore, che la fa passare di forma in forma.
In questa concezione materialistica e meccanicista egli inquadra anche il suo pensiero circa l’uomo e il destino umano. L’uomo è materia vivente, anche essa in continua evoluzione, anche essa soggetta alle ferree leggi della materia i n genere. Tra l’uomo e l’universo esiste lo stesso rapporto che intercorre tra la parte e il tutto: l’uomo è il piccolo ingranaggio di una macchina spaventosamente enorme, i cui movimenti avvengono secondo leggi di una fatale necessità: “Pare che gli uomini sieno fabbri delle proprie sciagure; ma le sciagure derivano dall’ordine universale e il genere umano serve orgogliosamente e ciecamente ai destini….. le vicende umane sono comuni e necessari effetti del tutto…… la terra è una foresta di belve. La fame, i diluvi e la peste sono nei provvedimenti della natura come le sterilità d’un campo che prepara l’abbondanza per un campo veniente, e chissà ? Forse anche le sciagure di questo globo apparecchiano la prosperità di un altro” (dallo “Jacopo Ortis”).
Il principio vitale del corpo, cioè l’anima si dissolve con il dissolversi della materia: il Foscolo non accoglie il concetto che l’animo sia immortale: “Abbiate pace o nude reliquie: la materia è tornata alla materia; nulla scema, nulla cresce, nulla si perde quaggiù; tutto si trasforma e si riproduce. Umana sorte ! Meno infelice degli altri chi non la teme”.
Oscuro è il mistero della nostra origine, oscuro quello del nostro fine, oscuro quello del significato della nostra vita: si può solamente affermare che noi e le vicende della nostra vita siano una produzione necessari del movimento del tutto. Nel buio di questo mistero, l’esistenza individuale si riduce ad una serie di esperienze dolorose e l’esistenza collettiva ad un procelloso susseguirsi di sciagure: “E tu onore di pianto Ettore avrai….finché il sole risplenderà sulle sciagure umane”; “Beata! Ancor non sa come agli infanti provvido è il sonno eterno e quei vagiti presagi son di dolorosa vita”.
Ma il cuore dell’uomo che sente nobilmente non si adatta ad una concezione di vita di questo genere: recitare la parte di piccolo ingranaggio è umiliante per l’uomo che ha coscienza della sua dignità; fluire insieme alle cose, come una di esse, verso una meta ignota, demoralizza l’uomo che ha l’ansia dell’assoluto e dell’eterno. E allora è necessario superare in qualche modo la posizione pessimistica. La ragione e l’esperienza ci dicono che la vita è un complesso di fenomeni necessari, che nessuna delle cose e neanche noi stessi abbiamo un valore degno di considerazione, noi cessiamo di vivere col venir meno della nostra esistenza attuale: il cuore per poter vivere esige di sentire la soddisfazione di creare liberamente il proprio destino e di contribuire al miglioramento delle sorti dell’umanità, ossia vagheggia la soddisfazione dell’io che crea e che si afferma liberamente; il cuore esige qualche cosa di eterno e di assoluto e si rifiuta di accogliere la possibilità di un annientamento totale. Chi vuol vivere, pur tenendo presenti le voci della ragione e dell’esperienza, deve ascoltare le voci del cuore e credere solo ad esse. Questa fede nelle aspirazioni del cuore si chiama “illusione”.
La vita è brutta, ma per chi riesce ad immaginarla bella, è veramente bella . “Illusioni grida il filosofo…or non è tutto illusione ? Tutto ! Beati gli antichi che sacrificavano alle bellezze e alle grazie; che diffondevano lo splendore della divinità sulle imperfezioni dell’uomo, e che trovavano il bello e il vero accarezzando gli ideali della loro fantasia ! Illusioni ! Ma intanto senza di esse io non sentirei la vita che nel dolore, o, cosa che mi spaventa ancor di più, nella rigida e noiosa indolenza; e se questo cuore non vorrà più sentire, io me lo strapperò dal petto con le mie mani, e lo scaccerò come un servo infedele”.
In forza dell’illusione, quindi, noi siamo capaci di sentirci immortali e liberi, di sentirci persone autonome, capaci di dirigere il nostro e in parte l’altrui destino; siamo capaci di diffondere il bello dove è l’orrore della bruttezza, di vedere il sublime dove è uno sfondo di bello e di bene.
L’illusione o afferma quel che non esiste (immortalità e libertà) o dà forme superlative a ciò che esiste in forma minore; l’uno e l’altro modo vengono incontro all’esigenza di un cuore che dalla negazione è straziato e dal poco è avvilito. Il nostro spirito ha insita l’ansia dell’assoluto ed ogni qualvolta che di questo scorge una tenue immagine, non solo si rallegra, dimenticando la miseria a cui l’ha condannato il destino, ma sente il bisogno di ingrandirla, idealizzandola superlativamente.
Così è possibile il sollievo nel dolore attraverso una visione di bellezza o naturale o umana o artistica o attraverso una visione di bontà; così è possibile la certezza nel dubbio o addirittura nella negazione; così è possibile l’azione pur nella constatazione che tutto ci sfugge e ci domina nello stesso tempo.
Ricostruito così, attraverso l’illusione, il complesso delle certezze, è possibile l’azione e ci si può riconciliare con la vita, la quale in sé stessa sembrava intollerabile.
Le attività che maggiormente distolgono l’anima dalla visione triste della realtà, e infondono in essa la gioia del vivere sono due: quella poetica e quella eroica. Attraverso l’attività poetica si viene a costruire un mondo ideale, ove i motivi della vita reale vengono talmente abbelliti e resi assoluti che perdono della loro caducità e povertà, da soddisfare lo spirito bramoso del perfetto. Attraverso l’attività eroica, in cui l’uomo spende le sue energie a servizio degli ideali della libertà, della patria e del progresso, è possibile dimenticare il valore meschino delle azioni quotidiane e trasferire, su un piano ideale, la vita reale.
Quando le circostanze rendono impossibile il sogno del cuore perché i fatti arrestano il corso dei moti ideali dello spirito, è bene rinunciare alla vita.
Jacopo Ortis, la cui esistenza è sostenuta dall’ideale dell’amore e della patria, quando vede crollare e l’uno e l’altro, ritiene che non sia più possibile, per lui, continuare a vivere e decide di porre termine alla sua vita.
E’ chiaro che se tutti adottassero la soluzione di Jacopo, l’ideale non avrebbe servitori fedeli e tenaci e verrebbe meno per mancanza di sostenitori: perciò il Foscolo, dopo aver romanticamente sostenuta la necessità del suicidio per impedire che il cuore procedesse invano di illusioni in illusione, decide di affrontare la vita sino in fondo, col sostegno di una coscienza netta e di ideali imperituri.
Amore, contemplare la bellezza, creare realtà perfette con la poesia, combattere con animo indomito la tirannide, lavorare per l’avvenire della patria, sono le attività che rendono possibile al Foscolo il continuare la vita fino alla conclusione naturale.
Influssi che contribuiscono alla formazione della spiritualità foscoliana.
1)- La filosofia enciclopedistica francese. L’Illuminismo si era proposto di razionalizzare e di rendere chiara tutta la realtà; e la scienza in collaborazione con la ragione si era proposta di chiarificare i fenomeni stessi del mondo umano con la scoperta delle leggi scientifiche che li regolano. Ragione e scienza avevano concluso che l’uomo è un meccanismo vivente in cui i fenomeni fisici e spirituali, sono da spiegarsi allo stesso modo con cui si spiegano tutti i movimenti della materia. Di qui il fatalismo, cioè il concetto che nella nostra vita tutto avviene in forza di combinazioni chimiche e di fenomeni fisici che si verificano necessariamente.
Il Foscolo, come abbiamo visto, accetta questa concezione, ma non avverte l’aridità e compiange la natura umana scoperta nella sua vera realtà.
2)- L’influsso del Rousseau, del Parini e dell’Alfieri. Il Rousseau aveva affermato che l’essenza dell’uomo è da individuarsi nel cuore, cioè nel sentimento. Il Parini aveva riassunto l’uomo nella coscienza “dignitosa e netta”. L’Alfieri aveva individuato il principio dinamico della vita nell’impulso naturale, che spinge incessantemente verso forme spirituali sempre più elevate.
Il Foscolo accetta il pensiero di questi tre grandi: come il Rousseau egli oppone alla logica arida dell’intelletto, la logica del cuore; come il Parini e l’Alfieri, raccoglie nel suo cuore gli ideali dell’onestà, dell’indomita fierezza, della libertà, della patria, dell’amore e dell’arte. Così, vicino all’arida e desolata concezione della vita inculcata in lui dalla filosofia materialistica, si afferma una concezione idealistica ed eroica, vicino ad una ragione spietata e spregiudicata, si afferma un sentimento accorato, ardente, proteso verso mete infinite.
3)- Il Romanticismo. In Italia il Romanticismo, prima che si affermasse come movimento letterario, si affermò come atteggiamento spirituale. Il Foscolo non aderì mai alle teorie estetiche del romanticismo, ma si compiacque di assumere gli atteggiamenti appassionati, di sentire pessimisticamente e drammaticamente la vita, di condensare nel suo intimo il fremito di passioni esplosive.
Nello Jacopo Ortis, si compiace di mettere in opposizione motivi desolati e aspirazioni ardenti; presenta i commoventi tentativi di un giovane che ha l’ansia di vivere e si sforza di vivere, ma che è disfatto dalla realtà delle cose e, disperatamente, si sforza di entrare in un mondo ideale, nel mondo del cuore, senza riuscire a rimanervi stabilmente.
Anche il Foscolo, come Jacopo, visse per metà nel buio di una coscienza disperata, e per l’altra metà nel sereno di una coscienza redenta e pacificata dall’ideale. Egli invoca la morte e non sa darsela; invoca quiete nello stesso porto a cui è giunto il fratello che si è suicidato, eppure passa di amore in amore, di attività in attività, come l’uomo più avido di vivere; ama la sera perché è l’immagine della “fatal quiete”, eppure desidera con ardore la vita dinamica e tempestosa. In questo contrasto tra la ragione e il cuore, tra l’ideale ed il reale, in questo vivere fremendo e sognando, avvolto nelle nubi nere della disperazione e nelle luci dell’amore, dell’arte e della gloria, consiste il tono romantico della spiritualità foscoloniana.
La tempesta psicologica del Foscolo era destinata ad esprimersi in forme regolare e scomposte, cioè con quello stile irruento, capriccioso ed enfatico che era stato messo in voga dagli sturmisti tedeschi, cioè della poesia ossianica (poesia che ricorda lo stile del bardo scozzese Ossian), e un pochino anche dal Rousseau e dall’Alfieri.
Quello dello Jacopo Ortis è un saggio dello stile a cui naturalmente e costantemente avrebbe aderito il Foscolo, se in lui non avesse avuto il sopravvento l’educazione classicista. Lo stile neoclassico che egli assimilò attraverso la lettura delle opere greche e romane e di tutti gli autori italiani che si erano preposti di comporre con armonia, concretezza e lucidità al modo dei Greci e dei Romani, riuscì a frenare il moto turbinoso del cuore entro i limiti di una espressione decorosa, chiara e gentilmente ornata.
La sua anima sconvolta dagli impulsi più violenti, è capace di placarsi nella contemplazione serena di una realtà ideale, in forza delle illusioni, trova nella forma classica l’espressione più perfetta e più efficace.
Le opere migliori del Foscolo, dai sonetti, alle odi, ai Sepolcri, alle Grazie, piacciono in forza di questa compostezza e di questa armonia sotto cui ferve uno spirito appassionato e accorato, uno spirito che vive tra il turbine delle passioni e delle ansie del cuore e l’olimpica serenità di una illusione elaborata nelle forme più ideali.
4)- L’influsso del neoclassicismo. Il Foscolo coltivò da giovane le lettere greche e romane; disse egli stesso di aver ereditato da sua madre greca il gusto per la bellezza fine e lucida, per la proporzione e l’armonia.
Il Parini dette a lui esempio di arte concreta e finissima, di adesione alla vita e di idealizzazione perfetta. I pittori, gli scultori e gli architetti neoclassici gli insegnarono come si potesse trattare temi moderni, esprimere una mentalità moderna con le vecchie forme classiche, cioè come si potesse incarnare in forme composte ed eleganti, la psicologia drammatica e dinamica dell’uomo moderno.
Stretto nelle angustie della concezione materialistica, lo spirito del Foscolo si sente in disagio: il suo cuore tenta di evadere creando il mondo delle illusioni; l’arte classica gloriosamente famosa per la sua tecnica di idealizzazione luminosa e colorita, viene incontro al cuore assetato di bellezza e di perfezione, rasserenando e ricoprendo di bellezza realtà, per sé stessa desolata e meschina.
5)- Il momento storico. Il Foscolo, come si è detto, visse in un periodo storico estremamente movimentato, ricco di avvenimenti e di mutazioni, di illusioni e di delusioni. Egli partecipò alla vita pubblica e agli eventi della nazione col suo animo di idealista, educato alla scuola del Parini e dell’Alfieri e delle idee della rivoluzione.
Credette fermamente nella libertà, nella democrazia e nell’unità e nell’indipendenza dell’Italia; d’altra parte dovette assistere al tradimento di questi ideali da parte di uomini mediocri e di Napoleone stesso. Di qui le alternative continue del suo spirito, fra la speranza e la delusione; ma essendo il suo carattere saldo e adamantino, è evidente, in queste alternative, una ossatura ideale che gli permette di resistere alle lusinghe del tiranno e di esprimersi con la massima libertà contro tutte le forme della meschinità e della viltà.
Le continue mutazioni, i contrasti violenti del momento storico in cui egli vive, gli chiarificano e gli allargano la visione delle sorti umane che, in forza della sua concezione enciclopedista, egli aveva individuato come fluire incessante ed immane.
Sui campi di battaglia egli poté direttamente avvertire quanto sia fragile il filo che sostiene la nostra vita ed ebbe la sensazione che la nostra esistenza, nello spaventoso turbine degli avvenimenti, è cosa di nessun valore; ma, nello stesso tempo, poté constatare che lo spirito è in grado, qualora sia ben potenziato, di domare le circostanze.
Il Foscolo realizzò quel tipo di letterato che aveva sognato l’Alfieri, cioè quel tipo di uomo che sdegna gli ambienti chiusi ed inerti in cui languisce la cultura erudita, per combinare insieme pensiero ed azione, vagheggiamento ideale di bellezza e lotta eroica a vantaggio di una società umana e razionale, più libera e più civile.
Questo poeta-soldato trovò nell’azione un impegno spirituale che gli fece dimenticare le tristezze e le miserie della vita e gli diede le possibilità di superare la noia di una esistenza pessimisticamente concepita.
L’azione, infatti, non solo costituiva per lui un mezzo per realizzare i suoi ideali politici, ma assorbiva talmente il suo spirito, da distrarlo dalle meditazioni malinconiche a cui fatalmente la sua concezione filosofica lo conduceva. Amore ed azione, arte e guerra, meditazione e tensione polemica, costituiscono i binomi della vita intima ed esteriore del Foscolo.
Dire che il Foscolo fu indotto alla azione solo dal proposito di attuare i suoi ideali politici e dal desiderio di evadere dai suoi tristi pensieri sulla vita, è giusto, ma non è tutto. Egli stesso ci dice che il furore della gloria, cioè il desiderio della fama, lo ritrasse dal pensiero del suicidio e lo indusse ad affrontare pericoli e ad assumere atteggiamenti di opposizione contro persone politicamente temibili.
Nel pericolo e nella polemica, egli aveva la sensazione di vivere una esistenza ideale, sia perché impegnava le sue energie in attività nobili, sia perché poteva rendersi conto di che cosa egli fosse capace.
L’ansia di affermare la sua personalità e sul mondo suo interiore impulsivo e sregolato e sulle cattiverie e furfanterie altrui, è l’espressione di un’anima che, come quella dell’Alfieri, tende a signoreggiare con magnanimità uomini e cose. Ufficiale dell’esercito napoleonico, egli conservò uno stile tra rivoluzionario e signorile, tra militaresco ed estetizzante: vero tipo di quella ufficialità napoleonica che si dichiarava serva della democrazia e nello stesso tempo ambiva le amicizie ed i ricevimenti delle contesse e delle principesse.
Ad ogni modo questa specie di contrasto nel Foscolo, assume un tono di simpatica galanteria di militarismo lucido e per così dire classico. Così ancora una volta possiamo cogliere in questo personaggio il tentativo di idealizzare una vita, che egli stesso sinceramente deplorava: “Dal dì ch’empia licenza e Marte – vestivan me del lor sanguineo manto – cieca è la mente e guasto il core, ed arte – l’umana strage, arte è in me fatta, e vanto”.(dal sonetto “Di sé stesso”).
La vita raminga a cui egli diceva di essere stato condannato dal destino fu in parte voluta da lui stesso. E’ vero che la sua tempra adamantina, la sua fedeltà all’idea, lo costrinse dapprima ad esulare dal territorio veneto e prendere parte alle prime campagne napoleoniche, e più tardi, lo indussero a preferire l’esilio piuttosto che giurare un impegno di servizio all’Austria: ma è anche certo che il Foscolo provava una specie di gusto nel ramingare.
Si può dire che la sventura costituiva per lui u n motivo di vanto, perché in essa si vedeva come uno dei tanti “Illustri sventurati”. Ricordati dalla storia; e sentiva più vivo il bisogno “delle vergini Muse e dell’amore”, cioè dell’illusione.
Il Foscolo anticipa quel tipo di romantico che si compiace di penare, perché nella pena trova un motivo per desiderare, per idealizzare, per lottare e quindi per dare a sé stesso la sensazione di vivere.
Ispirazione del Foscolo.
1)- Ispirazione drammatica. L’ispirazione dei grandi poeti è strettamente connessa con la loro concezione della vita: è evidente, perciò, che, ad una concezione drammatica, corrisponda una ispirazione poetica drammatica.
E’ noto che i poeti sommi sono stati tutti pensatori profondi, anime ricche di motivi rapportabili tutti ad un nucleo centrale, artisti, capaci di esprimere i significati ultimi della realtà in quadri sensibili ed evidenti in cui si riflettono tutte le risorse del loro spirito.
Il Foscolo, come si è detto, distinse la realtà in oggettiva e soggettiva, in razionale ed affettiva o illusoria: tra i due aspetti c’è netta opposizione: di qui l’essenza drammatica della ispirazione foscoliana. Ad una affermazione desolata della ragione reagisce immediatamente il cuore; ad una visione tetra offerta dall’esperienza si contrappone una visione luminosa creata dall’illusione.
Nelle sue composizioni il Foscolo non insiste mai con esclusività né su motivi pessimistici né su motivi ottimistici: come nella sua meditazione di pensatore ragione e cuore si oppongono, così anche nella sua elaborazione poetica si oppongono la desolazione e l’ansia di evadere vin un mondo assoluto, il disprezzo della vita e la brama di vivere con pienezza.
2)- Ispirazione armonica. L’armonia si ha tra motivi diversi ed anche tra motivi fra loro opposti: per raggiungere la proporzione e l’equilibrio anche nel più vasto complesso d’ispirazione, baste che sulla dispersione delle diversità si affermi la capacità unificatrice di una personalità saldamente organica.
Ragione e cuore, realtà ed illusione, sono nel Foscolo due termini opposti, ma strettamente connessi fra di loro, infatti è la ragione che provoca la reazione del cuore, è la realtà che provoca l’evasione nel mondo del sogno. Il poeta, perciò, tiene presenti i due termini opposti e non li abbandona mai esclusivamente e separatamente all’interpretazione dell’uno e dell’altro: tempera la durezza e gli orrori della realtà oggettiva con la preziosità della realtà illusoria: tempera gli ottimismi e le assolutezze del mondo creato dal cuore con le crude visioni colte dall’esperienza.
In forza di questa armonizzazione degli opposti, il Foscolo riesce a fondere insieme reale e ideale, riesce a sentire la vita nei suoi aspetti più svariati e, sebbene il suo spirito sia impegnato a disseminare spunti di eternità e di assoluto nel campo del tempo e del finito, e quindi tenda a far prevalere le forme della vita del cuore su quelle della ragione, tuttavia non si verifica mai il distacco tra i due opposti e quindi non prevalgono mai né gli urli del disperato né le allucinazioni retoriche dell’entusiasta incosciente.
Anche nello “Jacopo Ortis”, ove l’interpretazione pessimistica della vita costituisce la sostanza dell’ispirazione, appaiono qua e là tentativi di evasioni ideali, tanto più drammatici quanto più triste è la realtà da cui il protagonista tenta di uscire.
Da questo perfetto connubio tra realtà ed illusione, deriva un meraviglioso effetto poetico: un tono appassionato ed ideale, un soffrire ed un godere, un intendere le miserie della vita ed una grande ansia di consolarla. Quando il poeta si abbandona agli incanti della sua fantasia idealizzatrice, avverte la miseria della realtà in cui vive; quando posa il suo sguardo sulla tristezza della realtà trova una infinità di risorse per redimerla e renderla accettabile.
Il Foscolo utilizza il motivo della miseria per fare apparire più preziosa la ricostruzione ideale; utilizza il motivo della bellezza assoluta per dare alla realtà oggettiva un aspetto più accettabile.
3)- Ispirazione eroica. Eroica perché, mentre gli sarebbe facile restare nel mondo della realtà oggettiva, ove, col pretesto della nullità della vita, potrebbe adagiarsi in un epicureismo inerte, egli tenta con decisione di evadere nel mondo dell’ideale, con l’intenzione non solo di godere di una pura contemplazione di bellezza, di forma, di affetti, ma soprattutto col proposito di impegnare fino a fondo le sue energie nel servizio delle grandi idealità.
4)- Ispirazione appassionata. Infatti il dramma interiore del Foscolo non è generato da un contrasto tra passioni opposte dell’intelletto, cioè da un dubbio, ma da una contraddizione permanente tra intelletto e cuore: essendo il cuore l’insoddisfatto, essendo proprio esso a piangere delle scoperte della ragione e a tentare l’evasione in un mondo superiore, è evidente che l’ispirazione confluendo dall’intelletto nel cuore, debba riflettere i toni, le iniziative tempestose di un mondo affettivo in agitazione.
5)- Ispirazione estetica. Il mezzo con cui rende bella l’illusione, cioè la rende tale da dargli forme assolute, quasi divine, è l’arte. Così, vicino alle visioni desolate, belle anche esse pur nei loro colori funebri e nella loro struttura disorganica si distendono immense visioni di bellezza fatta di armonia di luci, di colori, di profumi, di ritmi; cioè costituita da tutti quei fattori che naturalmente attraggono e beatificano lo spirito umano.
Il carme dei “Sepolcri” è l’opera in cui gli aspetti della ispirazione foscoliana maggiormente si rivelano e si armonizzano. Il Foscolo ha scelto il motivo più nero di una concezione desolata della vita; cioè il motivo della morte conosciuta come annientamento. Proprio alla vista di questo motivo, che lo inorridisce e lo angoscia, il cuore si propone di esaltare la vita presente e di perpetuarla dopo il superamento del fosco traguardo.
Così il carme dei “Sepolcri” è l’esaltazione della vita nelle sue forme più ideali, celebrata in ambiente cimiteriale: è come un oratore, chiamato a svolgere un motivo funebre in un cimitero, volgesse tutte le sue energie ad esaltare la vita, per soffocare l’arida realtà della morte.
Forma della poesia foscoliana.
La forma nei grandi poeti è strettamente connessa con l’ispirazione: del resto essa non è che il modo con cui viene impostata e sviluppata la vita intima dei soggetti che il poeta interpreta.
All’ispirazione foscoliana desolatamente realistica e appassionatamente idealizzatrice corrisponde una forma che, rispettando l’oggettività del reale, colto nella sua miseria, tende a correggere, ad elevare e a sublimare le visioni terrene.
E’ per questo motivo che gli sviluppi poetici del Foscolo procedono per accenni desolati e per aperture luminose: qua e là spunta il motivo angoscioso, ma nel complesso trionfa la volontà di creare un mondo di bellezza, di affetti, di eleganze i cui si consoli e si tranquillizzi il cuore angosciato dai ragionamenti dell’intelletto e dalle prove dell’esperienza. La poesia del Foscolo, dunque, procede per ombre e luci, con il deciso sopravvento della luce sull’ombra, allo stesso modo che nell’ispirazione il mondo del cuore o dell’illusione si afferma su quello dell’esperienza e della ragione.
Il dramma insito nell’ispirazione è di per sé stesso incline a manifestarsi in forme impulsive e teatrali, viene frenato da una disciplina artistica che impone alla ragione di non compiacersi spregiudicatamente di visioni orride e comanda al cuore di non urlare le sue angosce. Il Romanticismo, allora incipiente, poteva indurre il Foscolo ad accogliere un indirizzo formale esagitato, impulsivo ed interessante per la sua passionalità. Il Foscolo alla tentazione di adottare una forma tragica seppe resistere in forza della sua educazione classica.
Il Classicismo è armonia, semplicità, nitidezza; è controllo ed elaborazione pacata del pensiero e del sentimento: perciò, ogni composizione del Foscolo pur essendo pervasa da un tono disperato, tuttavia procede con una pacatezza e con una compiacenza estetica così controllate che sembrano prodotte da un artista olimpico. L’unica opera in cui il Foscolo indulge all’espressione drammatica, quasi ad ostentazione di immediatezza e di serenità, è lo “Jacopo Ortis”; ma in questo romanzo epistolare i motivi, sebbene ricchi e suggestivi, perdono la loro forza a causa di una enfasi che vorrebbe essere ed è il più delle volte sentita, ma disturba e confonde la trama generale e qualche volta si riduce a retorica di mediocre valore. In tutte le altre opere, dai Sonetti alle Odi, ai Sepolcri, alle Grazie, il Classicismo si afferma con i suoi sviluppi logici, concreti e fioriti di svariati spunti decorativi veramente eccellenti.
Questo stile controllato e lucido costituisce nel Foscolo poeta una specie di seconda natura, per cui nel suo lavoro non si notano forzature o incertezze di alcun genere.
Il Foscolo da bravo neoclassico, concepì l’arte come creazione della bellezza e concepì la bellezza come armonia e plasticità. E’ per questo motivo che anche le visioni orride, nel dipingere le quali è necessario l’uso di colori foschi, sono elaborate con una precisione e nitidezza di motivi essenziali, che sono redente dall’arte e costituiscono anche esse esemplari perfetti, ma condotti sempre con la stessa arte hanno gli stessi pregi dei quadri più luminosi e più affascinanti.
Nello Jacopo Ortis afferma che gli antichi per correggere le imperfezioni umane diffondevano su quelle le forme divine: ecco il valore del mito, dare valore assoluto alla realtà imperfetta.
Carme: “I Sepolcri”
Cause dei Sepolcri:
a)- causa occasionale: editto di S Cloud. Il Foscolo vede in questo editto un tentativo del Bonaparte di soffocare l’ultima voce libera, quella dei grandi morti che spingono i vivi al culto dell’ideale.
b)- causa spirituale: solo i poeti mediocri sono spinti a comporre da una causa occasionale: i grandi poeti si valgono della occasione per esprimere una loro concezione della vita. Foscolo vede nel sepolcro, cioè nella morte, il fenomeno piùdesolato dell’esistenza umana: “anche la speme ultima dea fugge i sepolcri”; ma il cuore, che per suggestione ode la voce dei morti (superando il concetto razionale dell’annientamento totale, vede nel sepolcro una fonte di vita sublime, cioè di vita ideale.
L’esempio dei poeti cimiteriali inglesi, l’impostazione pessimistica della sua filosofia, dovevano indurre il Foscolo il tema dei Sepolcri con una serie di concetti, di sentimenti, di visioni disperate e desolate; perciò l’eroico sforzo del suo cuore di vedere l’assoluto dove è il mediocre, l’eterno dove è il caduco, fa sì che il Foscolo interpreti il tema della morte con un complesso di ispirazione che contribuisce meravigliosamente ad esaltare la vita a ad innamorare di essa chi non sperava da lei più nulla.
In questo carme si riassume l’essenza della spiritualità e dell’arte foscoliana: per un disperato, il sepolcro rappresenta il punto più nero di un destino già nero di per sé stesso e potrebbe costituire un soggetto che si presta a fare esplodere le impulsività del sentimento e a suggerire i colori più foschi della descrizione.
Ci troviamo, invece, di fronte ad un carme in cui la morte è come soverchiata dal desiderio che ha l’uomo di vivere e a cui le visioni funeree sono soverchiate dallo splendore della bellezza, dalla dolcezza degli affetti, dall’immortalità dell’eroismo.
Così il carme della morte diventa canto di esaltazione della vita: chi promuove questo miracolo è l’illusione, chi lo realizza artisticamente è la tecnica classica.
Riassunto del carme.
Il carme si può dividere in quattro parti:
a)- Introduzione
b)- Polemica contro la legge di Saint-Cloud
c)- Funzione civile del sepolcro
d)- Funzione civile della poesia.
1)- Introduzione. Sepolcro e lapide non compensano il morto della irreparabile perdita della vita, cioè dell’essere (in quanto l’esistenza dell’uomo è limitata all’esistenza terrena). Sepolcro e lapide hanno funzione commemorativa, costituiscono una specie di baluardo che gli uomini oppongono all’avanzata dell’oblio: ma sepolcro e lapide saranno travolti dalla forza evolutiva dell’universo, che tutto seppellisce in un mare di rovine. Introduzione, quindi, desolata.
2)- Polemica contro la legge di Saint-Cloud. La legge di Saint-Cloud (1806) isola i cimiteri in luoghi remoti ed abbandonati; proibisce la tomba personale, proibisce la lapide commemorativa. Il Foscolo vede nella legge un ultimo assalto della tirannide francese alla libertà dei popoli.: la voce dei grandi morti, potente ispiratrice di grandiose cose e quindi alimentatrice dello spirito dei vivi viene soffocata con la demolizione del sepolcro, perché il colloquio tra i morti ed i vivi è possibile solo sul sepolcro.
La parte polemica si suddivide in tre affermazioni:
a)- la legge si Saint-Cloud è contraria alle esigenze del cuore umano, ossia è disumana.
Benché la ragione tenti di convincersi che con la morte noi siamo annientati, tuttavia il cuore non può separarsi dai cari con i quali ha intrecciato dolci rapporti di affetto: il cuore segue il morto, vuol parlare con lui, vuol consolarlo. Il sepolcro ha la pietosa funzione di facilitare questo colloquio, questa illusione, questa riaffermazione della immortalità negata dalla ragione. Dunque la legge di Saint-Cloud è contro l’esigenza intima, contro una aspirazione umanissima e degna del rispetto di tutti i cuori gentili.
Solo le persone selvagge e che non lasciano eredità di affetti si disinteressano del loro sepolcro; la legge di Saint-Cloud suppone che tutti gli uomini siano selvaggi.
b)- La legge di Saint-Cloud è contraria alla giustizia. Infatti, imponendo la fossa comune, favorisce la criminosa unione delle salme dei grandi e dei cadaveri dei malviventi. Esempio l’ingiustizia compiuta contro i resti mortali del grande Parini.
c)- La legge di Saint-Cloud è contraria alla civiltà. Infatti il passaggio dallo stato di primitività allo stato di civiltà è storicamente caratterizzato presso tutti i popoli oltre che dall’affermarsi del culto religioso, dall’istituzione del matrimonio e del tribunale, anche dal culto dei morti: infatti il ricordo ed il rispetto dei trapassati sono espressioni di sensibilità evolute.
Terminata la parte polemica, prima di passare alla illustrazione della funzione civile del sepolcro, il Foscolo vuol chiarificare le sue intenzioni: opponendosi alla legge di Saint-Cloud , egli non intende affatto sostenere il vecchio sistema delle sepolture nelle chiese, deplorevole anche essi sia per motivi igienici, sia per motivi psicologici. Tra i due estremi, cioè tra i cimiteri campestri con la fossa comune imposti dalla legge di Saint-Cloud e le sepolture nelle chiese, c’è il cimitero giardino, bellamente sistemato nei suburbi in uso presso i Romani e i Greci e, al giorno d’oggi, presso gli Inglesi. In questi cimiteri giardino meravigliosi, e per la salubrità e per la bellezza della decorazione floreale, l’orrore della morte non si sente affatto, anzi si ha l’impressione di essere nei “beati elisi”. In questo ambiente il colloquio con la persona cara defunta, la meditazione sulla tomba di un eroe, la rievocazione delle memorie più soavi, sono facilitati dall’atmosfera gentile ed affettuosa.
I cimiteri giardino che promuovono l’intima intesa fra i vivi e i defunti, impegnando i primi a coltivare la virtù e gli esempi dei secondi, non si trovano presso le nazioni che siano spiritualmente morte. Le plebi stordite dal terrore o dal clamore di superbi tiranni, ridotte a vivere senza speranza e senza aspirazioni, vedono nel sepolcro solo uno spauracchio dell’oltretomba; le classi abbienti, sepolte nell’ozio e nei vizi e soddisfatte dei loro titoli, poco si preoccupano della loro sepoltura e tanto meno curano quelle degli uomini illustri.
3)- Esaltazione della funzione civile del sepolcro. L’opposizione fra il culto dei defunti vive in mezzo ai popoli civili e la miseria, in vita e in morte, che caratterizza i popoli sepolti nell’ignoranza e nel vizio, offre al poeta lo spunto per passare a discorrere della sublime funzione commemorativa ed educativa che esercita il sepolcro di un uomo illustre in mezzo a persone civili.
Tutto il concetto che ora il poeta svolge si può riassumere nei famosi versi: “A egregie cose il forte animo accendono l’urne dei forti…. e bella e santa fanno la terra che li ricetta”. Firenze, ad esempio, che ad pera dei Francesi ha perduto tutto, anche l’Italia, cioè la madre sua naturale, nella sua incalcolabile miseria, possiede ancora preziosi tesori in Santa Croce: le tombe del Machiavelli, di Michelangelo, di Galilei.
Dalle tombe dei grandi, a chi ben l’ascolti, viene una voce che esorta al culto degli ideali, a cui essi in vita dedicarono tutte le loro forze: è come la voce di un nume, sacra e persuasiva. In Santa Croce ascoltò questa voce Vittorio Alfieri, il cui sepolcro è diventato, a sua volta, un altro altare uguale a quello dei grandi che egli venerava.
Anche i Greci avevano sepolcri-altari: il più famoso era quello dei prodi morti in Maratona: tale suggestione provocava la vista di quel sepolcro, specie durante la notte, che chi lo scorgeva passandogli dinanzi, aveva l’impressione di vedere riaccendersi nell’ampia pianura la zuffa fra i Greci e i Persiani: da quell’altare parlava un nume che accendeva la “virtù greca e l’ira” (verso 201 dei Sepolcri).
Sempre a proposito della suggestività rievocativa del sepolcro, il poeta cita un altro esempio: Ippolito Pindemonte in un suo viaggio in Grecia si è inoltrato fino alle coste della Troade, ove un tempo era il sepolcro di Aiace (suicidatosi per non sottostale alle ingiustizia inflittagli da Agamennone e da Ulisse): nonostante che quel sepolcro glorioso sia stato distrutto dal tempo, tuttavia al solo pensiero che esso una volta sorgeva presso quelle sponde, Ippolito ha rievocato certamente, nell’intimo del suo spirito la tragedia dell’eroe ed il profondo significato di essa: “a’ generosi – giusta di glorie dispensiera è morte” (vv. 220-221 dei Sepolcri”).
La funzione civile del sepolcro, dunque, si riassume nel compito che esso esercita di eternare la memoria dei personaggi gloriosi e di rendere più efficace la voce di essi attraverso l’amplificazione di una suggestione naturale e provvidenziale: funzione commemorativa ed educativa, dunque, quella dei sepolcri in messo ai popoli civili.
4)- Funzione civile della poesia. L’accenno al sepolcro di Aiace, che un tempo esisteva ed oggi non è più, richiama alla mente del Foscolo il pensiero, già espresso nella introduzione, che l’irresistibile forza dell’evoluzione distrugge e trasforma di continuo tutte le cose e quindi abbatte ed annienta anche i sepolcri. Ma, al tempo che avvolge nell’oblio tutte le cose distrutte dall’evoluzione, si oppone la poesia: i grandi allorché cessano di vivere nei monumenti commemorativi, riprendono vita nelle rievocazioni immortali dei poeti. Le Muse sono capaci di perpetuare la vita là dove l’evoluzione ed il tempo hanno fatto il deserto: la funzione eternatrice del sepolcro passa alla poesia. Omero interrogò le urne degli eroi troiani custodite nel glorioso sepolcro di Elettra, interpretò le voci di un amor di patria glorioso me sfortunato e garantì alla loro forza emotiva l’eternità presso le generazioni future fino a che “…il sole risplenderà sulle .sciagure umane “ (Sepolcri” vv. 294-295)
Conclusione
Dalla esposizione del carme risulta dunque, confermato quel che si è detto della ispirazione del Foscolo, cioè l’evidenza di un tentativo costante di superare una realtà triste con una illusione consolante. Nel carme si susseguono affermazioni desolate della ragione e reazioni coraggiose ed appassionate del cuore: ombre e luci. La ragione afferma che l’uomo è annientato dalla morte, il cuore reagisce a queste affermazioni instaurando una “corrispondenza d’amorosi sensi” col morto (“Sepolcri” v. 30); la ragione ci fa mortali, il cuore ci vuole immortali.
La ragione espressa nella cruda legge di Saint-Cloud può accettare il cimitero desolato e la fossa comune col pretesto che i cadaveri non sono che ammassi inutili di materia in disfacimento; il cuore, che sente ancora palpitare nel sepolcro il morto, diffonde nell’orrore del cimitero tutte le risorse di bellezza che offre la natura: ancora l’orrore della morte è sopraffatto dalla luce di una atmosfera elisiaca.
La morte ha spento la voce del defunto, ma il cuore, per suggestione, sente quella voce più viva che se la persona esistesse ancora: il silenzio della tomba è vinto dalla voce dell’ideale cui il morto sacrificò l’esistenza e il sepolcro fa oggi da altare.
Volendo individuare nello sviluppo de’ “I Sepolcri” una specie si successione logica che richiami le linee seguite dal Petrarca ne’ “I Trionfi”, potremmo parlare di tre vittorie: il trionfo del cuore e del sepolcro sulla morte annientatrice, il trionfo del tempo sul sepolcro, il trionfo della poesia sul tempo.
Il pensiero estetico e critico del Foscolo
Il Foscolo concepisce l’arte come creazione del bello, cioè come composizione di svariati motivi che si richiamano tra loro in unità armonica.
L’arte ha la funzione di infondere nello spirito dei lettori l’idea, di accendere in essi magnanime passioni, di indurli ad operare con stile eroico.
Per rigenerare uno spirito e formarlo è necessario giungere a persuaderlo, perché la convinzione è fonte di iniziative spontanee: per persuadere l’intelletto è necessario giungere ad esso attraverso la fantasia e il cuore.
La verità concretizzata, incarnata nelle forme sensibili di un quadro idealizzato, non solo è accessibile anche alle menti poco fornite di capacità raziocinativa, ma si presenta con aspetti piacevoli e attraenti.
Siamo, dunque, di fronte al concetto che della poesia ebbero i classici, i quali videro nei “vates” gli intermediari fra il mondo ideale e quello sensibile, capaci di comunicare ai mortali le sublimi verità apprese dagli dei. E le forme del mito che gli antichi poeti classici adottarono per dare forma sensibile alla verità, anche al Foscolo appare la più adatta per giungere, attraverso la fantasia e il cuore, all’intelligenza dei lettori.
Oltre che dall’esempio dei classici il Foscolo è indotto a preferire questo metodo anche dal Vico, di cui egli assimilò il pensiero circa la poesia, contenuto nei “Principi di scienza nova”.
Per vedere in che senso e fino a che punto il Vico abbia influito sul pensiero estetico e sul metodo critico del Foscolo, è necessario esporre brevemente il pensiero dell’illustre filosofo circa la poesia.
Il Vico scorge nella successione delle generazioni umane un procedimento costante, assai simile a quello che notiamo nella vita dell’individuo: come questi dalla fase della pura sensibilità in cui vive nell’infanzia, passa a quella della fantasticità, così le generazioni umane attraverso le fasi di una civiltà tutta sensi, di una civiltà tutta fantasia, di una civiltà tutta ragione; e, compiuto questo percorso trifase, lo ricominciano in un piano superiore al primo, per ripeterlo incessantemente in direzione ascensionale.
Nella prima età, cioè in quella “dei sensi”, le generazioni, come gli infanti, sono impressionati dal mondo che le circonda, ma non riescono ad elaborare in nessun modo l’impressione ricevuta: delle loro attività non rimane alcuna traccia nella storia.
Nella seconda età, le generazioni incominciano ad elaborare le impressioni sensitive attraverso l’attività “della fantasia”. Gli uomini di questa età, come i fanciulli, antropomorfizzano tutto, cioè trasferiscono tutte le caratteristiche del mondo umano al mondo della natura: attribuiscono, ad esempio, la vita agli esseri inanimati, attribuiscono intelligenza e passioni agli animali, attribuiscono le cause dei fenomeni naturali ad esseri umani più o meno straordinari e stravaganti. Sorge in questa età il linguaggio, il quale evidentemente riflette la tendenza antropomorfizzatrice della psicologia fantastica.
Nella terza età gli uomini, superate le strettoie della sensibilità e della fantasticità, attraverso la “ragione” prendono contatto diretto con l’essenza e le proprietà specifiche delle cose, individuano le cause reali dei fenomeni, catalogano i vari settori del reale secondo criteri di affinità, sintetizzano i procedimenti della natura in leggi: insomma danno scienza ed adottano un linguaggio puramente scientifico.
Una volta terminato il ciclo o corso a tre fasi, le generazioni umane riprendono da capo il loro cammino, cioè ripetono le tre età, ma in un piano progressivamente superiore, cosicché, ad esempio, la seconda età dei sensi si rivela più evoluta della prima; e così via per le altre età e per i singoli numeri della successione.
Fermiamo la nostra attenzione particolarmente sulla seconda età: Vico la chiama “età poetica”. Infatti, secondo lui, la poesia consiste nell’elaborare, cioè nel trasfigurare la realtà con la fantasia; in altri termini consiste nel pensare e nel parlare per immagini.
Il mito che fiorisce nell’età della poesia rappresenta una elaborazione fantastica di questo o quel fenomeno naturale o di fatti importanti della storia; perciò del mito bisogna che tengano conto anche gli storici, in quanto esso non è che un modo di esporre le cose, caratteristico di gente ancora ferma alla elaborazione fantastica.
Non è questo o quell’individuo soltanto, ma è tutto il complesso degli uomini viventi in questa fase che pensa e parla per immagini: è tutto il popolo che fa la poesia; e se qualche genio si distinguer fra la massa, egli non è che il sintetizzatore di tutta una elaborazione compiuta in tono minore e frammentariamente dalla collettività.
Omero, ad esempio, se è esistito come persona, fu un poeta geniale che raccolse, elaborò e perfezionò l’immensa produzione degli “aedi” relativa ai vari personaggi della guerra greco-troiana; se invece non è esistito come persona il suo nome fu creato come simbolo dell’età poetica della Grecia: nell’un caso e nell’altro Omero presuppone una attività poetica generale in mezzo ad un popolo dalla psicologia nettamente poetica.
Dante, secondo il Vico, è l’esponente dell’età della fantasia della storia dell’Italia post-romana, in quanto l’età medievale che egli chiude fu età barbare ed eroica, e quindi poetica, come quella a cui aveva posto il sigillo Omero nella storia della Grecia antica.
Tre concetti molto interessanti risultano da queste dichiarazioni del Vico:
a)- la fantasia è la facoltà elaboratrice della poesia; e il mito è la forma più genuina della espressione poetica, in quanto espone in forma fantastica i fenomeni della natura e della storia.
b)- le menti primitive sono più adatte alla poesia che non le menti adulte; quindi la grande poesia è quella elaborata dal popolo, il quale, restando normalmente nello stato di primitività, pensa con la fantasia e si esprime con linguaggio fantastico.
c)- i grandi poeti sono gli esponenti o le espressioni vive dell’età in cui vivono; e quindi non possono essere compresi pienamente se non vengono studiati e interpretati in rapporto al mondo in cui lavorarono.
Il Foscolo utilizzò, per la sua concezione estetica, il concetto vichiano che la poesia è una attività conoscitiva, la quale invece di procedere lungo la via della razionalità pura, segue un indirizzo più modesto, ma più facile ed efficace, cioè un indirizzo fantastico.
Il poeta , per quanto colto, per quanto avanzato sulla via della razionalità, si adatta a ritornare indietro per fermarsi nello stadio della fantasia e imparare a pensare ed esprimersi come se egli avesse raggiunto soltanto quel grado di elaborazione interiore del reale.
Da qui sgorgano due principi:
a)- l’attività poetica è una attività conoscitiva che si svolge per via fantastica; è attività conoscitiva perché con la fantasia viene percepito ed elaborato il reale; e percepire ed elaborare significa conoscere.
b)- la poesia si propone di insegnare il vero, il bello e l’utile ai lettori penetrando nel loro intelletto attraverso la fantasia e il cuore: cioè la poesia è conoscenza in sé stessa e mezzo meraviglioso per promuovere conoscenze.
Ma l’utilizzazione più feconda dei principi vichiani fu dal Foscolo felicemente tentata nel campo della critica: qui egli si vale della affermazione che il poeta è l’interprete o la coscienza e la voce dell’età in cui vive.
Al tempo del Foscolo dominava ancora la critica letteraria umanistica, la quale definiva ben riuscita o mal riuscita un’opera a seconda che questa presentasse o no uno stile elevato e dotto, e a seconda che fosse o no strutturata in armonia con le regole della retorica. La critica umanistica è detta anche “critica formale”, in quanto assume come unico criterio di giudizio la perfezione della forma e del linguaggio, cioè, in fondo, della tecnica. Se il poeta è riuscito ad armonizzare i motivi, se ha proceduto con logicità di passaggi, se è riuscito a dare una salda organicità allo sviluppo, se ha rispettato l’unità di tono, se ha saputo trovare immagini appropriate per abbellire il suo linguaggio, e, soprattutto, se ha saputo abilmente imitare i gradi modelli classici, sia nella struttura dell’opera che nella tecnica della espressione linguistica, il giudizio favorevole della critica formale è assicurato.
Come si vede una critica di questo genere dimentica che l’opera d’arte, oltre ad essere un esemplare di tecnica, è anche, e soprattutto, un documento di spiritualità; oltre ad essere un modello di stile, è anche fonte di ideali e di magnanimità.
La letteratura ha una funzione altamente civile, ed è proprio in base alla sua capacità educativa, che deve essere definito il valore di un’opera d’arte; non si esclude certo che la perfezione della espressione non costituisca anche essa un criterio essenziale di valutazione.
Il Foscolo vuol dire soltanto che il criterio non deve fermare la sua attenzione solo sui pregi formali di un’opera, ma deve anche mettere in luce i tesori di pensiero e di affetti che essa contiene.
Per individuare esaurientemente il contenuto spirituale dell’opera, è necessario inquadrarla nel mondo interiore del poeta; e per capire il mondo interiore del poeta è necessario inquadrarlo nella spiritualità dell’epoca in cui è vissuto.
Si potrebbe instaurare questa successione: l’opera d’arte è figlia dell’animo del poeta, questi è figlio dell’epoca in cui vive. Stringere in così intimi rapporti il poeta con il suo tempo, è certamente il metodo del Vico; questi, infatti, aveva affermato che per conoscere lo spirito umano è necessario conoscere l’attività di esso: “verum ipsum factum” cioè la vera psiche si conosce attraverso le sue espressioni pratiche, tra le quali la più significativa e la più fedele è la poesia.
E’ merito del Foscolo l’avere avviato, in una epoca in cui la storia italiana aveva bisogno dell’appoggio della letteratura, un metodo delle letture delle opere che valesse a mettere in luce non solo la genialità tecnica dei grandi artisti ma soprattutto la profondità del loro pensiero e la magnanimità delle loro passioni.
Si riflette in questo nuovo indirizzo di lettura il proposito del Parini, dell’Alfieri, del Foscolo stesso e del Romanticismo allora sorgente, di smetterla con la erudizione e con l’accademismo, sia nel comporre che nel criticare, per guardare di più alla sostanza spirituale e alla efficacia pratica della poesia.
La critica del Foscolo è chiamata “critica storica” appunto perché mette la poesia in stretto rapporto con la storia e si propone di penetrare nel mondo spirituale dell’opera attraverso lo studio della biografia dell’autore e della mentalità dell’epoca in cui questi visse.
Come si vede tale critica mira a mettere in luce le risorse ideali del contenuto, ma non definisce il criterio in base al quale si possa capire se un determinato contenuto sia o no poetico, cioè non definisce il criterio della bellezza. Spetterà alla critica estetica, a cui darà l’avviamento il De Sanctis, mettere in luce tale criterio decisivo per procedere con esattezza nei giudizi letterari.
In verità il fatto che un contenuto sia sostanzioso, cioè ricco di pensiero, di affetti, di utilità pratica, non costituisce di per sé il bello, che distingue l’opera d’arte da un qualsiasi trattato. D’altra parte, neanche la forma, intesa in senso umanistico, cioè come abilità nel disporre le parti della composizione, nel collegarle, nell’intonarla a seconda della loro importanza, o nel delineare e colorire i quadri descrittivi, costituisce di per sé il criterio decisivo nella valutazione letteraria.
Bisognerà, dunque, adottare un criterio che tenga conto e del contenuto, della forma e del linguaggio, considerati come tre fattori distinti sì, ma non separati, come sono distinti ma non separati il pensiero, il modo con cui esso si sviluppa, il termine linguistico che lo esprime.
L’ORTIS
L’opera foscoliniana “Le ultime lettere di Jacopo Ortis” è un romanzo epistolare, ossia un romanzo in cui la narrazione viene affidata al protagonista (Jacopo Ortis) che espone le vicende dei suoi ultimi due anni di vita, in una serie di lettere inviate al suo amico Lorenzo Alderani (G. B. Niccolini). Tra un gruppo di lettere e l’altro è inserita una notizia storica attribuita a Lorenzo stesso che, secondo l’invenzione del Foscolo, avrebbe raccolto quelle lettere. Usa la forma di del romanzo epistolare, perché la lettera si presta più facilmente all’espressione immediata e calda dei sentimenti.
Il primo a scrivere un romanzo epistolare era stato in Inghilterra il Richardson in Pamela; in Francia Rousseau in Nouvelle Eloise; in Germania il Goethe nei Dolori del giovane Werter. C’è una stretta somiglianza tra l’Ortis ed il Werter e il Foscolo stesso lo riconobbe bene, ma egli faceva notare che mentre Werter ha una sola passione, quella amorosa, il suo Jacopo ne ha due: quella amorosa e quella patriottica. L’Ortis potrebbe essere definito il romanzo della prima generazione romantica, in quanto si ritrovano in esso il passionale culto dell’ideale, il senso pessimistico della vita, una specie di compiacimento nel considerarsi perseguitati dalla sfortuna e dalla cattiveria umana, l’ansia di evasione da un ambiente considerato come non adatto alla propria esistenza, la ricerca dell’assoluto: caratteristiche queste tipiche del primo romanticismo.
Il Foscolo ha saputo scegliere i due motivi più adatti a commuovere la gioventù: l’infelicità nell’amore, e l’infelicità del patriottismo. E veramente la gioventù, nell’epoca risorgimentale, considerò quest’opera come il romanzo proprio: per la sincerità, l’elevatezza e l’onestà dell’amore di Jacopo per Teresa; per la sdegnosa fierezza di Jacopo contro ogni forma di servilismo verso i tiranni; soprattutto per quel suo generoso slancio verso l’azione, pur mortificato e spento dalle circostanze avverse.
Il Foscolo, poi, è riuscito ad evitare un difetto sentimentalistico in cui cadranno troppo spesso i romantici tardivi, ogni volta che tenteranno lo svolgimento del motivo patriottico insieme con quello amoroso. Quando si trattano questi due motivi congiuntamente, c’è sempre il pericolo di rendere patetico il patriottismo con l’amore, o di rendere eroico l’amore con il patriottismo. Il Foscolo non ha mescolato i due sentimenti, ma li ha lasciati ciascuno nella sua forma naturale, e li ha unificati solo con il motivo dell’infelicità, vibrante in ambedue.
Patriottismo e amore non decadono nel sentimentalismo, ma conservano l’energia sana ed eroica degli ideali a cui si attacca un’anima generosa e disperata. Jacopo ama in Teresa, l’anima gentile, intelligente, pietosa, dotata dello squisito pregio del gusto artistico per cui suona meravigliosamente l’arpa. Insieme all’anima Jacopo ama anche il corpo, che non è una sintesi equivoca di attrattive voluttuose, ma è l’espressione più nitida degli ideali dell’armonia e delle grazie. Era proprio quello che andava cercando la gioventù del primo romanticismo: un amore ardente, ma cavalleresco; una bellezza che consolasse il cuore triste per le sue disperazioni ideali.
Il sentimento patriottico si manifesta come sfiducia e avversione contro i responsabili della vita dei popoli; come disprezzo contro i venduti alla tirannide e allo straniero, contro i vili e gli indolenti; come isolamento dello spirito, sdegnato per la miseria evidente in quelle zone della storia italiana passata in cui singoli individui e intere masse erano capaci di morire per la libertà; come disprezzo del tempo presente ed ansia di anticipare il futuro.
Il suicidio di Jacopo fu considerato dagli giovani lettori di quel tempo come la conclusione inevitabile della sconfitta morale inflitta dai tempi e dal destino ad un’anima generosa.
Così, del resto, aveva voluto presentarla il Foscolo stesso: “ Se il padre degli uomini mi riprenderà perché ho abbandonato la vita, risponderò: – la vita era diventata per me un peso superiore alle mie forze; e se tu mi obbligati a sopportarla, dovevo pensare che fossi crudele; se tu mi autorizzavi a deporla, dovevo pensare che tu fossi giusto; ho preferito pensarti giusto”.
Durante il Risorgimento l’ Ortis fu molto letto e si dice che abbia persino indotto alcuni giovani al suicidio. Ma non bisogna dimenticare che esso ha contribuito anche alla formazione di coscienze generose e forti. L’Ortis fu imitato, in seguito, dall’Aleardi, che, però con il suo sentimentalismo morboso, rovinò sia il tema amoroso che quello patriottico.
Le Grazie
E’ un carme mitologico in cui il Foscolo intende svolgere poeticamente questo tema: Le Grazie sono civilizzatrici dell’umanità. Le Grazie sono figlie di Venere: Aglaia la nitida, Talia la fiorente, Eufrosine la lieta. Queste simboleggiano la luminosità, la floridezza, la gioia del bello. Il carme è diviso in tre inni:
1 ) Inno a Venere. Il poeta parla della nascita delle Grazie; del loro approdo in Grecia, della civilizzazione di questa regione. In un primo tempo, le accompagna la madre Venere; poi questa ascende al cielo e, in sua sostituzione, manda Armonia in terra. Venere è la bellezza e l’Armonia la sostituisce: significa che armonia e bellezza si identificano.
2 ) Inno a Vesta. Il poeta rappresenta un rito che si svolge sul poggio di Bellosguardo, davanti all’altare delle tre Grazie scolpite dal Canova. Tre donne care al Foscolo offrono ciascuna un dono alle Grazie: la prima offre un mazzo di fiori, simbolo della grazia della musica; la seconda offre un favo di miele, simbolo della grazia della parola; la terza offre un cigno, simbolo della grazia della danza.
3 ) Inno a Pallade. Il poeta svolge il tema del velo delle Grazie, intessuto e decorato da più dee (Flora, Psiche, Tersicore, Iride) sotto la protezione di Pallade, in un’isola sperduta dell’Atlantide. Nel velo vengono rappresentate cinque scene: la giovinezza; l’amore coniugale; la pietà verso gli infelici; la generosità verso l’ospite; l’amore materno. In quest’ultima figurazione appare la madre che veglia presso la culla del suo bambino e, sentendolo vagire, teme che quei vagiti siano presagi di morte. Il poeta commenta: “Beata! Ancor non sa quanto agli infanti provvido è il sonno della morte; e quei vagiti presagi son di dolorosa vita”. Il concetto che il Foscolo intende svolgere in questo terzo inno è che le Grazie sono di per sé caste, e quindi possono essere anche ignude; ma non sono casti gli occhi degli uomini che le contemplano, per cui è necessario velarle. In altri termini il Foscolo vuol dire che l’arte deve essere sempre pudica, per non suscitare le passioni.
I concetti svolti nel carme sono caratteristici del pensiero neoclassico: l’arte è armonia; e siccome l’armonia genera armonia, chi contempla l’arte viene liberato dalle passioni ed innalzato al mondo luminoso e consolante degli ideali.
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IL RINNOVAMENTO
E’ quel periodo della storia della cultura italiana che va dalla metà del secolo XVIII alla metà del secolo XIX (presso a poco dal 1750 al 1861 anno in cui viene proclamato il regno unitario d’Italia); periodo caratterizzato dal risveglio del popolo italiano in tutti settori dell’attività umana.
Durante l’epoca del Conformismo che va dalla seconda metà del ‘500 alla metà del ‘700) la cultura italiana, salvo il settore della scienza, aveva avuto carattere accademico ed in genere era rimasta fuori della vita vissuta.
Infatti ogni iniziativa era stata monopolizzata dalla autorità e gli individui, un po’ per prudenza, un po’ per paura si erano appartati dalla vita e avevano perduto il contatto con essa.
Un formalismo più o meno superficiale e bizzarro si era affermato in ogni settore dell’esistenza, specie negli ambienti più elevati: le masse avevano vivacchiato nell’ignoranza e nella miseria, senza neanche tentare la riscossa, mancando di guide generose e sicure.
Alla metà del ‘700 si notano in Italia i primi moti di rinascita spirituale: i propositi e i programmi diventano più seri, e la vita, con tutti i suoi problemi, diventa oggetto di interesse per le persone colte; si avanzano le prime proposte di riforma economica e politica; gli scrittori assumono la funzione di guide della società e parlano con libertà e audacia.
L’epoca del Rinnovamento si conclude con l’unificazione politica dell’Italia (1861); valendoci perciò di un criterio “Risorgimentale” potremmo dividere quest’epoca in due fasi:
a)- fase del “Risorgimento spirituale” o della preparazione (dalla metà del secolo XVIII al 1815, cioè al congresso di Vienna).
b)- fase del Risorgimento politico o dell’azione e della lotta (1815-1861).
Caratteristica fondamentale di tutta l’epoca è la seguente: la progressiva affermazione dei diritti del cittadino contro l’oppressione dei regimi assolutistici; e dei diritti della nazione contro l’oppressione dei governi stranieri: ossia rivendicazione della libertà degli individui contro gli arbitri dei tiranni e rivendicazione della libertà dei popoli contro i governi stranieri.
La parola che riassume il programma dell’epoca del Rinnovamento è questa: “libertà”; e il movimento culturale-politico che in quest’epoca si afferma è detto “liberalismo”.
Dalla metà del secolo XVIII si nota nella vita dei popoli una tendenza irresistibile a forme di libertà e di democrazia sempre più perfette. Appunto alla metà del secolo XVIII si cominciò nell’Europa continentale a considerare il popolo non più come patrimonio ereditario di questa o quella dinastia, ma come complesso di uomini liberi, che hanno il diritto di decidere liberamente del loro destino.
Fase del risorgimento spirituale o della preparazione.
I movimenti culturali che contribuiscono alla rigenerazione spirituale degli italiani, nella fase della preparazione risorgimentale, sono tre:
a)- L’illuminismo
b)- il Neo-Classicismo
c)- il Romanticismo
I primi due movimenti mirano alla formazione degli intellettuali; l’ultimo mira alla formazione del popolo, cioè delle persone di media cultura.
Illuminismo.
E’ un movimento culturale che si propone di eliminare dalla vita umana le tenebre dei pregiudizi dell’ignoranza e di diffondere ovunque i lumi della razionalità.
Il movimento sorge in Inghilterra, verso la fine del ‘600 ad opera di Locke, e si diffonde durante il secolo XVIII in tutta l’Europa ad opera specialmente degli scrittori francesi quali Voltaire, Montesquieu, Diderot, D’Alambert, Rousseau; in Italia e in Germania (ove l’illuminismo è denominato Aufklarung) il movimento si afferma verso la metà del ‘700 e si prolunga fino all’800.
Metodo adottato dagli illuministi.
Gli illuministi nella loro opera di illuminazione e di riforma della vita umana procedono attraverso due fasi:
a)- la fase della demolizione dei pregiudizi e delle istituzioni irrazionali di cui, secondo essi, è piena la tradizione; la fase della critica, della polemica, cioè fase negativa, in cui vengono individuati tutti quegli aspetti della vita privata e pubblica che sono da condannarsi e da eliminarsi.
“L’uomo nasce libero e dappertutto è in ceppi” afferma Rousseau nel “Contract social”. La tradizione è venuta accumulando una enorme zavorra di irrazionalità che bisogna finalmente gettare a mare, se si vuole liberare l’uomo e metterlo in condizioni di progredire. La legge dettata dall’arbitrio dei tiranni; i popoli patrimonio delle famiglie principesche; la nascita nobile, titolo sufficiente per godere privilegi di ogni genere nella vita sociale; la libera iniziativa in campo economico soffocata da una infinità di restrizioni e di pesi tributari; la libertà di pensiero, di scienza, di stampa, di associazione, conculcata; la morale ridotta ad una precettistica che dissolve i principi dell’onesto e dell’utile; usi e costumi stolti o disumani, tenuti in vita da una tradizione gretta e fanatica: questa è la zavorra della tradizione.
L’antitradizionalismo degli illuministi e la loro avversione soprattutto al Medioevo, cioè all’epoca dei preti e dei tiranni, all’epoca nera da cui sono derivati tutti i pregiudizi e tutte le istituzioni assunte che hanno asservito l’uomo nel corso dei secoli.
Sono, invece, più benevoli nei confronti del Rinascimento, a cui si sentono più vicini per la concezione naturalistica della vita, per l’accentuato laicismo e per il criticismo razionalista.
Gli illuministi, evidentemente, dimenticano che proprio nel Medioevo si sono affermati i liberi Comuni, esemplari perfetti di democrazia e che proprio nel Rinascimento, si è cominciato a considerare il popolo come “volgo” e, con l’esaltazione della natura potenziata, sono state gettate le basi della tirannide; dimenticano che mentre nel Medioevo Dante poteva criticare aspramente Papi e Imperatori, vescovi e principi, e nessuno lo scomunicava, anzi la sia Commedia veniva commentata in chiesa, nel Rinascimento cattolici e protestanti hanno gareggiato nella intolleranza e nella persecuzione degli avversari.
Ad ogni modo gli illuministi vedono giunto il momento della liberazione dell’uomo dalla lunga e obbrobriosa servitù.
b)- Fase della ricostruzione o fase positiva.
Quale sarà la nuova guida dell’uomo ? Quale la base sicura di ogni attività ?
La natura. Non l’arbitrio di una autorità esterna, e spesso tirannica, può dirigere la coscienza, ma la natura che parla attraverso la ragione; non la legge creata dagli interessi contingenti può dirigere le attività umane, ma la voce di quell’ordine che è insito nelle cose stesse. La natura è quella ragione universale che ordina le cose verso i loro fini e indica agli uomini i modi di utilizzare la loro vita: “Seguite la natura , lasciatevi condurre dalla sua voce razionale, non vogliate sostituire l’arbitrio di pochi ai suoi enunciati così facili e così evidenti. Liberate la natura dai ceppi in cui l’ha stretta il passato e permetteteli di svolgere spontaneamente il suo moto”.
Cartesio ha insegnato al filosofo a ritrovare il vero soltanto nella ragione, fonte inesauribile di idee chiare e distinte; Bacone ha insegnato allo scienziato a diffidare della autorità dei filosofi e lo ha esortato a prendere contatto diretto con le leggi della natura ; i giusnaturalisti (sostenitori del diritto naturale: esempio: Ugo Grozio), hanno indicato ai giuristi come fonte del diritto non più l’arbitrio egli uomini, ma le esigenze innate nella natura umana.
Gli illuministi accolgono queste lezioni e, riassumendo, costituiscono la “Natura” fonte di ogni luce e di ogni energia.
La Natura parla all’uomo attraverso organi svariati: attraverso l’istinto normale (voce inferiore della Natura); attraverso il sentimento (voce intensa e intuitiva: Rousseau); attraverso la ragione o nella sua forma elementare (buon senso) o nella sua forma evolutiva (filosofia e scienza).
Chi segue la voce della Natura e utilizza le sue energie con le risorse dell’arte, è sulla via della felicità. Si apre per l’umanità una era nuova: l’era delle riforme. Ad una vita privata e pubblica costruita sull’irrazionale, sull’arbitrio dei prepotenti, sui pregiudizi di religione, di classe, di ambiente, sui costumi insensati e nocivi al libero sviluppo delle forze dell’individuo e del popolo, si vuole sostituire una vita più genuina, più sana, più spigliata, più costruttiva.
Siamo di fronte ad un secondo Rinascimento. La differenza tra il Rinascimento umanistico e quello illuministico consiste in ciò: l’uno valorizzò la “Natura umana potenziata” e quindi si risolse in una specie di divinizzazione dell’”individuo superiore” e sfociò nella tirannide; l’altro, valorizzando la natura umana in generale, affermò l’eguaglianza dei diritti e dei doveri e quindi gettò le basi della democrazia moderna; l’uno mirò ad utilizzare le risorse estetiche della Natura e si impegnò a creare il bello; l’altro mirò ad utilizzare le risorse utilitarie della natura e si propose di creare una vita economicamente più agiata, politicamente più armonica e salda, socialmente più giusta. In verità, però, i propositi del nuovo Rinascimento non furono attuati se non in minima parte, perché con il Rinascimento umanistico si risolse con la vittoria della aristocrazia, così quello illuministico si risolse nella vittoria della borghesia.
Proposte dell’Illuminismo nel campo del diritto, della politica, della economia, della religione, della morale, dei costumi.
Nel campo del diritto.
– Parte negativa: polemica contro i privilegi di classe e contro le leggi arbitrarie dei tiranni.
– Parte positiva: illustrazione e difesa del diritto naturale, inteso come base della giustizia. Ogni uomo, nascendo, riceve con la natura umana diritti inviolabili che sono con essa strettamente connessi (diritti naturali).
Tali diritti sono:
– il diritto alla vita: l’uomo riceve la vita dalla natura e nessuno a lui può toglierla fuorché la natura stessa. Né i privati né lo Stato possono togliere la vita ad un uomo: la pena di morte è contro ragione.
– il diritto ai mezzi di vita, ossia a tutto ciò che è necessario per vivere (abitazione, vesti, cibo).
– il diritto di possedere personalmente i mezzi di vita: ossia il diritto alla proprietà.
– il diritto a pensare come si vuole: libertà di pensiero.
– il diritto a diffondere liberamente il proprio pensiero e ad associarsi con coloro che professano le stesse idee: libertà di propaganda e di associazione.
– il diritto a sposare chi si vuole, senza distinzione di classe.
Siccome la natura umana è eguale in tutti, anche i diritti che sono inerenti sono eguali per tutti. Il privilegio (che è o il godimento di un diritto che non hanno gli altri o l’esenzione da un peso a cui sono soggetti gli altri) è contro ragione: può essere solo concesso, come premio, a chi ha reso un notevole servizio alla società (privilegio di merito). La legge che non è altro se non la specificazione particolareggiata dei diritti naturali, è anche essa eguale per tutti.
Tali verità sono vecchie (professate dalla filosofia e dalla giurisprudenza classica soprattutto dal Cristianesimo), ma gli illuministi credevano di dire cose nuove, sia perché quelle verità in pratica, nel corso dei secoli, erano state dimenticate; ossia perché essi, di proposito, rifiutavano di allacciarsi alla speculazione precedente.
Nel campo politico:
– Parte negativa: polemica contro la tirannide, cioè contro i governi padroni.
– Parte positiva: la società sorge in forza di un contratto volontario fra individui che diffidano gli uni degli altri e, avendo bisogno dell’aiuto reciproco, stabiliscono di collaborare in pace; la società affida l’amministrazione dei suoi interessi al governo, che essa stessa sceglie.
Il governo è un delegato della comunità sociale e deve operare secondo il mandato che gli è stato affidato. Se il governo non serve il popolo, ma lo opprime, può essere rovesciato con la violenza. La migliore forma di governo è quella democratica, in cui i tre poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario) sono esercitati da tre organi diversi (teoria della divisione dei poteri) e il compito di formare le leggi viene affidato ai deputati, liberamente eletti dal popolo (parlamento). Nella vita pubblica a chi paga più tributi è riservato il diritto di maggiore influenza politica (possono votare solo quelli che pagano forti tributi fiscali).
Il principio che il governo è al servizio del popolo era vecchio quando era vecchia la democrazia greca e romana, ed era stato espresso chiaramente nel Vangelo:”fra voi chi vuol comandare sia come colui che serve”. Tuttavia tale principio era stato calpestato sia dalla tirannide feudale che dalla tirannide delle monarchie e dei principati assoluti, sorti al tempo del Rinascimento.
Nel campo economico.
– Parte negativa: polemica contro i monopoli dello Stato sia delle corporazioni e contro gli intralci doganali e daziari.
– Parte positiva: fisiocratismo economico (fisiocratismo eguale dominio della natura) che consiste nell’accettare il gioco spontaneo degli interessi come unica legge della economia. La concorrenza è il procedimento più naturale nel campo della produzione e del commercio. Lo Stato non ha il diritto di regolare con leggi i procedimenti delle attività economiche che si svolgono nel seno della nazione: “lasciar fare, lasciar passare”: questo è il motto dei fisiocratici. Libertà di iniziativa: ogni individuo ha il diritto di esercitare l’attività economica che preferisce: né lo Stato né associazioni private, né individui hanno il diritto di limitare la libertà economica del cittadino.
Liberismo sociale, cioè libera circolazione delle merci nell’interno del territorio nazionale: debbono essere aboliti i dazi e le dogane tra regione e regione, affinché ogni individuo possa commerciare liberamente con chi vuole. Protezionismo commerciale: lo Stato deve favorire l’esportazione dei prodotti nazionali e deve impedire l’importazione di prodotti stranieri: ossia deve proteggere gli interessi dei produttori nazionali. Libera assunzione della mano d’opera e libero contratto di lavoro (che è soggetto come tutti i contratti di compra-vendita, alla legge della concorrenza).
Nel campo della religione.
Parte negativa: polemica contro le religioni positive, cioè create da questo o quel personaggio storico, contro la superstizione, il fanatismo, l’oppressione delle coscienze, contro la Chiesa cattolica considerata come oscurantista, ossia come fautrice di ignoranza, di miseria, di tirannide. Lotta contro i Gesuiti, considerati come direttori della Chiesa (l’Illuminismo fu il creatore della “Massoneria”, la nota setta segreta che ha avuto fino ad oggi il compito di combattere la Chiesa cattolica: non la religione in generale).
– Parte positiva: la vera religione è quella che tre i suoi principi dalla ragione; e la ragione ci dice che esiste un Ente Supremo e nel vivere secondo l’ordine da lui strutturato nelle cose: niente riti esteriori, niente processioni, niente sacramenti ecc.
Lo Stato ha il diritto e il dovere di controllare l’attività della Chiesa, affinché questa non leda la sua sovranità e sia frenata nei suoi arbitri (giurisdizionalismo).
Nel campo morale.
Parte negativa: polemica contro i precetti morali imposti, secondo essi, dall’arbitrio della Chiesa cattolica: contro i voti, contro l’indissolubilità del matrimonio, contro la casistica, cioè contro la minuziosità dei precetti particolari, che va a scapito dei principi generali.
– Parte positiva: l’unica legge morale è la seguente: rispetta l’ordine che trovi nella natura (morale naturale).
Nel campo dei costumi.
Parte negativa: polemica contro gli artifici dell’etichetta, contro le ipocrisie obbligatorie in certi ambienti sociali, contro l’uso di forzare le vocazioni dei figli, contro certe forme di crudeltà approvate dal consenso comune, certe forme di abbigliamento stolte e ridicole, contro la sudiceria privata e pubblica, contro la trascuranza delle norme più elementari dell’igiene.
Parte positiva: il principio è unico: in privato e in pubblico segui le nome dell’utilità, del decoro e della moderazione.
Cause dell’Illuminismo.
Ricercare le cause dell’Illuminismo significa ricercare quei fattori che hanno contribuito a creare in Europa, nel secolo XVIII, quell’ansia di svecchiamento, di riforma, di modernizzazione, di razionalizzazione generale e radicale in cui si riassume la sostanza del “Movimento dei lumi”.
1)- Cause naturali: l’illuminismo come tutti gli indirizzi culturali non sorge all’improvviso, ma è il risultato finale di vari fenomeni che sono spuntati qua e là nella storia dal Rinascimento in poi.
a)- Il criticismo e il razionalismo Rinascimentali.
Il Rinascimento fu caratterizzato da una forte tendenza alla libertà spirituale e quindi all’indipendenza del giudizio. La tradizione medievale è sottoposta a critica ed è trovata spesse volte in fallo. L’atteggiamento spregiudicato di molti umanisti nei confronti di tutto e di tutti: e specialmente il soggettivismo radicale introdotto dal Protestantesimo nel delicatissimo campo della coscienza religiosa, sono le espressioni più tipiche della mentalità moderna estremamente diffidente del pensiero comune o tradizionale, ansiosa di sottrarre la ragione dal dominio e di affermare l’autonomia assoluta.
b)- La sfiducia e il disprezzo contro la tradizione generata negli spiriti post-rinascimentali dalle grandi scoperte geografiche, scientifiche e cosmografiche. La tradizione aveva per millenni sbagliato circa le verità più elementari. Ad esempio, per svariati secoli si era creduto che al di là delle Colonne d’Ercole non si potesse andare; o che il sole girasse intorno alla terra. Colombo aveva clamorosamente smentito il primo pregiudizio; Copernico e Galilei avevano smentito il secondo. Da queste smentite la tradizione era stata gravemente umiliata e svalorizzata: si finì per dubitare di tutto ciò che avevano affermato le generazioni precedenti.
c)- L’influsso della metodologia di Bacone e Cartesio.
Bacone per garantire assoluta sicurezza all’attività scientifica propugnò una “restauratio magna ab imis fundamentibus” e compose il “Novum organum” opposto al “Vetus organum” di Aristotele: la “pars destruens” del nuovo programma contemplava l’abbattimento di tutti gli ideali o pregiudizi; la “pars costruens” contemplava la ricostruzione della scienza sulla esperienza diligente ed intelligente.
Cartesio aveva anche lui voluto ricominciare da capo nel campo della filosofia, e per questo aveva dubitato di tutto ed aveva incominciato a ricostruire il nuovo edificio sulla base di idee chiare e distinte.
L’Illuminismo, accogliendo in pieno e combinando insieme le teorie dell’empirismo di Bacone e del sensismo di Locke con quelle del razionalismo di Cartesio, fondendo insieme metafisica e fisica, pensò di dar vita ad una cultura nuova in cui tutto fosse chiaro, ragionato e preciso, in opposizione alla vecchia cultura, basata su pregiudizi, su dogmi imposti con la forza: su osservazioni del reale del tutto puerili.
d)- L’influsso del Protestantesimo in generale e del Calvinismo in particolare.
Il Protestantesimo, infatti, afferma la libertà assoluta della coscienza da qualsiasi autorità religiosa eterna: ogni individuo risolve il problema religioso secondo le esigenze del suo spirito e intreccia i rapporti con Dio direttamente senza intermediari.
La polemica contro la gerarchia religiosa è radicale e il rifiuto della tradizione cattolica è integrale. Per ogni individuo si può dire che la religione incominci da capo, in quanto è egli stesso che la forma. Il Calvinismo in particolare , oltre alla libertà individuale di coscienza, professa anche i principi fondamentali della democrazia politica, in quanto capi religiosi e capi politici, presso le comunità calviniste, erano erano eletti dal popolo (così in Olanda e Svizzera).
Libertà e autonomia di coscienza, soggettivismo razionalistico, esaltazione dell’individuo sono motivi che costituiscono l’ossatura della dottrina illuministica, e il disgusto generato negli spiriti più evoluti dagli artifici ridicoli in uso nella cosiddetta alta società e dalla visione della miseria in cui era ridotto il popolo. Le anime più sensate avvertivano l’esigenza di uno stile più naturale, più schietto, più utile; e soprattutto gli spiriti veramente religiosi sentivano la necessità di venire incontro al popolo, non solo in nome della carità cristiana, ma anche anzitutto in nome della comune natura.
Cause economiche e sociali.
L’affermarsi della borghesia europea.
Con la scoperta dell’America e l’affermarsi della Turchia nel Mediterraneo il centro dell’economia europea si trasferisce dall’Italia alle nazioni atlantiche (Portogallo, Francia, Paesi Bassi, Inghilterra).
In queste nazioni, soprattutto in Inghilterra, sorge la classe borghese, cioè la classe degli arricchiti attraverso le industrie e i traffici. La classe borghese ogni volta che si è affermata nella storia ha sempre rivelato una forte antipatia contro i sistemi politici oppressivi, perché lei ha bisogno di libertà per poter guadagnare e investire utilmente i suoi guadagni.
Così in Italia il Rinascimento individualista e spregiudicatamente naturalista, era stato creato, si può dire, dalla borghesia comunale e similmente l’Illuminismo, che si potrebbe definire un rinascimento europeo d’impronta più razionalistica e più pratica (meno estetica), cioè più moderno, si può dire che sia stato generato dall’affermarsi della borghesia europea.
Furono, infatti, i borghesi, trovandosi a vivere in regimi assolutistici, e costretti a pagare le spese alla monarchia e alle classi privilegiate dei nobili e del clero, che propugnarono con energia e audacia lo svecchiamento generale della società e la instaurazione di una democrazia che permettesse loro di prendere parte attiva alla vita politica. In Inghilterra la borghesia ricchissima, dinamica, con due rivoluzioni (contro Carlo I° dal 1641 al 1649 e contro Giacomo II° nel 1688) riuscì ad abbattere il regime assolutistico e ad instaurare la monarchia costituzionale (1688).
Locke, che viene considerato come il padre dell’Illuminismo, commentò la rivoluzione del 1688 nell’opera intitolata “Trattato del governo civile” in cui espone la dottrina dei diritti naturali dell’uomo, della tolleranza religiosa e della sovranità del popolo. Tale dottrina si diffuse e fu commentata in modo brillantissimo dagli scrittori francesi (Voltaire, Diderot, Montesquieu, Rousseau) e costituì la base del rinnovamento giuridico, politico, economico dell’Europa dell’età moderna: in ogni nazione dell’Europa si era venuta formando una classe borghese più o meno consistente, e spettò ad essa il merito di tradurre in programma attivo i principi dell’Illuminismo.
Le dottrine sorgono in seguito alla elaborazione dei grandi ingegni, ma questi traggono sempre spunto dal mondo in cui vivono e i loro principi riescono ad affermarsi soltanto qualora forze sociali di entità notevole li facciano propri per la difesa dei loro diritti. Ebbene si può dire che l’Illuminismo sorse e si affermò per merito della borghesia.
Illuminismo in Italia.
Gli italiani in genere accolgono gli indirizzi culturali e stranieri con moderazione e buon senso, e perciò anche dell’Illuminismo accolsero solo i principi più utili e più rispondenti alle esigenze del momento storico.
Già fin dal ‘600 si era affermata presso di noi una viva ansia di rinnovamento specie nel campo letterario: basta ricordare il Marinismo. Tale aspirazione tuttavia non si era tradotta in un programma chiaro e ben definito. Ora alla metà del ‘700, sotto l’influsso della cultura francese, che domina tutta la cultura europea e specie quella italiana, si delinea con chiarezza un programma di riforma generale, abbastanza serio e sostanzioso. Quindi l’Illuminismo italiano reagisce vigorosamente agli artifici ed alle stravaganze del ‘600 e della prima metà del ‘700, ma da ambedue queste età eredita l’ansia del rinnovamento e riesce a tradurla in atto con discreto successo.
Letteratura dell’Illuminismo in Italia.
Principi fondamentali.
Parte negativa: polemica contro la letteratura accademica e oziosa (polemica condotta specialmente dal “Caffè” dei “Soci dei pugni” e dalla “Frusta letteraria” del Barelli).
Parte positiva: affermazione di una letteratura meno formale, ma più ricca di contenuto. Letteratura in continua evoluzione perché deve accompagnare l’evoluzione della vita. Non più scrittori lettori che guardano più alla bella espressione, ma lo scrittore propagandista dei lumi della ragione e più attento al contenuto.
a)- La letteratura è al servizio della vita e deve contribuire alla illuminazione e alla riforma della società. Non si può concepire una letteratura di accademia o di circolo destinata ad interessare gli eruditi o a divertire i nobili che si raccolgono nel salotto e, essendo gli italiani addietrati nei confronti degli stranieri, specie dei francesi e degli inglesi, spetta agli scrittori il compito di aggiornarli, di svegliarli e di inquadrarli nel grande movimento di riforma che si è affermato i n tutta l’Europa. Allo scrittore letterato che,al modo degli umanisti concepisce la sua missione come culto delle Muse e delle Grazie, cioè della bella espressione, sostituisce lo scrittore propagandista dei lumi della ragione, meno preoccupato della parola, più attento al contenuto delle sue opere.
b)- La letteratura, come tutte le attività umane, è in continuo progresso; e siccome deve accompagnare la vita nel suo evolversi, ha bisogno di rinnovarsi incessantemente. Per adeguarsi alle esigenze della vita moderna, la letteratura deve svecchiarsi nei temi, nel contenuto, nella forma, nel linguaggio.
Temi della letteratura illuministica.
Parte negativa: sono abiliti i temi mitologici e fantasiosi e, in genere, tutti gli argomenti che lasciano il tempo che trovano.
Parte positiva: di debbono trattare:
a)- argomenti giuridici ed economici
b)- insegnamenti civili e politici
c)- riforme nel campo dei costumi, specie delle classi elevate
d)- riforme nel campo dell’igiene.
Contenuto.
Parte negativa: sono da eliminarsi i sentimentalismi, i complimenti, le fantasie bizzarre e oziose, i pregiudizi.
Parte positiva: gli scrittori si debbono impegnare ad accogliere nelle loro opere quanto di più serio e di più sicuro l’Illuminismo ha rivelato in tutti i campi della cultura moderna: idee utili e chiare, proposte sensate, critiche acute: insomma contenuto sostanzioso, perché la letteratura ha funzione didattica e deve nutrire la mente dei lettori.
Forma.
Parte negativa: sono da eliminarsi le esposizioni aride e fredde della letteratura accademica, gli sviluppi fantastici ed emozionanti e le divagazioni ornamentali dei poeti di professione.
Parte positiva: lo sviluppo degli argomenti deve essere chiaro, concreto e spigliato. Trattandosi di una letteratura essenzialmente insegnativa la forma più adatta è quella espositiva. Ma gli illuministi si preoccupano di rendere l’esposizione brillante e attraente, in modo che piaccia al maggior numero di lettori. Per dare maggiore agilità ai loro scritti gli illuministi si preoccupano di variare l’esposizione inserendo motivi polemici, aneddoti, esempi, richiami ad usi e costumi di popoli progrediti o retrogradi, passando dal tono piano a quello aggressivo, dal tono serio a quello ironico e faceto.
Linguaggio.
Parte negativa: viene bandito il linguaggio erudito e frondoso, che resta difficile e noioso ai lettori.
Parte Positiva: lo scrittore illuminista, cosciente di servire la causa della civiltà e mirando a farsi intendere da un numero di lettori vasto il più possibile, adotta un linguaggio vivo, cioè in uso presso le persone colte della generazione a cui appartiene.
Dalla fine del ‘500 fino a questo momento ha dominato l’Italia il vocabolario della Crusca e gli scrittori hanno tutti usato più o meno la lingua dei trecentisti toscani.
Gli scrittori illuministi decisi a svecchiare e a modernizzare tutta la vita, la lingua della Crusca, accessibile ai letterati puri, apparve antiquata e non adatta per comunicare con agilità le idee nuove ad un pubblico di lettori che, se sono intellettuali (avvocati, ingegneri, impiegati, finanzieri ecc) non sono certamente tutti letterati. Perciò sostengono che si debba adottare la lingua parlata comunemente dagli intellettuali nelle varie regioni della nazione, lingua che presso a poco è uguale ovunque. Qualora lo scrittore non trovi nella lingua italiana i vocaboli e le forme grammaticali e sintattiche, può ricorrere alle forme di qualche lingua straniera che è conosciuta nella Penisola o può addirittura creare nuove forme, purché in analogia con le forme già esistenti (ad esempio se “doloroso” significa ciò che apporta dolore, per indicare una cosa che apporta dolcezza si dovrebbe dire “dolcioso”); questa è la teoria linguistica propugnata dall’Illuminismo e di cui il massimo esponente fu il Cesarotti, autore di un celebre “Saggio sulla filosofia della lingua”, in cui le idee sopra esposte sono fondate nel seguente principio: la lingua è l’espressione del pensiero; il pensiero è in continua evoluzione; dunque anche la lingua è in continua evoluzione: una lingua fissa come quella della Crusca è lingua morta e perciò non può servire alla vita.
La lingua italiana, maneggiata dagli illuministi, divenne un po’ anarchica: soprattutto nel periodare si sentì l’influsso del procedimento a spezzature, proprio del periodare francese del ‘700.
I letterati intransigenti inorridirono di questo imbarbarimento della lingua e per reazione diventarono fanatici sostenitori della crusca: sorse così il “purismo”.
Tre Accademie si interessarono, nella seconda metà del ‘700, del problema della lingua: quella dei “Soci dei pugni” a Milano, sostenitrice delle idee del Cesarotti (di tale Accademia facevano parte i fratelli Alessandro e Pietro Verri che attraverso il periodico “Il Caffè” diffondevano le loro idee, oltre che intorno all’economia e al diritto, anche intorno alla lingua); l’Accademia dei Granelleschi a Venezia sostenitrice accanita del vocabolario della Crusca (esponente vivace di essa fu Carlo Gozzi); l’Accademia dei “Trasformati” a Milano che, nel tentativo di conciliare i cruscanti con gli anticruscanti, propugnavano un aggiornamento del vocabolario della Crusca.
Ad ogni modo spetta alla letteratura illuministica il merito di aver spezzato la tradizione del linguaggio accademico, tutto solennità e pompa con i suoi vocaboli eruditi e il suo periodare alla latina, e di aver creato un linguaggio agile e facile, anche se un po’ sbrigliato e poco rispettoso della precisione e della purezza delle forme.
Generi letterari coltivati dall’Illuminismo.
Abbiamo detto che quella illuministica è letteratura di propaganda dei lumi della ragione; propaganda da svolgersi presso tutte le classi sociali, specie in mezzo agli intellettuali. Perciò i generi letterari preferiti dall’Illuminismo saranno quelli che risultano più efficaci ai fini di tale propaganda: il trattato – trattato vero e proprio – trattato epistolare – trattato periodico – il poemetto – il teatro.
Il trattato.
Tra i generi letterari il trattato è certamente uno dei modi più difficili a ridursi entro le esigenze e le forme dell’arte: l’esposizione e la illustrazione dei principi teorici sono di per sé noiose e pesanti, appunto per la loro esattezza.
L’illuminismo ha avuto il merito di aver creato un trattato agile, spigliato, facile e dilettevole, tale da essere letto con interesse e con passione da un gran pubblico degli intellettuali in generale. Prima il trattato era letto solo dagli specializzati nella materia che esso svolgeva; il trattato illuminista suscita l’interesse anche dei non specializzati.
Basta pensare al successo che incontrarono i n Francia i trattati del Montesquieu (“L’esprit des lois”) e del Rousseau (“Le contract social”,l”Emile”). I trattati dei francesi furono letti, ammirati ed imitati in Italia. La preoccupazione di uno scrittore di un trattato era soprattutto questa: rendere concreta e interessante l’esposizione.
A questo fine i trattatisti italiani, come quelli francesi, ricorrono ai mezzi seguenti: polemica sbrigliata e spregiudicata contro gli avversari delle tesi che essi propugnano: esposizione dei principia da essi sostenuti, ridotta all’essenziale, raccolta in motti efficaci, qua e là illustrata con aneddoti, con descrizioni di usi e costumi colti dal vero.
Ne risulta un trattato molto vario di tono e quindi assai piacevole. Seguendo ancora l’esempio dei francesi (Motesquieu : “Le lettres persanes” e Rousseau: “Nouvelle Eloìse”), gli scrittori italiani assai spesso svolgono le loro tesi nella forma dell’epistolario: immaginano di inviare una serie di lettere a qualche persona, esponendo in esse le loro idee su questo o su quell’argomento.
Il tono familiare, scherzoso e spigliato caratteristico della lettera contribuisce efficacemente a rendere più immediata l’esposizione dei concetti.
Infine, per rendere più variata ed agile l’esposizione, gli scrittori italiani ricorrono al periodico, che è una rivista contenente svariati articoli su svariati argomenti e che viene pubblicata periodicamente ogni settimana, ovvero ogni quindici giorni, ovvero ogni mese. Il primo periodico in Europa fu “Spectator” di Addison, pubblicato a Londra nel 1711. In seguito, specie quando si formarono i club o società intellettuali, questi per diffondere le loro idee si valsero soprattutto del periodico. Evidentemente gli articoli del periodico, pur avendo una intonazione generale uniforme, in quanto sono l’espressione del pensiero comune al club, tuttavia, essendo scritti da persone diverse, presentano una straordinaria varietà di stile e gareggiano fra loro in spigliatezza pi o meno indiavolata. Si tratta di articoli che deve leggere il gran pubblico degli intellettuali e che debbono procurare adesioni alle dottrine del club, e quindi gli scrittori impegnano, nel comporli, tutte le risorse della loro vivacità.
Scrittori di trattati.
I centri della cultura italiana nel secolo XVIII sono: Napoli e Milano: nella prima città fiorisce l’università onorata da valenti maestri e scrittori: nella seconda l’influsso della cultura francese e il discreto dinamismo del governo austriaco favoriscono il sorgere di svariati club.
La cosiddetta scuola napoletana vanta i nomi di : Genovesi (autore del “Lezioni di economia”), in cui tra l’altro propugna l’istruzione del popolo e delle donne, illustra la funzione educativa dello Stato, esalta il lavoro e indica nella agricoltura la più ricca fonte di benessere pubblico e privato); Galiani (autore del trattato “Della moneta”; Filangeri (autore della “Scienza della legislazione”, in cui con una esposizione ordinata e nitida sostiene la riforma della procedura penale, combatte i residui della feudalità, propugna l’educazione pubblica e la codificazione delle leggi; Pagano ( autore di svariati “Saggi” di politica, di estetica e di diritto criminale, secondo i principi dell’Illuminismo incentrati nella teoria del diritto naturale.
A Milano la centrale della nuova cultura è la “Società dei Pugni” (così denominata per indicare lo spirito battagliero dei suoi componenti). E’ una Accademia di tipo illuministico, nel senso che i problemi di cui i suoi soci si occupano riguardano i più svariati settori della vita pratica (enciclopedismo) e le soluzioni di essi sono impostate sulle esigenze della ragione e sui principi umanitari di indiscussa sincerità. L’organo della società è “Il Caffè” (periodico).
Pietro Verri, organizzatore e anima della “Società dei pugni”, scrisse svariati trattatelli di filosofia, storia, pedagogia, finanza e pubblica amministrazione, con stile chiaro, facile e brioso. Famose sono le sue “Osservazioni sulla tortura”, in cui critica l’uso di estorcere le confessioni degli imputati per mezzo della tortura (questo trattato fu tenuto presente dal Manzoni nel comporre la “Storia della colonna infame”).
Cesare Beccaria (nonno del Manzoni) nel famoso trattato “Dei delitti e delle pene”, difese la stessa tesi del Verri, circa la tortura e propugnò l’abolizione della pena di morte, sostenendo che le pene hanno funzione esclusivamente medicinale (cioè servono a correggere i malvagi) non vendicativa.
A Roma Nicolò Spedalieri nel trattato “Dei diritti dell’uomo”, dimostrava che solo la religione cristiana costruisce la base sicura dei diritti dell’uomo.
A Venezia Francesco Algarotti nel trattato “Il Newtonianismo per le dame” esponeva in forma facile e piacevole argomenti di scienza alla società galante dei salotti.
A Padova Melchiorre Cesarotti nel “Saggio sulla filosofia delle lingue” affermava i principi della evoluzione delle lingue e assegnava l’uso come modello della lingua parlata e il gusto come creatore della lingua scritta.
Trattati storici.
Gli illuministi affermano che unica guida della vita individuale e sociale è la ragione, non l’esempio o l’autorità di coloro che ci hanno preceduto, i quali possono aver sbagliato e di fatto hanno sbagliato, come dimostra il cumulo di irrazionalità e delle ingiustizie di cui è piena la tradizione.
E’ chiaro che in un movimento antitradizionalista e razionalista come l’Illuminismo non vi è posto per la storia intesa come maestra della vita. Questo non vuol dire, tuttavia, che gli illuministi rinuncino alla storiografia (cioè alla narrazione dei fatti): vuol dire che scriveranno la storia non con il fine di imparare qualche cosa dai fatti o di dare a questi una sistemazione scientifica, ma con il fine di criticare l’operato del passato (storia polemica) o col fine di documentare istituzioni, usi, diritti, abusi ecc. (storia documentaria).
Sono da ricordare: Pietro Giannone, autore dell’”Istoria civile del Regno di Napoli”: una storia di ispirazione giurisdizionalistica e anticlericale. Il Giannone i cambiamenti successivi delle leggi, delle istituzioni, dei costumi nel Regno di Napoli dall’età di Roma fino al secolo XVIII, con l’intento di mettere in evidenza le arti di cui si è valsa la Chiesa, nel corso dei secoli, per usurpare i diritti della sovranità politica. Non è una storia al modo umanistico, cioè una storia che proceda per quadri descrittivi di bella fattura in cui si colga una buona occasione per introdurre bei discorsi o sentenze di saggezza; ma è una storia di propaganda polemica contro il potere temporale della Chiesa. Lo Stato vi è presente come fonte di civiltà e di progresso: la Chiesa come fucina di oscurantismo e di frode. Le idee che sono alla base della “Istoria civile del Regno di Napoli” vengono dal Giannone ribadite ed illustrate con più vigore polemico nel “Triregno” (il trattato dei tre regni: cioè del regno ebraico in cui lo stesso governo amministrava le cose umane e divine; del regno spirituale, cioè dei primi cristiani in cui si curavano solo gli interessi dello spirito; del regno papale in cui, col pretesto di governare lo spirito, si tessono frodi (“piae fraudes” di ogni genere per poter accumulare ricchezze e potenza). Il Giannone nel “triregno” sostiene la tesi che per garantire la sovranità del potere statale è necessario sopprimere il papato e la gerarchia ecclesiastica, privare il clero di ogni bene temporale e di sottoporlo in tutto e per tutto allo Stato. Così il laicismo italiano, spuntato nel Rinascimento (Machiavelli, Guicciardini) assume col Giannone, nel 2° Rinascimento, un tono così spregiudicato e così aggressivo, da gareggiare con l’anticlericalismo dell’enciclopedismo francese (Voltaire).
Antonio Muratori, cultore geniale e diligentissimo di storia documentaria. Autore dei “Rerum italicarum scriptores” (raccolta di tutte le cronache riguardanti l’Italia scritte dal 500 d.c al 1500); dalle “Antiquitates italicae Medii Aevi” (in ventotto grandiosi volumi sono contenute 75 esposizioni sui vari settori della vita medievale); dagli “Annali d’Italia” (in cui anno per anno espone i fatti più importanti della storia italiana dal principio dell’era volgare al 1748, cioè al trattato di Aquisgrana).
Storiografo semplice, chiaro, efficace, libero nei giudizi. Fu il primo ad illustrare il Medioevo e a suscitare interesse per questa epoca, proprio in pieno ambiente illuministico, che era antimediovalista per eccellenza.
Saverio Bettinelli, autore del “Risorgimento d’Italia dopo il Mille” (1773), in cui delinea il cammino della civiltà italiana dall’età tenebrosa, feroce, ignava del Medioevo ai tempi moderni “illuminati, urbani e operosi” . Autore anche di “Dieci lettere di P. Virgilio Marone” – 1757 – nelle quali censurava fieramente Dante e molti altri scrittori del Duecento e del Trecento proponendo a modello altri scrittori moderni quali il Frugoni, l’Agarotti e lui stesso.
Carlo Denina, autore delle “Rivoluzioni d’Italia” in cui viene delineato lo sviluppo degli istituti politici, dei costumi, delle arti, delle industrie, dei commerci in Italia dai tempi più antichi alla pace di Utrech (1713). L’epoca comunale viene esaltata come rinascita dello spirito romano che si prolunga fino all’età moderna.
Girolamo Tiraboschi, autore della “Storia della letteratura italiana”, in cui si delinea lo sviluppo delle lettere e delle arti in Italia, dal tempo degli Etruschi all’anno 1700. E’ una raccolta di notizie biografiche; i giudizi estetici sugli autori o mancano o sono miserelli. E’ importante per la documentazione; e perché è la prima storia della letteratura italiana.
Periodici.
Il “Caffè” dei “Soci dei Pugni”, diretto da Pietro Verri. Vi sono articoli riguardanti le materie più svariate: legislazione, economia, morale, psicologia, letteratura, agronomia, medicina. Il titolo stesso sta ad indicare che gli argomenti trattati sono di interesse vivo (come quelli che si trattano al caffè) e che si vuole esporli con la passione e il buon senso che caratterizzano la conversazione degli uomini d’affari Evidentemente si vuole opporre questa esposizione facile e spigliata a quella dei trattati accademici (pesanti e noiosi).
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IL ROMANTICISMO
Il romanticismo è un vasto movimento filosofico e letterario che, sulla base di un naturalismo integrale, sostiene la validità di tutto il contenuto della storia, e propugna la piena libertà e la perpetua modernità della creazione artistica. Il movimento sorge in Germania nel secolo XVIII e sia afferma in tutta l’Europa durante la prima metà del secolo XIX. Del romanticismo possiamo distinguere tre aspetti: quello filosofico – culturale; quello psicologico; e quello letterario.
A ) Aspetto filosofico culturale.
Sotto questo aspetto il romanticismo può essere considerato come l’espressione più integrale e radicale del naturalismo settecentesco. All’inizio del secolo XVIII, in reazione al formalismo arbitrario e tirannico che, dal Rinascimento in poi, aveva mortificato le energie della natura umana, ed aveva falsato, con istituzioni politiche e costumi sociali assurdi, la vita privata e pubblica, si era affermato un movimento di deciso ritorno alla Natura.
La Natura fu intesa concordemente come energia universale ed infinita, che anima e vivifica l’universo, incarnandosi ed operando negli uomini e nelle cose. Tuttavia l’essenza di questa energia nel corso del secolo XVIII fu intesa in modi diversi.
a) dapprima l’illuminismo la concepì come razionalità pura, in quanto nel mondo fisico essa si manifesta come legge matematica, e nell’uomo come ragione. Perciò in nome della razionalità, gli illuministi svalutarono tutto ciò che, pur essendo parte integrante della natura umana, non è razionalizzabile (ad esempio l’attività della fantasia e del sentimento) ovvero, pur facendo parte della storia, non risponde al dettato della ragione, ad esempio la distinzione dell’umanità in nazioni varie e quindi in patrie che, in base all’uguaglianza della natura umana, gli illuministi consideravano un assurdo, e gli opponevano il cosmopolitismo.
b) Rousseau intese, invece, la Natura come energia impetuosa, pervasa da una razionalità inconscia, che muove, con decisione, uomini e cose verso mete sicure. Nell’uomo questa energia inconscia si manifesta come sentimento e impulso spontaneo.
c) Il romanticismo intende la Natura come Spirito che anima e muove l’universo in modo turbinoso e logico nello stesso tempo: esso è intuito intellettuale, ragione, impulso, sentimento, fantasia, attività creativa perenne e in continuo divenire. Tutto ciò che esiste è creazione dello spirito, anzi è la realizzazione di esso nello spazio e nel tempo: perciò nessun aspetto della realtà e della storia è da svalutarsi.
Siamo di fronte ad una concezione della Natura intesa in senso integrale. Mentre la natura degli illuministi è razionalità statica, che crea e fissa le cose in forme definite e immutabili, la Natura dei romantici è l’energia ribollente che irrompe fuori di qualsiasi schema fisso e si traduce in fenomeni fisici, chimici, biologici, in uomini, in pensieri, in sentimenti, in espressioni artistiche, in fatti, in istituzioni, in costumi, senza distinzione di razionale e irrazionale, in un divenire perpetuo, in quanto tutto trova il suo posto nella logica universale.
Il Naturalismo si risolve in pratica in una interiorizzazione delle forze che muovono la vita degli individui e dei popoli. I naturalisti sono decisi e ardenti sostenitori della libertà, della naturalezza, della modernità e del progresso.
Conseguenze del Naturalismo:
1 – LA LIBERTA’. La Natura è energia, e ogni energia è attiva, se non viene compressa. L’energia naturale vive ed opera nella umanità (individui e popoli) e si traduce in creazione perpetua e in progresso incessante, se è libera da leggi arbitrarie imposte dall’esterno. Lasciarsi dirigere solo dall’ispirazione interiore (sia essa la Ragione degli illuministi o l’impulso sicuro di Rousseau, o l’energia ribollente e creatrice dei romantici) significa rifiutare ogni imposizione esterna che impedisca di vivere secondo Natura.
In nome della Natura operante nell’intimo degli individui e dei popoli si affermano la libertà individuale, democratica, fisiocratica, morale, professionale, artistica.
= La Libertà degli individui = Il diritto alla libertà fisica, alla libertà di pensiero, di parola, di associazione, di religione, di iniziativa è inerente alla natura umana che vive in tutti gli uomini, ed è garantito da essa; e non è affatto una benevola concessione del sovrano.
= La libertà come democrazia = Il popolo, incarnazione collettiva della Natura, si dà leggi da sé, non le riceve più dall’arbitrio del principe o sovrano.
= La libertà dei popoli o nazionalità = La nazione è un gruppo etnico creato dalla natura, che ha energie, capacità, funzioni storiche proprie; ma se una forza esterna ed estranea la comprime, non può apportare il suo contributo al progresso generale dell’umanità.
= La libertà economica o fisiocratica = L’economia è un gioco di produzione, di scambi, di interessi: questo ha leggi proprie, di cui le più importanti sono quelle della libertà di iniziativa e quella della domanda e dell’offerta. Nessuna autorità può imporre restrizioni di alcun genere (lasciar fare; lasciar passare, laisser faire, laisser passer).
= Libertà morale = l’azione umana è morale solo se è libera; ed è libera solo se è dettata da una esigenza razionale e universale interiore (in Kant “imperativo categorico”) non da un’autorità esterna o da un interesse contingente.
= Libertà pedagogica = il fanciullo è educato dalla Natura che vive in lui e lo guida. Al maestro spetta solo il compito di facilitare l’opera della Natura (Rousseau).
= Libertà di scelta della propria vita = l’inclinazione naturale (non l’arbitrio della famiglia e della società) decide della scelta della professione, del matrimonio e di altro.
= La Libertà artistica = l’artista non deve seguire le regole dei retori o dei trattatisti, ma la propria ispirazione interiore. L’attività artistica è la più libera di tutte le attività umane, perché è l’attività di creazione e quindi l’espressione più genuina della Natura, che è energia creatrice e plasmatrice.
2 – NATURALEZZA E SPONTANEITA’. La Natura è sana, vigorosa e serena in tutte le sue manifestazioni; e quanto meno è sofisticata dall’artificio, tanto più è vitale ed efficiente. L’artificio corrompe e intisichisce la vita fisica, morale, civile, politica e l’arte. Tutto ciò che è naturale, è pregevole, anche se rozzo; tutto ciò che è artificioso, anche se è ben lavorato, non ha alcun pregio, perché è senza vita.
3 –MODERNISMO E PROGRESSO. La natura è in continuo divenire e in perpetuo rinnovamento; essa non si attarda a ripetere le stesse cose, non intisichisce mai in forme che invecchiano. Il tono della natura è sempre impetuoso, baldo e giovanile; e gli individui e i popoli che si alimentano delle energie vive della natura, sono sempre giovani, si rinnovano di continuo e progrediscono. La perpetua modernità è la caratteristica di tutte le creazioni naturali e quindi vitali; lo slancio verso forme di vita dal respiro sempre più ampio, più pieno e più libero. Si manifesta distintamente nei popoli in cui l’energia naturale è ancora integra e genuina.
B –Aspetto psicologico
I romantici considerano la Natura come energia ribollente e travolgente: l’uomo è l’aspetto più significativo della Natura stessa, e perciò viene considerato come un fascio di energie impetuose e calde. In base a questa concezione i romantici prediligono i sentimenti forti e l’espressione calda ed immediata di essi.
Sotto questo aspetto il romanticismo costituisce una reazione contro la psicologia aristocratica, compassata e spesso convenzionale del classicismo umanistico e in particolare di quello accademico e di moda.
Benché l’illuminismo avesse svalutato il sentimento, tuttavia (specie ad opera del Rousseau) aveva esaltato la sincerità e la naturalezza. Il romanticismo va più oltre, in quanto identifica la psicologia naturale con i sentimenti immediati, forti ed impetuosi.
C)- Aspetto letterario.
Dal punto di vista letterario il romanticismo propugna una letteratura che abbia le seguenti caratteristiche: naturalità, popolarità, modernità, nazionalità.
=== Letteratura naturale == I romantici tedeschi avevano definito il genio “coscienza e voce” della Natura. In base a questa definizione essi avevano affermato il seguente principio: il genio esprime ciò che nell’intimo gli detta la Natura e nel modo come essa glielo detta. La conseguenza di questa affermazione è chiara: il genio non è soggetto a nessuna legge estranea: egli dice ciò che sente, nel modo con cui lo sente. Quanto più l’artista è immediato e caldo, sia nell’ispirazione, che nell’espressione, tanto più la sua opera è vitale.
Il romanticismo, perciò, abolisce la retorica, ossia il complesso di regole che i letterati (in particolare nel Cinquecento) avevano proposto per i singoli generi letterari. I romantici polemizzano chiaramente contro le ”unità di luogo, di tempo e di azione“ imposte nella tragedia. Essi le considerano contrarie allo sviluppo naturale dell’azione e alla psicologia naturale dei personaggi. Contro queste unità nella tragedia scrissero lo Schlegel nel suo “Corso di letteratura drammatica” e il Manzoni nella Prefazione al “Conte di Carmagnola” e nella “Lettera à Msr Chauvez”.
In base al principio della naturalità, i romantici non solo aboliscono le regole dei retori, ma affermano che ogni ‘soggetto’ è poetabile, in quanto esso fa parte della natura. Viene così superato il pregiudizio classicistico, secondo il quale erano poetabili soltanto i soggetti piacevoli ed aristocratici, mentre non erano portabili quelli spiacevoli ed umili.
Nel campo della critica, il naturalismo letterario romantico rivaluta tutti gli scrittori disprezzati dai classicisti (perché non avevano rispettato le regole dei retori e non si erano uniformati ai modelli classici). Inoltre vengono rivalutati dalla critica romantica Dante e Shakespeare, considerati come esemplari di genialità naturale.
Non mancano gli estremisti del naturalismo romantico, quelli cioè che svalutano tutte le opere in cui si notano i riflessi della cultura dotta e sopravalutano la poesia grezza, primitiva, popolaresca. Il Berchet nella “Lettera semiseria” ed il Manzoni nella “Lettera sul Romanticismo” reagirono contro le intemperanze di questi estremisti e sostennero che la cultura è assolutamente necessaria al genio, perché questi possa armonizzare la naturalezza e la spontaneità con la proprietà e il decoro; l’artificio è considerato il modo usato da chi non ha cose da dire o non conosce la tecnica dell’espressione precisa e chiara.
=== Letteratura popolare == Il Berchet nella sua “Lettera semiseria” afferma che la società spiritualmente si divide in tre classi: quella degli Ottentotti (popolazione primitiva del sud Africa), i quali difettano di sufficiente intelligenza e sensibilità per capire e gustare ciò che leggono. La classe dei Parigini, cioè coloro che si danno le arie di ipercritici ed hanno gusti incontentabili. Infine la classe del popolo, formata da coloro che hanno un minimo di intelligenza e sensibilità per capire e gustare la vera poesia.
I classicisti avevano scritto le loro opere per i letterati; gli illuministi avevano scritto per gli intellettuali in genere; i romantici scrivono per il popolo. Siamo nell’età del liberalismo, nell’età in lì si afferma la democrazia e si risvegliano i nazionalismi; perciò si sente la necessità di una letteratura che permetta al popolo di prendere parte alla creazione della sua storia. Infatti dagli illuministi, dalla rivoluzione francese e dal liberalismo è esaltato il popolo come “unica e vera forza della storia”.
Per creare una letteratura che sia popolare è necessario anzitutto che gli scrittori scelgano argomenti, esprimano pensieri e sentimenti, creino immagini che rispondano agli interessi e parlino al cuore del popolo, abbiano cioè un rapporto stretto con la sua vita. In secondo luogo è necessario che essi adottino uno stile intuitivo, che è il più adeguato all’intelletto di lettori forniti di non notevole cultura. Lo stile più intuitivo è, quindi, il più adottato dai romantici, stile fantastico e sentimentale con racconti commoventi adatti ad inculcare nell’animo dei lettori i più alti ideali umani e patriottici.
Infine è necessario mettere da parte il linguaggio letterario ed adottare quello vivo che è più accessibile al popolo. Gli estremisti confusero la letteratura popolare con quella popolaresca ed usarono esaltare certe composizioni che rasentavano la fanciullaggine, sia nel contenuto, che nella forma. Ciò avvenne perché in Italia il problema risorgimentale era più impegnativo che nelle altre nazioni. Gli scrittori mediocri si credettero in diritto e in dovere di sacrificare il decoro e la serietà dell’arte alle esigenze della propaganda patriottica.
=== Letteratura moderna == Se la poesia è creazione del genio ed il genio scrive quello che gli detta la Natura, siccome questa è in continua evoluzione e non detta mai le stesse cose, la poesia deve avere la nota di una costante modernità.
I poeti devono essere interpreti del mondo in cui vivono, non delle età tramontate, a meno che alcuni motivi antichi non interessino ancora i moderni. Il Berchet distingue i poeti in due categorie: i poeti dei morti, sono quelli che cantano cose morte, che non interessano più allo spirito moderno, come i classicisti accademici che si attardano ancora sulla mitologia antica, la quale non interessa i lettori moderni; al contrario i poeti dei vivi sono quelli che cantano cose vive, come fanno i romantici. Scrive il Berchet: “Né temo di ingannarmi, dicendo che i poeti greci e latini al tempo loro furono in certo modo romantici, perché cantarono le cose dei greci e dei latini”.
Anche nei riguardi della modernità vi furono alcuni estremisti, che sopravvalutarono e apprezzarono solo gli scrittori moderni, in particolare quelli stranieri (che i classicisti avevano svalutato); i romantici esasperati disprezzarono i classicisti come ormai sorpassati. Il Manzoni seppe ristabilire l’equilibrio con la seguente posizione: distinguere tra lo studio e l’imitazione dei classici: lo studio è sempre necessario, perché è formativo; mentre l’imitazione è da rifiutarsi, perché spegne l’originalità e rende prive di interesse le opere.
=== Letteratura nazionale == La poesia è espressione della Natura che vive ed opera nel genio. La Natura, però, si incarna e vive non solo negli individui, anche nelle nazioni; e si esprime in essi sempre in modi diversi. Ne consegue che ogni popolo ha una propria indole e pertanto ha una sua particolare poesia.
Letteratura nazionale significa anzitutto letteratura che aderisce allo spirito del popolo a cui il poeta appartiene. Ogni nazione ha la sua particolare letteratura che risponde alla sua mentalità ed al suo gusto. Questa affermazione aggredisce in pieno il pregiudizio classicistico, secondo il quale esiste una letteratura assoluta (greca e romana) valevole per tutti i popoli, tanto che il poeta che non si uniformava al gusto e al modello classico viene giudicato ‘barbaro’. Con il principio romantico della nazionalità, invece, le letterature delle varie nazioni venivano poste tutte sullo stesso piano di quella classica, anche se di indole del tutto diversa da questa.
Per il romantici, l’assoluto in letteratura non esiste; e le diverse letterature sono tentativi più o meno riusciti di avvicinarsi alla perfezione. Letteratura nazionale (anche classica), nella concezione romantica, significa letteratura che accompagna la nazione nel suo cammino storico, interpretandone i problemi, infondendole coraggio, richiamandola sul retto cammino quando devia.
Cause del Romanticismo
L’illuminismo letterario, l’amore alla libertà ed al progresso, le vicende patriottiche risvegliarono i nuovi interessi.
1 ) L’Illuminismo ispirava nuovi programmi letterari. Il romanticismo intendeva reagire all’illuminismo, e opponeva il suo nuovo naturalismo e il suo storicismo contro il Naturalismo razionalistico e l’antistoricismo illuministico, ciò nonostante, si può affermare che il romanticismo, soprattutto da punto di vista letterario, è una continuazione, una correzione e un completamento del programma illuministico. Infatti vengono ripresi e sviluppati tre suoi aspetti: l’utilità della letteratura rivolta a tutti; l’accessibilità di essa per tutti; la libertà dello scrittore il quale deve esprimersi con spontaneità, naturalezza e spigliatezza. Il romanticismo fa una sola aggiunta al programma letterario dell’Illuminismo precisando che alla composizione di un’opera letteraria non concorre soltanto la ragione, ma concorrono anche il sentimento e la fantasia. Quindi, mentre l’Illuminismo ci aveva dato soltanto trattati o al massimo la lirica didascalica e il poema didascalico (come in Parini le Odi; Il Giorno), il romanticismo ci dà anche le opere narrative e composizione liriche, e infonde la veemenza della passione anche nei trattati.
2 ) Il bisogno di libertà va collegato con il progresso della civiltà. L’illuminismo nel ‘700 in nome della Natura, aveva rivendicato la libertà dell’uomo (come privato e come cittadino) nel campo politico, giuridico, economico, religioso, morale e ideologico. Spettava al romanticismo il compito di rivendicare la libertà del genio come coscienza e voce della Natura contro qualsiasi arbitraria legge esteriore, per affidarlo solo alla sua aspirazione e al dettato della sua fantasia e del suo cuore.
La società europea del ‘700, sotto la pressione di esigenze nuove, ha realizzato notevoli avanzamenti in ogni settore della vita individuale e collettiva. Questi comportano modi di vita nuovi che impongono il distacco dalle tradizioni. Infatti quanto più lo spirito si evolve, tanto più ha bisogno di libertà di movimento; e tanto meno può accettare norme convenzionali legate alle esigenze del passato. Il romanticismo affermava che il genio è addirittura il creatore della realtà e che, come tale, si dà leggi da sé stesso. Perciò il romanticismo può essere considerato un’affermazione estremistica del principio della libertà dello Spirito.
3 ) La situazione storica. Siamo nel periodo in cui la Francia rivoluzionaria ha provocato lo spirito nazionalistico dei vari popoli d’Europa. Dappertutto il movimento liberale si sta organizzando e a questo moto nuovo della storia deve partecipare anche il popolo. Gli scrittori si rendono conto che il popolo non è più volgo da spregiare, come per gli umanisti; ma energia da utilizzare per il raggiungimento delle grandi mete politiche e sociali a cui aspirano le nazioni. Il risveglio delle nazionalità comporta, dunque, una poesia popolare. Di una poesia più aderente agli interessi del popolo e più adeguata alle sue capacità aveva bisogno specialmente l’Italia, dove il problema risorgimentale era più urgente, ragion per cui il romanticismo vi si afferma soprattutto come movimento che vuole creare una letteratura moderna per il popolo italiano moderno.
Storia del Romanticismo
Il Preromanticismo: Si suole chiamare preromanticismo quel movimento letterario che sorge in Inghilterra, in Francia, in Germania, nella seconda metà del secolo XVIII ed aveva le seguenti caratteristiche:
+ Ribellione quasi anarchica contro ogni forma di autorità specie in politica e in letteratura: atteggiamento caratteristico dello “Sturm und Drang tedesco”.
++ Predilezione per le emozioni forti, per le vicende drammatiche e tragiche, per i paesaggi tempestosi e tetri, caratteristici della letteratura Ossianica e cimiteriale inglese.
+++ Culto appassionato e cavalleresco dell’ideale (caratteristica del nostro Alfieri).
In Inghilterra fanno parte di questo movimento gli scrittori dei cosiddetti romanzi neri cioè con vicende paurose, i romanzi del Richardson, le composizioni che Macpherson attribuì ad Ossian (bardo scozzese del medioevo) , caratterizzate da spirito cavalleresco puro, da paesaggi cupi e tempestosi; ed in fine la poesia sepolcrale dello Young (Pensieri notturni) e del Gray (Meditazioni su un cimitero campestre) e di Hervey (Meditazioni sulle tombe).
In Francia l’esponente del preromanticismo è il Rousseau, che esalta il sentimento come forza sicura che dirige l’uomo verso la felicità ed il successo. Egli vagheggia un ritorno allo stato di natura, affinché sia garantita all’uomo la piena libertà.
In Italia l’esponente del romanticismo è l’Alfieri, spirito irrequieto e ribelle contro ogni forma di tirannide, e forte in ogni espressione del suo spirito.
In Germania il preromanticismo è rappresentato dal movimento denominato “Tempesta e impeto” (Sturm und Drang) fondato da Massimiliano Klinger e seguito da Schiller giovane (autore dei Raueber = masnadieri) e da Goete giovane autore dei ”Dolori del giovane Werter”.
Fase ulteriore del Romanticismo:
== L’elaborazione della dottrina romantica avviene in Germania ad opera dei fratelli Federico e Guglielmo Schlegel. Quest’ultimo aveva rapporti con Madame de Stael a cui egli comunicò il programma del romanticismo germanico riassunto nella formula “Creare una letteratura germanica moderna, per il popolo germanico moderno”. La Stael fece conoscere il progresso letterario della Germania moderna ai francesi attraverso l’opera sua: “La Germania” (De l’Allemagne) ed esortò gli scrittori francesi a creare anch’essi una letteratura francese moderna per il popolo francese moderno
== Madame de Stael nel 1815 al scrisse alla Biblioteca Italiana una lettera intitolata “Sull’utilità delle traduzioni dalle letterature straniere” nella quale esortava il popolo italiano a leggere le letterature straniere moderne e a distaccarsi dalle solite vecchie cose del classicismo, per creare una letteratura italiana moderna adatta al popolo italiano moderno. La sua lettera provocò la reazione dei classicisti. A favore della tesi da lei sostenuta si schierano i romantici, quasi tutti scrittori giovani.
== Nel 1816 il Berchet pubblicò la “Lettera semiseria di Grisostomo al figlio” nella quale immagina che un certo Grisostomo invii al figlio, che è agli studi, due ballate del Buerger, presentandole come due esemplari della poesia tedesca moderna detta romantica, poesia che piace a tutto il popolo, perché è scritta proprio per esso. Prendendo lo spunto dalle due romanze, il Berchet espone i principi fondamentali del romanticismo letterario: letteratura naturale, popolare, moderna, nazionale. La lettera del Berchet è detta semiseria, perché l’autore, al termine di essa, finge di aver voluto divertirsi alle spalle dei romantici ed di esortare invece il figlio a seguire fedelmente le regole dei retori, i modelli classici e il vocabolario della Crusca.
== Nel 1819 a Milano viene fondato il periodico dei romantici “Il Conciliatore”. Già la lettera del Berchet aveva reso più vivace la polemica tra classicisti e romantici, sorta in seguito alla lettera della Stael. Il Conciliatore si propone di conciliare le due parti opposte, su questa base: il romanticismo italiano non intende affatto rinnegare la tradizione letteraria nazionale, ma rinnovarla, soltanto, per mezzo di una letteratura italiana moderna per il popolo italiano moderno.
Il governo dell’Austria (presente in Lombardia) dapprima fece buon viso al Conciliatore, perché esaltava la letteratura romantica tedesca e le autorità speravano in una specie di affratellamento fra gli scrittori italiani e quelli tedeschi. Ma quando si accorsero che i redattori del Conciliatore intendevano fare in Italia quello che i tedeschi avevano fatto a casa loro, cioè creare una letteratura popolare per difendere gli ideali democratici e patriottici, il periodico fu soppresso. Ne erano redattori: Berchet, Pellico, Ermes Visconti, Di Breme.
== Nel 1823 il Manzoni pubblicava la “Lettera sul romanticismo al marchese Cesare d’Azeglio”, nella quale egli espone il programma negativo dei romantici, ossia quello che essi non vogliono. Precisamente rifiutano:
— la mitologia perché sorpassata come contenuto religioso e come linguaggio;
— le regole arbitrarie dei retori (quelle non dettate dalla ragione)
— l’imitazione servile dei classici, ma sostiene che lo studio dei classici ha sempre valore formativo.
== Nel 1824 il Monti pubblica “Sermone sulla mitologia” nel quale sostiene che la mitologia fa parte dell’essenza della poesia, dicendo che la poesia consiste nel meraviglioso. Il Monti rimprovera ai romantici di voler fare poesia con la verità, “col vero, col nudo, arido vero, che dei vati è tomba”; mentre “senza portento, senza meraviglia, nulla è l’arte dei carmi”.
== Nel 1827 il Manzoni pubblica “I promessi sposi” il cui successo apre definitivamente la strada al trionfo del romanticismo. Nello stesso tempo con la morte di Foscolo e di Monti, anche il neo classicismo tramonta.
Ecco la polemica fra classicisti e romantici.
a ) I classicisti rimproveravano ai romantici di rinnegare la tradizione letteraria nazionale, per seguire una moda letteraria straniera. I romantici rispondevano che essi non intendevano affatto ripudiare la tradizione letteraria nazionale, ma soltanto rinnovarla e fare in Italia quello che i tedeschi avevano fatto in Germania, cioè creare una letteratura italiana moderna per il popolo italiano moderno.
b ) I classicisti rimproveravano ai romantici di voler fare poesia con il vero, mentre il l’essenza della poesia consiste nel mirabile, che si ottiene con il mito e con l’idealizzazione. Il romantici rispondevano che il mirabile è frutto di pura immaginazione e di artificio erudito, mentre i lettori vogliono sentire dagli scrittori cose interessanti. Ecco la scoperta dei romantici: la poesia consiste non nel mirabile, ma nell’interessante che si coglie nella realtà oggettiva della vita.
c ) I classicisti rimproveravano ai romantici di disprezzare la gloriosa letteratura dei classici, per seguire le letterature straniere moderne. I romantici rispondevano che essi non disprezzavano affatto i classici che, come dice il Berchet, al tempo loro furono romantici, perché parlavano delle cose vive che interessavano i contemporanei loro; ma rifiutavano l’imitazione servile di essi che impedisce alla letteratura di essere originale e interessante.
Lo studio dei classici è altamente formativo, mentre la loro limitazione mortifica le energie native del genio. Lo studio delle opere straniere moderne serve a porre la letteratura italiana a contatto con lo spirito europeo e quindi ad allargare i suoi orizzonti di pensiero, di stile, e di linguaggio.
== I classicisti rimproveravano ai romantici di propugnare l’anarchia nell’arte, perché aborrivano qualsiasi regola. I romantici rispondevano che essi rifiutavano soltanto le regole imposte agli scrittori dall’arbitrio dei retori, e per nulla affatto quelle dettate dalla ragione.
Confronto tra il romanticismo italiano e il romanticismo tedesco.
1 — Il romanticismo tedesco poggia,soprattutto, sul principio idealistico della libera creatività dello spirito. Il poeta è momento dello spirito il quale crea liberamente; quindi il poeta non ha alcun limite o freno nella sua creazione. Siccome le facoltà dell’uomo, creatrici e libere, sono la fantasia e il sentimento, il romanticismo germanico è di tendenza fantasiosa e sentimentale.
Il romanticismo italiano, invece, è basato soprattutto su una esigenza storica cioè sulla necessità di preparare il popolo italiano alla riscossa politica; e siccome a questa necessità si viene incontro creando nel popolo la coscienza delle sue possibilità, e questa coscienza si crea attraverso la rievocazione della storia, il romanticismo italiano ha basi eminentemente storiche. Già il Vico aveva affermato che un popolo per conoscere se stesso, per prendere coscienza delle sue possibilità e del suo compito, nella storia dell’umanità, deve specchiarsi nelle sue opere, che costituiscono la sua storia. Il Foscolo aveva affermato lo stesso concetto nel discorso di Prolusione ai corsi presso l’università di Pavia: “Italiani, io vi esorto alle istorie…. perché da queste conoscerete chi siete e quale è la vostra missione nel mondo”.
In conclusione il romanticismo tedesco poggia sulle basi della filosofia idealistica ed è di tendenza fantasiosa e sentimentale; mentre il romanticismo italiano poggia su basi storiche e quindi è più concreto, anche se, nello svolgere i motivi storici, adotta il procedimento più intuitivo per il popolo, quello fantastico, sentimentale.
2 — Il romanticismo tedesco riflette l’indole germanica, complicata e complessa. Il romanticismo italiano riflette l’indole latina, complessa ma chiara e lineare.
Motivi prediletti dai romantici.
Ogni movimento letterario dimostra maggiore simpatia per certi argomenti e meno per altri. Ecco i motivi che furono prediletti dai romantici:
a — la storia intesa come specchio dello spirito di un popolo, come fonte da cui il popolo trae esempi per acquistare coraggio o per vergognarsi. I romantici italiani preferirono in genere quei passi della storia dai quali risulta che gli italiani, anche in pochi, quando erano veramente amanti della libertà, riuscivano a battere nemici più numerosi e più forti; ad esempio le lotte dei comuni contro il Barbarossa, la disfida di Barletta, l’assedio di Firenze, l’episodio di Balilla;
b — il popolo inteso come forza della storia. Esso viene presentato o nello squallore dell’oppressione tirannica o nell’epicità di una insurrezione generale contro l’oppressore;
c — L’eroe inteso come la coscienza e l’incarnazione dello spirito di un popolo;
d — Il tiranno inteso come il pessimo fra tutti gli uomini, ed è causa di rovina al popolo ed a sé stesso;
e — l’amore inteso come passione ideale che unisce due anime legate fra loro dalle stesse aspirazioni umane, politiche, religiose. Non si guarda tanto alla bellezza fisica della donna, quanto alla sua capacità affettiva, alla sua passione per un alto ideale. In genere questo amore eroico è intrecciato con vicende drammatiche, in quanto il tiranno interviene quasi sempre a contrastarlo. Talvolta l’amore è vissuto segretamente in forme logoranti e struggenti, da qualche creatura pallida e timida, che alla fine muore consunta: è l’amore sentimentale che piacerà molto ai tardivi romantici decadenti;
f — la natura intesa come confidente dell’uomo;
g — paesaggi tempestosi e paurosi, ovvero soffusi d’incanto e spiranti tenerezza: i primi, rivelatori della forza tremenda della natura; i secondi, della sua bontà e della sua delicatezza;
h — la rievocazione di flagelli collettivi che fiaccano popolazioni intere: guerre, carestie, pesti;
i –la figura del bandito dal buon cuore, opposta alla figura del tirannello riverito dalla società mentre infierisce sui deboli;
l — crisi spirituali che si concludono con le grandi conversioni;
m — vicende paurose: rapimenti di donzelle, spettri, streghe;
n — atteggiamenti titanici, cioè di sfida contro la divinità;
o — una concezione pessimistica e dolorosa della vita, una tendenza a considerarsi vittime della fortuna e dell’incomprensione della società, con il desiderio di evadere dal piccolo mondo in cui si vive incompresi e perseguitati.
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GIACOMO LEOPARDI
(1798-1837)
Spiritualità del Leopardi:
Possiamo definirla spiritualità pessimistica.
Che cosa è il pessimismo ? Consiste nel concepire l’esistenza come male. Quindi il pessimismo non è da confondersi con la tristezza, con la malinconia, con la disperazione. Io posso concepire la vita come male e fare del tutto nello stesso tempo per godere fino a quanto dura questo male.
Il pessimismo è una concezione filosofica, non è un sentimento, e perciò un pessimista può essere di umore allegro e un altro può essere di umore nero.
Scritti da cui risulta che il Leopardi concepisce le vita come male: ossia è pessimista:
– dallo “Zibaldone”: “tutto è male…..non vi è altro bene che il non essere”.
– dal “Canto di un pastore errante”: “se la vita è sventura perché da noi si dura ? A me la vita è male. Forse in qual forma, in quale stato che sia, dentro covile o cuna, è funesto a chi nasce il dì natale”.
– dall’”Ultimo canto di Saffo”: “ tutto è arcano fuorche il nostro dolor”.
– dalla “Palinodia a Gino Capponi: ”infelice in qualsivoglia tempo, e non pur né civili ordini e modi, ma della vita in tutte l’altre parti, per essenza insanabili, e per legge universale, che terra e cielo abbraccia, ogni nato sana”.
Fasi del pessimismo leopardiano.
1)- Momento del pessimismo personale (1817-1821)
In questo momento il Leopardi è convinto che la natura abbia destinato lui a soffrire, mentre ha concesso agli altri mortali la possibilità di svaghi e di gioie serene.
Questa persuasione è chiaramente espressa nelle “Sera del dì di festa”: “l’antica natura onnipossente mi fece all’affanno. A te la speme nego, disse, anche la speme; e d’altro non brillin gli occhi tuoi se non di pianto”.
Questo crudele destino egli lo attribuisce alla cattiveria e all’arbitrio della divinità.
Nell’”Ultimo canto di Saffo”, dopo aver deplorato che la natura, la quale ha diffuso e quasi sprecato tanta bellezza nell’universo, l’ha negata soltanto a lei, Saffo si domanda per quale motivo le sia stato inflitto un destino così nero: ha forse lei peccato prima di nascere o quando era ancora bambina, per essere punita con un corpo brutto e con una sensibilità destinata a chiudersi in “furor d’implacato desio” ?
Giove ha sbagliato e sbaglia: infatti dà “eterno regno nelle genti ai belli e destina all’oscurità, chiudendole in un corpo disadorno, le anime belle per bontà e per ingegno”: ma Saffo rimedierà al “crudo fallo del cieco dispensatori dei casi” con il suicidio.
Lo stesso concetto è espresso, in forma anche più violenta, nel “Bruto Minore”: Bruto, eroe della libertà repubblicana, disfatto sui campi di Filippi, è costretto a suicidarsi: i sostenitori della tirannide, i cesariani, sono vittoriosi. Dunque Giove difende i malvagi e colpisce i pii: “dunque degli empi siedi, Giove, a tutela ? E quando lanci il fulmine, proprio contro i pii lo scagli ?”. Anche qui si rimedia all’errore e alla cattiveria del destino con il suicidio.
In “Nozze della sorella Paolina” malinconicamente afferma: “l’empio fato nega agli uomini virtuosi aure soavi e il corrotto costume dei nostri tempi ha posto un contrasto netto tra la virtù e la fortuna”.
Vediamo brevemente i motivi di questa nera disperazione del giovane Leopardi:
a)- il cattivo stato della salute (nel 1817 fu sul punto di morire e perdette quasi completamente la vista): ebbe da natura un fisico scadente che fu reso ancora più misero dall’eccessivo lavoro a cui egli lo sottopose nella fanciullezza e nella adolescenza. Un corpo di quel genere proprio a 20 anni si mostrava del tutto incapace a rispondere alle esigenze di un’anima ardente come quella del poeta. Di qui lo sdegno contro la divinità che gli aveva dato un corpo così misero.
b)- la sensibilità di cui lo aveva fornito la natura e che la malattia aveva reso più acuta. Più tardi egli invidierà gli animali i quali, pur soffrendo, non avvertono la loro miseria.
c)- l’inesperienza della vita. Il Leopardi visse la sua adolescenza e la sua giovinezza sempre chiuso nel suo studio e per ciò non ebbe contatti con la vita; e come tutte le persone inesperte egli sognò e sperò assai più di quanto la vita possa dare.
Le persone che hanno pratica con gli uomini e con gli eventi umani, cioè le persone pratiche, difficilmente si illudono e quindi vanno immuni da delusioni; mentre le persone poco pratiche della vita sono fatalmente destinate a soffrire quando vengono a contatto di essa.
d)- lo studio dei classici. Il Leopardi adolescente aveva conosciuto la vita solo attraversi i libri, e precisamente attraverso i libri dei classici, nei quali tutto suole essere presentato in forme idealizzate. Egli si era convinto che sul serio all’uomo fosse possibile nella vita realizzare con pienezza il sogno dell’amore, dell’attività e della gloria.
e)- l’influsso degli scrittori dell’Illuminismo enciclopedistico che egli lesse appassionatamente nella adolescenza. Quegli scrittori gli insegnarono a pensare spregiudicatamente, a guardare in faccia alla dura realtà della vita ridotta a puro fenomeno della materia; e a criticare con linguaggio “aperto e franco” (come dirà nella “Ginestra”) i principi della religione intesi come favole.
f)- le delusioni giovanili. Il Leopardi avanzò verso la vita con l’animo pieno di sogni mirabili: basta leggere “A Silvia”: “lingua mortal non dice – quel che io sentiva in seno.- Che pensieri soavi, che speranze, che cori ! – Quale allor ci apparia la vita umana e il fato”. Nelle “Ricordanze” che egli giovanetto aveva sognato arcani mondi, arcana felicità per il suo vivere. Egli aveva chiesto troppo alla vita e questa in verità gli aveva dato troppo poco. A venti anni si vede ridotto all’inerzia a causa della cattiva salute e quindi sfuma la speranza di una attività da cui possa trarre decoroso sostentamento e fama.
Poca comprensione in famiglia, nessuna fuori di famiglia: è reputato orgoglioso ed antipatico dagli estranei, a causa del suo modo di vivere appartato, è trascurato dalla madre impegnata nella cura del patrimonio domestico; è guardato con sospetto dal padre ai cui occhi di reazionario egli appare come un pazzo rivoluzionario per le sue idee liberali. Non trova affetti da parte di alcuna donna: eppure egli è tanto bisognoso di affetto.
Ecco cosa trovò appena uscito di adolescenza: lo dirà nelle “Ricordanze”: “né mi diceva il core che l’età verde sarei dannato a consumare in questo natio borgo selvaggio intra una gente zotica e villana…. che mi odia e fugge per invidia non già, che non mi tien maggior di sé…. Qui passo gli anni abbandonato, occulto, senza amor, senza vita; ed aspro a forza tra lo stuol dei malevoli divengo: qui di pietà mi spoglio e di virtudi, e sprezzator degli uomini mi rendo, per la greggia che ho appresso: e intanto vola il caro tempo giovanile; e più caro che la fama e l’allor, più che la pura luce del giorno, e lo spirar: ti perdo senza un diletto, inutilmente, in questo soggiorno disumano, intra gli affanni o dell’arida vita unico fiore”.
Ben si può dire, dunque, che al Leopardi fu negata la giovinezza: “agli anni miei anco negaro i fati la giovinezza”.
Come Silvia, dopo l’adolescenza si trovò di fronte al vero, cioè di fronte alla fredda morte e ad una tomba ignuda, così anche il Leopardi dopo i grandi sogni dell’adolescenza si sentì invecchiare spiritualmente a causa dell’inaridimento di tutti i suoi ideali.
“Amore, amore assai lungi volasti dal petto mio, che fu sì caldo un giorno, anzi rovente. Con sua fredda mano lo strinse la sciagura, e in ghiaccio è volto nel fior degli anni”.
E nel “Sogno” afferma: “giovane son, ma si consuma e perde la giovinezza mia come vecchiezza; la qual pavento, e pur m’è lungi assai, ma poco mdi vecchiezza si discorda il fior dell’età mia”.
Quel che preoccupa il Leopardi giovane non è tanto il dolore quanto l noia, cioè l’aridità del cuore, l’inerzia di tutte le facoltà dello spirito per mancanza di emozioni.
Scrive nel 1819 nella lettera al padre: “Ella lasciava per tanti anni un uomo del mio carattere o a consumarsi affatto in studi micidiali, o a seppellirsi nella più terribile noia e per conseguenza malinconia derivata dalla necessaria solitudine e dalla vita affatto disoccupata….. voglio piuttosto essere infelice che piccolo, e soffrire piuttosto che annoiarmi; tanto più che la noia, madre per me di mortifera malinconia, mi nuoce assai più che ogni disagio del corpo”. E nella canzone “Ad Angelo Mai” afferma: “Men grave e morde il mal che n’addolora del tedio che n’affoga. O te beato, a cui fu vita il pianto ! (si rivolge al Petrarca) . A noi le fasce cinse il fastidio; a noi presso la culla immoto siede, e sulla tomba il nulla”.
Quali sono le risorse del Leopardi giovane per superare la sua disperazione?
a)-anzitutto la speranza. Nell’idillio “Alla luna” egli afferma che alla distanza di un anno la sua vita è ancora ferma allo stesso punto: i suoi occhi tremolano di pianto come lo scorso anno: “Travagliosa era mia vita: ed è, né cangia stile”; ma il corso dei ricordi, cioè la vita trascorsa, è breve, mentre il corso delle speranze è lungo: può darsi che vengano giorni migliori.
b)-In secondo luogo egli cerca di evadere con i suoi pensieri e coi suoi affetti dal piccolo e pungente guscio di Recanati: gli riesce talvolta di naufragare nel dolce mare dell’Infinito che egli sa creare nel suo spirito.
c)- In terzo luogo egli segue con passione le vicende politiche dell’età sua. Ha la sensazione di vivere quando si sente provocato dalla miseri morale e politica dei suoi contemporanei e sfoga contro di essi il suo sdegno (In Nozze della sorella Paolina – Sopra il monumento di Dante – Ad Angelo Mai) oppure quando si accende nel suo intimo lo slancio eroico (All’Italia).
Le composizioni nelle quali è svolto il motivo del pessimismo personale sono le seguenti (L’Ultimo canto di Saffo – Alla luna – La sera del dì di festa – l’Infinito – Il sogno – La vita solitaria – Bruto minore).
2)- Momento del pessimismo storico (1821-1823).
Varcata la soglia dell’adolescenza, entrato nella giovinezza, il Leopardi si sente spiritualmente invecchiato, si sente oppresso dalla noia. Ripensando alla sua adolescenza egli nota che in quegli anni fortunati era beato perché viveva sotto l’influsso del “possente error”, cioè della illusione. All’apparire del velo le illusioni sono cadute; e la vita che in sé è arida e che si riveste di verde e di fiori solo nel sogno, è apparsa nella sua cruda realtà. Scomparse le illusioni, sono venute meno le emozioni, sono caduti gli entusiasmi, è sottentrata la morte spirituale, cioè la noia.
Nel “Risorgimento” parlerà di questo passaggio dalla fioritura all’inaridimento del suo spirito: “Mancar gli usati palpiti, l’amor mi venne meno e irrigidito il seno di sospirar cessò: piansi, spogliata esanime fatta per me la vita; la terra inaridita chiusa in eterno gel…….chiedea l’usate immagini la stanca fantasia…. giacqui: insensato attonito non dimandai conforto: quasi perduto e morto il cor si abbandonò”.
Neanche il dolore veniva più a scuotere il suo spirito: “querele e lacrime sparsi al nuovo stato, quando al mio cor gelato, prima il dolor mancò…. fra poco in me anche quell’ultimo dolore fu spento, e di più far lamento valor non mi restò”.
Ecco in breve riassunto quello stato: “Qual dell’età decrepita l’avanzo ignudo e vile io conducea l’Aprile degli anni miei così”. Venuto meno anche il desiderio di morire: “Desiderato il termine avrei del viver mio; ma spento era il desio nello spossato sen”.
Ad inaridire la sua vita erano intervenuti ”il fato, la sventura, l’infausta verità”.
Il Leopardi viene così ad individuare un contrasto insanabile fra sogno e realtà, fra adolescenza e giovinezza, l’età dei sogni e l’età matura, tempo delle esperienze e delle delusioni.
Citiamo alcuni passi della canzone “Ad Angelo Mai” nella quale è particolarmente espresso questo concetto, che pur si ritrova in quasi tutti i canti. In questa canzone si rivolge ad Angelo Mai, scopritore del “De Republica” di Cicerone: “Tu, o grande – gli dice – stai rinnovando con le tue scoperte l’età rinascimentale, quell’età in cui si scoperse tanto e si sperò tanto; ma quali risultati sono derivati da tali scoperte ? Un solo risultato: la noia”. Il mondo che prima appariva così vasto alla fantasia degli uomini che non lo conoscevano e quindi lo sognavano, è diventato piccolo, piccolo: “Ahi, ahi, ma conosciuto il mondo non cresce, anzi si scema, e assai più vasto l’etra sonante e l’alma terra e il mare al fanciullin, che non al saggio appare”.
Così è stato spogliato il verde alle cose: “ di vanità, di belle fole e strani pensieri si componea l’umana vita: in bando li cacciamo: or che resta ? …. Ecco tutto è simile, e discoprendo solo il nulla si accresce”. Dirà in uno dei suoi pensieri: “il fanciullo vede il tutto nel nulla, l’adulto vede il nulla nel tutto”.
Appena si scopre il mondo sognato, viene meno il sogno, viene meno, quindi, dice il Foscolo “lo spirto” (cioè la forza vitale) della nostra anima: “A noi ti vieta il vero appena è giunto, o caro immaginar; da te s’apparte nostra mente in eterno…. e il conforto perì dei nostri affanni”.
Il poeta applica questa considerazione relativa al rapporto tra sogno e verità, tra vita piena di opere e felice, e vita spiritualmente decrepita, alla storia dell’umanità.
Anche le generazioni umane hanno avuto la loro infanzia, la loro adolescenza, la loro giovinezza: in questa età hanno sognato, hanno popolato di divinità benigne i mari, i fiumi, i monti, i boschi ecc. Alla fantasia di quelle generazioni, sembrava tutto vivo: “vissero i fiori e l’erbe, vissero i boschi un dì” (“Alla Primavera”).
Gli uomini vivevano nello stato originale, stato di naturalità pura, come quella dimostrata dal Rousseau: pensavano poco, ragionavano poco, sognavano soltanto, e il sogno li rendeva felici.
La natura, che il poeta in questo periodo chiama ancora “santa”, “materna”, “vaga” (“Alla primavera”), ha inventato un mezzo per rendere felici i mortali: il sogno. Ma i mortali hanno procurato a sé stessi una sventura irreparabile, cioè la noia, attraverso le scoperte successive con cui sono venuti a conoscenza del reale. All’età d’oro la cui felicità era garantita dalla inesperienza e dal sogno, è successa l’età della miseria in cui con la ragione, con la scienza abbiamo inaridito tutto.
Quel che è peggio è che, a causa del progresso, abbiamo inaridito anche le fonti del vivere ideale, dell’azione magnanima, del culto appassionato delle cose più belle.
Solo chi vive di sogni e di illusioni è capace di azioni grandi; mentre chi ha contratto l’abitudine al ragionamento ed al calcolo freddo, non conosce che il proprio interesse e quindi si lascia condurre solo dall’egoismo. Le generazioni moderne sono morte a qualsiasi affermazione ideale. Ne sono incapaci perché vivono nel vero.
Di qui la deplorazione dei costumi della società moderna, costante nelle composizioni giovanili del leopardi. Nella canzone “In nozze della sorella Paolina” afferma: “ahi troppo tardi, e nella sera delle umane cose, acquista oggi chi nasce il moto e il senso”: la sera delle umane cose è la vecchiaia morale dell’umanità.
Nella canzone “Ad Angelo Mai” afferma:, rivolgendosi ai grandi antichi: “Anime prodi, ai tetti vostri inonorata, immonda plebe successe: di vostre eterne lodi né rossor più né invidia; ozio circonda i monumenti vostri; e di viltade siam fatti esempio alla futura etade”.
Quando natura parlò ai grandi padri “senza svelarsi” gli italiani erano “sdegnosi d’ozio turpe e nel nostro suolo fervean le opere della civiltà”: oggi “il grande e il raro ha nome di follia…. or di riposo paghi viviamo e scorti da mediocrità”.
Eco dunque il significato di pessimismo storico: le generazioni moderne sono irrimediabilmente condannate alla noia e alla miseria morale perché sono nate nella fase decrepita della storia umana e, quindi, sono incapaci di sognare e, quindi, ancora, sono incapaci si sentire e di operare altamente.
La sostanza di questa meditazione sul pessimismo storico si ritrova nella “Storia del genere umano” (la prima delle operette morali). Giove creò dapprima la terra compatta ed accessibile in tutti i suoi punti: gli uomini la percossero e la scoprirono con estrema facilità e celerità; e così caddero nella noia. Si lamentarono allora con Giove e minacciarono di suicidarsi. Giove rimpastò la terra: divise le varie zone, disponendo catene di montagne e oceani immensi, onde rendere difficile l’accesso dei mortali ad esso. Ma gli uomini, benché con sacrifici inauditi, riuscirono a scoprire la terra anche questa volta, e ricaddero nella noia con conseguente lamentazione e minaccia di suicidio. Giove, allora, per tener desto lo spirito umano mandò sulla terra alcune bellissime donzelle: (gli ideali della bellezza, dell’amore, della gloria ecc.) con l’ordine di correre sempre, così da non essere raggiunte dai mortali. Anche gli ideali furono guardati con occhio realistico, e da quel giorno perdettero qualsiasi attrattiva. Ma Giove stufo del comportamento degli uomini non trovò alcun altro rimedio alla noia umana: lasciò i mortali nel loro stato. Questo è lo stato degli uomini moderni.
3)- Momento del pessimismo universale (1823-1837).
Nelle due fasi precedenti della sua meditazione il Leopardi ha concluso che la natura ha destinato al dolore ed alla noia sia lui personalmente sia tutte le generazioni moderne.
Nel 1826 scriveva così al conte Pepoli: “L’acerbo velo, i ciechi destini investigar delle mortali e delle eterne cose; a che prodotta, a che d’affanni e di miserie carca l’umana stirpe; a quale ultimo intento lei spinga il fato e la natura, a cui tanto dolor diletti e giovi; con quali ordini e leggi; a che si volva questo arcano universo; in questo specular gli ozi traendo verrò”.
La triste verità
Conclusione di questa meditazione fu la seguente: “tutto è male; cioè tutto quello che è, è male; ciascuna cosa esiste per fin di male; l’esistenza è un male e ordinata al male; il fine dell’universo è il male, l’ordine e lo stato delle leggi, l’andamento naturale dell’universo non sono altro che male. Non vi è altro bene che il non essere…Non gli individui solamente ma il genere umano fu e sarà sempre infelice di necessità. Non il genere umano solamente, ma tutti gli animali. Non gli animali soltanto, ma tutti gli esseri al loro modo. Non gli individui, ma la specie, i generi, i regni, i globi, i sistemi, i mondi”.
Per risolvere i problemi che si pone in questa terza fase della sua meditazione il Leopardi si richiama alla filosofia del materialismo enciclopedista: sono stati gli enciclopedisti, infatti, secondo lui, che hanno avuto il coraggio di guardare in faccia alla realtà e dire apertamente il vero.
Nelle “Ginestra” rimprovera sdegnosamente il suo secolo di aver abbandonato “il calle in sino allora del risorto pensier segnato…. il pensiero solo per cui risorgemmo dalla barbarie in parte e per cui solo si cresce in civiltà… il lume che fe’ palese dell’aspra sorte e del deserto loco che natura ci dié”.
Ecco in breve i concetti fondamentali chiarificati in questa terza meditazione (essi sono contenuti in bella sintesi nella operetta morale “Dialogo tra un Irlandese e la natura”).
Tutta la realtà è materia mossa, incessantemente e secondo leggi ferree, da una forza interiore. Questa forza, antica e indomabile, spietata e irresistibile, si chiama natura. La natura opera ovunque anche nei luoghi ove nessuno la osserva; e quindi non è vero che essa sia stata incaricata di dare spettacolo di fronte agli uomini per consolarli e per elevarli.
L’unico compito che lei svolge è quello di conservare tutte le forme della materia, facendole passare incessantemente attraverso perpetui cicli di creazione e di distruzione. Da pianta nasce pianta, da animale nasce animale, da uomo nasce uomo; e siccome ogni pianta, ogni animale, ogni uomo ha un ciclo di esistenza molto breve , per perpetuare la specie vegetale, animale e quella umana, è necessario che la natura rinnovi di continuo le cose: così essa distrugge e crea di continuo ogni cosa, senza posa, unicamente preoccupata di conservare in essere tutte le forme della materia.
“Tu mostri- dice la natura all’Irlandese – di non aver posto mente che la vita di questo universo è un perpetuo circuito di produzione e distruzione, collegate ambedue tra sé di maniera, che ciascheduna serve continuamente all’altra, ed alla conservazione del mondo, il quale, sempre che cessasse l’una o l’altra di loro, verrebbe parimenti in dissoluzione. Pertanto risulterebbe in suo danno se fosse in lui cosa alcuna libera da patimento”.
L’uomo ingranato com’è nella mastodontica e terribile macchina dell’universo, come tutti gli altri esseri nasce per morire: breve è il suo ciclo e doloroso: “vecchierel bianco, infermo mezzo scalzo, con gravissimo fascio in su le spalle… corre via, corre anela….. senza posa o ristoro… in fin che arriva colà ove la via e dove il tanto affaticar fu volto: abisso orrido immenso, ov’ei precipitando il tutto oblia”.
Dopo una vita misera e penosa, dunque, il nulla. Il Leopardi non crede alla immortalità dell’anima. Esplicitamente nello “Zibaldone” dice: “Tutto è materiale nella nostra mente e facoltà. L’ordine naturale è un cerchio di distruzione e di riproduzione…. il vero fine dalla natura è la conservazione della specie, e non la conservazione cioè la felicità degli individui”.
Due illusioni:
a)- L’uomo si illude che la natura e la divinità pensino a lui.
Questa è la verità: non l’Universo è stato fatto per l’uomo, bensì l’uomo per l’Universo. Eppure gli uomini si illudono che l’Universo sia stato fatto per essi, anzi favoleggiano che gli dei stessi siano scesi in mezzo a loro.
Nelle “Ginestra” ride amaramente degli uomini che “astuti e folli” (cattolici) tentano di illudere sé stessi e gli altri favoleggiando che la stirpe umana sia stata data “signora e fine a tutto e che in questo oscuro granel di sabbia, il qual di terra ha nome per cagion degli uomini, scesero gli autori delle universe cose e conversarono sovente e piacevolmente coi mortali”.
La realtà è ben diversa: “negletta prole nascemmo al pianto e la ragione in grembo ai celesti si posa” (dall’”Ultimo canto di Saffo”).
Nel “Canto di un pastore errante”, il poeta si domanda a chi giovi l’infinito ed eterno moto dell’universo e risponde così: “Questo io conosce e sento, che degli eterni giri, che dell’esser mio frale, qualche bene o contento avrà altrui; a me la vita è male”.
Nella “Ginestra” invita colui che “ di esaltar con lodi il nostro stato ha in uso a constatare sulle pendici del Vesuvio (ove paesi fiorentissimi furono un tempo annientati dalle lave) quanto è il gener nostro in cura all’amante natura”.
“Non ha natura al seme dell’uomo più stima o cura che alle formiche” (“Ginestra”): come, talvolta, infatti, un laborioso popolo di formiche è schiacciato da un pomo che per eccessiva maturità si stacchi dall’albero, così le popolazioni umane sono travolte, senza riguardo, insieme alle loro opere, da spaventosi cataclismi, spietatamente scatenati dalla natura.
Non vengano gli scienziati o i teologi a ricordare che nell’universo è tutto ordinato: il poeta risponde che è un “ordine destinato al male”, anche la ghigliottina è una macchina perfetta, ma è nota a tutta la sua spietata funzione.
L’universo è un immenso pullulare di vite, ma destinate a soffrire, un immenso ospedale, un immenso cimitero; la storia umana è un succedersi incessante di sventure: la natura guarda impassibile questo orribile spettacolo, preoccupata come è di condurre a termine il suo compito: “così dell’uomo ignara ‘sta natura ognor verde. Caggiono i regni, passan genti e linguaggi: ella non vede”.
Nel “Dialogo tra Irlandese e la natura”, quest’ultima parla così: “immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra ? Ora sappi n che nelle fatture degli ordini e nelle operazioni mie sempre ebbi ed ho l’intenzione a tutt’altro, che alla felicità degli uomini o alla infelicità…. se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie io non me ne avvedrei”.
Questa è la verità: colpevole di tutti i mali che affliggono l’uomo è la natura “che di mortali madre è di parto e di voler matrigna” (“La ginestra”).
Anche nel canto “A sé stesso” il poeta fa capire che la vera responsabile di tutti i mali è però la natura: dietro a questa egli pone “il brutto poter che ascoso, a comun danno impera”, cioè la divinità.
“A chi piace o a chi giova codesta vita infelicissima dell’universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo accompagnano ?” (”Dialogo fra un Iralndese e la natura”). E ci vien fatto di pensare alla ampia affermazione che si ritrova nel “Bruto Minore”: “forse il cielo, i casi acerbi e gli infelici affetti giocondo agli occhio suoi spettacol pose”.
Così proprio nel tempo che il Manzoni pubblicava “I Promessi Sposi”, in cui è presentata l’opera della Divina Provvidenza nella storia umana, il Leopardi accusava la divinità di aver fatto il mondo “non in servizio degli uomini ma di averlo fatto e ordinato espressamente per tormentarli” (“Dialogo fra un Irlandese e la natura”).
b)- L’uomo si illude di essere eterno.
Se gli uomini conoscessero fin dai primi momenti della esistenza la cruda realtà del loro destino, rifiuterebbero sdegnosamente la vita.
“T’ho io forse pregato di pormi in questo universo ?… Di tua volontà e a mia insaputa, tu stessa, con le tue mani, mi vi hai collocato; non è dunque tuo dovere, se non tenermi lieto in questo tuo regno ameno vietare che io non vi sia tribolato e straziato, e che l’abitarvi non mi noccia ? E questo che dico di me lo dico di tutto il genere umano, lo dico degli altri animali e di ogni creatura” (“Dialogo fra un Irlandese e la natura”).
Per spingere gli uomini a compiere il piccolo giro della loro vita la natura li gioca con mirabile perfidia.
1)- Anzitutto infonde in essi una insaziabile brama di vita, con la quale li spinge a superare pericoli, malattie che potrebbero distruggere la lor stirpe. Così, pur avendoli condannati a morte, nell’atto stesso di metterli alla vita li abbarbica alla terra. Penserà poi lei stessa a staccarli forse nel momento in cui essi berranno più avidamente la vita.
I mezzi di cui si serve per inchiodare l’uomo alla esistenza, sono di per sé mirabili: il sogno e la speranza.
Perché i fanciulli, gli adolescenti e i giovani sognano la bellezza, l’amore, l’attività, la gloria, e sono persuasi di conquistare tutto il mondo ? Perché li illude la natura , la quale ha bisogni di abbarbicarli alla vita, salvo a schiantarli, talvolta, nella pienezza dei sogni , come è avvenuto a Silvia e a Nerina.
Il sogno, dunque, così bello e così amabile in sé stesso, è un mezzo maligno di cui si vale la perfida natura per giocarci ai suoi fini; e il poeta si dispiace che proprio realtà così belle, quali l’amore, la gloria, la bellezza ecc. debbano servire alla natura per la beffa suprema contro di noi.
2)- In secondo luogo, anche quando le illusioni sono venute meno perché le ha successivamente dissolte tutte la crudezza dell’esperienza, la natura riesce a spingere innanzi giorno per giorno quel nudo tronco che è l’uomo invecchiato, con la speranza.
Per capire questo concetto basta leggere il “Dialogo fra un rivenditore di almanacchi e un passeggiere”. Il venditore di almanacchi rappresenta l’uomo che per esperienza ha compreso l’impossibilità di un miglioramento del vivere. Secondo il passeggero, infatti, ogni uomo è così carico di pene che nessuno vorrebbe tornare a vivere alcuno degli anni già passati: “Il caso, fino a tutto quest’anno ha trattato tutti male….. nessuno vorrebbe rinasce alla condizione di riavere la vita di prima”. Ma lo stesso passeggero, pur così pessimista e sfiduciato, riconosce che l’uomo è insanabilmente malato di speranza. “ quella vita che è una cosa bella non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura”. E con sorriso malinconico ed ironico insieme conclude:
“con l’anno nuovo il caso incomincerà a trattare bene voi, me e tutti gli altri e si principierà la vita felice. Non è vero?” Nell’anno venturo si dirà male anche di questo anno felice.
Così, nell’impossibilità di farlo felice nel presente, la natura induce l’uomo a rimandare la sua felicità al futuro; e nel futuro, presto o tardi, si troverà di fronte alla tomba, precipitando nella quale, finirà la tragica illusione della vita: ma la natura avrà ottenuto il suo scopo, cioè quello di far vivere, per un certo tempo, una forma della materia.
Così illusioni e speranze sono mezzi di cui si vale la perfida natura per indurre l’uomo a compiere la sua dolorosa e insignificante funzione di piccolo ingranaggio, nella spaventosa macchina dell’universo.
3)- Infine, la natura, per indurre l’uomo a vivere ha inventato il piacere. Non si tratta di un piacere positivo, bensì di un piacere puramente negativo. La temperatura del dolore è sempre alta; talvolta la natura la fa discendere un pochino, ed allora l’uomo ha la sensazione del piacere. Talvolta la natura è anche più furba e maligna, eleva in modo pauroso la temperatura del dolore in modo che riabbassandola al grado normale, dà al paziente un senso di sollievo.
“Quindi il piacere non è veramente piacere, non ha qualità positiva, non essendo che privazione, anzi diminuzione semplice del dispiacere che è il suo contrario” (“Zibaldone”).
E nella “Quiete dopo la tempesta”, parlando del sollievo che si prova dopo aver toccato i limiti della morte a causa del ciclone, afferma: “piacer figlio di affanno; gioia vana che è il frutto del passato timore…. uscir di pena è diletto fra noi. Pene tu spargi a larga mano; il duolo spontaneo sorge; e di piacer, quel tanto che per mostro e miracolo talvolta nasce da affanno, è gran guadagno”. E commenta con amarezza: “umana prole cara agli eterni ! Assai felice se respirar ti lice d’alcun dolor: beata se d’ogni dolor morte risana”.
Conclusione.
Ecco, dunque, il quadro fosco della vita degli uomini e di tutti gli esseri: “l’uomo, e così gli altri animali, non nasce per godere della vita, ma solo per perpetuare la vita, per comunicarla ad altri che gli succedono per conservarla. Né esso, né la vita, né oggetto alcuno di questo mondo è propriamente per lui; ma al contrario esso è tutto per la vita. Spaventevole ma vera proposizione e conclusione di tutta la metafisica”.
Consegue che la “natura per necessità della legge di distruzione e di riproduzione e per conservare lo stato attuale dell’universo, è essenzialmente, regolarmente e perfettamente, persecutrice e nemica mortale di tutti gli individui di ogni specie e genere, che ella dà alla luce” (“Zibaldone”).
La natura ha diffuso nell’uomo la brama dell’eterno e dell’assoluto; e per saziare questa brama ha creato tutte le cose caduche e finite; così l’uomo è un perpetuo assetato nell’impossibilità assoluta di dissetarsi.
Ma appunto questa sete lo fa sognare e sperare. Sogni e speranze sono nullità, perché investono cose che non esistono ancora e non esisteranno mai, così l’uomo vive nutrendosi di nulla.
“Tutti i piaceri sono illusioni e di queste illusioni si forma e si compone la nostra vita”….. “il piacere umano non è mai né passato, né presente, ma sempre e solamente futuro, perché non può esserci il piacere vero e non è infinito e infinito non può mai essere benché ciascuno lo speri”…. “resta che non solo gli uomini e gli animali, ma nessun essere può essere o è felice; e la felicità è di natura sua impossibile, e che l’universo sia di propria natura incapace della felicità, la quale viene ad essere una pura immaginazione degli uomini” (“Zibaldone”).
Più felici degli uomini sono gli animali, benché anche questi, al loro modo, soffrono. E la ragione della maggiore felicità dell’uomo è nel fatto che questi è cosciente della sua condizione: “l’uomo, anche in natura è bene il più infelice degli animali per il fatto stesso che ha più vita, più forza e sentimento vitale che gli altri viventi” (“Zibaldone”).
Nel “Canto di un pastore errante” afferma: “o greggia mia che posi, o te beata che la miseria tua, non sai ! Quanta invidia ti porto ! Non sol perché d’affanno quasi libera vai; ma più perché giammai tedio non provi”.
E nel “Passero solitario” confrontando sé stesso con il “solingo augellin” “tu venuto a sera del viver che daranno a te le stelle, certo del tuo costume non ti dorrai; ché di natura è frutto ogni vostra vaghezza. A me….. quando muti questi occhi all’altrui core, e lor fia voto il mondo, e il dì futuro del dì presente più noioso e tetro, che parrà di tal voglia ?”
Tre osservazioni:
1)- Da quanto si è detto appare evidente che il Leopardi, anima sensibilissima fu tormentato, in modo ineffabile dalla sete dell’assoluto. Errò nel pretendere di poter saziare questa sua brama nobilissima con il godimento delle cose terrene, che sono tutte finite.
L’assoluto è fuori delle cose: è Dio. Ma il Leopardi, aderendo alla filosofia materialistica, era nella impossibilità di giungere al vero assoluto.
2)- Da quanto si è detto, specie nei riguardi del pessimismo, potrebbe apparire che il Leopardi sia stato avverso al progresso.
Ecco ciò che dice egli stesso nei riguardi di questo problema: “io dimostro che l’uomo essendo perfetto in natura, quanto più si allontana da lei più cresce l’infelicità sua; nessuno stato sociale può farci felici, anzi tanto più ci fa miseri, quanto più con la pretesa sua perfezione ci allontana dalla natura… l’antico stato sociale stimato dagli altri imperfettissimo e da me perfetto, era meno infelice del moderno… so bene anche io che le antiche repubbliche che erano soggette a molte calamità, a molti mali, ma in proporzione erano molto più felici gli antichi; perché non conoscendo la natura vivevano a contatto di essa e si lasciavano suggestionare dai suoi sogni” (“Zibaldone”).
Ecco dunque un punto fermo nella concezione leopardiana: l’uomo naturale è più felice dell’uomo reso più sensibile, più esigente, più realista, più incontentabile dal progresso.
L’uomo evoluto sente di più l’amor proprio “l’amor proprio è primissimo ed essenziale principio e perno di tutta la macchina naturale… dato all’uomo l’amor proprio, la natura non ebbe da fare altro” (“Zibaldone”)
L’amor proprio è fonte di azione, ma facilmente degenera in egoismo. L’amor proprio è naturale e quindi solo gli uomini nello stato di natura lo sentono fortemente e da esso vengono spinti ad operare decorosamente. Nell’uomo che esce dallo stato di natura, in forza del cosiddetto progresso, viene meno l’amor proprio e si afferma l’egoismo, il quale non è affatto causa di progresso.
Perciò il Leopardi sostiene che il vero progresso non è quello che ci allontana dallo stato di natura, bensì quello che utilizza simultaneamente il vigore della psicologia umana naturale e le forze del mondo fisico naturale: così la scoperta scientifica, che è affermazione sulla natura, riceve valore dall’uomo che rimane nella sua sanità primitiva.
In un secondo luogo è da tener presente che il Leopardi concepì la vita umana come lotta contro la natura matrigna; e la società umana come organizzazione spontanea degli individui per resistere ai colossali attacchi della natura stessa.
La natura aggredisce individui e popoli con malattie, con cataclismi ecc.: gli uomini realizzano il progresso scoprendo mezzi per respingere gli attacchi dell’avversario. A questo proposito, nella “Ginestra, parlando alla natura così dice: “Costei chiama nemica; e incontro a questa tutti confederati stima gli uomini, e tutti abbraccia con vero amor, porgendo valida e pronta ed aspettando aita negli alterni perigli e nelle angosce della guerra comune”.
E’ un bando di crociata contro i mali con cui la natura tormenta gli uomini; e quindi si tratta di una crociata di progresso.
3)- Ebbe il Leopardi una vera e propria filosofia ?
Molti dicono che Leopardi non fu filosofo.
Bisogna intendersi: non inventò un sistema filosofico originale, ma ebbe una concezione organica e giustificata del reale.
Fu un pensatore sistematico e quindi fu un filosofo. Sentiamo lui stesso: “nella carriera poetica il mio spirito ha percorso lo stesso stadio che lo spirito umano in generale. Da principio il mio forte era la fantasia e i miei versi erano pieni di immagini…… Io ero bensì sensibilissimo anche agli affetti, ma esprimerli in poesia non sapevo. Non avevo ancora meditato intorno alle cose e della filosofia non avevo un barlume. La mutazione totale in me e il passaggio dallo stato antico al moderno seguì si può dire dentro un anno cioè nel 1819 dove, privato dell’uso della vista e della continua distrazione della lettura, cominciai a sentire la mia infelicità in un modo assai più tenebroso, a riflettere profondamente sopra le cose…. a divenir filosofo di professione da poeta che io era” (”Zibaldone”).
I concetti svolti nella terza fase della meditazione leopardiana si ritrovano nelle “Operette morali” e nei “Pensieri” composti dal 1823 al 1827. In questo primo periodo il Leopardi avvertiva l’impossibilità di poetare, essendosi in lui inaridita la fantasia ed essendo ancora confuso il suo stato d’animo.
Era necessaria una chiarificazione filosofica del suo pensiero; e in seguito a questa anche il suo sentimento si sarebbe rinvigorito; il Leopardi è un poeta pensatore, nel senso che in lui i sentimenti sgorgano dalle convinzioni, come era avvenuto per Dante, per Petrarca, per Foscolo, per Parini e come, al suo tempo, si verificava per il Manzoni.
La chiarificazione filosofica si ritrova appunto nelle due opere in prosa citate. In modo più chiaro e talvolta più crudo gli stessi concetti contenuti nelle “Operette morali” e nei “Pensieri”, si ritrovano nello “Zibaldone”, cioè in una raccolta di appunti sparsi, ordinata dall’autore stesso e pubblicata dopo la morte di lui (sono appunti cominciati nel 1817 e condotti fino al 1832.
Motivi della poesia leopardiana dopi il 1827.
Il periodo 1823-1827 viene chiamato anche periodo apoetico dell’attività artistica del Leopardi, nel senso che durante quegli anni non compose versi.
Tuttavia è da notare che le “Operette” e i “Pensieri” hanno anche essi la loro poesia. La lirica risorge con l’anno 1828. La ripresa è segnata da una canzonetta metastasiana intitolata “Il Risorgimento” in cui il poeta, ristorato dal clima di Pisa, afferma che, dopo una fase di aridità e di morte spirituale, sente finalmente risorgere in sé stesso il dolore, le emozioni, la vita sentimentale insomma.
Dal 1828 al 1837 il poeta compone le liriche più potenti di tutta la sua produzione: dalle “Ricordanze” al “Tramonto della luna”.
Questo periodo si può dividere in tre fasi a seconda dei luoghi in cui egli dimorò: fase recanatese (1829-30) – fase fiorentina (1830-33) -fase partenopea (1833-37).
I motivi più importanti che ricorrono in questa produzione sono i seguenti:
a)- Il senso della miseria dell’Universo fermamente disciplinato dalla natura e ripieno di una infinità di esseri che vengo alla esistenza con una bramosa sete di vita e che, dopo un breve e dolorosissimo corso, precipitano di nuovo nel nulla.
b)- il senso della pietà per tutte le creature, particolarmente per l’uomo e tra gli uomini particolarmente per i giovani stroncati dalla natura nel pieno verdeggiare e fiorire dei loro sogni (Silvia e Nerina).
Il Leopardi, in questo periodo, è costantemente col suo spirito di fronte all’universo; una profonda pietà lo accora; e sensibile come è si avvicina a tutte le creature per consolarle affettuosamente della loro infelicità.
In tutte le liriche, dal 1828 al 1837, lo vediamo solitario, di fronte allo spettacolo tragico dell’universo frustato dalla natura, con lo sguardo attento, col tono accorato, con l’ansia di far pervenire alle creature, specie alle più piccole, la sua parola di affetto e di pietà.
c)- Il senso dello sdegno contro la natura ed il destino, responsabili di aver strutturato un universo così infelice e riprovevole per la loro insensibilità e crudeltà. Allorché il suo occhio trepido, nella miseria generale, scorge una visione più angosciosa, egli si sente ribollire nell’intimo una specie di furore contro la natura.
Egli sa che il suo grido è vano, però nel protestare e nel denunciare a tutti la nostra miseria e la malignità della natura, sembra trovare un conforto: anzi nella protesta e nella denuncia egli crede che consista la sua missione come pensatore e come poeta: “nobil natura è quella che a sollevar s’ardisce gli occhi mortali incontra al comun fato e con franca lingua, nulla al verde traendo, confessa il mal che ci fu dato in sorte…. e del suo dolor dà la colpa a quella che veramente è rea, che dei mortali madre è di parto e di voler matrigna” (“La ginestra”).
d)- Il senso dell’isolamento. Il Leopardi si compiace di appartarsi dagli uomini che, pur nella reale miseria, vivono beatamente i loro poveri giorni.
Perché questo isolamento ?
– Anzitutto esso non è generato da misantropia, bensì da una specie di istinto spirituale: nel Leopardi è nata la tendenza alla meditazione più che alla azione, e senza isolamento non è possibile il raccoglimento.
– In secondo luogo, una volta creato lo stato di isolamento, il poeta può avere innanzi a sé non questa o quella realtà soltanto,ma tutto il reale. Come nell’”Infinito” la siepe che esclude lo sguardo dal mondo sensibile, facilita l’evasione dello spirito negli spazi interminati e silenziosi dell’infinito, in cui è dolce all’anima naufragare, così la separazione dagli uomini e dalle cose, permette al poeta di osservare l’universo nella sua totalità e di riflettere su di esso.
– In terzo luogo, nella solitudine, è più facile al poeta sentire la miseria sua e quella di tutti i mortali, è più facile emozionarsi; e soprattutto egli sente l’ansia di venire a contatto affettuoso e intimo con le creature più infelici e quindi più vicine al suo cuore. Nella solitudine, infatti, ritornano le immagini più care e commoventi (Silvia Nerina, il passero solitario, la ginestra…) e i ricordi più significativi di una vita ingannata dalla natura (ad esempio: “Le Ricordanze”).
Infine la solitudine gli permette di impostare la sua poesia nella forma del colloquio, forma che è la più adatta ad esprimere lo stato d’animo meditativo.
e)- Il bisogno di tenere occupato lo spirito per evitare la noia. Il cuore umano ha bisogno di nutrirsi sempre di qualche cosa. Veramente il suo nutrimento naturale dovrebbe essere l’Assoluto, a cui aspira bramosamente; ma essendo impossibile all’uomo raggiungere l’Assoluto, vale la pena distrarre il cuore con la contemplazione di certe entità le quali hanno una straordinaria forza di suggestione: tali entità sono i sogni e i ricordi.
Si può dire che la poesia del Leopardi sia la poesia di ciò che non è: il sogno è una creazione dell’anima che spera ciò che non è e forse non sarà mai; il ricordo è l’immagine di ciò che fu ed ora non è più. E doveva essere così: infatti ciò che è il reale sperimentato, si identifica con il vero; ed il vero è di per sé arido, incapace di emozionare.
f)- L’esaltazione della giovinezza come l’età dei sogni e quindi di intensa attività spirituale, e la deplorazione della vecchiaia come l’età dell’inerzia del cuore.
g)- La deplorazione del nostro stato di coscienza, in opposizione alla incoscienza degli animali. A questi, infatti, è concesso soffrire senza che se ne accorgano, e chiudere una esistenza misera senza rimpianti.
Il passero solitario sciupa il tempo più bello della sua vita, ma “giunto a sera del vivere che daranno a lui le stelle, certo del suo costume non si dorrà”; ma il poeta si pentirà, e spesso, ma consolato, si volgerà indietro a rimpiangere lo sciupio dei beati giorni della giovinezza.
h)- Infine, dopo la delusione seguita all’amore per la Targioni Tozzetti, il Leopardi accoglie un motivo che lo avvicina molto allo Schopenhaurer: lo sradicamento di ogni desiderio, l’accettazione dell’inerzia totale dello spirito, per evitare una buona volta di cadere vittima delle illusioni di cui lo pasce perfidamente la natura: “Or poserai per sempre stanco mio cor…In noi di cari inganni, non che la speme, il desiderio è spento…. Amaro e noia la vita, altro mai nulla…. Dispera l’ultima volta” (“A sé stesso”).
Motivi pessimistici nella spiritualità della generazione contemporanea al Leopardi.
E’ stato detto che il secolo XIX soffrì della malattia della tristezza: il senso del dolore fu definito “Le mal du siècle”.
Gli scrittori evidentemente sono stati gli interpreti e e più sensibili di questa spiritualità dolorosa.
Vediamo le cause di questo stato d’animo diffusissimo nel secolo XIX, specie nella sua prima metà:
1)- Con l’Illuminismo la cultura esce dalle accademie e prende contatto diretto con la vita. Mano mano che ci si avvicina all’età nostra si nota nella storia si questi due ultimi secoli, una vigorosa tendenza a prendere contatto sempre più diretto e veristico con la realtà: i veli della fantasia, della metafisica, della teologia, vengono eliminati, affinché sia possibile cogliere nelle cose quel che c’è e solo quello che c’è. Così gli ideologi del materialismo (Cabanis, Mattrie, Contorcet), alla fine del ‘700 , vedevano nell’uomo solo energia fisica e chimica; e negavano l’esistenza di Dio, l’Inferno, il Paradiso.
Questo metodo spregiudicato di indagine piacque anche a coloro i quali non aderivano affatto alla ideologia materialistica: esso applicato alla vita portò a sgrondarla di ogni illusione e a vederla nella sua realtà: e nella sua realtà la vita è sofferenza.
Di ciò si resero conto il Foscolo, Manzoni, il Leopardi, i quali aderirono al nuovo indirizzo culturale sostanziato di realismo. Dei tre il più spregiudicato è certo il Leopardi (basta leggere il “Bruto Minore” e “La ginestra”).
L’indirizzo pratico, dunque, della cultura induce a cogliere nella vita i fenomeni reali; e tra i fenomeni reali quello più evidente è quello del dolore.
2)- La crisi generata dalla visone della realtà tale e quale veniva interpretata dalla ideologia materialistica e dalla reazione del cuore, che a quella visione non si adattava. Chi, come il Manzoni, riuscì a superare la crisi trovando l’Assoluto in Dio, insistette sul dolore umano, ma riuscì ad interpretarlo con un senso di sicurezza e di fiducia; chi, invece, come il Foscolo ed il Leopardi non aderì alla fede religiosa, interpretò il motivo della sofferenza con un senso di disperazione e di ribellione.
3)- La situazione storica della fine del secolo XVIII e agli inizi del secolo XIX.
Fu questa una età di grandi illusioni e di grandi delusioni. Con gli ideali di libertà, di uguaglianza, di fraternità, il giacobinismo illuse ed ingabbiò quasi tutti i popoli d’Europa. La reazione promise pace, libertà e progresso ai popoli durante la lotta contro il Bonaparte; ma una volta raggiunti i loro scopi, i principi soffocarono nel sangue ogni aspirazione alla libertà (ricordare le aspirazioni dei moti liberali).
Meditando su questi fatti alcuni spiriti superiori trassero la seguente conclusione: i cultori dell’ideale sono e saranno sempre dei poveri illusi, destinati a soffrire moralmente e materialmente; gli spregiudicati, i furfanti, avranno sempre la vittoria.
Di chi la colpa di questa situazione ? Educati alla spregiudicatezza ed alla bestemmia dagli scrittori francesi, molti attribuirono la colpa di tutto alla provvidenza. Fra questi fu anche il Leopardi (confronta “Bruto Minore”).
La poesia del Leopardi.
Leopardi definisce la sua poesia “poesia di sentimento”: “da principio il mio forte era la fantasia e i miei versi erano pieni di immagini…. io ero bensì sensibilissimo agli affetti, ma non sapevo esprimerli in poesia… nel 1819, privato dell’uso della vista e della distrazione della lettura, cominciai a sentire la mia infelicità in un modo assai più tenebroso…. a sentire l’infelicità certa del mondo, in luogo di conoscerla…. allora l’immaginazione in me fu sommamente infiacchita; se io mi mettevo a fare versi, le immagini mi venivano a sommo stento, ma quei versi traboccavano di sentimento” (dallo “Zibaldone”).
Il Leopardi, seguendo le orme del Vico, in un promo tempo, credette che poeta fosse chi pensa per immagini. In un secondo tempo egli avvertì che era poeta perché pensava attraverso il cuore. Questo è il senso del passo ora citato.
Poesia di sentimento, dunque, quella del Leopardi, cioè una poesia che esprime uno stato d’animo commosso, generato da profonde intuizioni dell’intelletto. Non si tratta perciò di sentimentalismo: questo è sentimento creato artificialmente, di proposito e con sforzo; mentre il sentimento è frutto di profonde convinzioni.
Il Leopardi, dunque è un poeta pensatore allo stesso modo dell’Alighieri, del Foscolo e del Manzoni.
Lo stile del Leopardi.
Quale è la forma più adatta per comporre poesia di sentimento ?
E’ la forma immediata, cioè quel modo di esprimere lo stato d’animo che garantisce ai sentimenti la genuinità e il calore naturale. La forma immediata del Leopardi assume quel particolare indirizzo che si chiama “stile di parlare animato”; ossia espressione di sentimenti sincera, accorata e spontanea, come di chi confida il suo intimo a persona che lo comprenda.
Nella canzone “All’Italia” e “Sopra un monumento di Dante” si sente ancora l’influsso della retorica, si notano immagini; e perciò composizioni tali vengono considerate ancora come di tipo classicista. Però non si può negare che anche in esse il vigore del sentimento domina sulle immagini, e che i passi più belli sono quelli in cui lo slancio sentimentale è libero e immediato.
Dal 1819 in poi il Leopardi seguì lo stile che era suo: quello del parlare animato.
Troppo convinto e troppo appassionato della sue idee fu egli, per far passare i suoi stati d’animo attraverso la via indiretta della immaginazione e della descrizione.
Così pensiero e sentimento sono una cosa sola; e l’immagine, la parola, il ritmo si riducono a puri mezzi, scelti a variati secondo l’opportunità, a servizio del cuore.
Per realizzare in pieno lo stile del parlare animato, per impostare nel modo più adatto l’effusione immediata dei sentimenti, il Leopardi preferisce quasi sempre la forma del colloquio.
Egli quasi in tutte le sue liriche, si rivolge sempre a qualcuno per confidargli le sue pene, le sue disperazioni, le sue maledizioni e le sue povere e compiante speranze. Nell’”Infinito” egli parla evidentemente al lettore – In “Alla Luna” e nel “Canto di un pastore errante egli si rivolge alla sua pietosa e comprensiva compagna delle sue meditazioni notturne. Nelle ”Ricordanze” si rivolge alle vaghe stelle dell’Orsa, alle speranze, a Nerina – In “A Silvia” alle segreta e dolce amica delle sue illusioni di adolescente – Nel “Passero solitario” si rivolge al solingo augellin tanto simile a lui nel costume- In “A sé stesso”, come in svariati passi di altri canti, procede per soliloquio.
Insomma, non v’è quasi lirica del Leopardi in cui lo stile del parlare animato non venga impostato sulla forma del colloquio.
Le immagini se capitano opportune per esprimere lo stato d’animo, vengono accolte; se non sono necessarie, il poeta non si sforza a crearle.
Anche per quanto riguarda il linguaggio e la musicalità del ritmo, il Leopardi scegli i vocaboli più comuni e i ritmi più liberi a condizione che siano adatti ad incarnare il suo stato d’animo.
La massima libertà e semplicità, dunque, unite, però, alla precisione più rigorosa. Per la precisione delle parole egli è superiore anche al Parini, al Foscolo e, a differenza di questi, ha il merito di aver usato un linguaggio molto più semplice e comune.
Nei riguardi della metrica, egli evita quasi sempre la rima, ma ottiene l’effetto musicale adeguato allo stato d’animo con una scelta sapientissima delle parole e con una ancor più sapiente collocazione di esse: così il discorso procede ora con tono accorato, ora tempestoso, ora iracondo, ora meditativo e sereno, ora freddo e disperato. Si tratta di una poesia nuova nella storia letteraria italiana. Fino ad allora si era pensato che non fosse possibile far poesia senza la bella idealizzata descrizione, attingendo al solito repertorio di immagini e di frasi create dal classicismo.
Il Leopardi insegna che si può far poesia parlando come parlano le persone comuni, a patto che si dicano cose che penetrano nell’anima e si usi un linguaggio preciso ed efficace.
Uno stile di questo genere fu adottato in antico dai lirici come Callimaco, Tirteo, Saffo, Alceo, Ipponatte ecc.: le composizioni di questi scrittori, specie quelle di Saffo sono caratterizzate da una spontaneità ed immediatezza, che le fanno del tutto simili al discorso di un’anima appassionata, intelligente e di buon gusto.
E’ proprio per questa spontaneità, per questa naturalezza genuina che, secondo il De Sanctis, il Leopardi chiamò “idilli” molti dei suoi canti.
Li chiamò “Canti” in generale perché sono “voci dell’anima” che si esprime poeticamente; chiamò alcuni di essi “idilli” perché all’idillio tradizionale essi si avvicinano per l’ingenua naturalezza, per la freschezza, per la genuinità degli stati d’animo. Così il De Sanctis.
Resta ora a vedere se il Leopardi debba essere classificato tra i classicisti o tra i romantici.
Anzitutto notiamo che, come il Foscolo e il Manzoni, dal punto di vista poetico (non dal punto di vista critico) il Leopardi fa parte a sé.
La perfetta poesia consiste nella ricchezza del pensiero e del sentimento (ispirazione) e nella immediata e precisa espressione dell’uno e dell’altro (forma). I grandi, appunto perché sono grandi, nei riguardi della forma riescono a congiungere costantemente la immediatezza e la precisione.
Fu classico o romantico il Foscolo ? Fu romantico nell’”Ortis”, ove la immediatezza prevale sulla precisione; fu foscoliano nelle “Odi”, nei “Sonetti”, nei “Sepolcri” ove immediatezza e precisione si congiungono; fu classicista nelle “Grazie”, ove la precisione prevale sull’immediatezza.
Per il Leopardi si può dire che seguì costantemente lo stile leopardiano: immediatezza accorata e precisione massima.
Il Leopardi esplicitamente si dichiarò antiromantico e precisamente per due motivi:
a)- perché i romantici “per conservare la semplicità e la naturalezza e fuggire l’affettazione dei moderni (=neoclassici), che è stata purtroppo sostituita alla dignità, rinunciano ad ogni nobiltà”.
b)- perché le opere romantiche “essendo una pura imitazione del vero, colpiscono molto meno di quello che, insieme con la semplicità e la naturalezza conservano il bello ideale, che rendono straordinario quello che è comune e produce quel sublime che innalza l’immaginazione, ispira meditazione profonda e muove il sentimento”.
Tuttavia il Leopardi professò alcuni principi che costituiscono la sostanza della poetica romantica. Ecco alcuni di questi principi: “le leggi eterne e necessarie del bello non esistono” – “il poeta non imita la natura, ma esprime ciò che la natura dice dentro di lui. Così il poeta non è imitatore se non di sé stesso.” – “l’imitare non è copiare”… Perciò non è ragionevole l’uso della mitologia greca e latina nell’età moderna, giacché non abbiamo già noi con la letteratura ereditato anche la ragione. Gli scrittori moderni che usano le favole antiche alla maniera degli antichi, eccedono tutte le qualità della giusta imitazione”. – “la poesia sta essenzialmente in un impeto. Il poeta è spinto a poetare dall’intimo sentimento suo proprio. Il sentimento che lo anima, ecco la sola Musa ispiratrice del vero poeta”.
Ma il Leopardi è da inquadrarsi nell’età romantica, non solo perché ha professato questi principi, ma anche e soprattutto perché ha adottato lo stile della immediatezza, caratteristico della composizione romantica. La poesia del Leopardi, infatti, procede quasi sempre con lo stile effusivo, essendo poesia di sentimento e costante modo di “parlare animato”. Il procedimento figurativo idealizzato nella poesia del Leopardi è assai raro. La descrizione prepara sempre la meditazione e il colloquio effusivo; ovvero ritorna qua e là nel colloquio stesso, come immagine in cui si riposa, ovvero da cui è straziato l’animo accorato del poeta: si tratta di descrizione in funzione del sentimento.
L’idealizzazione è fatta solo con note che si ritrovano nelle cose stesse, non con note tratte dalla immaginazione più o meno potenziata dalla cultura. Si tratta di note significative al sommo e colte ed espresse dall’animo con commozione.
La parte descrittiva de’ “La sera del dì di festa”, de’ “La quiete dopo la tempesta”, de’ “Il Passero solitario” accoglie note comunissime, ma scelte con una precisione ed un gusto tali da soddisfare in pieno l’esigenza del particolare stato d’animo in cui si trova il poeta. Inoltre il Leopardi compose sempre con la massima naturalezza, spontaneità e semplicità, riuscendo costantemente a commuovere, a causa della veemenza del sentimento e della espertissima precisione nel cogliere e nell’esprimere le note più emotive.
Effusività immediata, aderenza al reale, naturalezza, spontaneità, senso migliore.
Uomo intelligente e di buon gusto, quale era il Leopardi, giustamente respinse i difetti del romanticismo: la tendenza popolaresca nel pensare, nel sentire e nell’esprimersi – l’imprecisione e la approssimazione nelle immagini e nel linguaggio – la mania dell’esotismo e dell’emozionante – l’effusività clamorosa – l’oratoria tribunizia.
Colse, dunque, dal romanticismo il pregio più garantito: l’immediatezza; e seppe unirlo con il pregio più garantito del classicismo: la precisione; evitò l’imprecisione del primo e la fredda erudizione del secondo. Immediatezza più precisione sono i pregi della grande arte e, quindi, li troviamo in tutti i grandi poeti i quali non sono né classicisti né romantici, ma accolgono i procedimenti più pregevoli dell’uno e dell’altro indirizzo.
Si può dire che il Leopardi sia stato il migliore interprete di tutto ciò che di buono vi è nel romanticismo. Basti pensare che il Leopardi è riuscito a commuovere il lettore svolgendo i motivi più comuni, nel modo più semplice, senza mai ricorrere alle idealizzazioni dotte, senza impegnarsi in sforzi di immaginazione: ed era proprio questo in sostanza il proposito dei romantici: creare una poesia che commuovesse coloro che leggono e capiscono.
Come già si è detto la poesia del Leopardi è sostanziata di naturalità, è idillio nel senso più alto della parola: ossia lirica intensa, genuina e semplice. Nel comporre il Leopardi provava la sua unica e vera felicità: “nel comporre ho passato il miglior tempo della mia vita e in esso mi contenterei di durare finché io vivo. Uno dei maggiori frutti che io spero dai miei versi, e che essi riscaldino la mia vecchiezza…..
in essi depongo il calore della mia gioventù, quasi in deposito. Nel rileggerli mi commuovo meglio che in leggere poesie d’altri”.
Fu poesia di sfogo, dunque, quella del Leopardi: poesia essenzialmente lirica, nella quale egli ritrovava tutto il calore della sua spiritualità e nella quale i lettori di tutti i tempi ritroveranno interpretati, nel modo più mirabile e commovente, i motivi più gravi del loro spirito: il dolore e l’ansia dell’Assoluto.
Idilli maggiori e idilli minori.
Le liriche raccolta del Leopardi nei “Canti” sono 41. Tra queste liriche alcune sono state chiamate da lui stesso idilli e divise in idilli maggiori e idilli minori. Idillio in generale significa quadretto naturale. Per quale motivo il Leopardi abbia chiamato così alcuni suoi canti non si sa con precisione, ma il motivo più probabile è forse il seguente: in alcuni canti egli prende lo spunto da un quadretto naturale per passare poi al consueto discorso sulla infelicità sua e di tutti gli esseri. Ed appunto “il quadretto naturale”, più evidente che in altri canti, ha indotto Leopardi a chiamare idilli quei canti in cui il discorso poetico si effonde tra costanti visioni di paesaggi.
Gli idilli minori sono cinque: “L’infinito” – “Alla luna” – “La sera del dì di festa” – “Il sogno” – “La vita solitaria”.
Gli idilli maggiori sono: “Il passero solitario” – “Il sabato del villaggio” – “A Silvia” -“Canto di un pastore errante” – “La quiete dopo la tempesta” – “Le ricordanze”.
Gli idilli minori si ispirano al sentimento della infelicità personale e sono di struttura molto più vasta e complessa, di linguaggio più vario e più ricco. Il Giordani al Leopardi giovinetto dava questo consiglio: “Stile greco e lingua del ‘300”. Per quanto riguarda la lingua del ‘300 il leopardi non seguì il consiglio dell’amico, perché preferì adottare la lingua italiana di tutti i tempi scelta con gusto moderno. Seguì, invece, il consiglio relativo allo stile greco: e precisamente avvertì che per il suo stato d’animo era adatto lo stile di Saffo, della poetessa che parlava senza retorica, creando la poesia solo con la forza del sentimento, con la precisione dell’immagine e della parola, con la musicalità dolce, accorata, struggente.
ALESSANDRO MANZONI
(1785-1873)
Spiritualità del Manzoni.
La spiritualità del Manzoni è complessa ed armonica nello stesso tempo.
Spirito liberale, egli accoglie tutto ciò che di buono e di vero trova negli indirizzi filosofici, letterari e scientifici, economici con cui viene a contatto e riesce a cogliere il significato giusto degli avvenimenti e dei programmi della storia a lui contemporanea.
Indirizzi filosofici.
Egli professò, fino a che non conobbe il Rosmini (1828), la filosofia sensistica, non nel senso che di questa abbia accolto lo scetticismo metafisico a tanto meno il tono irreligioso, quanto nel senso che utilizzò di esso l’indirizzo concreto e il metodo di indagine rigoroso e chiaro. Sentì la filosofia sensistica più come illuminismo, cioè come indirizzo di indagine concreta sulla realtà umana col fine di individuare i diritti degli individui e dello stato, i mezzi per promuovere il progresso della civiltà, le forme più razionali della vita.
Del resto l’illuminismo era stato una applicazione del sensismo e del razionalismo insieme; e al Manzoni giovane la lettura delle opere dei sensisti francesi aveva eccellentemente giovato nel senso che l’aveva abituato ad esaminare i vari problemi della vita umana, sotto l’aspetto più pratico e più corrispondente all’esigenza del buon senso, evitando le impostazioni e procedimenti complicati, le soluzioni incerte e paradossali.
Egli simpatizzò per le idee illuministiche in generale, ma con senso critico, in quanto molti principi e molte riforme dell’illuminismo ripugnavano al buon senso e compivano ingiustizie. Il nonno suo, Cesare Beccaria, aveva abbattuto in pieno l’irrazionalità balorda della procedura penale tradizionale, che, nell’istruttoria dei processi, faceva uso della tortura; ed aveva criticato la pena di morte. Al Manzoni le affermazioni del nonno, del resto così ricche di buon senso, sembrarono così degne di essere accolte, che, pur senza citare affatto il nome del suo congiunto (citando invece le affermazioni sulla tortura fatte da Pietro Verri), le applicò nella critica storica intorno al processo contro gli untori nella “Storia della colonna infame”. Il principio che in forza dell’uguaglianza della natura, tutti gli uomini sono uguali, e quindi hanno uguali diritti e doveri, principio-base delle dottrine politiche illuministiche, gli sembrò così giusto che ne fece uno dei motivi fondamentali dei Promessi Sposi, ove i potenti che, in forza della loro posizione sociale e delle loro ricchezze, si credono in diritto di spadroneggiare sugli umili, sono presentati come esseri abbietti e perniciosi. Il principio illuministico che il governo è al servizio del popolo e deve garantire la sicurezza e il benessere pubblico, attraverso leggi ed iniziative sensate e opportune, e attraverso uno stile di società decisa e comprensiva nello stesso tempo, dal Manzoni accolto ed illustrato nei Promessi Sposi, ove è evidente la satira del governo spagnolo, presentato come un governo inetto e rovinoso, vanaglorioso e meschino. Basta pensare alle “grida” contro i bravi, così piene di minacce e così vuote e ridicole nei risultati; basta pensare a quel famoso presidio spagnolo in Lecco, così bravo nell’opprimere il popolo, invece di presidiarlo; basta pensare ai disgraziati provvedimenti di Ferrer durante la carestia e alle trascuranze delle autorità durante la peste: e soprattutto basta pensare alla testardaggine con cui i Governatori condussero la guerra contro Casale, la quale lasciò le cose come erano prima, e tante sciagure attirò sul Ducato di Milano.
Particolarmente cari furono al Manzoni di principi di libertà, uguaglianza e fraternità che furono propugnati dall’illuminismo e applicati, pur fra tante aberrazioni, dalla Rivoluzione Francese. A lui, uomo di carattere umile, cordiale e affettuoso, vagheggiatore di una umanità concorde e industriosa, amante della sua patria e rispettoso delle patrie altrui, quei tre ideali apparivano come i fattori più solidi di un rinnovamento universale della storia.
Essendo il suo temperamento moderato e sereno, egli sentì e visse questi principi dell’illuminismo come uno stile sensato, senza pose polemiche o rivoluzionarie (eccetto un brevissimo periodo dell’adolescenza in cui compose il poemetto “Il trionfo della libertà” su imitazione de “Il fanatismo”, “ La superstizione, “Il pericolo” del Monti).
Qualcuno ha definito il Manzoni “razionalista” : la definizione è inesatta perché se è vero che egli fu un acuto ed esigente ragionatore non si diede mai le arie di critico spavaldo e intransigente, né si avventurò mai alla creazione di teorie o sistemi appariscenti. Il razionalista invece, normalmente, si impegna in polemiche presuntuose, sottopone a critica intransigente il pensiero altrui, si compiace di creare e mettere in circolazione teorie nuove e azzardate.
L’equilibrio ed il buon senso sono due doti evidentissime nella spiritualità del Manzoni, per cui non ci fa meraviglia se egli, dopo aver eseguito per un certo tempo il sensismo, simpatizzò per la filosofia del buon senso del Cousin e per la filosofia del Rosmini, in cui venivano garantite alla verità quella universalità e quella immutabilità che non erano affatto garantite nella filosofia sensista.
Ad ogni modo il Manzoni non fu né sensista né illuminista, né cousinista né rosminiano: del sensismo come si è detto accolse l’indirizzo pratico dell’indagine, senza affatto professare le teorie gneosologiche; dell’illuminismo accolse i principi giuridici, politici, economici, sociali, senza professare il razionalismo o il meccanicismo; per il Cousin ebbe soltanto una simpatia; e della filosofia del Rosmini disse soltanto che trovava in essa tanti principi che potevano costituire una base sicura del vero in generale (egli utilizzò la filosofia rosminiana nel “Dialogo delle invenzioni”).
Indirizzo religioso.
Il fattore spirituale che costituisce la sorgente inesauribile e profonda dei pensieri, degli affetti, del costume del Manzoni è senza dubbio la religione cristiana. Fino a 25 anni, cioè fino al 1810, il Manzoni non fu né religioso né irreligioso: professò un vago deismo al modo illuminista. Dal 1810 in poi egli professò nel senso più pieno della parola la religione cattolica, con la serietà ed equilibrio che caratterizzavano la sua indole.
In un primo tempo (cioè all’inizio della composizione dei “Promessi Sposi”) egli sentì la religione come religione, come complesso di principi dogmatici e motore potentemente attivo nella storia degli individui e dell’umanità in generale. Quando alla pratica religiosa si aggiunse anche la mentalità religiosa, cioè quando egli si abituò ad impastare, ad esempio animare e risolvere i problemi più svariati alla luce del soprannaturale, allora egli pervenne a quella visione della vita che, da Dante in poi, mai nessun poeta italiano aveva avuto e aveva dimostrato di avere.
Egli stesso in una lettera dichiara che il Vangelo è agli inizi, nel corso, e alla conclusione di ogni sua indagine; e tutto ciò senza fanatismo; senza ostentazione, senza presunzione. In Francia già nel primo decennio dell’ottocento, per opere di Chateaubriand sorge il liberalismo cattolico, il quale si propone di conciliare il Vangelo, cioè la religione cristiana con i principi giuridici, politici, economici, culturali propugnati dall’illuminismo e dalla Rivoluzione francese e accettabili per la loro evidente razionalità. La Chiesa stessa, dopo aver deplorato la Rivoluzione e aver sofferto da questa persecuzioni feroci, concludeva un concordato con il Bonaparte (1801) esponente non fanatico, ma neanche languido della Rivoluzione.
Il Manzoni, che non se la sentiva di rinunciare alle belle verità, apprese dall’illuminismo e dalla Rivoluzione, sentì una gioia sincera, quando studiando la dottrina della Chiesa Cattolica, si accorse che quelle verità non solo erano già contenute nel Vangelo, ma che solo nello spirito di questo potevano avere un significato sicuro, essere attuate con efficacia, ed essere salvaguardate da aberrazioni, nell’interpretazione e nella applicazione. Egli comprese che, essendo la fonte della verità unica, cioè Dio, non potevano i principi della ragione contraddire a quelli della religione, ma dovevano da questa trarre luce per una più ampia interpretazione e vigore per una più decisa ed efficace applicazione.
L’illuminismo, particolarmente nella sua forma estremista, che era l’Enciclopedismo, in nome della ragione e della scienza, aveva affermato un contrasto tra le verità di fede e quelle di ragione, tra la Bibbia e la scienza, tra il magistero della chiesa e quello dei dotti. Il Manzoni, una volta accettata la verità che Gesù Cristo è il figlio di Dio, accetta il magistero della Bibbia, interpretato dalla Chiesa, in quanto Gesù Cristo ha confermato l’ispirazione divina della Bibbia ed ha costituito la Chiesa interprete autentica della parola divina o rivelazione.
Il principio della perfetta concordanza tra ragione e fede ricollega il Manzoni a Dante, a S. Tommaso, a S. Agostino. L’accettazione di questo principio trae con sé conseguenze di portata vastissima. Anzi tutto in forza di essa si dichiara la perfetta armonia tra cultura profana e cultura religiosa, tra attività naturali (scienza, filosofia, politica, letteratura ecc.) e attività soprannaturali (teologia, pratiche religiose, vita della grazia).
Ma la conseguenza più importante, da un punto di vista pratico, specie per una persona dotta, è la visione soprannaturale della vita, cioè l’abitudine di interpretare tutto il reale da un punto di vista religioso.
Il Manzoni soleva affermare che se il Vangelo è vero, come è vero, da esso deve partire e ad esso deve ritornare ogni nostro ragionamento. Parlando del Cardinal Borromeo, nel capitolo XXII dei promessi Sposi, dice così: “Trovò vere quelle massime e vide perciò che non potevano essere vere altre parole ed altre massime opposte, che pure si trasmettono di generazioni in generazioni, con la stessa sicurezza e talora dalle stesse labbra; e propose di prendere per norma delle azioni e dei pensieri quelle che erano il vero…..”.
Quando il Manzoni, dopo una lunga meditazione di circa 10 anni, riuscì a ricollegare la realtà, particolarmente la storia umana al soprannaturale, allora soltanto gli fu possibile dare di essa l’interpretazione più profonda e quindi più poetica. In un primo tempo, anche nel comporre inni sacri, ad una interpretazione dei soggetti trattati puramente esteriore e, diremo così infantile (un commento descrittivo dei fatti ed al massimo un commento affettivo di costume); dal 1821 egli si dimostra capace di sollevarsi sopra la realtà e di coglierla nel suo complesso intreccio, alla luce di Dio (interpretazione religiosa della storia senza grettezze, ma con cordiale senso di liberalità).
Di particolare nota è degna la conseguenza di questa stessa concordanza fra vita e religione nel campo morale, che interessava sommamente al Manzoni, il quale, spirito concreto, sdegnava di professare la religione solo teoricamente, ma si preoccupava di applicarne i principi alla vita vissuta. Egli è chiaramente avverso alla distinzione, comunemente accettata dagli uomini e un tempo anche teoreticamente difesa dal Machiavelli, tra morale della vita e morale della teoria filosofica o religiosa, tra morale del pulpito e morale della pratica, tra religiosità in Chiesa e religiosità fuori di Chiesa.
Quando, nel capito V dei Promessi Sposi, Azzeccagarbugli fa notare a Padre Cristoforo che certe proposizioni stanno bene pronunciate sul pulpito, ma non hanno senso se vengono applicate al costume pratico del vivere, quasi che la verità cambi col cambiare di luogo, il Manzoni evidentemente non approva. La verità dunque è sempre uguale a sé stessa, e sul concetto dell’eternità e immutabilità del vero il Manzoni insistette con una severità intransigente, appunto perché non gli sembrava onesto cambiare la verità a seconda degli interessi individuali: il vero è oggettivo e sono gli uomini che debbono servire ad esso, non esso che deve servire gli uomini (nelle osservazioni sulla morale cattolica e precisamente nel I° capitolo, in risposta al Sismondi, il quale si scandalizzava perché nella Chiesa cattolica ci si tenesse tanto all’unità dei fede, il Manzoni affermava che se la Chiesa cattolica è convinta di essere nel vero, deve giustamente pretendere che tutti i credenti credano allo stesso modo; se il vero è vero, vale per tutti. Per lo stesso motivo, cioè per garantire l’immutabilità del vero, il Manzoni, nel 1828, aderisce, sebbene genericamente, alla filosofia rosminiana, in quanto questa assicura assai meglio del sensismo tale immutabilità. Infine al Manzoni democratico ripugnava che ci fosse una verità per i potenti e una per i deboli, così che fossero possibili doppi pesi e doppie misure: poveri e ricchi sono tutti soggetti agli stessi e immutabili principi).
Vediamo ora praticamente i principi fondamentali qui quali si regge la concezione manzoniana della vita. Nel capitolo XXII dei Promessi Sposi si afferma: “la vita non è già destinata ad essere un peso per molti ed una festa per alcuni, ma per tutti un impiego del quale ognuno renderà conto. Dio è padre di tutti gli uomini e questi sono fratelli fra loro”; “fatti tutti a sembianza d’un solo, figli tutti di un solo riscatto….siam fratelli”.
La vita è una prova che prepara ad un’altra vita, e quindi non ha fine in sé stessa. Come prova, poi, include il concetto e la realtà del dolore, il quale è permesso da Dio, o per purificare gli uomini o per offrir loro occasione di merito. La storia umana è un eterno combattimento tra il bene e il male: sembra talvolta che il male domini incontrastato e che sulla terra non si possa realizzare la giustizia; ma la Provvidenza veglia sul movimento della storia e porta a conclusione tale movimento o nel tempo o nell’eternità. La fiducia (non la rassegnazione inerte e oziosa) è la virtù caratteristica dei suoi insegnanti in questo combattimento, cioè la certezza che alla fine la vittoria sarà assicurata al bene
A frenare le cattiverie umane, a garantire il tranquillo svolgimento delle attività individuali e sociali Dio ha costituito l’autorità. Il governo deve governare; e governare significa servire la comunità sociale: “ nessuno il quale professi il Cristianesimo può negare che non vi è giusta superiorità di un uomo sopra gli uomini, se non in loro servizio”, (capitolo XXII dei Promessi Sposi).
Il vero costituisce la norma sicura del successo in ogni attività, anche se coloro i quali l’adottano sembrano, talvolta, proprio in forza della loro onestà, andare in rovina. La Provvidenza interviene immancabilmente in aiuto dei sostenitori del vero. Il fatto che gli uomini non vivono secondo verità non permette a nessuno di svalutare la verità stessa, perché questa è garantita dalla ragione e da Dio.
Il migliore stile di vita è quello ispirato al buon senso, alla comprensione della debolezza umana, alla tolleranza dell’opinione altrui, alla intransigenza nella professione del vero: insomma uno stile liberale che accolga tutto ciò che di buono, di bello, di utile vi è nella vita; compatisca i traviamenti; non ammetta capitolazione di fronte al falso e al male (non si accettano né i don Abbondio né i don Rodrigo).
Pensiero politico
A base del pensiero politico manzoniano sono due principi:
a)- l’individuo gode di diritti a lui concessi dalla natura e a nessuna forza è lecito violarli, né alla forza dei privati, né a quella dello Stato. Ogni uomo ha il diritto di svolgere la sua attività liberamente nell’ambito di leggi giuste. Il Manzoni detesta la violenza che è la nemica del diritto e della giustizia: tanto la violenza del signorotto, quanto quella del popolo sfrenato, quanto quella dell’autorità che abusa del suo potere.
b)- gli uomini oltre che uguali per la comune natura, sono anche e soprattutto fratelli in quanto figli di Dio e redenti dallo stesso Redentore.
Da questi due principi risultano le seguenti applicazioni nel campo politico:
– la legge deve garantire ai cittadini la libertà, cioè l’esercizio dei loro diritti naturali;
– la legge deve essere uguale per tutti;
– allo stato spetta il compito di fare leggi giuste e di farle osservare seriamente (ricordare la satira delle grida e dei provvedimenti del governo spagnolo);
– il governo deve assumere tutte le iniziative più adatte per favorire il bene
comune, nel campo dell’igiene, della istruzione e dell’economia;
-al bene della società oltre che la legge contribuisce, in modo efficacissimo, la
carità, la quale è un complemento necessario del governo civile ed è
l’espressione più alta della civiltà (da ricordare l’opera del cardinale Federico
Borromeo durante la carestia e quella dei Padri Cappuccini durante la peste);
– il governo straniero è come una pianta parassita che sfrutta un organismo non
suo: esso è frutto di violenza e quindi è detestato da Dio (ricordare “Marzo
1821”); esso impedisce lo sviluppo della vitalità della nazione oppressa; e infine si riduce ad uno sfruttamento inutile per chi lo compie e per chi lo subisce;
– la causa degli Italiani, i quali aspirano alla libertà ed alla indipendenza, è causa
sostenuta da Dio, perché è giusta. Gli Italiani fidino per la soluzione del loro
problema solo in Dio e nelle loro forze: non fidino nell’aiuto di altri popoli:
perché nessun popolo aiuta l’altro per puro spirito di disinteresse (Coro
dell’Adelchi “dagli atri muscosi, dai fiori cadenti”;
– alla violenza degli stranieri è lecito rispondere con la violenza per legittima
difesa: ma è vergognoso imitare gli oppressori nel far del male. Il Carducci
affermava che ai fini della lotta risorgimentale contribuirono assi di più il
Berchet e gli altri compositori di inni patriottici del Risorgimento (Mameli,
Bossetti, Fusinato, Mercantini Brofferio) che
la poesia politica del Manzoni (“Proclama di Rimini”, Marzo 1815”, “Marzo
1821”, “Coro del Carmagnola” “s’ode a destra ecc…”, “Il coro dell’Adelchi” “tra
gli abeti muscosi”) e svariati passi dei Promessi Sposi.
Carducci infatti pensa che l’ardore dei primi ha acceso assai di più gli animi che
non la meditata esortazione del Manzoni. Alla osservazione del Carducci si
risponde che, se è vero che nessun entusiasmo è efficace senza convinzioni, la
poesia politica manzoniana vale assai di più della poesia di battaglia dei poeti
soldati: infatti il Manzoni non predicò affatto la rassegnazione al dominio
straniero e alla tirannide; anzi convinse gli italiani che la loro causa era giusta e
che Iddio era al loro fianco: ed ognuno sa che quando una causa e è presentata
sotto un aspetto religioso, gli entusiasmi sono ben basati e con facilità creano
l’eroismo.
Anche qui ci troviamo di fronte al solito metodo del Manzoni di rapportare
tutto alla religione, perché da questa ogni iniziativa trae la giusta misura,
l’indirizzo sicuro e soprattutto il coraggio per l’azione. C’è da notare soltanto
che il Manzoni, uomo equilibrato e positivo, evitò sempre di abbandonarsi agli
entusiasmi troppo facili, mentre si preoccupò sempre di porre buone basi
intellettuali, affettive e morali all’azione. Del resto il Manzoni guarda con
simpatia i movimenti arditi del popolo che mette in crisi i tiranni: basta pensare
alle sue gioie per la insurrezione piemontese del 1821 e al compiacimento con
cui segue il gesto della folla milanese, che accompagna con grida e sassate, la
carrozza di D.Gonzalo, mentre questi va via dalla città.
– Manzoni fu propugnatore di riforme, ma aborrì l’uso della violenza e della
demagogia nel chiederle e nell’attuarle. Egli fu il liberale moderato, un
riformatore ragionevole.
Basta pensare alla deplorazione con la quale egli segue il tumulto della folla
milanese nella rivoluzione di S.Martino.
– infine egli protesta contro la viltà e la soverchieria della polizia, la quale è forte
con i deboli e debole con i forti e preferisce sfogare piuttosto la sua prepotenza
contro il reo buon uomo che contro i veri colpevoli, capaci di resistere e di
metterla in crisi.
Concezione dell’umanità.
Il Manzoni nei riguardi dell’umanità non è né eccessivamente pessimista né eccessivamente ottimista . Egli infatti è abituato a guardare le cose come sono; e a chi guardi l’umanità spassionatamente, risulta che essa è composta da una gran quantità di malvagi vittime dell’istinto e soprattutto dell’orgoglio, deplorabili sempre, compatibili il più delle volte, spregevoli qualche volta (quando sono maligni, ad esempio il conte Attilio con don Rodrigo).
I malvagi, spesso, sembra che neanche loro sappiano quello che fanno: la violenza delle passioni, l’ignoranza, i pregiudizi ambientali, costumanze deplorevoli, diventate norme di vita familiare e sociale, sono fattori che inducono spesso l’uomo al male: in tal caso la malvagità, sempre odiosa in sé stessa, è da guardarsi con senso di compatimento. I buoni sono pochi: essi sono caratterizzati soprattutto di rispetto e amore verso il popolo, da delicatezza di coscienza, da senso del dovere e da una filiale fiducia in Dio.
Sembra che il Manzoni nella concezione del buono, abbia tenuto presente che il Vangelo sintetizza la perfezione della vita religiosa nell’amore di Dio e del prossimo, e perciò egli si compiace di immaginare il buono: gentile, generoso, comprensivo e liberale. Padre Cristoforo, Lucia, il cardinale Federico e Padre Felice. Tra la discreta schiera dei malvagi e il tenue gruppo dei buoni, c’è la immensa moltitudine dei mediocri, cioè della gente alla buona, la quale nella vita si regola con un po’ di buon senso e con un po’ di cristianesimo e un po’ di paganesimo, senza cattiveria vera e propria e senza virtù vera e propria (Don Abbondio, Perpetua, Agnese, Renzo, Donna Prassede).
Il Manzoni, convinto che per giudicare l’umanità e per parlare di essa è necessario conoscerla e parlarne rettamente, è necessario non disprezzarla a priori in base alle propria convinzioni o, peggio ancora, in base al proprio orgoglio, si è sforzato di acquistare la maggiore esperienza possibile della vita, studiando situazioni e caratteri, indagando nel suo mondo personale, per cogliervi atteggiamenti, tendenze, miserie e virtù che, presso a poco, si ritrovano in tutti gli uomini.
La conoscenza degli uomini, secondo lui, è necessaria per essere umani e nei giudizi e nelle azioni. Ma il fattore che più dell’esperienza e della conoscenza degli uomini alimenta il senso della comprensione e della pietà per i malvagi, e il senso della stima e dell’affetto per i buoni, è senza dubbio la religiosità vera, ossia la religiosità evangelica.
Gli innocenti perseguitati, le folle senza pastore, ignoranti, affamate, appestate, suscitano nel Manzoni un senso di preoccupazione: gli sembra quasi che un triste velo di mistero copra l’esistenza di ogni infinità di gente e che davvero gli uomini non abbiano pastori né in cielo né in terra: è la sensazione che proviamo tutti di fronte allo spettacolo del male e della miseria. Però la fede, la quale afferma l’esistenza di un Dio perfettissimo, provvidente e giusto, chiarifica la fosca visione della realtà e accende la speranza in tutti coloro i quali, per disperazione, non vogliano negare tutto e aggravare la loro situazione.
La visione del lazzaretto è tale da provocare il dubbio se esiste o no per tante miserie un sollievo o una luce di speranza: tuttavia la visione di Padre Felice, Padre Cristoforo, degli ammalati che si aiutano a vicenda, perfino delle capre che compiono quasi funzioni materne verso i piccini rimasti senza latte, diffonde una luce soave nella scena orribilmente tetra. Padre Cristoforo, a Renzo e Lucia che sono costretti a lasciare il paesello natio, assicura che verrà in tempo in cui essi si troveranno contenti di ciò che ora accade; e al termine del famoso addio ai monti aveva dichiarato: “Dio non turba mai la gioia dei suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande”.
Il Manzoni nel comporre i “Promessi Sposi” si preoccupò di mettere in evidenza questa verità, perché il problema del dolore lo preoccupava troppo, e perché ci teneva sommamente a rendersi utile ai lettori: la fiducia in Dio che raddolcisce la tragedia della città sgorga appunto da questa persuasione che coi travagli e tra le miserie, Dio prepara una allegrezza raccolta e tranquilla . Al Manzoni ripugna fare quello che hanno fatto scrittori a lui contemporanei, quali il Foscolo e il Leopardi, cioè insistere sulle sciagure umane per generare nei lettori il senso della disperazione, che oltre tutto, è vano in quanto non rimedia ai mali, bensì li aggrava.
Il Manzoni, dunque, positivo com’è, non solo non nega che la vita è, presso a poco, un’immensa sciagura, come hanno affermato il Foscolo e il Leopardi (del resto nella religione cristiana la vita terrena è definita esilio, schiavitù d’Egitto, valle di lacrime), ma analizza in tutte le sue articolazioni infinite la realtà del dolore: tuttavia, essendo il suo scopo quello di rendersi utile alla umanità e di non tradire mai il vero, anche se le sue impressioni soggettive lo indurrebbero, talvolta, ad assumere atteggiamenti tragici e disperati, egli illustra con tono simpatico e convinto i motivi che debbono indurre gli uomini a sperare bene, anche nel dolore. Questa buona volontà di venire incontro alle sofferenze umane, lo induce a rendersi utile anche a coloro che soffrono mali causati dalla loro cattiveria: egli vuol mostrare che vi è speranza e luce anche per i traviati. C’è una possibilità di redenzione per la monaca di Monza, per l’Innominato, perfino per don Rodrigo, la cui sorte, a termine del romanzo, resta ancora indecisa, ma non definitivamente pregiudicata.
Il Manzoni ha voluto riassumere il suo pensiero circa il terribile problema del male, al termine dei Promessi Sposi, ponendo come sugo della storia, questa affermazione: “i guai vengono bensì spesso perché ci si è dato cagione; e quando vengono per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce e li rendono utili per una vita migliore”.
Il Manzoni, dunque, riconosce che la vita è un complesso di guai, ma propone come mezzo per restar salvi nella lotta e per uscirne vittoriosi, la fiducia in Dio, ossia la certezza che Dio garantisce la vittoria del bene sul male: e ciò non vale solo per chi sempre nutrì tale fiducia militando nel campo dei buoni, ma anche per chi, dopo aver militato nel campo dei malvagi, esaurito dal male, ha sentito il bisogno di ritornare all’ovile e di mettersi al servizio di una causa un tempo osteggiata.
La visione dell’umanità soggetta alle forze del male è certamente la più impegnativa e quella a cui il Manzoni ha dedicato maggiormente la sua attenzione, ricollegando intorno ad essa la trama di tutto il romanzo tuttavia non mancano visioni di umanità lieta e discretamente evoluta: sono visioni che costituiscono una specie di oasi nella rappresentazione del grande dramma della vita.
Il Manzoni, amante della famiglia e di una tranquilla esistenza trascorsa nel lavoro e nel culto degli affetti più dolci, si compiace spesso, nelle sue opere, specie nei Promessi Sposi, di presentare al lettore scene di vita famigliare, pervase di decoro e di cordialità.
Qualche critico (Croce, Russo) ha affermato che la straordinariamente varia realtà della vita è stata dal Manzoni immiserita, in forza dei suoi pregiudizi religiosi e morali, che lo avrebbero indotto a dividere l’umanità in due gruppi: il gruppo dei bianchi e quello dei neri, il gruppo dei buoni e quello dei cattivi, e a giudicare con benevolenza gli uni e con rigida intransigenza gli altri; e che soprattutto il pregiudizio religioso gli avrebbe impedito di accogliere tante belle realtà della vita che non si conciliano con la sua angusta visuale cristiana. Ma a chi legge e comprende i Promessi Sposi non sfugge che la religione e la morale del cristianesimo non restrinsero affatto la mentalità del Manzoni, ma che, anzi, gli permisero di osservare il mondo umano da un punto di vista così vasto, e con un senso così liberale, che nessuna delle forme dell’umana esistenza sfuggì al suo intelletto e al suo cuore.
Pensiero letterario.
La poetica del Manzoni è in stretto rapporto con la sua concezione del vero e della vita. La critica illuministica soprattutto e quella romantica avevano insistito sulla necessità di porre la letteratura al servizio della vita e di bandire, una volta per tutte, per sempre, dal mondo moderno, il tipo di letterato adulatore dei potenti, chiacchierone a vuoto, presuntuoso e gretto.
Gli illuministi al poeta accademico di salotto avevano opposto lo scrittore che, in forma spigliata ed agile, illustrasse alle persone colte i problemi della vita moderna, impegnandolo, nello stesso tempo, in una spregiudicata polemica contro le irrazionalità delle tradizioni; i romantici proponevano una letteratura decisamente popolare, moderna, nazionale, naturale, che fosse accessibile anche alle persone di media cultura e, attraverso opere ricche di motivi fantastici e sentimentali, riuscisse a far penetrare nelle masse gli ideali della rinascita morale, politica e sociale della nazione italiana.
Tanto l’illuminismo che il romanticismo propugnano una letteratura sostanziosa nel contenuto, attraente e libera nella forma, adatta alla mentalità ed al gusto della generazione moderna. : l’unica differenza che intercorre tra i due programmi letterari è che gli illuministi propugnano una letteratura di pensiero per le persone colte, i romantici una letteratura di fantasia e di sentimento per il popolo, cioè, come dice il Berchet, per coloro i quali leggono, capiscono e si commuovono (il Manzoni accetta i letterati sostanziosi); i due indirizzi si diversificano per i destinatari e per la forma, in quanto gli illuministi si rivolgono agli intellettuali (non più ai soli letterati) e fanno uso di una forma espositivo-razionale variamente snellita ed avviata; i romantici si rivolgono anche alle persone di media cultura e fanno uso di una forma fantastico-sentimentale che è la più efficace quando ci si rivolge a persone di mentalità media, con le quali è sempre necessario adottare un metodo strettamente intuitivo.
Il Manzoni accoglie il principio illuminista e romantico che la letteratura non è autonoma, cioè non ha fine a sé stessa, ma, con tutte le altre attività della vita, ha la funzione di promuovere e potenziare lo sviluppo dello spirito umano. La religiosità seria ed attiva venne a confermare questa persuasione del Manzoni : la religione, infatti, insegna che la vita è un impiego utile di cui si dovrà rendere conto a Dio. Tra le attività umane, poi, il Manzoni sa che la più influente, per la formazione delle anime o almeno dell’opinione delle classi colte, è quella letteraria; e, perciò, è cosciente della grave responsabilità religiosa e morale che si assume dedicandosi alla missione di scrittore.
Se talvolta sembra sorridere sulla vanità degli scrittori che si reputano come dei in terra, e sembra svalutare l’attività letteraria con battute umoristiche, così frequenti nei Promessi Sposi, la cosa è da attribuirsi al fatto che il Manzoni giudicava il valore e la gloria dell’arte da un punto di vista tutto diverso da quello adottato dai poeti megalomani: questi si credevano sommi perché parlavano un linguaggio da ispirati e si sentivano del tutto superiori al volgo; Manzoni riponeva la vera grandezza nel sapersi rendere utile a sé stesso e agli altri. Perciò egli afferma che “se le lettere non avessero altro fine che quello di dilettare quelle persone le quali non fanno altro che divertirsi, esse sarebbero l’ultima, la più vile, la più servile delle professioni”.
Il poeta che vive appartato dalla plebe, che dimora perennemente nel regno delle Muse, o che vola come un cigno sopra la misera schiera dei mortali, è da considerarsi come un personaggio ridicolo; e il poeta che dimora nelle case dei ricchi e si presta con le sue trovate, più o meno insulse, a divertire gli oziosi, è una figura estremamente miserabile: né il primo con il suo orgoglio, né il secondo, con la sua viltà d’animo, sono in grado si assolvere quella sublime missione che la provvidenza ha affidato agli scrittori, che è essenzialmente missione di alto e delicatissimo magistero.
Il concetto base di tutta la poetica manzoniana è questo: il poeta è maestro dell’umanità, non soltanto maestro dei ricchi e degli intellettuali, ma anche e soprattutto delle persone umili. Dalla sua opera dipende l’elevazione spirituale del popolo. Perciò è suo dovere sacrificare il suo orgoglio, smetterla con le sue arie da superuomo, chiarificare la coscienza dei suoi impegni e delle sue responsabilità e sforzarsi il più possibile di intendere il cuore umano in qualunque petto palpiti e non più soltanto il cuore dei signori e delle dame. Per Renzo, già brillo nell’Osteria della Luna Piena, il poeta è come un cervello balzano, che nei suoi discorsi e nei fatti, ha più dell’arguto e del singolare che del ragionevole, un uomo che sembra perpetuamente in stato di euforia, ed è specializzato nel dire cose curiose.
Purtroppo il popolo ha del poeta una concezione del genere, eguale a quella di Renzo; evidentemente la colpa non è del popolo, ma del poeta. Gli umili, infatti, o meglio la massa in genere non ha mai veduto un poeta circolare nei suoi ambienti, interessarsi delle sue miserie, simpatizzare per le sue opere, non lo ha mai sentito pronunciare una parola di pietà e di incoraggiamento nei suoi confronti: lo ha soltanto visto in compagnia di ricchi, in splendidi salotti, tra eleganze e ozi, applaudito dai variopinti gruppi di dame e di gentiluomini che egli si sforza di tenere allegri.
Il Manzoni, seguendo il pensiero degli illuministi e dei romantici, e soprattutto seguendo l’impulso della sua religiosità, si accorge che è necessario smetterla con questo distacco tra scrittori e popolo.
Ammessa la necessità che lo scrittore esca dalle accademie e dai circoli letterari e discenda dalle false sublimità, per mettersi a contatto con i comuni mortali (e soprattutto con il popolo che fino ad oggi è stato trascurato e che, come la folla dei Promessi Sposi, sembra non avere né pastore né maestro, e che secondo lo spirito del Vangelo deve essere più curato perché ha bisogno di assistenza spirituale, si prospettano i seguenti principi fondamentali della poetica manzoniana.
Se il poeta non è un uomo specializzato nell’inventare cose curiose o nel divertire coloro che non fanno altro che divertirsi o nel parlare un linguaggio incomprensibile, ma un maestro di vita al maggior numero possibile di attori, egli deve dire la verità.
E ciò per questi motivi:
a)- perché no si concepisce un maestro che dica il falso, in quanto l’educazione ha come unica base il vero;
b)- perché i lettori quando si accorgono che lo scrittore dice sciocchezze, sentono per lui pietà e disprezzo benché egli sia riuscito a dar prova di una eccellente abilità tecnica o di linguaggio;
c)- perché il senso morale e religioso proibisce a chiunque e quindi anche ai poeti di dire il falso, anzi lo proibisce soprattutto ai poeti ai quali spetta una responsabilità gravissima come educatori.
Vediamo ora in che senso deve essere inteso il termine “Verità” nella poetica manzoniana. Dalla lettera sul romanticismo, al marchese Cesare D’Azeglio, e da quella allo Chauvet “Sull’unità di tempo e di azione della tragedia”. E da altri scritti critici del Manzoni si può ricavare il concetto esatto di verità. In un’opera qualsiasi i fattori che entrano in combinazione sono: l’argomento o soggetto, l’ispirazione, la forma o modo di sviluppare il tema, il linguaggio. Il termine verità evidentemente viene applicato a tutti questi fattori e possiamo, perciò, parlare di una verità di argomento o di soggetto, di una verità di ispirazione, di una verità di forma, di una verità di linguaggio.
Verità di soggetto.
Evidentemente si parla di verità di soggetto quando questo è un argomento tratto dalla storia o dalla scienza: quando si tratta di un soggetto fantastico la verità interessa solo quei motivi che sono tratti dalla realtà del mondo umano e del mondo della natura.
Questa verità consiste nel rappresentare i fatti o i fenomeni così come essi sono avvenuti o come avvengono, senza pretendere di deformarli arbitrariamente o di sfigurarli per settarismo o di ignorarli per la lasciare la libertà al gioco dell’immaginazione. Al Manzoni, come vedremo, interessano particolarmente gli argomenti storici perché questi sono più ricchi di spunti educativi ed umani. Ebbene egli sostiene che allo stesso scrittore che tratti un argomento storico non è lecito falsificare i fatti, per nessun motivo: se lo facesse rischierebbe di screditarsi di fronte ad uno scrittore che avesse studiato e quindi conoscesse bene l’argomento da un punto di vista storico; in un secondo luogo commetterebbe un atto non onesto; in terzo luogo toglierebbe a sé stesso la possibilità di interpretare con esattezza il significato vero del fatto storico.
Rispetto, dunque, alla verità storica. Al genio dello studioso è riservato il compito di non falsificare i fatti, ma di interpretare l’intreccio psicologico che li ha generati e che dalla storia è rarissimamente individuato ed esposto, cosicché egli riesce a riempire i vuoti lasciati dalla storia tra un momento e l’altro di una vicenda. Ad esempio volendo trattare il soggetto storico “Il conte di Carmagnola”, è necessario studiare con attenzione le vicende della vita di quest’uomo e tener presente tutto l’intreccio dei fatti quale risulta dalla critica storica oggettiva: tra un momento e l’altro della vicenda la storia lascia dei vuoti; al poeta spetta riempirli individuando sempre, alla luce del filo dei fatti, il filo della psicologia che li ha generati. Per questo è necessario che ogni scrittore, il quale voglia trattare un argomento storico, studi prima scientificamente l’argomento stesso. Il Manzoni prima di comporre “Il Conte di Carmagnola”, fece un lungo studio storico per rendersi conto se il conte fosse stato o no veramente colpevole; prima di comporre l”Adelchi” fece un lungo studio sulla condizione degli italiani durante il dominio longobardo in Italia (“Discorsi sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia”); prima di comporre “I Promessi Sposi” studiò a fondo le grida del governo spagnolo nel Ducato di Lombardia, la “Historia patria” del Ripamonti, i “Ragguagli” del Tadino, le “Osservazioni sulla tortura” del Verri. Al termine della storia della “Colonna infame” deplora che il Parini abbia commentato poeticamente senza rendersi conto se gli untori giustiziati a Milano, al tempo della peste del 1630 (sul luogo del supplizio fu eretta una colonna detta “infame” con una scritta che tramandava ai posteri l’esecranda memoria dei colpevoli), fossero o no veramente colpevoli. Il Manzoni cerca di spiegare l’atteggiamento del Parini in questo modo: ai tempi del Parini si credeva che al poeta spettasse il privilegio (che non si concede a nessuno) di utilizzare il vero e il falso, purché si riuscisse o con l’uno o con l’altro a generare nei lettori impressioni forti o piacevoli. Su questo privilegio sciocco e ingiusto il Manzoni osserva: il pubblico concedeva, a quei tempi, un simile privilegio ai poeti perché dicessero questi il vero o il falso, nessuno credeva che facessero sul serio. E il Manzoni conclude: appare strano che i poeti potessero essere soddisfatti e del privilegio e del motivo di esso: confermare un pregiudizio, utilizzare la propria autorità di scrittore per infamare gli innocenti o per esaltare dei criminali, è un privilegio che non deve essere concesso a nessuno.
Verità d’ispirazione.
La poesia non consiste nell’inventare vicende e intrecci, perché si può fare poesia anche con argomenti tratti dalla realtà. L’essenza della poesia è nella interpretazione del soggetto che si tratta, sia esso inventato che storico, e nel modo di esprimere questa interpretazione.
Il primo passo della poesia, dunque, consiste nella interpretazione della vita intima del soggetto; il secondo consiste nel trovare lo sviluppo adatto di questa vita intima; il terzo nel trovare la parola adatta per rappresentare agli altri questo sviluppo: si tratta di tre argomenti sono teoreticamente distinti, perché in pratica, l’interpretazione della vita intima del soggetto, sviluppo di essa, linguaggio per rappresentarla agli altri normalmente sono concomitanti nel tempo.
Vediamo in che cosa consista la verità d’ispirazione o d’interpretazione e in che modo si possa giungere ad essa.
Ogni soggetto, o storico o inventato, presenta svariati aspetti che contribuiscono a determinare la fisionomia morale. Ad esempio il Bonaparte è un personaggio che si può considerare da svariati punti di vista: dal punto di vista militare, politico, civile, morale, religioso, affettivo: tutti questi aspetti, presi a sé non ci danno il vero Bonaparte, presi insieme invece, rapportati fra loro e armonizzati, ci danno la vera fisionomia del grande personaggio: egli incarna la potenza umana, riflesso di quella divina che sfolgora nell’azione e scompare nella miseria, per riapparire in una luce nuova più pura e più simpatica. Questa fisionomia spirituale del soggetto si chiama anche vita intima di esso. La vita intima del soggetto dunque è il significato più profondo di esso, quale risulta dalla sintesi di tutti i suoi aspetti. Il poeta che interpreta solo un aspetto, dice del soggetto solo un cosa e il suo svolgimento poetico è unilaterale. Il poeta che interpreta aspetti secondari, fa uno svolgimento superficiale; il poeta che coglie tutti gli aspetti, ma non riesce a sintetizzarli, fa uno svolgimento dispersivo e confuso.
Per individuare, dunque, la vita intima del soggetto, cioè la forma più completa e significativa di esso. È necessaria una eccellente capacità di analisi e di sintesi, cioè la capacità di cogliere nei vari aspetti del soggetto, un motivo comune che li raccoglie organicamente in una immagine vitale.
Per approfondire l’analisi e la sintesi, è necessaria una luce che permetta, allo spirito del poeta, di vedere chiaro nell’intimità del soggetto: tale luce è costituita dalla cultura, particolarmente dalla cultura filosofica e religiosa.
Siccome per il Manzoni ogni sintesi deve essere compiuta alla luce della verità somma, cioè alla luce della verità cristiana, ogni soggetto deve essere interpretato alla luce dei principi del vero naturale e soprannaturale: interpretazione religiosa del soggetto, data la grandiosità e la vastità dei principi cristiani, è sempre la più sicura e la più significativa.
Tanti scrittori, forniti di ottima intelligenza e di straordinaria sensibilità, non riescono a cogliere la forma più significativa dei loro soggetti, perché non hanno una mentalità filosofica o religiosa in cui inquadrarli, e nella quale, soltanto, sarebbe loro possibile coglierli negli aspetti più universali e più espressivi. In un passo delle opere inedite e rare, il Manzoni deplora che il Victor Hugo, così geniale nell’inventare intrecci e situazioni, non riesce, spesso, a capire il significato vero dei motivi che svolge.
Essendo la verità unica, è chiaro che il vero significato di una soggetto è unico e che quindi l’interpretazione più profonda e più piena di un soggetto è ugualmente unica: i poeti riescono ad avvicinarsi ad essa con maggiore o minore fortuna: rarissimi sono coloro che riescono a coglierla pienamente (e questo sono i geni).
Verità di espressione o di forma.
La forma è l’organismo in cui si incarna il significato ultimo del soggetto trattato. Il poeta una volta individuata nell’interpretazione la vita intima del soggetto, la sviluppa, cioè la incarna in un intreccio di vicende, in situazioni psicologiche e causali, in sentimenti, in pensieri, in gesti, in parole in azioni. In altri termini: definito il soggetto nel suo aspetto e nel suo significato più vero, il poeta fa in modo che esso si muova coerentemente alla sua natura intima. Si può dire, infatti, che nella fase della interpretazione il poeta scorga la forma del soggetto in nucleo e che nella fase dello sviluppo alimenti questo nucleo con le risorse della sua fantasia, della sua intelligenza e del suo sentimento, in modo da farlo crescere in forma di vero e proprio organismo.
Riguardo allo sviluppo di questo organismo, cioè riguardo alla forma, sono da notarsi i seguenti principi:
a)- ogni soggetto ha la sua forma. Infatti ogni soggetto ha la sua vita intima particolare e quindi esige un particolare sviluppo di essa. Il Manzoni deplora il principio dei retori classicisti i quali hanno sostenuto per tanti secoli che per soggetti diversi, purché appartengano allo stesso genere, valgono le stesse leggi di sviluppo: ad esempio per soggetti tragici, appunto perché appartengono al genere tragico, valgono le stesse leggi di unità di tempo, di luogo e di azione, con la conseguenza che vite diverse, con energie e potenzialità diverse, debbano seguire lo stesso ritmo di sviluppo. E’ per questo motivo che il Manzoni rifiuta (lettera al D’Azeglio) le regole arbitrarie dei retori: esse non fanno altro che sviare l’attenzione dello scrittore dalla forma intima, che è propria di ciascun soggetto, per concentrarla sul problema insolubile dell’adattamento di una vita particolare entro forme fisse, comuni a tutti: di qui l’artificio, la innaturalità e, spesso, la irrazionalità di certi sviluppi.
b)- forma naturale. Nella prefazione al “Conte di Carmagnola” il Manzoni dichiara esplicitamente di abbandonare le unità di luogo, di tempo, di azione fissate dai retori alla tragedia, per non essere costretto a sacrificare la naturalità dello svolgimento.
Per naturalità il Manzoni intende la corrispondenza tra la forma interiore del
soggetto e la forma che il poeta sviluppa: evidentemente in uno sviluppo naturale la forma creata dal poeta si identifica con la forma del soggetto, in quanto quella nonché questa è passata dallo stato nucleare a quello di organismo maturato.
c)- forma verosimile. Ogni forma deve essere verosimile, ossia il poeta deve far pensare, sentire, agire e parlare i suoi personaggi, così come nella vita vissuta penserebbero, sentirebbero, agirebbero ecc. come persone che si trovassero nella stessa situazione.
Lo sviluppo, dunque, della vita intima del soggetto, pur essendo autonomo, cioè pur traendo legge solo dalla su natura, e non dal di fuori, tuttavia deve essere condotto sulla falsa riga della realtà, perché l’arte consiste nel creare una vita e ai lettori è nota la vita reale dell’umanità. La corrispondenza tra la vita creata dal poeta e la vita reale si chiama verosimiglianza.
Nemica della verosimiglianza è la stravaganza, cioè la innaturalità di certe situazioni, di certi sentimenti e di certe iniziative che vengo attribuite al soggetto. La stravaganza è frutto di arbitrio, di artificio voluto dall’artista o imposto dalle regole, ed è propria di coloro che non hanno nessuna intenzione di interpretare la vita e di educare i lettori a viverla, ma hanno solo intenzione di divertirsi o di divertire. In conclusione la forma è individuale (cioè propria di ogni soggetto), naturale (cioè coerente con la vita intima del soggetto), verosimile (cioè coerente con la realtà della vita vissuta). Forma vera , dunque, è quella che corrisponde alla vera vita intima del soggetto e alla vita reale dell’umanità.
Perché lo scrittore possa sviluppare la vita intima del soggetto, con verosimiglianza, ossia perché possa far pensare, sentire, operare i suoi personaggi così come nella vita vissuta operano personaggi reali che si trovino nelle stesse situazioni di quelli inventati dal poeta, è necessario che questi abbia una profonda e vasta conoscenza della psicologia umana. Per questo motivo è necessario che il poeta esca dal chiuso del suo studio, delle accademie e dei salotti, e si metta a contatto diretto con gli uomini veri.
Il tipo del poeta che vive solitario nel regno delle Muse e trae ispirazione dalla sua fantasia esaltata dalla suggestione o falsata dai ricordi letterari, secondo il Manzoni era tollerabile in un’età in cui il popolo o l’uomo in generale non aveva alcuna funzione nella vita pubblica, essendo il destino di una nazione affidato all’arbitrio e all’egoismo di uno solo o di una sola famiglia.
Nell’età moderna il poeta deve essere a contatto con il popolo o con l’umanità, perché l’affermarsi della democrazia esige che tutte le attività della vita, e la letteratura in particolare, passino al servizio del progresso. Al giovane Marco Coen che in una lettera si lamentava col Manzoni perché il babbo non gli concedeva il permesso di dedicarsi alle lettere piuttosto che al commercio, il Manzoni rispondeva osservando che, tra la letteratura e il commercio non esiste affatto contrasto, in quanto la pratica degli uomini, che si acquista attraverso la pratica del commercio, è di straordinaria utilità al poeta a cui è necessaria una profonda conoscenza della vita.
Tuttavia il Manzoni esclude decisamente la pretesa di certi romantici( e di certi scrittori veristi più tardi) che al poeta fosse necessario e lecito sperimentare tutte le forme di vita, anche quelle proibite, per poterle poi descrivere con fedeltà: il Manzoni osserva che per conoscere le varie forme di vita, basta semplicemente osservarle con intelligenza ed ampiezza mentale, e non è affatto necessario sperimentarle direttamente.
Verità di linguaggio.
Come il pittore si serve delle linee e dei colori, lo scultore si serve delle linee e dei giochi di ombre e di luci nei rilievi, il musicista si serve dei suoni, per esprimere ciascuno il suo mondo interiore, così il poeta si serve della parola per esprimere la vita del soggetto che egli interpreta e sviluppa interiormente. Ogni uomo mentre pensa e sente, pensa e sente parlando a sé stesso: la parola infatti sia interiore che espressa, è l’incarnazione del pensiero e dell’affetto.
A proposito del linguaggio, i classicisti al tempo del Manzoni , e prima di lui, avevano sostenuto che esiste una lingua e un linguaggio cosiddetti poetici. Ad esempio cigno invece di poeta, liquido cristallo invece di acqua, desio invece di desiderio; sono termini poetici. Il Manzoni osserva che nessuna parola di per sé stessa è poetica, né impoetica; semmai si può fare una distinzione fra parole del linguaggio letterario e parole del linguaggio comune. Ma anche quest’ultima distinzione dal Manzoni è rifiutata, essendo stata da lui rifiutata la distinzione tra letteratura e vita.
Il linguaggio per il Manzoni è poetico solo quando esprime con precisione ed efficacia il pensiero. E siccome il poeta deve parlare agli uomini del suo tempo, per farsi intendere da questi deve adottare la loro lingua, cioè una lingua viva ed una lingua che sia parlata dal maggior numero possibile di persone, cioè una lingua universale.
Il Manzoni, specie dopo la unificazione dell’Italia, si occupò del problema della lingua nazionale, cioè si propose di individuare la lingua che doveva essere adottata da tutte le persone colte italiane negli scritti letterari, negli atti ufficiali della amministrazione pubblica, nella conversazione tra persone colte. Tuttavia, già subito dopo la prima edizione dei “Promessi Sposi” (1827), egli si interessò del problema e lo risolse. Egli partiva dal concetto già affermato dagli illuministi e particolarmente dal Cesarotti (nel “Saggio sulla filosofia delle lingue”) che la lingua è l’espressione dei pensieri e dei sentimenti e che, essendo pensieri e sentimenti in continua evoluzione, anche la lingua è in continua evoluzione. Proporre una lingua arretrata di 500 anni, come facevano i sostenitori del vocabolario della Crusca, significava costringere gli uomini dell’800, la cui civiltà era assai diversa da quella del ‘500, a fare uso di una lingua inadeguata e spesso incomprensibile.
Il Manzoni anche nella soluzione del problema della lingua procede con logica razionale. Egli ragiona così: la lingua di una generazione è quella parlata dal maggior numero possibile di persone che vivono nella generazione stessa; noi italiani, per l’influsso esercitato sugli scrittori e sulle persone colte in generale, dai primi grandi scrittori della nostra letteratura, che erano toscani (Dante, Petrarca, Boccaccio) da tanto tempo abbiamo appreso la lingua toscana: questo è un dato di fatto: tutti noi oggi toscaneggiamo in lingua.
Sicché la lingua toscana è la lingua del popolo italiano, ossia è la lingua universale in Italia. Ma un’altra caratteristica della vera lingua è essa sia viva, cioè parlata dalle generazioni in cui vive lo scrittore. Applicando il concetto di universalità e di attualità al problema della lingua italiana, la conclusione è senz’altro questa: la lingua toscana parla dalle persone colte toscane (non è il toscano del ‘300) è la lingua degli italiani.
Così il Manzoni trovava una lingua che era, nello stesso tempo, universale e viva.
A chi si scandalizzava perché egli proponeva come lingua nazionale la lingua viva di Firenze, quasi che intendesse proporre il dialetto popolaresco fiorentino, egli osservava che intendeva parlare non del “ribobolo” (dialetto popolaresco fiorentino), ma della lingua delle persone colte.
In base a quest’ultima soluzione, egli, fin dal 1828, iniziò la correzione dei “Promessi Sposi”, ricorrendo all’aiuto di persone esperte della lingua toscana viva e colta (Giusti, Emilia Luti, Capponi). E quando, nel 1867, la Commissione Governativa per l’Unità della lingua italiana invitò i grandi letterati del tempo ad esporre la loro opinione, il Manzoni presentò la sua “Relazione sull’unità della lingua e dei mezzi di diffonderla”, relazione la quale esponeva la soluzione che abbiamo riferito sopra: nessuna distinzione fra lingua scritta e lingua parlata.; la lingua italiana è quella adottata dalle persone colte di Firenze. Tuttavia non si deve credere che il Manzoni non abbia riconosciuto altra fonte di lingua all’infuori del vocabolario, della grammatica e della sintassi delle persone colte fiorentine: egli, infatti, capiva che la lingua di Firenze non era assoluta e che quindi poteva non offrire tutti i mezzi di espressione necessari praticamente ai vari scrittori: perciò a chi non avesse trovato le forme linguistiche necessarie nel patrimonio linguistico fiorentino, egli consigliava di utilizzare lo splendido patrimonio linguistico del passato, cioè opere dei grandi scrittori ed anche il “Vocabolario della Crusca”
Tutto questo per quanto riguarda la lingua, cioè i mezzi di espressione attraverso la parola. Nessuna distinzione tra lingua letteraria, scritta, nessuna distinzione tra la lingua poetica e lingua comune.
Circa il linguaggio tuttavia, ossia circa l’uso della lingua che fa ogni scrittore e ogni parlante, il Manzoni riconosce che si può fare una distinzione tra uso poetico e non poetico della lingua e fra linguaggio della prosa e linguaggio della poesia.
Il linguaggio della poesia è più preciso ed efficace di quello usato per esporre semplicemente il pensiero di un discorso puramente espositivo. La poesia, sia essa in versi, come in prosa, per essere efficace fa uso di immagini, specie nel discorso lirico in cui una ispirazione di tono intenso si esprime con un linguaggio normalmente concentrato, ossia tale che in breve dica molto e dica in modo intuitivo. Il linguaggio è poetico solo in forza della capacità espressiva dello scrittore, non in sé stesso.
Conclusione intorno al concetto del vero.
Nell’ode “In morte di Carlo Imbonati” il Manzoni, ansioso di giungere alla vera poesia e soprattutto all’originalità, si faceva rivolgere, dal defunto amico della madre, questo consiglio: “sentire e meditare….. il santo vero mai non tradir”. Benché ancora ventenne il Manzoni intuiva, in quest’ode, i principi fondamentali della sua poetica futura: l’arte è frutto di meditazione, cioè di pensiero, l’arte è frutto di sentimento: oggetto della meditazione e della passione del poeta è il vero, ogni vero, rapportato sempre al vero sommo, cioè a Dio.
Concetto di interessante.
Il Manzoni nella prima edizione della “Lettera al marchese Cesare D’Azeglio” sul Romanticismo (la prima edizione è del 1823, la seconda del 1845) afferma che il vero poeta deve proporsi l’utile per scopo, il vero per soggetto e l’interesse per mezzo. Il concetto di utile è già stato illustrato quando si è detto che il poeta è maestro del popolo: si tratta di una utilità morale, in quanto l’arte non deve mirare a divertire, ma ad arricchire lo spirito umano. Abbiamo illustrato anche il concetto di vero. Vediamo che cosa intenda il poeta per interessante.
Interessante è ciò che attrae l’attenzione del lettore; e lo scrittore deve preoccuparsi di tenere desta l’attenzione dei suoi lettori con una sapiente scelta dell’argomento e soprattutto con la presentazione di scene della vita umana in cui ciascuno ritrovi parte di sé stesso e ritrovi l’eterno volto dell’umanità.
Il Manzoni non simpatizza per i temi e gli intrecci irreali che dilettano soltanto la curiosità della fantasia: egli preferisce, come già si è detto, i temi storici, e precisamente di storia che abbia un certo rapporto coi lettori immediati dell’opera (ad esempio per i suoi lettori lombardi egli sceglie la storia della Lombardia del secolo XVI con richiami a località e personaggi ben noti agli abitanti di quella regione).
Allo svolgimento di descrizioni paesistiche, che il più delle volte si risolvono in esercitazioni di bravura, egli preferisce la descrizione della psicologia umana, individuale e collettiva. Insomma egli è convinto che all’uomo interessa soprattutto l’uomo, la vita vera nei suoi eterni aspetti.
Arte e morale.
Il Manzoni affronta il problema del rapporto tra arte e morale con mirabile chiarezza di idee e con perfetta coerenza ai principi della sua poetica basata sul vero. Egli distingue anzitutto l’osceno dall’immorale: osceno è ciò che è vergognoso mettere in vista o perché schifoso o perché provocante alla sensualità, e che la natura stessa, dandoci il pudore, ci ha insegnato a coprire. Evidentemente osceno possono essere soltanto le cose (ad esempio certe parti del corpo). Immorale è ciò che non è conforme ai principi ed alle leggi della morale: può essere immorale una azione o una affermazione (ad esempio affermare che un delitto è una buona azione,significa fare una affermazione immorale; similmente deridere il bene, significa commettere un gesto immorale).
Applicare i concetti di osceno e di immorale all’arte.
Il Manzoni, come tutti i romantici, afferma che nessuna realtà è esclusa dal mondo della poesia, in quanto nessun soggetto di per sé è impoetico, tuttavia, per motivi di decenza e di rispetto verso i lettori, e soprattutto per non essere responsabili di turbamenti passionali e quindi di colpe, è bene che il poeta rinunci il più possibile a trattare soggetti schifosi o scandalosi. Si potrebbero anche trattare soggetti scabrosi, ma bisogna saperli redimere con una profonda interpretazione del loro significato umano, e soprattutto bisogna svolgerli con la massima prudenza e con il massimo decoro (ad esempio l’episodio della monaca di Monza nei Promessi Sposi).
Quanto all’immoralità il Manzoni esclude decisamente che essa possa rientrare nel campo dell’arte: infatti l’immoralità è una forma di falso (dichiarare bene ciò che è male e viceversa), e il falso, per quanto sia esposto con bella forma, è sempre falso ed il poeta che,lo approva fa l’impressione o di ignorante o di furfante, mentre la sua missione è quella di essere maestro dell’umanità.
Pensiero critico.
Criticare un’opera letteraria vuol, dire definire il valore estetico di essa. Secondo il Manzoni per poter giungere a formulare il giudizio estetico sono necessarie tre cose:
a)- leggere e capire l’opera nel suo senso letterario;
b)- avere la capacità di ripercorrere spiritualmente lo stesso cammino spirituale
percorso dal poeta durante la composizione;
c)- individuare l’intenzione dello scrittore ed individuare fino a che punto egli
l’ha realizzata.
Evidentemente quando si giudica bisogna avere un neutro criterio a cui rapportare l’opera sottoposta a giudizio: per questo motivo il critico ha il dovere di dire quale, secondo lui, avrebbe dovuto essere lo svolgimento perfetto del tema, qualora trova l’opera malfatta.
Il Manzoni, per conto suo, adotta il criterio estetico della verità, quale è stato già esposto. Non tutti sono capaci di capire e gustare un’opera d’arte. A questo proposito il Manzoni distingue una capacità artistica attiva e una capacità artistica passiva: la prima consiste nel saper creare la poesia, la seconda nel saper rivivere il processo creativo seguito dal poeta con tutto il complesso della sensazioni che lo hanno accompagnato nel suo lavoro. Alcune persone posseggono l’una e l’altra capacità: altre posseggono o l’una o l’altra: in questo secondo caso i bravi poeti non sono bravi critici e i bravi critici non sono affatto bravi poeti.
Opere minori del Manzoni.
“Il trionfo della libertà” è un poemetto in quattro canti, scritto dal poeta nel 1800, a sedici anni, quando era ancora in collegio ed era imbevuto delle idee giacobine, ed era sotto l’influsso della poesia del Monti. Di questi, infatti, nel suo poemetto, egli imita ”Il Fanatismo”, “La superstizione”, “Il Pericolo”, di ispirazione anticlericale e antitirannica al modo giacobino. Il Manzoni immagina che la libertà, su un carro trionfale schiacci mitre e scettri, ed esalta i grandi che per la libertà sono morti. Il poemetto è in forma di visione, come tanti poemetti del Monti: abbondano le personificazioni, i simboli, le esclamazioni, le invettive, le espressioni crude. Più tardi, quando nel 1845, fece l’edizione di tutte le sue opere, non escluse dalla raccolta questo poemetto, dicendo che se il contenuto era deplorevole, lo spirito con cui l’aveva scritto era stato sincero, e che non la religione ma gli uomini di religione egli aveva voluto colpire.
“I sermoni” (1801-1804). Sono tre “Panegirico e Timalcione” contro l’avarizia e la lussuria. “Contro i verseggiatori d’occasione”, in cui deplora gli scrittori faciloni e presenta la figura del Parini quale esempio di onestà letteraria. “A Giovan Battista Pagani”, in cui dichiara che si sente portato alla poesia satirica. Nel complesso sono assai significativi tutti e tre, per il robusto senso morale che il giovanissimo poeta in essi rivela: un po’ di baldanza, ma molta sincerità. Li chiamò “sermoni” ad imitazione di Orazio (sermone = satira).
“Adda” (1803). E’ un invito che l’Adda fa al Monti a passare qualche giorno lungo le sue rive: viene rievocata la figura del Parini che, poco lontano dalle rive del fiume, aveva avuto i natali (a Bosisio in Brianza).
Ode “In morte di Carlo Imbonati” (1805). Carlo Imbonati in nascita fu cantato dal Verri, nell’undicesimo compleanno dal Parini (“L’educazione”), in morte fu cantato dal Manzoni. L’ode è in forma di divisione: il poeta rivendica l’onor del morto e soprattutto l’onore della madre sua Giulia Beccaria, che dell’Imbonati era stata l’amante. L’ode è famosa perché dall’Imbonati, a cui ha chiesto consiglio perché possa divenire poeta se non sommo, almeno originale, si fa rivolgere il famoso consiglio: “sentire e meditare….. il santo ver mai non tradir…..non proferir mai verbo che plauda al vizio o la virtù derida”.
“Urania” (1809) E’ un poemetto d’ispirazione e di forma neoclassica: il poeta vuole esprimere il concetto che la poesia deve essere ricca di grazie, cioè di attrattive nelle immagini e nel linguaggio. Pindaro, poeta greco, sconfitto in una gara poetica da Corinna, si lamenta con Urania, dea della poesia astronomica, e da lei si sente dire che la sua inferiorità di fronte a Corinna era dovuta al fatto che questa era devota delle grazie, mentre lui non aveva coltivato questa devozione.
“Aprile 1814”, è un’ode in cui il poeta si compiace che con la caduta di Bonaparte sia cessato il tempo delle guerre e dei soprusi e rivela fiducia nell’opera degli uomini di governo radunati a Vienna.
“Aprile 1825 o proclama di Rimini”. Un’ode in cui il Manzoni applaude all’iniziativa di Gioacchino Murat, il quale ha rivolto agli italiani un appello all’unione. Famoso il versetto di quest’opera “liberi non saren se non siam uni” (vedi Conte di Carmagnola).
“Inni sacri (1812-1815): “Risurrezione”, “Nome di Maria”, “Natale”, “Passione”.
Quando il Manzoni compose questi quattro inni si era convertito da poco alla pratica religiosa; perciò non era ancora in grado di interpretare il significato vero, ossia la vita intima dei soggetti trattati. Egli sentiva ancora la religione come tema venerabile, ma non ne comprendeva la funzione vitale nella storia dell’umanità. Così il “Natale” è un commento descrittivo della nascita di Gesù Cristo con spunti tratti dalla liturgia natalizia e dalla scenografia tradizionale della nascita del Redentore (non manca neanche il solito ninna nanna): il significato storico della nascita di Gesù Cristo, l’importanza di questa data nella vita dell’umanità non sono né colti né rappresentati. Similmente nella “Risurrezione” il poeta svolge motivi descrittivi tratti dalla liturgia e pone infine una esortazione a trascorrere la festa della Pasqua in spirito di carità: ma il significato vero della risurrezione dei morti, non è neanche individuato. Nel “Nome di Maria” il poeta si avvicina al significato vero del tema, cioè al valore che il nome di Maria ha per i mortali, ma si nota in tutto l’inno troppa dispersione. La “Passione”, oltre tutto, è anche incompleta, il significato vero della morte del figlio di Dio non è neanche colto e il poeta si disperde nello svolgimento di motivi secondari. Si vede bene che il Manzoni in questi inni, invece di meditare e di sentire, tenendo l’occhio fisso al soggetto, ha prestato orecchio a suggerimenti che non venivano dal cuore, ma dalla liturgia o dalla tradizione innografica.
“Sulla morale cattolica. Osservazioni” (1919). In risposta allo storico svizzero Sismondi, il quale nella “Storia della Repubbliche Italiane del medioevo” aveva affermato che la morale cattolica era stata causa di corruzione per l’Italia, il Manzoni dimostra che la morale cattolica “è la sola morale santa e ragionata in ogni sua parte; che ogni corruttela viene dal non conoscerla o dall’interpretarla alla rovescia; che è impossibile trovare contro di essa un argomento valido; e che non lo è alcuno di quelli addotti dall’illustre autore della “Storia delle repubbliche italiane”. Il Manzoni cita le singole affermazioni del Sismondi e le confuta nei vari capitoli. Rivela in quest’opera una straordinaria capacità di ragionamento e una moderazione ammirevole nella poetica. Nella seconda edizione aggiunse una appendice intorno al sistema che fonda la morale sull’utilità, in polemica con le teorie di Bentham.
“Marzo 1821” E’ un’ode politica scritta per i moti liberali di Piemonte del Marzo 1821.
Siccome i carbonari piemontesi oltreché ad ottenere la costituzione miravano anche alla guerra all’Austria, il Manzoni esalta la decisione dei patrioti di fare dell’Italia una nazione unita; ammonisce gli stranieri che è la volontà di Dio che essi se ne vadano da una terra che non è loro madre; e infine si rallegra che gli italiani abbiano finalmente deciso di rivendicare la loro libertà con le loro forze.
“5 Maggio 1821” E’ un’ode in cui il Manzoni commenta il Bonaparte morto proprio il 5 Maggio 1821. Egli presenta la figura di Napoleone nella sua fisionomia più significativa, cioè come fulmine di potenza e di azione, costretto all’inerzia nella prigionia di S. Elena e redento dalla sofferenza.
“Pentecoste” (1822) E’ il migliore fra gli inni religiosi del Manzoni , infatti egli riesce ad individuare la vita intima del soggetto che tratta, cioè ad individuare il significato umano e storico della discesa dello Spirito Santo sugli Apostoli, e quindi dell’entrata della Chiesa nella civiltà umana. Finalmente il Manzoni riesce a vedere la funzione di un avvenimento sacro nella storia generale dell’umanità; e soprattutto in quest’inno egli individua nella libertà, nella uguaglianza nella fraternità predicata dal Vangelo, i veri fattori della civiltà, rifiutando quindi la base giacobina o materialistico-rivoluzionaria che avevano preteso di dare alla civiltà gli esponenti della rivoluzione francese.
Si rivela, per la prima volta, con chiarezza in quest’inno, il Manzoni cattolico-liberale, cioè sostenitore degli ideali di libertà, uguaglianza e fraternità in nome del Vangelo.
“Conte di Carmagnola” (1819). Il Manzoni premise a questa tragedia una prefazione nella quale avvertiva i lettori che egli non avrebbe seguito le faziose unità di luogo, di tempo e di azione, dichiarandole arbitrarie e causa di artifici irrazionali nella rappresentazione delle passioni umane: non è possibile, dice egli, che una forte passione possa sorgere, svilupparsi ed esplodere tragicamente nello spazio di ventiquattro ore entro i limiti dello stesso luogo, interessando solo un ristrettissimo numero di persone. Egli, dunque, rifiuta le unità, in nome della naturalità dell’opera d’arte; rifiuta uno svolgimento imposto dall’arbitrio dei regoli, per sostituirlo con lo svolgimento richiesto alla vita intima del soggetto.
Nella tragedia egli introduce una novità: il coro. Non si tratta del personaggio collettivo che veniva introdotto nella tragedia classica per commentare, da un punto di vista morale o religioso o patriottico, le varie fasi dell’azione; ma si tratta di un brano lirico, inserito dal poeta in alcuni punti dell’azione la cui importanza ed il cui significato egli teme che sfugga ai lettori. Questo brano lirico (destinato alla recitazione) è, come dice il Manzoni stesso, “un cantuccio” dal quale il poeta fa sentire la sua opinione circa alcuni motivi dell’azione che sono della massima importanza. Così il coro manzoniano conserva la funzione del coro classico, ossia “è l’organo dei sentimenti del poeta che parla in nome dell’intera umanità”; ma rispetto al coro classico ha il vantaggio di non scompigliare l’orditura dell’azione e di placare la tentazione del poeta di comunicare ai suoi personaggi le sue idee, in quanto per esprimere le sue idee, al poeta è appunto riservato questo brano lirico. E’ evidente in questa invenzione del Manzoni l’influsso del Romanticismo, in quanto i romantici avevano dato alla letteratura un indirizzo nettamente soggettivo, cioè avevano abituato il poeta non tanto a riprodurre la realtà in forme più o meno realizzate, quanto ad esprimere quello che egli sentiva di fronte alla realtà stessa. Il Manzoni non accolse il soggettivismo esasperato dei romantici esagerati; tuttavia vide opportuno che il poeta fosse sempre presente con il suo spirito nel corso di una narrazione o di uno sviluppo drammatico.
Del resto il concetto che il Manzoni ha del poeta, quale educatore degli spettatori, comporta come conseguenza che lo scrittore esponga, ove lo creda più opportuno, il suo pensiero circa un argomento che a lui sembra importante. Infine quella cordialità tra lo scrittore ed il pubblico, tanto caldeggiata dai romantici, giustifica e quasi esige questa forma di colloquio diretto tra il poeta ed il pubblico, quale è il coro manzoniano.
Nello sviluppo dell’azione drammatica del Conte di Carmagnola, ad un certo momento l’esercito veneziano e quello milanese stanno per azzuffarsi sul campo: il poeta teme che agli spettatori sfugga il fatto che quei due eserciti sono composti di italiani e che quindi i fratelli si apprestano ad uccidere i fratelli, con grande gioia dello straniero, il quale vede favoriti i suoi piani dalla strage fraterna italiana.
Il Manzoni interviene allora con il coro a mettere in evidenza il triste significato della battaglia di Maclodio e ad ammonire gli italiani a non logorarsi in lotte criminali, gli stranieri a non approfittare delle sciagure altrui, per i loro interessi, e tutti gli uomini a non provocare la vendetta divina, che maledice colui che infrange il patto della fratellanza universale.
Il nucleo tragico del Conte di Carmagnola è esposto dal Manzoni stesso in una lettera: “Un uomo di animo forte ed elevato e desideroso di grandi imprese che si dibatte con la debolezza e la perfidia dei suoi tempi, e con istituzioni misere, improvvide, irragionevoli ma astute, e già fortificate dall’abitudine e dal rispetto, e dagli interessi di quelli che hanno l’iniziativa della forza”. Insomma il contrasto è tra la lealtà e generosità del Conte da una parte e l’egoismo duro e spregiudicato della politica. L’uomo generoso soccombe, ma la provvidenza lo compensa della perdita della vita con in concedergli la fede. Questa tragedia è di impostazione romantica, nel senso che svolge soprattutto il dramma interiore dei personaggi, con uno studio psicologico assai attento e con una densità evidente di sentimenti. Non ci troviamo più di fronte alla tragedia alfieriana, in cui essendo state definite in precedenza le psicologie dei personaggi, l’azione si riduce ad un contrasto esteriore fra di essi: qui, invece, è lotta di anime, di mentalità di aspirazioni; peccato che al dramma psicologico non corrisponda un vivace dramma esteriore.
“Adelchi” (1822). Il poeta si preparò alla composizione di questa tragedia con uno studio storico intitolato “Discorso su alcuni punti della storia longobardica in Italia”, in cui dimostra che fra Longobardi e Latini, per colpa dei primi che si stimavano superiori perché più forti, non avvenne mai una vera e propria fusione, anzi, in un primo tempo i Latini furono in una condizione di semischiavitù in quanto non godettero mai dei diritti politici e fu loro proibito di portare le armi.
Il Manzoni coglie questo contrasto fra la stirpe latina e longobarda, fra gli oppressi ed oppressori nella sua ultima fase, cioè al tempo della lotta fra Desiderio e Carlo Magno.
Adelchi, figlio di Desiderio, animo gentile, del tutto diverso da suo padre e dai suoi connazionali violenti e soverchiatori, aspira, nel suo segreto, ad una civiltà di pace e di collaborazione con i Latini: però, in quanto figlio di Desiderio, ha il dovere di servire la causa longobarda che egli detesta in cuor suo. Di qui il dramma di questo personaggio, il quale riassume in sé il contrasto fra due civiltà, fra la civiltà della violenza e quella del diritto e della pace. Il contrasto è tutto interiore, le manifestazioni esteriori sono minime: l’azione si riduce più che altro ad una sceneggiatura della guerra fra Carlo e i Longobardi.
Parallelo al dramma di Adelchi è quello della sorella di lui, Ermengarda, la quale è stata ingiustamente ripudiata da Carlo e si sforza di dimenticare il suo amore senza mai riuscirvi: la sofferenza ingiustamente patita fa sì che lei passi dal mondo dei soverchiatori a quello degli oppressi e diventi, quindi, degna di essere compianta.
Il poeta rivela in questa tragedia un senso pessimistico della vita, in quanto la vede soggetta ad un incessante contrasto fra i soverchiatori e gli umili, con la vittoria quasi costante dei primi: “una feroce forza il mondo possiede: non resta che far torto o patirlo”. In questa tragedia si trovano due cori: uno nel momento in cui si accenna all’esercito longobardo in fuga sotto la pressione dell’esercito franco (e in questo coro il poeta esorta i latini a non sperare che i Franchi li aiutino a liberarsi dal giogo straniero, e questo monito è rivolto anche agli Italiani dell’800 che speravano nell’aiuto straniero); l’altro nel momento in cui viene presentata sulle scene Ermengarda moribonda (e il questo coro il poeta vuol rivelare ai lettori il significato della vita di Ermengarda, soprattutto il significato del dolore di lei, vista come mezzo di purificazione dalle tracce dell’impuro sangue longobardo).
E’ una tragedia psicologica più che d’azione.
“I Promessi Sposi” (1822-1827)
“Lettera al Marchese Cesare D’Azeglio sul Romanticismo”(1823): espone il programma dei romantici nella sua parte negativa: i romantici rifiutano la mitologia, le regole arbitrarie dei retori, l’imitazione servile dei classici. Essi propongono di essere moderni naturali e originali.
“Lettera allo Chuavet sulle unità di tempo di luogo e di azione nella tragedia” (1823): amplia i concetti esposti nella prefazione al “Conte di Carmagnola”, insistendo sul concetto che le unità drammatiche costringono l’autore a falsare la psicologia umana e i fatti.
“Storia della colonna infame” (1829): è una revisione del processo fatto dai giudici di Milano nel 1630 contro alcuni poveri disgraziati accusati di aver diffuso la peste con unzioni venefiche. Il Manzoni segue gli atti del processo e critica la condotta dei giudici, i quali avrebbero potuto evitare il tragico errore di condannare quattro poveri innocenti, se non fossero stati mossi da orgoglio, da paura del giudizio del popolo, da disprezzo della persona umana. Al termine di questo studio si trova il rimprovero famoso al Parini per aver creduto e confermato il pregiudizio calunnioso contro i quattro poveri innocenti.
“Saggio sul romanzo storico” (1845). Il Manzoni svolge la tesi che l’opera dell’artista consiste nel trovare idee, non nel crearle: le idee non si creano perché esistono indipendentemente da noi. Dove esistono ? Nella mente di Dio. E come le raggiungiamo ? Dio ha infuso in noi l’idea universale dell’essere: in questa vita sono racchiuse tutte le altre idee, l’invenzione consiste nell’individuare le singole idee nel complesso universale. Evidentemente in quest’opera il Manzoni dimostra di aderire alla filosofia del Rosmini, il quale ammette innata in noi l’idea dell’essere universale e considera la scoperta della verità come una determinazione progressiva di questa idea universale.
Soprattutto il Manzoni vuole in quest’opera affermare che nessuna mente umana crea la verità e che l’artista, come tutti i mortali, è anch’egli legato ad una realtà oggettiva che non gli è lecito falsare e a cui deve il più possibile adeguarsi per coglierla nella sua pienezza.
“Saggio comparativo tra la rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859 (II^ guerra di indipendenza). Il Manzoni insiste sul concetto che la violenza non produce nulla di duraturo, allorché viene adottata come metodo e come mezzo, sia nella vita, che nei grandi rivolgimenti politici. La rivoluzione francese che adottò il metodo della violenza oppresse i popoli in nome della libertà, la rivoluzione italiana del 1859 fu un moto spontaneo del popolo per rivendicare la giustizia conculcata e si concluse, perciò, con il trionfo della vera libertà: “diversità di effetti dovuta ad una diversa applicazione di quel principio e che dovrebbe guidare ogni consorzio civile, cioè il principio di giustizia.
“Scritti intorno alla lingua”:
“Lettera sulla lingua italiana a Giacinto Carena” (1845), “Relazione intorno all’unità della lingua e ai mezzi di diffonderla” (1868), “Lettera al Bonghi intorno al libro del “De vulgari eloquentia di Dante” (1868), “Lettera al Bonghi intorno al vocabolario”. In queste opere il Manzoni svolge i concetti già esposti quando abbiamo parlato del suo pensiero circa la lingua in generale.
“I Promessi Sposi”. E’ un romanzo storico, in cui l’invenzione è inquadrata in un periodo storico con l’intento di dare maggiore verosomiglianza all’azione inventata attraverso la storia, e di illustrare il periodo storico mediante l’azione inventata.
Il Manzoni inquadra la vicenda dei suoi fidanzati nella storia della dominazione spagnola in Lombardia nel ‘600 e precisamente negli anni 1628-1630 (anni ella guerra per la successione al ducato di Mantova e Monferrato, della carestia e della peste).
Il poeta ebbe l’idea di comporre questo romanzo attraverso lo studio storico della vita della Lombardia sotto il governo spagnolo: lesse la “Historia patria” del Ripamonti e i “Ragguagli della peste” del Tadino, le “Osservazioni sulla tortura” del Verri. L’idea che egli trasse da queste letture, circa la vita della società lombarda sotto la dominazione spagnola, fu questa: il governo spagnolo non governava, quando un governo non governa vige l’anarchia, chi ha il sopravvento è sempre il più forte, e quindi l’eterna lotta fra il bene ed il male in tale regime si accentua, diventa più evidente.
Il Manzoni scelse questo soggetto per svariati motivi:
a)- per motivi religiosi e morali. Egli infatti concepisce la vita e la storia come una eterna lotta fra il bene ed il male: lotta in cui entrano in gioco tre forze: la malvagità, la virtù e la Provvidenza divina. Egli volle attraverso le vicende dei suoi Promessi Sposi mostrare ai lettori che se il male è forte, specie quando non è frenato dalla legge, cioè dalla autorità civile e religiosa; se i buoni spesso debbono soffrire a causa dei malvagi, tuttavia l’intervento della Provvidenza ristabilisce l’equilibrio e garantisce la vittoria del bene. Il problema del dolore, nei primi decenni dell’800, interessò quasi tutti gli spiriti più elevati: Foscolo, Leopardi e soprattutto il Manzoni. Siamo negli anni in cui la filosofia enciclopedistica insegna agli uomini che la vita dell’uomo è un puro fenomeno della materia e che la corsa del cuore umano dietro l’assoluto è vana; e siamo anche negli anni in cui le idee liberali (libertà, eguaglianza, fraternità), sostenute dai francesi, in un primo tempo sono servite a questi per ingabbiare i popoli d’Europa, in un secondo tempo erano state soffocate violentemente dalla reazione: i buoni, che avevano creduto in quegli ideali, furono ingannati dai francesi e furono condannati dai tiranni.
Lo spirito umano, bisognoso di assoluto, messo di fronte ad una visione materialistica, desolata e nuda, esprime la sua angoscia con Foscolo e con Leopardi: il primo tenta di dare valore alla vita (che di per sé non ha valore) tentando di uscire dalla sua miseria con le illusioni, in forza delle quali riesce a creare un surrogato dell’assoluto (hanno infatti qualche cosa di assoluto benché non siano assolute, le seguenti realtà: il bello, l’amore, l’azione, la poesia, la patria): servendo queste illusioni si riesce a dimenticare la miseria della vita e si riesce ad operare.
Il Leopardi, partendo anch’egli dalla visione realistica della vita, bramoso com’è di assoluto e non potendo trovare questo in una esistenza vista come un momento insignificante dell’enorme moto dell’universo, non sorretto come il Foscolo da una fede religiosa, incapace, a differenza del Foscolo di crearsi un assoluto, risolve il problema della miseria umana assumendo un atteggiamento di protesta contro la natura e contro il fato e accettando, dopo disperati tentativi di trovare una consolazione, l’inerzia o noia, cioè l’indifferenza assoluta di fronte a tutto.
Proprio nel 1827, quando il Manzoni pubblica in prima edizione “I Promessi Sposi”, il Leopardi pubblica le operette morali, in cui muove una critica appassionata al fato (cioè a Dio) perché infonde nell’uomo il bisogno dell’infinito e dell’assoluto e gli dà come cibo in questa fame di infinito, il mutevole, il nulla.
Il Manzoni sentì anch’egli vivissimo il problema del dolore: egli, nella conclusione dei “Promessi Sposi” afferma esplicitamente che la vita è un complesso di guai causati dalle imprudenze e dalle colpe, causati dai malvagi, causati dalla natura con le sue forze avverse, mandati spesso da Dio direttamente come prova: i guai sono il male e il male, nella concezione cristiana, costituisce il fattore di prova dell’uomo nel periodo terreno. Se la vita è prova, deve essere dolorosa, perché nessuna prova è senza dolore: i vincitori in questa prova sono quelli che hanno fiducia in Dio, cioè quelli che, sicuri che Dio vede tutto e sostiene la causa dei buoni, compiono il loro dovere di combattenti con la certezza della vittoria. Se i buoni che avevano sostenuto i buoni ideali di uguaglianza, libertà, fraternità, erano stati battuti dalla storia, non voleva affatto dire, secondo il Manzoni, che non ci fosse una Provvidenza: voleva solo dire che quegli ideali dovevano essere contrastati, perché è destino del bene essere combattuto dal male, ma che, presto o tardi, la provvidenza avrebbe garantito il loro trionfo. Ci troviamo di fronte ad una interpretazione cristiana della storia e della vita; e nelle vicende di Renzo e Lucia egli coglie il dramma della lotta fra il bene e il male e il trionfo della Provvidenza.
b)- in secondo luogo scelse come soggetto la vita della società lombarda sotto il
dominio spagnolo per mettere in evidenza le tristi conseguenze di un mal governo, che ignorava i veri compiti dell’autorità politica, quali furono messi in evidenza dall’Illuminismo: cioè il compito di reprimere le soverchierie, di garantire la sicurezza ai cittadini, di provvedere alla sanità pubblica e al rifornimento dei viveri, alla sicurezza dalla invasione di milizie straniere. E chi e che non vede che, mettendo in cattiva luce il governo spagnolo, che era un governo straniero, il Manzoni volle mettere in cattiva luce anche il governo austriaco, che al suo tempo opprimeva la Lombardia? Quindi anche un intento politico e patriottico indusse il Manzoni a scegliere come soggetto la vita della società lombarda sotto il dominio spagnolo.
c)- infine non mancò certo di influire sulla scelta il gusto proprio del romanticismo.
Piacevano ai romantici i motivi della lotta fra i tiranni e i deboli, dei rapimenti di donzelle, dei castelli paurosi, delle fughe, delle separazioni dolorose, delle vendette.
Il Manzoni equilibrato com’era, utilizzò questo motivi cari ai colleghi romantici, con molta moderazione: egli svolge il motivo della soverchieria, presenta un signorotto persecutore e lussurioso, svolge il motivo del rapimento tentato e del rapimento riuscito, il motivo del mistero tenebroso, il motivo del bandito dal buon cuore, il motivo della conversione religiosa, il motivo della città desolata dal flagello della peste, con scene commoventi e strazianti, non carica mai le tinte, non si compiace della descrizione fosca per spaventare i lettori, si preoccupa, dopo scene di intensa emozione, di sollevare lo spirito dei lettori, con lo sviluppo di motivi sereni o addirittura comici.
Questa è la differenza tra il romanticismo del Manzoni e quello degli stranieri, soprattutto tedeschi e inglesi: egli accetta il principio romantico che la letteratura deve essere a contatto con la vita, deve sottrarsi alla tirannia della retorica e cogliere soltanto la forma che è insita nel soggetto che si tratta, che i temi da scegliere sono quelli moderni, i quali interessano di più i lettori, che la forma ed il linguaggio debbono essere anche accessibili ai lettori di media cultura, ma rifiuta il sentimentalismo, il soggettivismo, lo spasimo drammatico, la mania di confessarsi, le descrizioni fosche, il tono irruente ed esagitato, che sono tutte cose molto care ai romantici stranieri.
Per il Manzoni il romanticismo non è un fine, ma un mezzo: cioè egli non scrive per essere romantico, ma utilizza le proposte romantiche per meglio interpretare e descrivere la vita intima del soggetto che tratta. Se uno domandasse quale sia il tema vero dei Promessi Sposi bisognerebbe rispondergli che non è il complesso delle vicende di Renzo e Lucia, né la vita della società lombarda sotto il dominio spagnolo, ma la vita umana nei suoi aspetti esterni, intesa come lotta fra il bene e il male: la vita della società lombarda, le vicende di Renzo e Lucia, non sono che mezzi per illustrare questo tema più generale e profondo. Si potrebbe dire che l’eterna lotta tra il bene e il male, è inquadrata nella vita della società lombarda e incoronata nelle vicende di Renzo e Lucia, in quanto in quel quadro risalta meglio.
Stile dei Promessi Sposi.
E’ uno stile medio, un modo equilibrato di interpretare e rappresentare la vita, senza forzatura di temi coloristici o passionali, senza impostazioni grandiose dei motivi, senza intenzioni polemiche aggressive. Il poeta esprime il suo mondo interiore con naturalezza, con verosimiglianza, con misura.
Nel romanzo rientrano gli aspetti e le forme più svariate della vita:personaggi di ogni classe, le situazioni più diverse, psicologie svariatissime: nello svolgimento di questi motivi diversissimi, il Manzoni si preoccupa solo di essere vero e di mettere in luce, con semplicità, il mistero del cuore umano. Degna di particolare attenzione è la preoccupazione con cui il Manzoni cerca di temperare i toni intensi e impressionanti: egli non vuole divertire la fantasia del lettore e tanto meno si compiace di far venire la pelle d’oca a chi legge i suoi passi foschi della vicenda. Per questo, a visione tenebrose o emozionanti fa seguire sempre visioni liete: generalmente chi fa le spese di questa esigenza di rasserenamento è don Abbondio: (ad esempio dopo che ha tenuto il lettore in apprensione e in emozione per il rapimento di Lucia e per la drammatica conversione dell’Innominato, introduce il motivo di don Abbondio al castello. Ancora, descritta la scena della povera gente che fugge di fronte alla discesa dei Lanzichenecchi, scena di pene e di miseria, ecco don Abbondio anch’egli in fuga, che brontola contro l’imperatore, il re di Francia, il governatore e contro i compagni di sventura).
Al termine del romanzo, nelle ultime battute della vicenda, viene presentato il fosco quadro della peste, i carri dei cadaveri, l’angoscia dei mortali, la madre di Cecilia, il Lazzaretto, l’incontro di Renzo con Padre Cristoforo, Lucia e don Rodrigo, sono scene ricche di emozioni: subito dopo entra in scena, per l’ultima volta, ormai libero da paure e quindi in piena euforia, don Abbondio. I numerosi personaggi comici (Gervaso, Perpetua, Azzeccagarbugli, Fra Fazio, certi tipi della rivoluzione di S. Martino, il conte zio, il sarto del villaggio, Donna Prassede, Don Ferrante ecc.) sono disseminati qua e là nel romanzo e posti in particolari condizioni proprio col fine di equilibrare il tono che, talvolta, diventa troppo grave o troppo emotivo.
Possiamo inoltre definire lo stile del Manzoni cordiale. Il poeta immagina di raccontare la sua vicenda a 25 lettori che tiene sempre presenti e con i quali volentieri si sofferma a fare qualche considerazione. Egli immagina i suoi lettori gente alla buona, cordiale anch’essa, fornita di buon senso, sensibile alle pene degli uomini, capace di giudicare il bene e il male.
Il Manzoni non di dà le arie di ispirato, di sapiente che sa tutto, di nume sovrano e possente, né quelle di ingegnaccio o spiritaccio sbrigliato e bizzarro: mantiene sempre il contegno del buon uomo, comprensivo, ma decisamente onesto, cordiale, ma serio.
Perfino evita di apparire moralista, anzi si preoccupa soprattutto di non apparire moralista, nonostante che, cosciente della sua funzione di educatore, colga tutte le occasioni più opportune per influenzare la moralità dei suoi lettori.
Per rendere più simpatica e più accettabile la sua morale Manzoni fa uso del tono umoristico. L’umorismo è il modo di esporre verità amare o principi severi o critiche taglienti con un sorriso bonario e svagato, come di persona che conosce le miserie umane, la ridicolaggine dei difetti umani, la costanza di certi difetti nella nostra natura, e, non potendo sdegnarsi perché sarebbe troppo, né potendo piangere perché sarebbe ridicolo, né potendo star serio perché realmente certi aspetti della vita per quando deplorevoli sono comici, sorride maliziosamente con i suoi lettori.
Questo tono umoristico rende amabile la sua morale. Egli ha ereditato questo tono leggero e spigliato dagli scrittori illuministi, i quali erano soliti esporre le verità più serie con il tono più vivace possibile, ma esso è soprattutto l’espressione più bella del suo carattere sereno ed equilibrato. Ci ritroviamo qualche cosa della bonaria malizia di Orazio dell’Ariosto e di tutti coloro che, esperti della vita, sono diventati comprensivi e un pochino sfiduciati nei confronti di certe forme deplorevoli di vita, che sono e saranno comuni agli uomini di tutti i tempi.
Raramente il Manzoni esce in espressioni amare e taglienti: lo fa solo quando si trova di fronte ad enormità ripugnanti (ad esempio quando ci presenta il padre di Gertrude a colloquio con la badessa, oppure quando ci presenta la figura del conte Attilio, in cui egli vedeva incarnata la malignità). Del resto la morale del Manzoni, pur conservando una severità intransigente di principi, è comprensiva. (ad esempio il matrimonio di sorpresa è una cosa che non sta bene, però, dice Agnese, diventa necessario quando non si può procedere per le vie normali. Il servo di don Rodrigo che fa la spia, non fa certo un’opera bella in sé stessa, ma per parare i colpi briganteschi del padrone, diventa legittima. Renzo che strepita in casa di don Abbondio, sembra un soverchiatore ma si trova là a strepitare perché don Abbondio non ha fatto il suo dovere).
Il tono equilibrato e cordiale del Manzoni non piace specialmente ai lettori giovani, i quali amano i toni foschi e ardenti: Lucia, ai lettori avidi di sensazioni forti, appare un personaggio sbiadito, la vicenda del rapimento di Lucia piacerebbe di più se fosse condotta fino in fondo e si sentisse strillare la povera vittima fra le mani di don Rodrigo: ma il Manzoni non ama spaventare nessuno, egli scrive per la gente equilibrata, non per gli emotivi, perciò per comprendere i Promessi Sposi è necessaria una buona maturità di mente e di gusto.
Possiamo, infine, definire lo stile del Manzoni oggettivo, ossia rappresentativo della realtà, senza commenti personali più o meno oratorii, tanto cari particolarmente ai romantici. E’ noto che i romantici invece di interpretare e rappresentare la realtà come essa era, preferivano esprimere quel che essi sentivano nei confronti di essa: di qui la prevalenza del tono lirico nella produzione romantica in generale; e la mania dei poeti romantici di far conoscere a tutti il loro cuore, le loro aspirazioni, il loro giudizio, il loro sdegno, il loro entusiasmo.
Il Manzoni, scrittore cordialissimo, nutrito di forti convinzioni religiose, morali, mosso da seri propositi educativi, simpatizzante per la letteratura romantica, era in una tentazione fortissima di introdurre la sua soggettività nel racconto. Quali sarebbero state le conseguenze se si fosse lasciato vincere da questa tentazione?
Avrebbe disprezzato i personaggi avversi alla sua mentalità, avrebbe esaltato i personaggi concordi con i suoi modi di vedere, avrebbe espresso in tono declamatorio giudizi, condanne, elogi, avrebbe insomma impacciato l’azione e la rappresentazione della vita con continui interventi personali più o meno inopportuni.
Il Manzoni lascia parlare le situazioni e i personaggi, perché avendo interpretato il significato vero dei vari motivi, gli è sufficiente svilupparli senza aggiungere nulla: solo il poeta che è insoddisfatto delle situazioni e dei personaggi , che pure ha liberamente scelto nella invenzione, sente il bisogno di piangere, di urlare, di maledire, di gioire con essi, facendo un po’ la parte del presentatore di burattini. Però non bisogna pensare che il Manzoni per rendere omaggio alla oggettività si sia condannato all’assenza dal mondo dei suoi personaggi : egli sente che quel mondo è sua creazione, è espressione del suo modo di vedere la vita e perciò o segue con l’interesse che si può immaginare: ed inoltre egli si è impegnato con i suoi 25 lettori non solo per un racconto nudo e crudo, ma soprattutto per una rappresentazione della vita tale da essere educativa.
Perciò, con molta modestia, egli si ferma, brevemente e nei momenti più opportuni, a fare qualche piccolo commento di significato umanissimo e di tono simpaticissimo: si tratta normalmente di una battuta umoristica con la quale, quasi d’intesa con i lettori, sottolinea certe situazioni che non possono fare a meno di provocare la malizia delle persone di buon senso. Raramente la sottolineatura assume tono severo: se talvolta sente il bisogno di fare un fugace commento amaro, lo mette in bocca all’anonimo, fingendo di non assumerne la responsabilità.
Così la oggettività si concilia con le esigenze di una oggettività equilibrata: basterebbe pensare, a questo proposito, al modo brillante in cui egli risolve il problema dell’intervento soggettivo, perfino nel corso di una azione drammatica: cioè alimentazione del coro, all’invenzione del coro, a quel “cantuccio” che non rovina le scene della vita che viene rappresentata e nello stesso tempo permette al poeta di far capire il suo pensiero, e di evitare che i suoi personaggi si mettano a predicare.
Il Manzoni e il Romanticismo.
Il Manzoni accolse del Romanticismo i seguenti principi:
1)- la letteratura ha una funzione educativa e per educare deve ispirarsi al vero ;
2)- la natura è la fonte della poesia;
3)- la poesia deve interessare affinché possa essere compresa, gustata, assimilata; e per essere interessante deve svolgere motivi moderni con mentalità e forma moderna.
4)- ogni soggetto ha la forma in sé stesso e non può essere costretto entro forme fissate dai retori.
5)- lo studio dei classici ha valore soltanto formativo, cioè serve a formare la cultura, ma non ha affatto la funzione di abituare alla imitazione servile.
6)- ogni composizione letterari deve essere originaria.
Il Manzoni discorda dal Romanticismo nei seguenti punti:
1)- non la fantasia soltanto, ma tutto lo spirito contribuisce alla creazione poetica.
“Sentire e meditare”, anzi prima meditare e poi sentire, perché non può sorgere alcun sentimento non alimentato da convinzioni; queste sono le fonti della poesia, e le convinzioni si formano attraverso l’esperienza e il ragionamento.
Così il Manzoni, pur ammettendo che la fantasia abbia la sua importante funzione nella genesi della poesia, insiste sul concetto che le forme che si generano nella fantasia, ricevono sostanza e vita dall’esperienza, dall’intelletto e dal cuore, cioè da tutto lo spirito.
2)- la poesia deve essere educatrice del popolo, ma per svolgere questa sua funzione non solo non deve accogliere gli errori della mentalità popolare, ma deve correggerli.
I romantici affermavano che il poeta deve utilizzare tutto ciò che è caro al popolo e non si accorgevano che talvolta al popolo sono cari anche i pregiudizi: il Manzoni afferma che il poeta deve soltanto utilizzare il vero.
3)- i romantici non avevano un concetto preciso del vero benché insistessero sulla necessità che il poeta deve ispirarsi ad esso.
Il Manzoni riconosce come criteri di verità la ragione e la rivelazione, e dà al vero una sostanza oggettiva, cioè indipendente dalla così detta attività creatrice del soggetto, tanto esaltata specie dai romantici tedeschi, che si ispiravano all’idealismo.
Il poeta non crea, ma inventa, cioè scopre realtà che già esistono.
4)- i romantici insistono sul concetto che il poeta deve manifestarsi con tutta la
pienezza della sua soggettività nell’opera che compone e che permette maggiore
evidenza tale soggettività; deve riversare la pienezza tumultuosa dei suoi sentimenti nello sviluppo dei motivi con temperatura, per così dire, incandescente.
Il Manzoni afferma che è necessario non solo controllare la materia, ma anche la forma, evitando di cadere, nello stesso tempo, nell’anarchia e nell’artificio della espressione: si può esprimere il proprio stato d’animo senza che sia necessario assumere toni clamorosi e teatrali
SECONDO ROMANTICISMO
Il secondo romanticismo non è un romanticismo nuovo bensì è la decadenza del romanticismo equilibrato e moderato, sostenuto dal Berchet, dal Conciliatore e soprattutto dal Manzoni.
Le cause di questa decadenza sono costituite dal rinnegamento o dall’esagerazione di alcuni principi fondamentali dell’autentico primo romanticismo. Il principio che viene rinnegato è il seguente: la poesia è eternamente originale. I romantici tardivi rinnegavano ciò in quanto ripetono sempre gli stessi motivi che erano stati svolti dai primi romantici, li esagerano e li considerano come la sostanza dello loro arte; così vennero a creare una specie di repertorio romantico fisso. Originariamente il romanticismo era sorto in opposizione alle scuole poetiche retoriche, e adesso esso stesso è diventato ‘scuola’, con i suoi termini fissi, con i suoi motivi, con le sue immagini, con i suoi metri, con il suo frasario.
Principi che vengono esagerati
1 ) La spontaneità propugnata dal primo romanticismo come conseguenza immediata della naturalità. E’ la natura che detta pensieri, fantasie, sentimenti; e la natura, nel dettare, ha un suo modo, che varia da soggetto a soggetto. Ne consegue che ogni scrittore deve esprimere quello che concepisce interiormente, nel modo più genuino, più immediato, più caldo, affinché alla creazione sia conservata la sua impronta originale.
I romantici secondi esagerando questo principio, credettero che per conservare alla creazione poetica la sua genuinità, fosse necessario liberarla da qualsiasi controllo, da qualsiasi “freno dell’arte”. Man mano che il genio crea, è necessario annotare la sua creazione, fissarla nella parola, e lasciarla così come è venuta alla luce: fantasia e sentimento stanno a creare, senza controllo, e l’espressione che annota questa creazione deve essere anch’essa senza controllo. Così la spontaneità viene a confondersi con la sregolatezza, con una specie di anarchia poetica: anarchia che piace ai mediocri, i quali credono di essere tanto più geniali, quanto più hanno la possibilità di dire quello che vogliono e nel modo che vogliono; anarchia che disgusterà un poeta di gusto esigente come il Carducci, ed avrebbe disgustato un uomo equilibrato come il Manzoni, il quale nella conclusione della Lettera al d’Azeglio aveva affermato che gli antiromantici avevano considerato il romanticismo come indirizzo caratterizzato dalla mania dell’orrido e dall’anarchia espressiva, per cui era assolutamente da rifiutarsi.
Le conseguenze di questa anarchia letteraria sono: racconti mal collegati nelle loro parti, in quanto la fantasia lavora a gettito continuo senza un controllo della ragione che, unica, può costringere a collegare le parti. Inoltre l’imprecisione delle immagini, data la faciloneria nell’immaginare, induce lo scrittore ad abbozzare alla meglio e a correr via. Sarà proprio questa imprecisione che farà andare in bestia il Carducci, abituato a scolpire con precisione l’immagine, secondo il costume classico.
2 ) Lirismo esasperato. Il romanticismo primo aveva propugnato una letteratura calda di sentimento, così che scuotesse i lettori, li commuovesse, e li persuadesse. Il secondo romanticismo esagera questo lirismo. Infatti:
== anzitutto gli scrittori si sentono in diritto di raccontare, a tutti, tutte le loro pene interiori, e sono romantici maniaci di confessarsi, mentre, spesso, quello che confessano è ben povera cosa;
== intervengono troppo spesso con commenti allorché narrano e fanno commenti patetici, fatti di proposito per avviare il lettore a commuoversi;
== si propongono non tanto di interpretare lo spirito umano, quanto di emozionare i lettori con sentimenti teneri. Per suscitare tali tenerezze i romantici secondi creano situazioni patetiche, utilizzano paesaggi dai colori e dai toni mesti: paesaggi lunari, laghetti in argentati, boschetti e simili e introducono sfoghi sentimentali.
3 ) Emozioni orride. Il romanticismo autentico propugnava una letteratura forte, capace di scuotere con visioni di passioni e spettacoli naturali di tono veemente. I romantici secondi confusero la forza e la veemenza con l’emozionante, e per emozionare preferirono i motivi orridi. Vicende amorose, paesaggi spettrali e tempestosi, fantasie crudeli funerarie, costituivano i motivi comuni delle loro composizioni: l’emozionante per l’emozionante, l’orrido per l’orrido.
4 ) Modi popolareschi. I romantici primi avevano propugnato la letteratura popolare; i romantici secondi ci diedero una letteratura popolaresca, cioè puerile di contenuto, ‘familiaresca’ nella forma e nel linguaggio e nei ritmi.
5 ) Poco decoro. I romantici primi avevano propugnato una letteratura moderna; i romantici secondi ci diedero una letteratura volutamente lontana dal decoro dell’arte classica e tutta ispirata alla letterature straniere, particolarmente a quelle più fantasiose ed emozionanti, cioè tedesca ed inglese.
6 ) Sentimentalismo: i romantici primi avevano propugnato una letteratura in cui fossero impegnate tutte le facoltà dello spirito, cioè l’intelletto, il sentimento, la volontà, il buon gusto, l’esperienza della vita. I secondi romantici diedero una letteratura in cui era impegnato solo il sentimento. Quando il sentimento è solo, nella composizione manca il pensiero, manca la concretezza dell’esperienza, manca l’energia della volontà. Il sentimento stesso, per sua natura, sgorga soltanto da convinzioni profonde e trova la sua applicazione nei propositi della volontà, altrimenti decade in sentimentalismo.
Ne derivò una letteratura superficiale e fiacca in cui i sentimenti più nobili divenivano una specie di moda e venivano coltivati non per convinzione, ma per uso: essere patrioti era una cosa abituale e simpatica; essere generosi e buoni con la donna amata, era una cosa bella e degna di un romantico; convertirsi dopo aver peccato, perdonare e chiedere perdono era un dramma che, dopo quello dell’Innominato, piaceva un po’ a tutti; essere progressista, audace, nemico delle tenebre della barbarie, era una cosa che dava l’immagine della grandezza d’animo e della vigoria.
Il Carducci contro questa letteratura di posa, di convenzioni, di moda, reagirà con tutto il suo orrore, in nome di quella spiritualità garibaldina di cui egli era pieno, ed in nome di quella serietà, di quel decoro, di quell’impegno formale che sono le caratteristiche dell’arte classica.
Stile del secondo romanticismo
Possiamo definire lo stile del secondo romanticismo come stile superficiale, in quanto manca una buona sostanza di pensiero; fantasioso in quanto perde il contatto con la realtà della vita e si disperde in fantasie oziose; sentimentale, in quanto lo scrittore ha la mania di commuovere e quindi non dà tregua ai lettori, impegnandoli di continuo in situazioni commoventi e tenebrose. Le immagini e molto spesso l’intera struttura dell’opera, sono imprecise e disorganiche.
Il linguaggio del secondo romanticismo è quello famigliare e spesso sintatticamente impreciso: un linguaggio che, per non essere letterario, diventa popolaresco.
LA SCAPIGLIATURA
o terzo romanticismo
La scapigliatura è un movimento letterario che si afferma a Milano verso il 1860-1865, caratterizzato dal proposito di reagire alla falsità della letteratura romantica e della vita della società in generale. La denominazione stessa di scapigliatura sta ad indicare l’indirizzo spregiudicato ed anarchico del movimento, il quale vuole essere una affermazione radicale di sincerità nella vita e nell’arte, di libertà assoluta dello spirito, e vuole combattere a fondo qualsiasi norma tradizionale. I romantici secondi avevano standardizzato certi sentimenti e certi ideali, li avevano esaltati senza avere una grande fede in essi; e soprattutto avevano esagerato in tenerezze ed emozioni: troppo piangere, troppe crisi, troppi pentimenti, troppa religiosità, troppi amori teneri.
Questo complesso di atteggiamenti e di motivi doveva, ad un certo momento, suscitare la reazione di spiriti che erano intonati a vigoria e dinamismo, oppure erano inclini per natura alla spregiudicatezza anarchica. Il Carducci reagì al secondo romanticismo in nome della forza e del decoro; e gli scapigliati lo fecero in nome dell’impulso primitivo e libero. Anche nella vita pubblica e politica certi atteggiamenti, che durante il periodo più ardente della lotta risorgimentale erano stati ammirati per la loro sincerità e per la ispirazione sentimentale patriottica, incominciano a decadere in pose limitate, e dalle persone furbe vengono sfruttati per farsi strada; per occupare un posto comodo nella vita dell’Italia riunificata.
Alla schiera dei patrioti che avevano lavorato con disinteresse e spirito di sacrificio, fa seguito ora la classe dei burocrati, i quali pretendono di dettare legge in nome di ideali che non sentono più. Il De Sanctis in questo tempo lamentava che era avvenuta una grande scissione fra la vita e l’ideale, che nei decenni precedenti invece erano andati sempre congiunti, particolarmente ad opera dei personaggi più rappresentativi dell’Italia risorgimentale. Mazzini e Garibaldi erano ancora vivi, ma erano messi da parte perché alla politica dell’azione eroica era seguita la politica della diplomazia.
I giovani erano nel complesso ancora fautori dei metodi mazziniani garibaldini; ma la classe dirigente, che aveva preso le redini del comando, rischiava di addormentare lo spirito eroico del Risorgimento con decisioni incerte e troppo controllate, con un modo di governare che non dava la sensazione di quel progressismo agile e deciso. Era evidente che in questa situazione alcuni giovani, seguendo il Carducci, tenevano desto lo spirito garibaldino e mazziniano; ed altri, quasi avessero perso la fiducia nella sincerità degli uomini, si abbandonavano ad un soggettivismo ribelle e scontroso, in lotta contro tutto e contro tutti. Questo secondo gruppo è quello che influisce nel movimento letterario della scapigliatura. Il punto fondamentale in cui gli scapigliati insistono è questo: bisogna essere sinceri, bisogna lottare contro tutte le falsità. E siccome i romantici secondi e la classe dirigente avevano dimostrato di approfittare degli ideali per i loro interessi, gli scapigliati per essere sinceri in modo radicale, derisero gli ideali stessi, quasi che chiunque osasse prendere contatto con essi fosse fatalmente destinato a diventare ipocrita.
Proprio in quel periodo fioriva in Francia il movimento dei poeti detti “maledetti” di cui era esponente Carlo Beadelaire: un movimento che, vedendo esaurito il campo della poesia aristocratica coltivata dai classicisti; vedendo esaurito anche il repertorio della psicologia appassionata ed avventurosa dei romantici, per non ripetere cose ormai sorpassate, preferisce (come disse un critico di allora) scendere all’inferno per apprendere i sentimenti ed il linguaggio dei diavoli. Almeno questi sentimenti e questo linguaggio avrebbero avuto il sapore di novità pensavano il Beaudelaire e il Mallarmé, sostituendo il sistema delle idealizzazioni o delle forme esteriori, o dei sentimenti, come era stato adottato dai classicisti e dai romantici, e sapeva di compassato e di falso. Il vero grido dell’anima che ha in sé qualcosa di satanico, o dell’anima che urla per disperazione, che bestemmia, che strapazza furiosamente tutto ciò che le persone fortunate chiamano ideale perché garantisce loro una vita comoda, non era stato mai ascoltato in poesia: nelle opere dei narratori, e dei lirici. Aveva parlato fino ad allora lo spirito umano che si voleva atteggiare ad Angelo ed a volontà idealizzata.
Eppure la parte satanica nelle persone è abbondante e veemente assai più che la parte angelica, alla quale, ormai, nessuno più credeva. Da qui il contenuto spregiudicato e volutamente scandaloso della poesia dei “maledetti”.
Contemporaneamente si stava affermando in Europa il movimento socialista, il quale propugnava la riabilitazione e l’avvento del proletariato al potere. L’aristocrazia e la borghesia erano presentate dal socialismo come classi moralmente fradice; mentre il proletariato era esaltato come espressione genuina della naturalità forte, sincera, giusta e costruttiva.
La letteratura classica era considerata dagli scapigliati come espressione della classe aristocratica; e la letteratura romantica era considerata come espressione di una borghesia che si era avvalsa degli ideali per fare i propri interessi. Ora veniva il tempo della poesia del proletariato, dei pezzenti che lavorano, penano, imprecano, ma che, sotto le vesti di miserabili, nascondevano un cuore sincero e sensibile, e soprattutto un’intelligenza insospettata, un gusto che non ha nulla di letterato, ma proprio per questo sa valutare la bellezza autentica, cioè quella naturale.
Gli scapigliati hanno usato un’espressione linguistica famigliare e comune; ma si sono preoccupati di garantire costantemente, e nel modo più assoluto, la precisione del vocabolo. Si afferma una specie di gusto della parola non per il suo sapore letterario (cioè per essere stata usata da grandi scrittori del passato) bensì per il suono generato dalla sua composizione, per il colore che essa rievoca per somiglianza, come ”parole bianche, parole nere”.
Questo culto della parola c’è stato anche nella tradizione classica; ma era stato un culto ispirato a quella specie di venerazione che i classicisti avevano avuto per tutto ciò che era greco o romano; ora invece si afferma il culto della parola per la capacità di suggestione musicale e fantastica che essa possiede. Con la parola, evidentemente, va connesso il ritmo cioè il verso; e con il verso va connessa la rima. Da qui il culto del ritmo e della rima per la sola capacità evocativa e suggestiva generata dalla musicalità. Questo culto della parola, del ritmo, della rima, in base ai criteri di musicalità e di suggestione, fu caratteristico in Francia dei poeti “parnassiani” di cui uno dei più notevoli esponenti fu Teofilo Gauthiere.
Nella nuova letteratura confluiscono certamente quattro fattori:
1 – il desiderio di reagire alla falsità del romanticismo decadente, in modo tanto spregiudicato, quanto più falsi erano stati i romantici secondi;
2 – il desiderio di dire qualcosa di nuovo in letteratura, anche se la novità si fosse trovata in un settore d’ispirazione poetica ripugnante dal punto di vista morale e quasi pazzesco dal punto di vista psicologico;
3 – l’influsso dei poeti “maledetti” francesi;
4 – l’influsso del “parnassianesimo” francese.
Infine ci si potrebbe vedere anche l’influsso dell’amara disperazione del Leopardi, dell’ironia blasfema di Heine e del titanismo dello Shelley.
Ecco i motivi più comuni della poesia scapigliata:
a) Disprezzo dell’ipocrisia della società cosiddetta educata.
b) Motivi scandalosi e macabri e in genere spregiudicati.
c) Sentimenti disperati e impulsi di ribellione diabolica.
d) Sete di infinito in mezzo al disagio infernale dello spirito.
e) Culto sincero delle cose gentili e pure come l’infanzia, l’affetto verso l’amante e verso le bestie randagie.
Psicologia
Il proposito primo degli scapigliati è quello di essere sinceri e quindi di gettar via ogni atteggiamento studiato sia nel sentire che nell’esprimere. Gli scapigliati per garantire la sincerità debbono liberarsi dalla psicologia educata. Si chiama psicologia educata quel complesso di pensieri e di sentimenti che ci derivano dall’educazione, ossia che abbiamo appreso dalla mentalità sociale, dai libri, dai superiori, dalle religioni e simili. Questo complesso di pensieri e di sentimenti, questa mentalità costituisce una specie di incrostazioni che copre la vera psicologia dell’uomo, quella che si può chiamare psicologia d’impulso, di temperamento.
Ognuno ha una sua costituzione particolare, ha un modo personale di reagire alla realtà esterna e ai fatti della vita: modo che è determinato dalla sua costituzione psicofisica o temperamento. Le espressioni genuine di ciascuno, espressioni sincere, sono costituite da tutto quel complesso di pensieri e di sentimenti che sgorgano dai moti del temperamento. Si tratta spesso di pensieri e sentimenti che urtano contro la mentalità comune; ma mentre questa è frutto di accomodamenti ipocriti, quelli sono il frutto genuino di ciò che uno è veramente. Per mettere in evidenza, per liberare la psicologia d’impulso è necessario anestetizzare o addormentare la psicologia educata.
A tale scopo gli scapigliati ricorrono all’alcol e all’oppio: lo stato di ubriachezza quasi costante compie due effetti: fa dimenticare i pensieri e i sentimenti usuali e dà via libera ai pensieri e ai sentimenti per così dire istintivi, elaborati dal temperamento; e inoltre rende ipersensibile il sistema nervoso, genera lo stato di allucinazione; e nell’allucinazione fa sentire le cose in modo diverso da quello comune, e soprattutto sfrena la fantasia, la quale procede con vigoria quasi brutale per vie ignote alla fantasia frenata dall’educazione. Ci troviamo di fronte perciò a poeti ipersensibili, strani, più matti che savi, eccezionali non solo nella creazione artistica, anche e soprattutto nella vita. Si compiacciono come artisti e come uomini, di essere boemiens, zingari o vagabondi. Questi, “diavoli” all’apparenza sono intelligenti, vivaci, ma buoni (?!)nel fondo.
Sono scrittori che muoiono giovani per stravizi; scrittori che odiano la società e si compiacciono di essere da essa perseguitati; scrittori che spesso vanno a finire in carcere, che dormono all’aperto, passano la maggior parte della giornata all’osteria, ma nel retrobottega dell’osteria stessa, passano ore ed ore a discutere di arte, con gusto spesso assai fine e con vedute anche geniali e sorprendenti.
La scapigliatura è detta anche “terzo romanticismo” in questo senso: siccome una delle caratteristiche più significative del romanticismo è il soggettivismo, e siccome, posta la psicologia del temperamento come sorgente dell’ispirazione, questa, da soggetto a soggetto, è varia, si riduce a pensieri e sentimenti il più delle volte stranissimi, e la scapigliatura può considerarsi una forma esasperata del soggettivismo romantico. Del resto Novalis aveva affermato che “lo stato di grazia del poeta è la malattia, la quale genera l’allucinazione, che tende e acutizza il sistema nervoso in una sensibilità non comune”.
Lo STILE rinuncia a qualsiasi norma della retorica, a qualsiasi traccia di influsso di libri, a qualsiasi forma già usata. Gli scapigliati fanno il verso quasi simile alla prosa. Tuttavia, volendo dimostrare genialità e gusto, curano come i “Parnassiani” la parola, utilizzando i segreti di suggestione e di musicalità. Talvolta sono cerebrali, artificiosi, bizzarri, stravaganti come i seicentisti nelle immagini; altra volta procedono senza il minimo senso letterario, con un modo di fare e di dire che appartiene alla vita quotidiana più scialba.
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FRANCESCO DE SANCTIS
(1817-1883)
In un primo tempo il De Sanctis seguì la critica formale del Puoti, di cui egli era discepolo. Però, ben presto, sentì l’aridità e l’inutilità di una critica che, smontando, per così dire, l’opera nei vari pezzi che la compongono, impediva al lettore di penetrare nella vita che l’autore aveva creato.
Perciò aderì alla critica storica del Foscolo, che gli permetteva di capire l’anima vivente nell’opera e di vedere questa come l’espressione di un’anima più universale, cioè dello spirito del tempo in cui fu composta.
Tuttavia comprendere l’anima di un’opera non significa ancora comprendere il valore estetico. Per dare un giudizio di valore, è necessario un criterio, un complesso di principi estetici.
Perciò il De Sanctis aderì all’estetica hegeliana, soprattutto perché Hegel non faceva distinzione tra contenuto e forma, e sosteneva la nascita simultanea in forza di un unico atto creativo, della materia e della forma.
Tuttavia anche l’estetica hegeliana non lo soddisfece del tutto, in quanto Hegel, affermando che l’opera d’arte è incarnazione dell’universale nel particolare, sembrava quasi fare della creazione artistica l’allegoria di un’idea. L’allegoria, osserva il De Sanctis, è senza dubbio una forma, ma non è una forma autonoma: l’immagine allegorica è certamente una creazione; ma una creazione non obbedisce alle esigenze del pensiero che essa deve incarnare. Ad esempio: quando Dante crea una Beatrice come la sente il suo spirito, la forma di Beatrice è autonoma e poetica; quando invece crea una Beatrice che parla, opera, veste come la Rivelazione, costruisce una forma schiava di un concetto, una forma che, se la vuoi capire e gustare, devi fare di continuo il rapporto tra i particolari di essa e i particolari del concetto che essa rappresenta.
Alla conclusione della sua meditazione estetica, il De Sanctis enuclea con chiarezza i seguenti concetti:
a)- non c’è distinzione tra materia e forma.
La forma è il modo con cui sorge e si definisce uno stato d’animo. Tale modo dipende soprattutto dalla costituzione mentale, affettiva e fantastica dello scrittore: è un modo quindi soggettivo.
b)- materia e forma sorgono con lo stesso atto creativo.
Non si può concepire una materia che non abbia la sua forma allorché nasce e che l’acquisti solo successivamente. In tal senso e in opposizione col Carducci, il quale afferma che prima avviene la fusione dei motivi nel crogiolo del sentimento del poeta e quindi si trova la forma più adatta per tradurli in immagini vive (concetto espresso nel “Congedo” della raccolta “Rime nuove”.)
c)- le facoltà che concorrono alla creazione della forma sono in particolare il sentimento e la fantasia, senza però dimenticare che la forma è l’espressione di tutta la personalità del poeta.
d)- la forma deve essere autonoma, cioè deve essere il modo spontaneo e naturale di uno stato d’animo, senza porla in rapporto di dipendenza con intenti più o meno cerebrali. La forma è l’espressione immediata dello spirito: ma una riflessione che la leghi a significati estrinseci, la uccide.
e)- la forma deve essere concreta, ben visibile e ricca di vitalità.
Le forme sbiadite o pallide sono espressione di vitalità fiacca, di anime pallide e meschine. Si sente in questa concezione della forma concreta l’influsso del Romanticismo. In forza di questa concezione il De Sanctis considera riuscite le forme create da Dante nell’Inferno; mentre attribuisce un grado inferiore di arte alle forme del Purgatorio e meno ancora a quelle del Paradiso, dove, secondo lui, tutto si rarefà nella luce, nella meditazione filosofico-teologico-mistica.
In base a questi criteri estetici il De Sanctis procede all’analisi estetica delle opere.
Per analisi estetica egli intende la individuazione della forma, ossia del modo che ha assunto lo stato d’animo dell’autore, e la individuazione delle note con cui la forma si presenta. Per fare un’analisi estetica è quindi necessario ripercorrere tutto il cammino fatto dal poeta nella sua creazione: significa mettersi nelle sue condizioni, sentire quello che egli sente, e, ad un certo momento, trovarsi di fronte alla forma come alla cosa più naturale e più adatta a quello stato d’animo, quando quella forma risulta talmente viva da sembrare reale e talmente ricca di vitalità da concentrare in sé significati vasti e profondi, allora si può dire che essa è bella.
Già questo procedimento, a dir la verità, era stato scoperto dal Manzoni, che aveva parlato di capacità poetica attiva e passiva, cioè di capacità di creare e di capacità di rivivere la poesia.
Però il Manzoni non ci aveva dato nessun saggio di critica impostato su questo criterio; mentre il De Sanctis si è specializzato proprio in questo settore dell’attività letteraria.
Nei suoi otto volumi di “Saggi critici” egli rivive, e fa rivivere agli altri, personaggi, situazioni, trame narrative o teatrali.
Nella “Storia della letteratura italiana”, come del resto nei “Saggi critici”, il De Sanctis utilizza sempre la critica storica che gli serve a inquadrare e quindi capire il personaggio o l’epoca di cui parla.
In particolare nella “Storia della letteratura italiana” egli ha messo in rapporto i vari momenti della letteratura con i vari momenti della storia politica e civile, in base al seguente criterio: ad epoche ricche dal punto di vista politico e civile corrispondono epoche ricche dal punto di vita letterario; ad epoche politicamente e civilmente misere, corrispondono periodi di letteratura caratterizzate da saggi di pura retorica.
Ad esempio, il Medioevo, ricco di passioni e di attività, ci dà una letteratura fiorente. Il Rinascimento estetizzante, ma politicamente e civilmente povero, ci dà opere regolari, linde e lavorate, però povere di vitalità.
Il Seicento, epoca di decadenza, sotto ogni aspetto, ci dà soltanto opere di esercitazione ingegnosa, nelle quali si concentrano tutte le risorse della retorica.
Nella seconda metà del settecento, col Parini, rinasce l’uomo, e con l’uomo rinasce la poesia, perché la poesia non si può pensare se non come espressione di una umanità piena.
In conclusione:
al De Sanctis spetta il merito di aver abituato i lettori a rivivere l’opera d’arte e a giudicarla in base alle profonde emozioni che essa suscita: ad una critica, cioè, veramente vitale in cui i mezzi espressivi (la parola, il ritmo, l’immagine) sono considerati solo come strumenti a servizio dello spirito.
IL VERISMO
Definzione –
E’ un movimento letterario che si afferma in Italia nell’ultimo trentennio del secolo XIX, ad opera di Capuana e di Verga, con questo programma: rappresentare la vita nei suoi aspetti più vari, con stile impersonale e oggettivo.
Varietà – impersonalità – oggettività, sono i termini che riassumono l’estetica verista. Vi influì anche la decadenza della narrativa in versi. Questa, aristocratica com’era, non si è prestata ad esprimere gli aspetti usuali, comuni ed ordinari della vita. Evidentemente la narrativa in versi, decade quando la narrativa esce dagli ambienti letterati e scende in mezzo al popolo. Si sostituisce il romanzo. Romanzo ideale quello romantico, romanzo più aderente alla realtà cruda mano mano.
Cause del Verismo:
Il movimento è promosso dai seguenti fattori storici:
1)- dalla cultura positivistica che domina nella seconda metà dell’ottocento.
Il Positivismo insegna che le ricerche debbono essere positive, cioè:
a)- debbono limitarsi a ciò che cade sotto l’esperienza (viene ignorata o negata la realtà metafisica: agnosticismo e materialismo).
b)- debbono essere condotte senza veli ideali e senza pregiudizi.
c)- debbono concretizzarsi non in teorie, bensì in un corpo organico di osservazione.
Questi principi trasferiti sul piano della letteratura si applicano nel modo seguente: gli scrittori parlino di ciò che costituisce la vita vissuta di ogni giorno; dell’uomo quale risulta dal suo operare quotidiano; di ciò che è e non di ciò che dovrebbe essere; e ne parlino senza commenti; lascino parlare i fatti stessi; evitino assolutamente di volere scorgere nel fatti significati ideali o astratti.
2)- dal momento storico politico che sta attraversando l’Italia.
Esso è caratterizzato da due aspetti:
a)- dal ritorno alla vita ordinaria, dopo la fase eroica ed eccezionale del Risorgimento.
b)- dal bisogno in cui si trova l’Italia unificata di conoscere i gradi della vita nelle sue varie Regioni per farli presenti a chi ha il compito di provvedere alle eventuali deficienze.
E’ naturale perciò che gli scrittori in questo periodo, invece di cantare liricamente gli ideali, analizzino e riproducano oggettivamente la realtà della vita di un popolo, che è ancora assai arretrato rispetto alla civiltà moderna.
3)- dall’affermarsi del proletariato nella storia contemporanea.
In seguito a questo fenomeno storico l’attenzione degli scrittori, che prima della rivoluzione francese si è costantemente rivolta agli ambienti aristocratici, e dopo la rivoluzione si è concentrata sui grandi artefici della rinascita spirituale e politica della Patria, ora si rivolge alla vita degli ambienti umili, nei quali l’arte trova una infinità di motivi umani interessantissimi.
4)- dal bisogno di reagire al soggettivismo romantico, radicato nel soggettivismo idealistico.
Hegel e i suoi colleghi idealistici avevano parlato dello spirito che crea il reale e li dà la sua forma; e i romantici avevano concepito l’opera d’arte come “campo di sfogo della soggettività commossa”.
Come avviene sempre nella fase decadente di ogni movimento storico, anche nella fase decadente del Romanticismo, gli scrittori avevano condotto all’esasperazione la tendenza soggettivistica: dilagava ovunque la lirica lacrimosa e sospirosa, i cuori si mettevano di proposito in certe situazioni critiche per affliggersi e per far sapere a tutti che soffrivano. Il linguaggio non era né quello dei libri, né quello della vita vissuta, bensì una mescolanza ibrida di forme libresche e popolari.
Lo scrittore verista, si potrebbe dire, è un fotografo. “Nel romanzo verista le forme sono così perfette, la sincerità della sua realtà così evidente , il suo modo e la sua ragione di essere così necessario, che la mano dell’artista rimane assolutamente invisibile e il romanzo ha l’impronta dell’avvenimento reale e l’opera d’arte sembra essersi fatta da sé, aver maturato ed essere sorta spontanea come un fatto naturale, senza serbare alcun punto di contatto col suo autore”, così dice il Verga illustrando il concetto dell’oggettività e della impersonalità assoluta nell’arte.
5)- dallo scientismo, tendenza culturale strettamente legata al positivismo, e di cui si potrebbe riassumere la sostanza in questa espressione: come la natura fisica, così l’uomo deve essere studiato con criteri esclusivamente scientifici. La scienza sa tutto e spiega tutto: essa toglie la parola alla poesia, alla religione, al cuore al gusto, alla fantasia. Scienza si scrive con lettera maiuscola, così come nella seconda metà del settecento si era usato fare per la ragione. Qualsiasi altra attività, durante l’impero della scienza, o si ritira dalla circolazione, o passa al servizio di essa.
A noi interessa soprattutto il destino della letteratura sotto questi impero.
In Francia notiamo due movimenti:il Realismo e il naturalismo.
Il realismo: si specializza nella presentazione di “quadri d’ambiente” (specie di ambiente borghese, con aderenza assoluta alla realtà della psicologia. Della morale, degli usi, delle situazioni comuni nel ceto medio. E’ il realismo borghese di Balzac (autore della collana di romanzi intitolati “Commedia umana”) e di Flaubert (autore di “Madame Bovary”). Dalla scienza questo movimento accoglie solo il procedimento oggettivo.
Il Naturalismo. Alleato nel vero senso della parola con la scienza e, invece, il Naturalismo, di cui furono esponenti lo Zola ed i fratelli Goucourt. Il naturalismo, infatti, riceve dalla scienza: il compito di illustrare i fenomeni anormali della psicologia umana ( identificata materialisticamente con la fisiologia) alla luce dei principi della ereditarietà divulgati da Darwin.
Gli scrittori compongono i cosiddetti “romanzi documento”, cioè romanzi in cui la trama è inventata e condotta col fine di dimostrare vere certe affermazioni della scienza circa le anormalità psico-fisiologiche dell’uomo.
In Italia si ha il verismo: un indirizzo letterario che della scienza assume il metodo, oggettivo e impersonale.
Contenuto della letteratura verista.
I classicisti si erano specializzati nell’idealizzare personaggi, psicologie, situazioni eccezionali; i romantici nell’esprimere stati d’animo riscaldati dall’ideale, pervasi di alto lirismo; gli scapigliati per ostentare la loro spregiudicatezza e la loro sincerità assoluta, avevano espresso la psicologia di temperamento.
I veristi considerano le forme idealizzate ed eccezionali dei classici come pure creazioni letterarie; considerano la passionalità ideale dei romantici come stato d’animo rarissimo e creato più dalla suggestione che dalle energie reali della psicologia umana; considerano l’anarchismo degli scapigliati più come una posa che una forma reale della vita.
Essi si propongono di rappresentare la vita degli individui e degli ambienti sociali nella loro realtà vera, comune, di ogni giorno. Più che la grande vicenda, che sposta i personaggi da un luogo all’altro, per spazi amplissimi e attraverso situazioni eccezionali, nel romanzo verista rimane costantemente in scena lo stesso ambiente, con i suoi personaggi. Sono gli interni della case e dei paesetti che il verista scruta diligentemente, sicuro che anche la psicologia e le vicende di quel mondo hanno il loro fascino e suscitano interesse nel lettore moderno, avviato sempre più al concreto e desideroso di vedere finalmente sulla scena dell’arte la vita che egli vive ogni giorno.
Il Manzoni, dopo aver condotto i suoi “Promessi Sposi” alla conclusione del loro sogno, cessa il suo racconto: “dolori e imbrogli della qualità, e della forza di quelli che abbiamo raccontato, non ce ne furon più per la nostra buona gente; fu, da quale punto in poi, una delle vite più tranquille….. di maniera che, se ve l’avessi a raccontare, vi seccherebbe a morte”.
Un verista, invece, incomincerebbe il suo romanzo proprio da questo punto, cioè da quando cessa la vicenda eccezionale e comincia la vita comune. I classicisti avevano presentato uomini eccezionali in vicende eccezionali, con stile eccezionale; il Manzoni aveva presentato uomini comuni in vicende eccezionali, con stile medio; i veristi presentano uomini comuni, in ambienti e vicende comuni, con linguaggio comune.
Ecco come è fatto l’uomo di ogni giorno, in qualsiasi luogo egli viva, in qualsiasi condizione venga a trovarsi:
a)- è attaccato alla sua roba, alla sua casa, al suo ambiente, al suo lavoro, ai figli, alla moglie, più per istinto che per motivi ideali e riflessi: si può dire che a forza di stare a contatto, fin dalla nascita, con certe cose e con certe persone egli venga ad identificarsi con loro; per cui la difesa, la perdita, il recupero di esse è difesa, perdita, recupero di sé stesso. I motivi ideali di questa lotta, per la conservazione delle cose e delle persone, non c’entrano.
b)- nel suo amore è mosso da calcoli economici, non va più oltre di una simpatia sensibile, ignare delle idealità estetiche o morali che animavano gli amori dei classici e dei romantici.
c)- si adatta inconsciamente a lavori bestiali, a malattie, a maltrattamenti; ovvero si compiace di spadroneggiare, di truffare, di soverchiare.
d)- sente e vive la religione in forme interessate e quasi feticistiche e fanatiche; non conosce l’ideale religioso.
e)- difficilmente e a malincuore si allontana dal suo ambiente; ma quando se n’è allontanato e ha conosciuto forme di vita migliori, difficilmente si adatta a ritornare nei limiti del vecchio ambiente.
Ecco, perciò, lo schema del romanzo verista: ambienti comuni spesse volte primitivi – psicologia comune, spesse volte primitiva – una vicenda in cui rientrano tutti i personaggi tipici di un ambiente e di una psicologia di questo genere: gente che lavora e che pena; che sfrutta, che spadroneggia, che soverchia, che serve, che ama e litiga per gelosia, per incorrispondenza, per tradimento.
Questa è la vita vera, perché in essa si riflette la struttura della psico-fisiologia umana naturale: le altre forme di psicologia e di vita sono inventate, sono creazioni della retorica e non riscuotono più la fede dei lettori moderni smaliziati e realisti.
Come si vede i veristi tendono ad identificare il vero con la realtà comune grezza e primitiva. In questo senso essi si distinguono dal realismo romantico, e più precisamente dal realismo manzoniano. Per il Manzoni, infatti, vero è tutto ciò che fa parte della psicologia e della vita; vero, quindi, è anche l’ideale che costituisce realmente oggetto di culto e di passione per le anime sensibili, a qualunque categoria sociale esse appartengano.
Si potrebbe dire che, per paura di non essere fedeli alla realtà delle cose, invece che gli aspetti veri, essi abbiano preferito cogliere gli aspetti veristici.
La forma del verismo.
Forma oggettiva e impersonale. I classicisti avevano retorizzato la poesia; i romantici l’avevano sretorizzata, ma l’avevano liricizzata: i veristi gettano a mare la retorica e il lirismo e si propongono di riprodurre la realtà così come essa è, senza alcun commento, senza aggiungere nulla.
Questo è il proposito, ma in pratica anche i veristi si propongono di svolgere una tesi: ad esempio il Verga intitola la serie dei suoi romanzi “Ciclo dei vinti”, in quanto vuol dimostrare che nella vita l’uomo è sconfitto dalle sue stesse vittorie, (specie in “Mastro don Gesualdo”).
Forma analitica. Lo scrittore verista, per dare il senso della realtà vera, della riproduzione perfetta, rileva i particolari più minuti; per cui nelle descrizioni non viene trascurato nulla, anche di ciò che è umile e sbiadito. Mancano nella prosa verista i grandi quadri, le figurazioni scultoree, appunti perché gli uni e le altre sono creazioni di chi compone non riproduzioni di realtà oggettive.
Racconto semplice e impersonale. Lo scrittore parla come un semplice osservatore, rimanendo costantemente imparziale e impassibile di fronte a ciò che osserva e riproduce. Evita, perfino, di riferire i discorsi in forma indiretta, per conservare, ad assi la forma genuina. Il verismo, data l’impostazione oggettiva e impersonale, non poteva che darci altro prosa narrativa: la lirica non poteva sorgere nel terreno della oggettività impersonale.
Il linguaggio. Per aderire, anche nel linguaggio, alla realtà della vita vissuta, il verista evita le forme letterarie e abbassa il tono del suo racconto alla forma del parlare comune, accogliendo spesse volte anche modi di dire dialettali.
Regionalismo verista. I veristi scelgono gli ambienti delle regioni più arretrate, nei quali la psicologia umana di istinto vive e si esprime nella sua perfetta naturalità.
Ci presentano l’ambiente regionale siciliano il Verga ( in “Vita dei campi” – “I Malavoglia” – “Mastro don Gesualdo”); il Capuana (che inizia naturalista col romanzo “Giacinta”, e poi dà inizio al verismo col “Marchese di Roccaverdina”).
Ci presenta l’ambiente sardo Grazia Deledda (“Canne al vento” – “Elias Bortolu”).
Ci presenta l’ambiente napoletano Matilde Serao (“Gioco del lotto”).
Giudizio sul verismo.
a)- risponde ad una esigenza dello spirito contemporaneo che non crede più agli ideali astratti, alle vicende straordinarie, e che solo a quello che vede, e si interessa solo di ciò che lo riguarda da vicino.
Anche oggi la letteratura è sul binario veristico, con spassionatezza e crudezza accentuate.
b)- Verga, Capuana, Deledda sono riusciti a dare vita artistica alla vita quotidiana: sono riusciti a cogliere il groviglio psicologico degli uomini comuni, gli istinti più naturali e più veri, a descrivere gesti e situazioni con impareggiabile precisione, a parlare di uomini e di cose, con quella simpatia affettuosa e umile, che era evitata dalla grande arte, perché troppo famigliare, ma che piace tanto all’anima moderna, schiva delle forme studiate e composte.
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GIOVANNI VERGA
– MASTRO DON GESUALDO – I MALAVOGLIA
Il motivo della roba trova nel romanzo di Gesualdo il proprio sviluppo e la sua tragedia più alta: febbre di lavoro e di arricchimento prima, poi ansia di difesa – vana – della roba accumulata con tanta fatica e tanti sacrifici.
Nel romanzo vi è un realismo più profondo e potente di quello che appare nei Malavoglia, e la figura di Gesualdo è più complessa di quella di padron ‘Ntoni. Calcolatore freddo e positivo, don Gesualdo ha nel tempo stesso un cuore pronto a gonfiarsi di generosità, di delicatezza, di tenerezza, e spera di soddisfare, dopo la raggiunta ricchezza, il suo bisogno di affetto; ma in quel momento, all’atto stesso del matrimonio, dà l’avvio alla propria sconfitta, ultimo grande vinto del mondo verghiano, anzi, si può dire, il vinto per eccellenza: vinto nella famiglia, vinto nella società che lo sfrutta, lo lusinga, ma gli vieta di far parte di essa; vinto nell’amore e negli affetti filiali.
I critici, sin dall’apparire del libro sono stati discordi sulla valutazione della superiorità artistica dell’opera rispetto ai Malavoglia; per gli uni il capolavoro è il primo romanzo, per gli altri il secondo. A noi pare che le due opera abbiamo una fisionomia assolutamente propria e sono realizzate l’una e l’altra come autentiche opere d’arte.
Tuttavia il romanzo “I Malavoglia” è un’opera più armoniosa, più unita, assai meno dispersa nelle sue parti di “Mastro don Gesualdo”, e sotto tale aspetto gli è superiore; ma, d’altra parte, il romanzo di “Mastro don Gesualdo” è più ricco di motivi, è eccellente per vastità di tela, per movimento, per vitalità dei personaggi (di cui taluni trattati con tocchi impareggiabili), oltre che per la grandezza del protagonista (ecco perché alcuni considerano l’opera il capolavoro del Verga).
Altre differenze tra i due romanzi sono: nei “Malavoglia” c’è più accentuato il tono corale in cui si fondono tutti gli elementi di ambiente; in “Mastro don Gesualdo” è accentuata invece la solitudine tragica della personalità umana nella sua costante lotta con l’esistenza e quindi il tono della nudità e dell’essenza.
Inoltre nei “Malavoglia” vi è, in quella tragedia che su tutti incombe, la consolazione degli affetti familiari, e nel naufragio la casa del nespolo resiste; in “Mastro don Gesualdo domina lo squallore in tutta la sua ampiezza; i lunghi anni di massacrante lavoro sono stati inutili, e tutto quanto ha accumulato, dopo tanti stenti e tanti bocconi amari, è da altri dissipato; la roba, in cui ha creduto, è divinità caduca e vana; né un affetto lo consola e muore come un cane (pessimismo accentuato).
Inoltre la narrazione in “Mastro don Gesualdo” è più fluida. Opera completa e perfetta, essa chiude l’aspetto più crudamente amaro della cosmologia verghiana.
Il ciclo dei vinti si è fermato a “Mastro don Gesualdo”:
Nel suo ciclo il Verga si proponeva, come avverte nell’introduzione ai “Malavoglia” di cogliere il movente dell’attività umana che produce il progresso, di ritrarre quella ricerca del meglio da cui l’uomo è travagliato e che cerca di raggiungere elevandosi di classe in classe.
Nei “Malavoglia vi è lotta per i bisogni materiali; soddisfatti questi, la ricerca diventa avidità di ricchezza e si incarna in un tipo borghese: “Mastro don Gesualdo; poi doveva divenire avidità aristocratica nella “Duchessa di Leyra” (la figlia di don Gesualdo), e ambizione nell’Onorevole Scipioni” (il figlio della duchessa di Leyra), per arrivare all’”Uomo di lusso”, il quale avrebbe riunito tutte queste ambizioni, bramosie e vanità per comprenderle e soffrirne fino ad esserne consunto.
GIOSUE’ CARDUCCI
(1835-1907)
Spiritualità:
Ecco in sintesi i motivi della spiritualità carducciana:
1)- la concezione del reale. La realtà è materia animata da una forza intima (che il Carducci chiama ora Natura ora Satana ora Pan) la quale dà ad essa forma e vita. I singoli esseri sono forme dalla “materia-spirito”; e di queste forme l’uomo è la più perfetta. Siamo dunque di fronte ad una “naturalismo-panteistico”, ispirato al Carducci da:
a)- dal naturalismo classico greco-romano;
b)- dalla filosofia idealistica e dallo scientismo positivistico che, nella seconda
metà del secolo XIX, si fondevano nella teoria dell’evoluzionismo
materialistico (spirito ed evoluzione: fattori idealistici – materia: fattore
scientifico positivistico).
2)- la concezione della storia. La storia umana è una lotta tra le forze sane e genuine della Natura (il popolo – gli eroi) e le forze degenerate di essa (i tiranni – i vili).
Su questa lotta vigila la Nemesi (=vendetta), la quale garantisce al popolo la vittoria finale e punisce i tiranni e i vili.
3)-la concezione della vita. Vivere significa:
a)- godere con decoro e serenità quanto di bello, di forte e di sano offre la Natura
b)-operare e progredire alla luce degli ideali di “giustizia e libertà” (vedi “Avanti !
Avanti!” in “Giambi ed Epodi”)
4)- lo stile di vita. Vigoria e serenità; robustezza e onestà; fierezza e bontà.
5)- indirizzo culturale. Niente problemi metafisici, niente crisi di coscienza, dubbiezze, perplessità: si volge l’attenzione solo alla realtà concreta della natura e della vita per goderla, per operare attivamente in essa, in modo geniale e artistico, per cantarla. Quanto al terribile problema della nostra vita, cioè della nostra origine, del significato della nostra esistenza, del nostro destino dopo la morte, è meglio non pensarci e dimenticarlo attraverso l’azione: “meglio oprando obliar, senza indagarlo, questo enorme mister dell’universo” (“Idillio maremmano”: il componimento in cui il Carducci meglio esprime la sua avversione ai problemi difficili, anzi si rammarica, addirittura, di essersi avviato all’attività culturale e poetica, che con quei problemi l’ha messo a contatto).
Non è difficile vedere in questo indirizzo culturale:
a)- l’influsso del positivismo che sdegna la metafisica dichiarandosi, di fronte ad essa, agnostico: “ignoramus et ignorabimus” tutto ciò che sfugge all’indagine positiva della scienza.
b)- e il riflesso dell’indole del Carducci, uomo più incline a pensare per combattere, che per scoprire il vero.
6)- il senso della sua missione. Il Carducci, nominato professore di lettere all’Università di Bologna nel 1860, proprio quando l’Italia unificata iniziava il suo nuovo cammino storico, si sentì maestro della gioventù italiana a cui volle inculcare lo stile energico e fattivo della Roma repubblicana, gli ideali di libertà e di progresso della “Giovane Italia” del Mazzini, lo spirito fiero e buono di Garibaldi. “A più frequente palpito di odi e d’amori meglio il petto m’accesero ne’ lor severi ardori ultime dee supertisti giustizia e libertà; e uscir credeami italico vate a la nuova etade, le cui strofe al ciel vibrano come rugghianti spade, e il canto, ala d’incendio, divora i boschi e va”.
7)- il gusto artistico. Predilezione della forma classica, modellata con plasticità e vigoria; tono oratorio, quale si addice ad un poeta tribuno del popolo.
8) – spirito polemico. Il Carducci polemizzò in versi e in prosa contro:
a)- i languori sentimentali,le approssimazioni formali, la mania forestiera dei
romantici secondi.
b)- il quietismo e le incertezze della politica nell’Italia unificata;
c)- il misticismo cristiano (che egli male interpretò come rinuncia alla vita e alla
azione.
Influssi sulla formazione spirituale del Carducci:
1)- l’ambiente storico. Il Carducci è detto il primo grande poeta della nuova Italia, cioè dell’Italia unificata. Ciò è vero non solo da un punto di vista cronologico, ma anche e soprattutto da un punto di vista spirituale ed artistico.
Nel giovane regno Italiano fervevano ancora le passioni ideali del primo Risorgimento: l’ideale della libertà sostenuto dai liberali moderati e soprattutto dai democratici mazziniani, i quali ultimi insistevano ancora sulla forma istituzionale repubblicana; l’ideale dell’indipendenza totale dallo straniero; l’ansia di risolvere quanto prima il problema di Roma. I contrasti delle idee, specie riguardo a quest’ultimo problema erano vivaci e drammatici: soprattutto il “Partito d’Azione” capeggiato da Garibaldi faceva fiamme e fuoco, teneva desta la polemica contro il Vaticano, azzardava di tanto in tanto qualche iniziativa (Aspromonte, Mentana).
All’opposto si affermava in alcuni ambienti politici e sociali (specie negli ambienti moderati e conservatori) la tendenza ad accontentarsi di quello che era stato realizzato e a vivere nella quiete (quietismo politico): per costoro ogni problema doveva essere risolto attraverso il maneggio diplomatico, si dovevano evitare le guerre, si doveva andare cauti nelle riforme. Il Carducci non poteva aderire che all’indirizzo rivoluzionario e progressista, e ciò per vari motivi:
– nato nel 1835 egli aveva vissuto la fanciullezza e la giovinezza nel periodo più drammatico del Risorgimento: il commento del fatti del ’48 e 49 lo faceva, a lui bambino, il babbo medico di tendenze carbonare. Il commento ai fatti di ’56 lo faceva Egli stesso, in quanto giovanetto colto ed intelligente e vivacissimo, si interessava con passione dei fatti che avvenivano nel mondo che lo circondava. Fanciullo e giovinetto egli sentì parlare di Mazzini e di Garibaldi, come di due numi; sentì parlare dei “martiri” che nella varie parti d’Italia cadevano sotto i colpi dei tiranni; sentì le maledizioni di patrioti contro i Principi e contro l’Austria; sentì le maledizioni contro il Papa che dai patrioti appartenenti alla Massoneria veniva dipinto come avido di comando terreno, crudele, insensibile ai bisogni della Patria.
Era naturale che in un ambiente spirituale, così ardente a battagliero il Carducci, che si stava ancora formando, acquistasse uno stile intollerante di ogni tirannide, appassionatamente polemico, aggressivo e spregiudicato.
Era quella una fase, in cui, nel parossismo della polemica politica, non si usava misurare le parole: quel che era in cuore, era in bocca; il Carducci rivelò fin da giovinetto il suo entusiasmo per questo stile schietto, audace, aggressivo.
– del resto la sua indole lo portava naturalmente a questa scelta. Egli stesso in “Traversando la maremma toscana” parla del suo abito fiero, sdegnoso, del suo spirito ove “odio e amor mai non s’addorme”.
Questa indole aggressiva e combattiva si rivela già nel Carducci fanciullo: un lupacchiotto, una civetta attraversano la sua curiosità infantile; le pecorelle, gli usignoli non lo interessano: erano troppo miti e pacifici. E se più tardi nell’ode “Le fonti del Clitunno” vagheggerà anche la mite pecorella, e la rappresenterà in un atteggiamento combattivo (“la riluttante pecora nell’ombra immerge l’umbro fanciul”). In “Primizie e reliquie” egli parla con compiacenza delle sue avventure battagliere nella fanciullezza: gli piaceva giocare alla rivoluzione, e tra i partiti che si scontravano egli era sempre nelle file del partito del popolo.
– le letture giovanili, specie l’Ettore Fieramosca” del D’Azeglio, le “Romanze” e le “Fantasie” del Berchet, contribuirono ad avviare l’animo del Carducci ad uno stile dinamico e fiero. I poemi epici di Omero e di Virgilio, l’Inferno di Dante (da giovinetto non lesse mai il Purgatorio e il Paradiso) la “Gerusalemme” del Tasso, con i suoi personaggi caldi di passione e bravi nei duelli, coltivarono l’indole sua naturale improntata ad una tonalità forte. Gli studi classici in generale, avviarono l’animo del giovane Carducci al culto dei più alti ideali civili, politici, patriottici, generando in lui un alto concetto della stirpe italica e della sua missione di poeta nazionale.
– ad avviarlo verso la scelta della tendenza storica rivoluzionaria contribuì anche l’esempio di alcuni personaggi del tempo. I quali erano giunti all’apice della fama attraverso la serietà e l’assiduità nel lavoro, la genialità audace, la franchezza e la schiettezza nell’attuare programmi ben chiari; di questo genere erano Mazzini, Garibaldi, Guerrazzi, D’Azeglio, Mameli, Berchet, e tutti i personaggi che prepararono i fatti del ’59 e del ’60 e ne furono i protagonisti (ad esempio Cavour). Specie dal ’53 al ’61 ferve in Italia un clima eroico generale: sono anni in cui la storia sembra assumere le forme della leggenda, in quanto gli avvenimenti superano le previsioni. Basta ricordare quanti patrioti scapparono dai vari Stati Italiani per rifugiarsi in Piemonte e organizzarsi nei reparti dei volontari.
In quegli anni il Carducci viveva la sua piena giovinezza ed iniziava la sua carriera di insegnante. A 25 anni, esponente già noto della poesia italiana, professore in una delle più famose Università d’Europa (Bologna), egli non poteva fare a meno di seguire fra i due indirizzi quello che maggiormente non solo si adattava alla sua indole, ma riscuoteva la fama di progressista e di moderno: per tendenza naturale e per non restare indietro, egli si allineò con esso. Quando fu risolto in parte il problema di Venezia (’66) e fu risolto il problema di Roma (’70) il Carducci, il quale stimava sé stesso maestro civile e politico degli Italiani e considerava la sua missione come responsabile dei destini della Patria, si preoccupò di avviare gli Italiani verso mete imperiali, in modo che fossero rievocate, nell’età moderna, le glorie dell’antica Roma. “Nell’annuale della fondazione di Roma” egli parla dei nuovi trionfi che attenono l’Italia: “Trionfi non più di regi, non più di Cesari, e non di catene attorcenti braccia umane sugli eburnei carri, ma il tuo trionfo o Popolo d’Italia sull’età nera, sull’età barbara”: quindi si tratta di un imperialismo civile, senza conquiste e oppressioni di altri popoli (si nota in un imperialismo di questo genere l’influsso della spiritualità unitaria del Mazzini). Il Carducci fin verso il 1880 fu repubblicano: anzitutto la repubblica era per lui espressione più vivace del progresso (le monarchie per lui sono conservatrici) e soprattutto era una espressione immediata e piena della volontà e della forza del popolo.
Il popolo, secondo il vecchio concetto giacobino e la recente concezione romantica, era, anche per il Carducci, la vera forza della storia. Chiunque è avverso al popolo è avverso al progresso , e a nome del popolo e del progresso, il Carducci odiò tutte le forme della tirannide e propugnò , con ardore, tutte le soluzioni che garantissero nel miglio modo la libertà del popolo e quindi anche la forma costituzionale repubblicana. Egli in letteratura fu classicista, ma capì che alla sua missione di poeta della terza Italia (la prima è quella romana, la seconda è quella dal medioevo al Risorgimento, la terza l’Italia riunita), non si adattava né il classicismo plebeo e rivoluzionario: nitido, ma vigoroso: insomma un classicismo da tribuno del popolo e quindi di tono robusto, con flessioni aggressive, furenti, accorate, profetiche, malinconiche, disperate.
Dal 1880, in poi, egli simpatizzò per la monarchia e ciò per svariati motivi: anzitutto perché la monarchia seppe valutare i suoi meriti e in parte solleticava la sua ambizione. Perché, ormai, l’ideale repubblicano non poteva più avere applicazione essendosi stabilizzata la monarchia; infine perché anche la monarchia aveva i suoi meriti: casa Savoia aveva, si può dire, unificato l’Italia. Lo stesso Crispi, mazziniano ardente, nel 1864, aveva aderito alla monarchia giustificandosi con la famosa espressione: “la monarchia ci unisce, la repubblica ci dividerebbe”.
2)- ambiente culturale.
In opposizione alla filosofia idealistica che aveva dominato nella prima metà dell’800, si afferma, nella seconda metà dello stesso secolo, la filosofia positivista. Il concetto centrale di questa filosofia è il seguente: bisogna smetterla con i ragionamenti astratti e con le teorie astratte sia dei cartesiani che dei kantiani e degli hegeliani e bisogna dedicarsi allo studio ed alla utilizzazione delle forze della Natura: l’unica attività utile è la scienza. Nei riguardi del mondo metafisico il Positivismo si divide in due indirizzi:
– uno ignora la metafisica: “ignoramus et ignorabimus” tutto ciò che è al di là dell’esperienza scientifica (agnosticismo):
– un altro afferma che esiste solo la materia vivificata da una forma intima che le fa prendere le forme più svariate (materialismo).
Il Carducci ricevette dal positivismo i seguenti influssi:
a)- concezione della realtà.
La realtà è, come afferma nell’”Inno a Satana”, materia e spirito. Satana, simbolo di questa sintesi panteistica di materia e spirito è l’opposto del Dio trascendente dei cristiani. Il Carducci pensava che “l’enorme mistero dell’universo” (“Idillio maremmano”) non fosse svelabile e che ci si dovesse contentare di ciò che con l’immediatezza possiamo constatare, cioè di ammettere una materia ricca di vitalità, saldamente organizzata, vigorosa e potente in tutte le sue manifestazioni, che egli chiama anche la santa Natura o Pan. (“Davanti S.Guido”); e si compiace di rendere ad essa, cioè alla “materia-spirito” il suo culto cordiale e sincero.
Tutto ciò che è, è Natura: ma gli esseri robusti e vigorosi, pervasi per così dire da una vitalità rapace, quasi imperialistica, sono le espressioni più belle e genuine della Natura. Dalla levriera e dall’astor, dal maniero dipinti in “Poeti di parte bianca”, al bove monumentale e buono, al sole che viene sempre presentato splendido e vigoroso, ai fiumi pieni e maestosi, alle selve ondeggianti e profumate, all’elce nera, simbolo di vitalità perenne, si passa ai più imponenti e simpatici tipi di umanità: donne ed uomini dalle forme salde e vigorose, dagli occhi sfavillanti, dalle capellature abbondanti, dalla voce tonante e soavemente penetrante. (Franceschino Malaspina in “Poeti di parte bianca”; Massimiliano d’Asburgo in “Miramare” e la sua moglie Carlotta; la mamma del Carducci in “Sogno d’estate” insieme al suo fanciulletto; la nonna Lucia in “Davanti a S.Guido”; Alberto da Giussano del “Parlamento”.
b)- l’espressione più bella della Natura, però, è il popolo, con la sua vigoria ancora primitiva, che ha del selvaggio e del gentile insieme.
La Natura vive nel popolo, e chiunque opprime il popolo pecca contro la Natura. Infatti la condizione assoluta perché la Natura possa esplicare le sue energie è la libertà: i tiranni dello spirito (il Papa con i preti suoi), i tiranni del corpo (i re e i dittatori) sono i più grandi peccatori della storia, perché offendono la natura nella sua più bella espressione.
Rari sono i poeti della nostra letteratura che abbiano rappresentato il popolo nei suoi aspetti epici e gloriosi come il Carducci (basta ricordare “Sui campi di Marengo”, “Comune rustico”, “Il Parlamento”).
In armonia con il suo naturalismo panteistico, il Carducci formula una specie di religione e di morale. La Natura è santa. Santa è l’utilizzazione di tutti i beni della Natura. In questo senso il Carducci si vanta di esprimere nella sua poesia l’avversione alla religione cristiana, definita da lui “la religione del Dio dei rei Pontefici e dei crudeli tiranni”: il Dio trascendente dei cristiani dal Carducci è considerato come alleato di tutte le forze retrive e oscurantiste della storia. Al Dio cristiano egli oppone Satana “materia e spirito, ragione e senso, simbolo del progresso e della libertà”.
E si compiace di annunciare la vittoria della nuova religione naturalistica su quella cristiana: Satana “ha vinto il Geova dei sacerdoti”(Inno a Satana”).
Nell’ode “Alle fonti del Clitunno” egli vagheggia la rinascita della spiritualità naturalistica greco-romana, fautrice di uno stile di vita robusto e sereno e di una utilizzazione piena di tutti i beni della Natura. Gesù Cristo, secondo Carducci, avrebbe avuto il grande demerito di aver desolato la vita umana, di aver gettato sulle spalle di Roma, cioè della civiltà classica, la Croce, simbolo di rinuncia alla vita, di ansia di disfacimento, di abbrutimento. L’ode termina con una battuta schiettamente pagana: “salve, o anima umana, serena in Grecia e robusta in Roma ! I giorni foschi dell’oscurantismo cristiano sono passati: risorgi e regna!”
Oltre che per motivi politici risorgimentali, il Carducci è dunque in lotta contro la Chiesa anche perché vede in essa il più grande maleficio ella storia: dal tempo di Roma alla rinascita del naturalismo panteistico moderno, egli vede inserito nella storia un periodo di miseria spirituale e civile.
E’ evidente in queste battute polemiche il settarismo massonico e materialistico. Del resto negli ultimi anni della sua vita il Carducci stesso corresse queste sue valutazioni ingiuste. Nella “Chiesa di Polenta” egli riconosce alla Chiesa il merito di aver salvato, durante la tempesta delle invasioni barbariche, l’idea; di aver affratellato in nome di essa Barbari e Romani; di aver creato la civiltà di Sante, lo spirito delle nazioni moderne (come aveva ben intuito il Romanticismo).
I principi fondamentali della morale del naturalismo carducciano sono i seguenti:
a)- segui la Natura con decoro, con intelligenza e con gusto ( il vecchio principio già adottato dal classicismo greco-romano ed adottato dal Rinascimento).
b)- accogli tutto ciò che di bello, di buono e di robusto ti offre la Natura.
c)- non ti assoggettare mai ad alcuna forma di schiavitù, né politica né religiosa : la libertà è condizione assoluta del progresso.
d)- vivi per te e per il popolo: “A questa Nazione giovane di ieri e vecchia di trenta
secoli, manca del tutto l’idealità; la religione cioè delle tradizioni patrie e la
serena e non timida coscienza della missione propria nella storia e nella civiltà,
religione e coscienza che danno fede ad un polo di essere riservato a grandi
cose”
(Da“Confessioni e Battaglie”).
I più grandi peccatori sono i seguenti:
a)- i mistici ( nell’ode “Alle fonti del Clitunno” li chiama “empi” perché
”maledicenti all’opre della vita e dell’amore, delirano atroci congiungimenti di
dolore con Dio su rupi e in grotte: ovunque il divo sole benedicea maledicenti”.
b)- i tiranni (Re e preti) perché opprimono la libertà politica e religiosa.
c)- gli spiriti languidi che deformano lo stile robusto della naturalità in abiti
sentimentali , malinconici e falsi.
1)- C’è un essere misterioso nella storia, il quale punisce i peccatori, specie quelli che peccano contro il popolo, cioè i tiranni: tale forma si chiama “Nemesi storica” (termine greco = vendetta). In “Miramare” , Massimiliano, fiorente e bello, paga, per volere della Nemesi, le colpe degli Asburgo, cioè dei suoi avi. In “Morte di Napoleone Eugenio”, l’Aquilotto e Napoleone Eugenio (l’uno figlio di Napoleone I° e l’altro di Napoleone III°) pagano i colpi di Stato del Brumaio 1799 e del Dicembre 1851. In “Piemonte, Carlo Alberto (Italo Amleto) paga a Novara le colpe del ’21.
2)- L’atteggiamento agnostico di fronte al problema della vita.
Il tono di questo naturalismo panteistico è decisamente ottimistico: fiducia nella vita, dinamismo, audacia, franchezza, stile battagliero e progressista. Eppure anche il Carducci sentì il peso dell’”enorme mister dell’universo”: in “Idillio maremmano” egli quasi si dispiace di essersi avviato alla cultura, perché lungo questa strada si è incontrato con il terribile problema del significato della nostra esistenza. Tuttavia da buon seguace dello stile antimetafisico e pratico introdotto dal Positivismo, egli se la cava con una decisione che ha del tragico” meglio oprando obliar senza indagarlo quest’enorme mister dell’universo: meglio era sposar te bionda Maria, e cacciare i bufali nella Maremma”. In “Davanti a S.Guido” il Carducci taurino e spregiudicato afferma che forse la soluzione del mistero della vita è lassù nel cimitero dove dorme la nonna Lucia, cioè nella morte: il poeta sembra quasi dire: “viviamo e operiamo: la morte ci darà la risposta del grande mistero della nostra esistenza”.
3)- Lo stile della concretezza.
Infine dal Positivismo il Carducci trasse quella meravigliosa concretezza di stile poetico che investe ispirazione, forma e linguaggio e che, unito alla lucidezza e alla plasticità del modo classico, costituisce la nota più evidente della poesia carducciana.
In “Congedo” di “Rime nuove” egli delinea la figura del poeta “grande artiere, che al mestiere fece i muscoli d’acciaio: capo ha fier, collo robusto, nudo il busto, duro il braccio e l’occhio gaio”. Egli sdegna il poeta fantasioso, complimentoso, zerbinotto e galante, il poeta dei circoli aristocratici “delle dame e dei cavalieri”, il poeta delle fanciulle appassionate o in crisi di tipo aleardiano. Immagina la sua poesia fiera e ricca di vitalità ancora primitiva, come un destriero sauro a cui piace “la polve………..………. del corso e i ….. venti e il lampo delle selci percosse e dei torrenti l’urlo solingo e fier” (da “Ripresa” in “Giambi ed Epodi”), in opposizione al suo indiavolato destriero egli delinea: “ i bei ginnetti italici con pettinati crini, che caracollano tra le morbide aiuole dei giardini in faccia ai loro amori, mentre la loro giubba fluttua ritmicamente tra i nastri e i fior de le fanfare al suon”.(da“Ripresa”).
Egli destina la sua poesia a due fini pratici: a tener desto il popolo italiano e a tener desto il suo spirito che rischia di accasciarsi sotto il peso della vita: “o popolo d’Italia, vita del mio pensier, o popolo d’Italia, vecchio titano ignavo, vile io ti dissi in faccia, tu mi gridasti: bravo ! E dei miei versi funebri t’incoroni il bicchier”.
Dedicandosi con foga travolgente alla sua poesia egli vuole obliare “l’inerte fato, i gravi e oscuri dì” (da “Ripresa).
Il Carducci si compiacque di vagheggiarsi come poeta dello stampo del vecchio plebeo romano: lavoratore onesto, libero, aggressivo, terribile con i cattivi, ottimo con i buoni. Gli piacque di essere poeta non nel chiuso di uno studio o di una accademia, ma in mezzo al fragore della vita, anzi volle che la sua poesia suscitasse fragore di battaglia là dove la vita sonnecchiava. Padrone della parole e inesauribile creatore di immagini, egli seppe interpretare tutti i motivi della vita con sensibilità robusta e forma concreta.
In forza di questa concretezza poetica che consiste nel radicare l’ispirazione alla vita vissuta, nel plasmare immagini nitide e robuste, nell’usare un linguaggio efficace ed essenziale, pur senza rinunciare alla buona coloritura, egli si oppose a tutti i movimenti letterari languidi, incerti e faciloni. Soprattutto i secondi romantici con la loro ispirazione languida e piagnucolante, con la loro forma vaga e imprecisa, con il loro linguaggio fanciullesco e popolaresco, so no le misere vittime della frusta letteraria del Carducci. Tutti i pedanti gli sono antipatici, pur essendo egli u no scrupoloso elaboratore delle immagini e della parola: egli era professore esigente perché molto colto egli stesso. I faciloni che compongono dandosi arie di saputi, mentre sono degli oziosi e degli ignoranti; i pedanti che pretendono di imporre il loro metro gretto mai geni, sono da lui ridotti al silenzio con il suo stile spietato ed aggressivo. Basta ricordare i manzoniani stenterelli (Stenterello era una maschera fiorentina che parlava il ribobolo, cioè il dialetto popolaresco fiorentino), che egli deride in “Davanti a S.Guido” per la pedanteria con cui applicavano la soluzione del problema della lingua data dal Manzoni. Per non essere spennacchiati, anche quelli che lo detestavano, preferivano tacere.
Il Carducci e il romanticismo
Si oppose al romanticismo decadente.
Il Carducci, fin da giovane, si compiacque di presentarsi al pubblico colto d’Italia come “scudiero dei classici”; e battagliò fieramente contro i languori, e
indefinitezze, la falsità, la sciatteria dei romantici secondi. Questi avevano creato la moda romantica. Avevano popolato la letteratura narrativa di donne pallide e sofferenti; di uomini in crisi, bisognosi di parole dolci, e, quel che è peggio, inclini essi stessi a parlare dolcemente; di vicende sentimentali; di paesaggi languidi, di salici piangenti; di laghetti inargentati dal chiarore lunare. Avevano ridotto la lirica a confessioni pietose, fatte a mezza voce; a religiosità vaporosa e fiacca, che aveva deformato il Cristianesimo in sentimentalismo rinunciatario. Infine, dimenticando di essere Italiani, avevano simpatizzato morbosamente per la poesia dei barbari (di Goethe, di Byron, di Lamartine, di Hugo).
a)- il Carducci comprese che una letteratura di questo genere riusciva deleteria
allo spirito dell’Italia nuova. La marcia di un popolo giovane, che inizia il suo
cammino verso mete imperiali, non si accompagna con il flauto e le ariette
sentimentali, bensì con la tromba ed i canti epici.
b)- in secondo luogo, la sua indole fiera, sentiva ripugnanza per quella poesia
senza vigore e senza sincerità; ed ostentò, per reazione ad essa, un abito
mezzo selvatico, chiassosamente rivoluzionario, spregiudicato e spavaldo;
così come erano stati i preromantici stormisti, tutti impeto e travolgenza.
c)- in terzo luogo, alla sua profonda cultura classica, alla sua serietà di artista
ripugnavano le visioni figurate alla meglio, la psicologia fiacca, malata e poco
intelligente, il linguaggio popolaresco. Per contrapporsi ai romantici, ostentò
vigoria selvaggia, urlò che in arte bisogna lavorare sodo, bisogna essere
precisi, bisogna dire cose utili e sensate.
d)- inoltre, a lui, professore di lettere italiane, dottissimo in lettere classiche,
ripugnava l’atteggiamento di molti romantici i quali si vantavano, quasi, di
aver buttato a mare il mirabile patrimonio della poesia classica, per apparire
moderni, per mettersi al fianco di Goethe, di Byron, di Lamartine, di Hugo, che
essi non sapevano neanche imitare.
Anzitutto il Carducci, studioso intelligente e di buon gusto, trovava nelle immagini, nel linguaggio, nei metri dei classici da Omero, a Virgilio, a Dante, a Foscolo, una infinità di modi d’arte adattissima alla formazione del buon poeta; in secondo luogo gli urtavano le cose di ultramodernismo esterofilo, che si risolvevano in autentico disprezzo della nostra tradizione artistica e culturale, e servivano ai mediocri per mascherare la loro ignoranza, e per dar tono alla loro faciloneria.
Già in “Iuvenilia” egli si presentava “scudiero dei classici”; ed è significativo il fatto che ancor giovanissimo (era studente universitario alla Normale di Pisa), insieme al Gargani, al Tozzetti, e al Nencioni, fondò la “compagnia degli amici pedanti” col programma di difendere energicamente, quasi con voluta pedanteria, la dignità dell’arte contro la sciatteria e la faciloneria dei romantici decadenti; e di riportare la nostra poesia sulla strada della romanità e della italianità più pure.
Il Carducci fu antiromantico al modo che certi romantici estremisti erano stati anticlassicisti: come questi, in nome della modernità, della originalità, della libertà, avevano gettato a mare la tradizione e la cultura classica; così egli, in nome della tradizione, getta a mare la produzione dei barbari moderni. Per questo il professore Carducci, titolare della cattedra di lettere italiane alla Università di Bologna, si dedica quasi esclusivamente all’esame dei nostri grandi autori, e solo in misura assai limitata si avvicina agli scrittori stranieri moderni. Lesse alcuni autori francesci. Ad esempio il Beranger, di cui in “Giambi ed Epodi” imitò lo stile aggressivo e battagliero, di tono plebeo, ma intelligente; del Michelet lesse la “Storia della Rivoluzione Francese”, da cui trasse spunti per i dodici sonetti del “Ca ira”e che a lui, spirito repubblicano e giacobino, interessava moltissimo; tradusse, adattando, dallo Herder, dal Goethe, dal Platen, dallo Heine, dal Romancero spagnolo.
e)- infine il Carducci, spirito laicista, anticlericale e naturalista, si trovava a suo agio solo a contatto con la mentalità e le immagini del classicismo pagano.
Egli odiava i preti perché, mazziniano ardente e naturalista convinto come era, li considerava nemici del progresso dell’Italia e del popolo, e sostenitori della religione trascendente, da lui confusa con il misticismo esasperato dei Catari, dei Flagellanti, e di altre sette ereticali del Medioevo e ritenuta ormai superata dalla scienza (vedi l’ode “Alle fonti del Clitunno”): caduto il potere temporale del Papa egli era sicuro che sarebbe caduto anche il Cristianesimo.
Mosso da questa animosità, egli spregiava tutto ciò che sapesse di religione cristiana: di qui la sua antipatia per il Manzoni (invano smentita nel suo discorso di Lecco, col puerile pretesto che il babbo, quando egli era giovanetto, gli aveva fatto leggere la “Morale cattolica”); e di qui anche la sua antipatia per il Romanticismo in generale che, come aveva affermato il Manzoni nella “lettera al Marchese Cesare D’Azeglio”, oltre tutto, era assai più vicino del classicismo allo spirito delle nazioni europee moderne, educate dalla Chiesa nel periodo della loro infanzia medievale.
Proposte carducciane contro il Romanticismo.
Alla letteratura del Romanticismo in generale e a quella del Romanticismo decadente in particolare, il Carducci oppose questo programma:
1)- via della letteratura narrativa e descrittiva i temi emotivi inventati, cose concrete, di paesaggi reali, presentando tutto in forme vigorose, floride e serene, così che la poesia desti nei lettori l’amore per la vita.
Via dalla lirica i languori sentimentali e la soggettività morbosa: si sostituisca una lirica di sentimenti robusti, forti e sinceri, I giovani non debbono essere abituati al lacrimoso, al tenero, al molle, al falso, bensì alla lotta per la libertà e la giustizia, al godimento sano e sereno dei beni della vita, al progressismo dinamico.
2)- via la primitività e la rozzezza, la fanciullaggine e le immagini imprecise, le figurazioni a metà, i passaggi ingiustificati: nella composizione artistica tutto deve essere logico, nitido, chiaro, plastico.
La naturalità non è sinonimo di primitività rozza e stupida, ma è spontaneità nell’esprimere una ricca sostanza di pensieri, di affetti, di esperienze vive.
La cultura è insostituibile in arte: essa serve ad intuire meglio i significati più profondi dei soggetti e ad elaborare con precisione le immagini che li esprimono in forma concreta.
3)- via il fanatismo per gli scrittori stranieri, la mania antitradizionalista ed anticlassicista. Si utilizzi in modo originale ed intelligente quanto di buono i Greci, i Romani, i nostri grandi italiani, da Dante a Foscolo, hanno inventato per dar forma concreta al pensiero e al sentimento e per rendere più ricca ed efficace l’espressione linguistica.
Questo programma è bene espresso nel “Congedo” della raccolta “Rime Nuove”.
Il poeta non è un pitoccone che si guadagna un pezzo di pane dicendo sciocchezze e turpitudini; non è un complimentatore di professione della gente ricca e oziosa; non è un fantasticone che vive nelle nuvole: il poeta vero è un grande “artiere”, un grande fabbro: ha corporatura vigorosa e spirito sereno; vigoria e ardore di sentimento; passione per il lavoro; agilità e destrezza nell’elaborare le forme.
Il grande artiere “nelle fiamme”del suo cuore ardente “gitta gli elementi dell’amore e del pensiero, le memorie e le glorie dei suoi padri e di sua gente, il passato e l’avvenire”. Nel cuore tutto si fonde, cioè tutto prende vita, si anima dello spirito del poeta nella fantasia tutto prende forma plastica.
Ecco quello che offre il poeta ai mortali: canti che accendono gli animi alla difesa della libertà; canti di lode per la virtù e la bellezza; canti che accompagnano la celebrazione dei riti religiosi; canti che allietano i conviti.
Lo stile del Carducci.
Lo stile carducciano realizza la sintesi perfetta tra l’impeto lirico e la plasticità figurativa, tra la forma e la precisione, tra l’immediatezza romantica e la elaboratezza classica.
Il Romanticismo aveva affermato tre principi indiscutibilmente veri:
a)- la poesia deve aderire alla vita;
b)- deve esprimere con immediatezza e vigoria il dettato del cuore commosso;
c)- deve essere accessibile al pubblico di tutti coloro che “leggono, capiscono e si
commuovono”.
E’ proprio in base a questi principi il Romanticismo primo, cioè quello autentico, aveva creato una letteratura piena di vitalità e di forza, a cui spettava il merito di aver educato le generazioni del Risorgimento e di averle accompagnate nella lotta.
Era impossibile che un movimento così vasto e profondo non determinasse un cambiamento di rotta anche nel nostro classicismo tradizionale. Questo, dall’Umanesimo al Foscolo, aveva avuto il difetto di rappresentare la vita in forme troppo aristocratiche e di creare opere accessibili soltanto a gente iniziata agli alti studi. Il classicismo umanistico si era esaurito in una imitazione formale degli antichi; il classicismo arcadico era nato e vissuto nei salotti: il neoclassicismo si era mantenuto su un piano di idealità quasi olimpica e di estetica elevata.
Nella seconda metà dell’ottocento, cioè nell’età del positivismo e del progresso tecnico e scientifico; nell’età in cui il proletariato avanzò per la prima volta sul piano della storia; nell’età, soprattutto, in cui la giovanissima nazione italiana iniziò, nella libertà e nel fervore di lotte ideali, il corso di una vita nuova, il Classicismo doveva assumere forme e toni più concreti, più dinamici, più popolari: doveva rinunciare al suo estetismo e al suo aristocratismo tradizionale ed accogliere motivi, immagini, forme linguistiche della vita vissuta, senza tuttavia rinunciare ai suoi pregi immortali, che sono la precisione e la nitidezza.
Spettò al Carducci il merito di portare il Classicismo tra le battaglie della vita, cioè di dar forma plastica, precisa e nitida alla storia, alle passioni, alle aspirazioni dell’anima moderna. Il Carducci realizzò, in stile classico, quell’ideale del poeta-tribuno vagheggiato dall’Alfieri, che i romantici avevano realizzato in stile libero e ultramoderno. Il Carducci si compiaceva di incarnare nella vita e nell’arte il tipo del plebeo romano dell’età repubblicana: fiero, libero, laborioso, onesto, serenamente dedito al godimento dei beni di natura.
E’ evidente, perciò, nel classicismo carducciano un senso di primitività sana e vigorosa, di piacevolezza serena e virile, che è il tono del naturalismo protopositivistico e contemporaneo, più dinamico, e massiccio di quello rinascimentale, che era stato troppo aristocratico ed estetico, più realistico e concreto di quello illuminista che era stato troppo intellettuale, meno complicato e più ottimista di quello romantico.
Il Carducci, dunque, ha creato il classicismo positivo, il classicismo del democratico moderno, mirabile connubio di impeto rivoluzionario e di fresca popolarità da una parte e di cultura e di buon gusto dall’altra. Il suo è il classicismo “dell’uomo d’azione”, dell’uomo di cultura e di buon gusto e soprattutto del poeta che sa valersi della creazioni passate per esprimere le creazioni sue.
Possiamo dire che il Romanticismo dà il tono della creazione carducciana, tono veemente ed impetuoso; e che il classicismo dà ad essa la forma, cioè la struttura compositiva, salda e logica, la nitidezza e la plasticità nella figurazione, le immagini mitologiche adattissime alla sua concezione naturalistica, i metri più gloriosi (saffico, alcaico, distico elegiaco, cioè esametro più pentametro)
Che cosa il Carducci accolse del Romanticismo
a)- il concetto che la poesia deve accompagnare spiritualmente la vita del popolo.
b)- il concetto che la poesia erompe dalla energia naturale che ferve nel cuore del genio.
c)- il culto degli ideali di patria, libertà, popolo, progresso.
d)- la preferenza per i motivi storici. Si può dire che il Carducci sia il poeta della
storia. Basta ricordare che le sue composizioni più belle traggono ispirazione da visioni di storia medievale (in cui campeggiano le figure degli eroi del Risorgimento). Il motivo storico offre al Carducci lo spunto per bellissime figurazioni rievocative, per svolgere motivi polemici, per esaltare i grandi ideali politici ed umani che gli stanno a cuore (ricordare “Poeti di parte bianca” in “Levia gravia”; svariate composizione di “Giambi ed Epodi”; i sonetti del “Ca ira”; “Sui campi di Marengo” in “Rime nuove”; quasi tutte le “Odi barbare”, “Alle fonti del Clitunno” e in particolare “Miramare”, “Piemonte”, “Alla città di Ferrara”, “La chiesa di Polenta”, in “Rime e ritmi”, “Parlamento” dalla canzone di Legnano.
e)- il dramma interiore generato, specie nel Carducci maturo, dall’”enorme mister dell’universo” (cioè dal mistero che circonda l’origine, il significato, il fine dell’universo e della vita) e del vuoto dello spirito dopo tante e vane esperienze. Questo dramma, tuttavia, non assume mai la forma della crisi e non si risolve mai in malinconia abbandonata e morbida, ma si concreta in pensosità virile e viene superata con una battuta fra disperata ed accorata, con un leggero scintillar degli occhi inumiditi, con un gesto di ripresa e di scuotimento energico.
In “Idillio maremmano” appare la figura del poeta sgomentato dal suo stesso pensiero: “or freddo, assiduo, del pensiero il tarlo mi trafora il cervello, ond’io dolente misere cose scrivo e triste parlo”. Ma il suo spirito dinamico e fiero non si abbandona, e, con una battuta da positivista agnostico, si libera della malinconia che sta per investirlo: “meglio, oprando obliar senza indagarlo, questo enorme mister dell’universo”: si lavori, si costruisca, sembra dire il poeta; la risposta al mistero della vita la darà la morte; quando moriremo, se c’è qualcosa lo vedremo: per ora non vale la pena né indagare né, tanto meno, piangere.
In “Davanti a S. Guido” il Carducci progressivamente si inoltra in considerazioni malinconiche, sino a giungere a sentire che la sua esistenza è stata vana ricerca di una felicità impossibile e che forse solo la morte gli darà quella pace che la vita non è riuscita a dargli: “Quello che cercai mattina e sera tanti e tanti anni invano, forse, nonna, è nel nostro cimitero”. Il Carducci leonino e ottimista sembra piegare sotto il peso della vita; ma eccolo proprio al culmine della tenerezza e della malinconia, dissipare il velo triste che sta avvolgendo il suo cuore, con la visione della leggiadra schiera di puledri che, annitrendo, corrono al rumore della vaporiera fuggente: una visione di vitalità giovanile e di progresso richiama l’anima alla vita che ferve e le malinconie di dissolvono.
Il Carducci è un uomo sensibilissimo: ma la sua tempra è virile: pensa e soffre, ma evita di far sapere a tutti, come facevano i romantici, che egli pena: qualche cenno sobrio e pensoso qua e là (Funere mersit acerbo in “Pianto antico”).
Non è difficile cogliere in questi atteggiamenti gli influssi della mentalità positivistica che evita i problemi metafisici, dichiarandoli insolubili, e si contenta di indagare sulle forze della natura per utilizzarle ai fini del progresso tecnico, economico e politico della società umana.
Cosa rifiuta il Carducci del Romanticismo ?
1)- l’anticlassicismo, a cui oppone:
a)- una spiritualità classica naturalistica.
b)- uno stile classico: figurativo, plastico, preciso, nitido, con utilizzazione
(assai sobria e limitata) del mito.
c)- lo studio e l’utilizzazione libera delle creazioni classiche.
2)- le fantasie lontane dalla realtà, a cui oppone una poesia che trae soggetti e
motivi dalla vita vissuta e dalle battaglie ideologiche della storia
contemporanea.
3)- il realismo mediocre ed umile, a cui oppone un realismo fatto di visioni di
potenza, di forza, di bellezza fiorente, di magnanimità, di grazia elegante e
decorosa, di primitività intelligente e sana.
4)- la psicologia in crisi, a cui oppone una psicologia robusta e decisa.
5)- i paesaggi tetri e languidi, a cui oppone una natura imponente, ricca di
vitalità, florida e piena di sole. In “Classicismo e Romanticismo” (che si trova
in “Rime nuove”) la luna, tanto cara ai romantici per la sua luce tenue e per il
suo volto pensoso, è malmenata dal Carducci in modo spietato: “Benigno è il
sol… che inonda di luce e di vita gli uomini dediti alle opere del giorno”; ma
alla povera luna che col suo raggio “gode abbellir ruine e lutti, e maturar non
sa nel fantastico viaggio né fior né frutti” lancia un insulto atroce: “Odio la
faccia tua stupida e tonda….monacella lasciva ed infeconda, celeste paolotta”
(paolotto= bigotto).
6)- la figurazione incerta e sbiadita a cui oppone la figurazione precisa, plastica,
nitida.
7)- il lirismo, la effusività, la immediatezza fatta di sospiri e di gemiti, a ciò
oppone un lirismo sobrio e sapientemente temperato da descrizioni potenti.
8)- la faciloneria popolaresca, a cui oppone sapienza e severità di tecnica e buon
gusto.
Non occorre ripetere che questi aspetti, ripudiati dal Carducci, sono propri della moda romantica, non del romanticismo genuino, quale fu interpretato dal Manzoni e dal Berchet.
Note caratteristiche della composizione carducciana.
1)- L’impostazione oratoria.
Il Carducci considerò sé stesso “vate d’Italia, tribuno del popolo”, “plebeo della Roma repubblicana”. Cosciente della sua cultura, della sua autorità di professore universitario, e soprattutto del suo genio, egli non sono non si stima inferiore agli uomini della politica e degli affari, ma reputa suo diritto e dovere seguire e giudicare l’operato di quegli uomini e riferirne al popolo.
Vediamo di che cosa parla col suo pubblico:
a)- Dice male del governo, dei preti, del Papa, dei romantici (specie in “Giambi ed Epodi”). Questo era il suo motto: “in politica: l’Italia sopra a tutto – in arte: il classicismo anzitutto”. Mazziniano, professore di lettere, poeta classicista, egli sente palpitare nelle sue vene la romanità e l’italianità . Ora che l’Italia si è riunificata, dopo tanti sacrifici e tanto sangue, egli ha la sensazione che gli Italiani si siano dati ad una politica di rinunce e di viltà.
Nel 1862: Aspromonte: il governo italiano arresta la marcia dei garibaldini verso Roma, rinchiude Garibaldi nel forte di Varignano.
Nel 1866; sconfitta a Lissa e Custoza: ci viene restituita dall’Austria la Venezia Euganea, ma dobbiamo riceverla dalla mani di Napoleone III°.
Nel 1867: Mentana: truppe francesi provano i loro chassepots (primi fucili a retrocarica dati nel 1866 in dotazione ai soldati francesi) contro i garibaldini.
Nel 1870: si entra in Roma quasi alla chetichella.
La monarchia, il governo della destra, pensa il Carducci, ci stanno umiliando: l’Italia “passa fra le nazioni moderne tra una pedata e l’altra”.
All’età delle cospirazioni, delle spedizioni, delle insurrezioni all’età del popolo, è subentrata l’età dei diplomatici, delle discussioni e dei compromessi, l’età delle rinunce. Se si desse mano libera al popolo, tali cose non succederebbero.
Il Carducci che ha l’animo pieno di italianità e di romanità, che vuole indirizzare la gioventù italiana sulle orme dei padri romani e dei campioni del Risorgimento, infuriato sale sulla tribuna e tuona contro la monarchia, contro la diplomazia, contro gli uomini politici vigliacchi e profittatori; maledice il Papa che si ostina a non cedere Roma ed invoca l’aiuto stranieri contro la patria; schiaffeggia i romantici che in un momento così drammatico stanno piagnucolando nenie e fantasie solitarie.
Giustizia e libertà, energia e onestà, schiettezza e decoro: questi sono gli ideali che egli predica “all’Italia, gente dalle molte vite” in nome della Roma antica e dell’Italia moderna.
b)- rievoca visioni di gloria passata, quando il popolo, specie nell’età dei Comuni, era padrone del suo destino e dava prova della sua potenza e della sua bontà (“Comune rustico” – “Sui campi di Marengo”); quando i signori erano veramente signori (“Poeti di parte bianca”); quando ogni lavoratore era un artista e sorgevano le belle chiese, i bei campanili, i bei palazzi comunali, le belle piazze, con il contributo geniale di tutti i cittadini.
c)- celebra gli uomini e le donne belle, celebra l’amore, celebra la potenza e l’arte della natura; celebra il progresso materiale congiunto ad intelligenza e buon gusto; esorta al godimento sano e sereno dei beni della vita.
E nel frattempo dice male del Cristianesimo e dei preti perché predicano la rinuncia, l’avvilimento, la schiavitù, il regresso, ammuffiscono le anime e i corpi.
d)- confida le sue gioie personali, le sue pene e i suoi crucci (“Funere mersit acerbo”, “Pianto antico”, “Idillio maremmano”, “Traversando la maremma”).
Si tratta di confidenze intime, fatte con virile sobrietà e con la certezza che esse saranno gradite al pubblico, il quale è cento ansioso di sapere se anche il professore poeta Carducci, così leonino e fiero, è un mortale che ama la pena, come tutti i mortali.
Concludendo questa prima caratteristica. Il Croce afferma che il Carducci non è poeta, ma oratore. Questa distinzione fra poesia e oratoria è arbitraria, o meglio, è basata sul pregiudizio crociano che la poesia sia liricità disinteressata, cioè canto puro senza finalità pratiche; per cui l’oratoria, la quale ha come fine quello di persuadere, è fuori del mondo della poesia. Ma se la poesia consiste soltanto nell’esprimere bene la vita intima di un soggetto, nessuna composizione, neanche quella oratoria, neanche il poema didascalico, rimangono esclusi dalla poesia.
E siccome il Carducci ha sempre espresso i suoi stati d’animo ricchi di pensieri e di sentimenti con precisione ed efficacia, poco importa che l’impostazione da lui preferita fu quella oratoria.
2)- Vigoria e plasticità di figurazione. Il Carducci preferisce figurare immagini ricche di vitalità, di forza e di floridezza. Le note descritte da lui utilizzate sono essenziali e ben rilevate: adopera la parola per scolpire. La scultura foscoliana era più signorile e più fine; quella carducciana è più massiccia, ma è sempre nitida; nella figurazione foscoliana c’era più idealismo estetico, in quella carducciana c’è più positivismo estetico.
3)- Immediatezza, calore e franchezza nell’esprimere i sentimenti.
Il Carducci, plebeo fiero e sincero, sdegna i palliativi, le frasi di accomodamento; l’espressione, per così dire, diplomatica. Non ha peli sulla lingua; quel che ha in cuore ha in bocca; anzi, spesse volte, irruente e impulsivo com’è, dice di più di quanto non intenda dire. E’ per questo motivo che talvolta egli ritorna su certi suoi atteggiamenti polemici eccessivi, per correggerli e moderarne la portata. Così a proposito dell’”Inno a Satana”, che egli definì una “fanfarrata”: così anche a proposito del suo giudizio circa la funzione storica de Cristianesimo espresso nell’ode “Alle fonti del Clitunno”, giudizio che egli corresse nella “Chiesa di Polenta”.
4)- Varietà di toni nella costante robustezza. Il Carducci, tribuno del popolo, parla sempre con un tono robusto, ma sa flettere mirabilmente la sua voce a seconda dei motivi che svolge. Fiero ed impetuoso, quando aggredisce; pacato e solenne, quando figura visioni cariche di epicità e di idealità; pieno di forza incalzante e drammatica, quando il suo animo è inondato dall’entusiasmo; delicato e gentile, quando presenta scene simpatiche; cordiale, espansivo e florido, quando rende omaggio alla bellezza, agli amici, alle persone care; secco ed acre, quando vuol fare dell’ironia; pensoso e grave, quando confida le sue pene.
E’ questa varietà di toni costantemente sostanziata di vigoria, di giovanilità, di bravura balda e sicura di sé, che rende sempre gradito e desiderato il discorso poetico del Carduci.
L’importanza del Carducci nella storia della letteratura italiana.
La personalità del Carducci ha dato l’impronta a tutta la poesia della seconda metà dell’ottocento, anche se in questo si notano svariate correnti, diverse per ispirazione, per forma e per linguaggio da quella carducciana.
Il Pascoli, benché avviato nella corrente decadentista e simbolista, tuttavia risentì, in tono minore, dell’influsso del maestro, specie nelle liriche di ispirazione patriottica.
Il D’annunzio, nella raccolta “Primo vere” è evidentemente sotto l’influsso carducciano.
Tutti i poeti della fine dell’ottocento e dei primi del novecento, quando hanno voluto esprimere sentimenti forti con tono forte, hanno tenuto presente il modello carducciano. Seguaci fedeli del Carducci furono: Giuseppe Chiarini, Severino Ferrari, Guido Mazzoni, Giovanni Marradi.
Il fascismo lo considerò come uno dei più grandi poeti nazionali, per la vigoria del suo sentimento patriottico, per il culto delle memorie imperiali di Roma, per l’intonazione dinamica e fiera della sua mentalità politica. Sulla scia del Carducci, infatti, il fascismo si compiacque di bollare con frasi forti la politica dell’incertezza e del compromesso, in uso dell’Italia posti-risorgimentale, specie nell’età umbertina; e di opporre ad essa la politica della voce grossa e del colpo di mano.
Il Carducci, inoltre, fu il più intelligente interprete dell’età del positivismo. Questa età, incamminata com’era sulla via del realismo crudo e della oggettività assoluta, rischiava di non riuscire a darci altro che una letteratura in prosa, di propaganda scientifica, così com’era successo nell’età illuministica.
Ma come nella seconda metà del settecento, il Parini seppe conciliare la tendenza pratica della cultura illuministica con l’idealizzazione classica, così il Carducci riuscì ad interpretare la spiritualità massiccia della generazione che scriveva le parole scienza e progresso con la lettera maiuscola, nelle forme di un classicismo muscoloso e sprizzante faville. Così l’età del positivismo ebbe il suo poeta lirico, che ne interpretò lo spirito naturalista, pagano e progressista, e lo espresse con uno stile massiccio, nitido e decoroso. Così, soprattutto l’età, in cui ebbe inizio il progresso tecnico-industriale contemporaneo, vide congiunti insieme la materia e l’idea, la tecnica e l’estetica.
E’ innegabile che, travolto dall’impeto della sua indole calda e passionale, il Carducci cade spesso nel settarismo e nel fanatismo intransigente; com’è innegabile che il suo stile di plebeo romano moderno cade, talvolta, nella polemica scorretta e ingiusta. Ridicoli sono certi suoi atteggiamenti di fustigatore e di distruttore indiavolato e spavaldo, che sembra voler ragione per forza, facendo la voce grossa. Tuttavia è certo che, anche quando la sua ispirazione focosa trascende i limiti dell’equità e della moderazione ed accoglie i pregiudizi meschini, il Carducci si esprime sempre con un linguaggio preciso, sicuro e di innegabile efficacia.
Il Carducci fece troppo spesso la voce grossa, assunse troppo spesso le forme del leone infuriato e del mastino che abbaia e addenta; ma la bontà e la generosità che ugualmente spesso dimostrò, lo resero simpatico a tutti.
Passò così come il tipo del poeta terribile e buono, burbero ed umano nello stesso tempo: così, del resto, immaginava lui, ed immaginiamo ancor noi, il tipo del tribuno o del plebeo romano.
Raccolte della poesia carducciana.
1)- “Iuvenilia”(= cose giovanili 1850-1860): raccolta di liriche in cui si presenta come scudiero dei classici. Sono composizioni che si riducono quasi sempre ad esercitazioni di tecnica classica, con derivazione dai Greci, dai Latini, dagli italiani maggiori.
2)- “Levia gravia” (= cose leggere e gravi 1861-1871): sono composizioni, in genere, occasionali (ad esempio alcune liriche per nozze; per la proclamazione del Regno d’Italia; per la spedizione francese nel Messico; dopo Aspromonte, ecc.)
Il giovane poeta ripete frasi fatte, tante immagini azzardate: non ha trovato ancora la sua via. L’unica perla è “Poeti di parte bianca” in cui si notano una sicura capacità di rievocazione d’ambiente e una figurazione plastica assai efficace.
3)- “Giambi ed Epodi” (1867-1879). Il giambo è un verso inventato dal poeta greco Archiloco: verso celerissimo e quindi adatto alla poesia d’assalto.
L’epodo è un verso brevissimo che Orazio pose dopo il giambo, come un’appendice di esso, come una battuta irosa di complemento. E’ questa la raccolta di battaglia del Carducci: attacca i romantici, i preti, il governo; esalta Garibaldi, Mazzini, i morti di Mentana.
L’”Inno a Satana”, che fa parte a sé, costituisce quasi una profanazione a “Giambi ed Epodi”. Il poeta esprime il suo proposito nel prologo della raccolta: “io vo’ fuggir dal turbine col volo dove una torre ruinata: là come lupo ne la notte solo io col vento e col mare ulurerò… Tutto che questo mondo falso adora col verso audace lo schiaffeggerò”.
L’ultima lirica è “Il canto dell’amore” in cui il poeta si riconcilia coi preti e coi tiranni, perché essi, “ormai che l’Italia è arrivata a Roma”, non nuocciono più. L’indignazione (come diceva Giovenale della sua poesia) crea le immagini e i ritmi di questa raccolta.. Si nota uno stile ormai ben avviato: precisione ed efficacia di immagini; ma si notano anche disorganicità e disarmonie nel procedimento, dovute alla aggressività spavalda e spesso furiosa dell’ispirazione. L’imitazione è totalmente assorbita dal sentimento che, sebbene incomposto, è vivacissimo e sincero.
4)- “Rime nuove” (1861-1887): è la raccolta più bella del Carducci: in essa si trovano: “Il bove”, “Virgilio”, “Funere mersit acerbo”, “Traversando la Maremma toscana”, “Davanti a S.Guido”, “Il Comune rustico”, Sui campi di Marengo”, “La leggenda di Teodorico”, i dodici sonetti del “Ca ira” (ca ira, ca ira, la liberté trionpherà): così cantavano i figli della Francia rivoluzionaria negli anni 1792-1793, quando si scontrarono le prime volte con le truppe alleate della controrivoluzione.
Il Carducci commenta poeticamente quelle giornate epiche, mettendo in evidenza
la vigorosa offensiva del popolo contro la tirannide. E’ la raccolta migliore perché è la più meditata e la più calma: nella meditazione e nella calma il Carducci riesce ad individuare il significato dei soggetti che tratta e a svolgerli con organicità, con armonia, con precisione di immagini e di linguaggio.
5)- “Odi barbare”. La raccolta è intitolata così perché in queste liriche il poeta tenta di tradurre in metrica accentuativa italiana (cioè basata sul numero e sugli accenti delle sillabe) il ritmo della metrica quantitativa classica (basata sulla quantità ossia sulla lunghezza e brevità delle sillabe). Questo adattamento metrico, dice il Carducci, all’orecchio di un Greco o di un Latino, che la udisse, suonerebbe come una melodia barbara. I metri classici tradotti in metri italiani sono: la strofe saffica, l’alcaica, il distico elegiaco (esametro, pentametro). In genere in queste composizioni il poeta, prendendo lo spunto da una data, da un paesaggio, rievoca avvenimenti storici in cui rifulge un’idea che gli sta a cuore. Normalmente lo svolgimento della lirica segue questo schema: descrizione del paesaggio, rievocazione storica, battuta polemica. Si notano in questa raccolta: pensiero ben chiaro, forza di sentimento, figurazione plastica e vigorosa.
Le liriche più famose sono: “Nell’annuale della fondazione di Roma”, “Dinanzi alle terme di Caracalla”, “Alle fonti del Clitunno”, “Per la morte di Napoleone Eugenio”,“Miramare”, “Saluto italico” (agli irredentisti della Venezia Giulia).
6)- “Rime e ritmi”. Una raccolta che tende all’arte raffinata, al compiacimento estetico, pur conservando la robustezza propria dell’ispirazione e della forma carducciana. Le liriche più famose di questa raccolta sono: “Janfrè Rudel”, “Piemonte”, “Alla città di Ferrara”, “La chiesa di Polenta”.
7)- Infine elenchiamo “La canzone di Legnano”. Doveva essere una specie di poemetto storico, in cui il poeta aveva intenzione di rievocare le epiche gesta di Comuni Lombardi contro il Barbarossa. E’ svolta soltanto la rievocazione del Parlamento in cui i milanesi decidono di affrontare il Barbarossa in una battaglia campale. Rievocazione perfetta: la spiritualità del popolo libera, fiera, buona.
La figura di Alberto di Giussano sintetizza in forme idealizzate le virtù del popolo a cui egli parla. I motivi toccati da Alberto e il tono del suo discorso sono indovinatissimi, cosicché alla fine esplode naturale la decisione del popolo di affrontare “a lancia e spada il Barbarossa in campo”.
E’ un brano di epica severa e gentile, primitiva ed elaborata nello stesso tempo. Il Carducci seppe rivivere ed esprimere mirabilmente la vita del Comune medievale,
del cui popolo egli possedeva lo spirito fiero, buono ed artistico.
La produzione carducciana in prosa:
L’edizione nazionale delle opere del Carducci comprende trenta volumi: di questi, ben ventisei sono di prosa. L’epistolario, inoltre, è raccolto in dodici volumi a parte.
Possiamo dividere la prosa carducciana in tre specie:
1)- Prose autobiografiche.
Comprende: “Prose giovanili”- “Bozzetti e scherme”- “Confessioni e battaglie” -“Ceneri e faville”. Sono prose piene di brio e di cordialità, quando il Carducci
parla dei suoi studi, delle sue conquiste, delle sue soddisfazioni delle cose e
delle persone che hanno allietato la sua vita di lavoratore; sono impetuose,
indiavolate e vivacissime quando polemizza con i suoi soliti avversari.
2)- Discorsi letterari e storici.
Il Carducci, stimato da tutti come uno dei più bravi oratori d’Italia, veniva spesso invitato a tenere discorsi di commemorazione. Si trattava di commemorare poeti, personaggi politici, avvenimenti storici.
In questi discorsi egli delinea:
a)- una straordinaria abilità nel delineare ed abbellire quadri storici;
b)- bellissimi quadri storici in sintesi piene e libere;
c)- rievoca episodi con efficacia drammatica;
d)- si abbandona ad effusioni liriche piene di calore e di passione;
e)- polemizza con ironia e fierezza;
f)- assume toni profetici e crea miti nuovi.
In questi discorsi il Carducci si rivela sommo oratore: ricchezza di concetti –
potenza di immagini – frase incisiva e scultorea.
Da ricordare: “La libertà perpetua di S.Marino”, “Per la morte di Giuseppe
Garibaldi”, “Per il tricolore”, “Commemorazione di Virgilio”, “Per Francesco
Petrarca in Arquà”.
3)- Prose critico-letterrarie.
Il Carducci, nella sua attività di professore universitario, illustrò i più grandi
autori e i vari periodi della letteratura italiana.
Ecco i principi sui quali si basa la critica carducciana:
a)- l’opera d’arte è creazione di un’anima ricca di fede e di idealità: se non c’è
l’uomo, non c’è il poeta.
b)- l’uomo e quindi il poeta è figlio della sua generazione.
c)- la poesia deve essere arte, cioè forma: e questa costituisce almeno i tre
quarti della poesia.
In base a questi principi, nella critica di un’opera, il Carducci:
a)- mette in evidenza la sostanza spirituale del poeta, gli ideali patriottici,
religiosi e morali, la passione per l’arte e il gusto artistico; la serietà del
lavoro, l’onestà della vita.
b)- mette in evidenza i motivi della civiltà di un’epoca riflessi nell’opera di un
autore (famoso a questo proposito è il rapporto che egli delinea fra la civiltà
del Rinascimento e l’”Orlando Furioso”).
c)- Il Carducci, grande oratore, cultore esigentissimo dello stile preciso,
sostenitore della “dignità e del decoro dell’arte”, concentra il suo esame
soprattutto sulla forma, intesa come modo di esprimere lo stato d’animo
attraverso la figurazione fantastica e attraverso il linguaggio.
Perciò esamina le immagini create dall’autore (che egli vuole precise e
nitide), la parola (che vuole esatta, efficace e veramente italiana), il ritmo
(che vuole adeguato al motivo che si svolge agile nella sua struttura).
Carducci e De Sanctis
Fino ma qualche anno fa si è sostenuto che fra la critica del Carducci e quella del De Sanctis vi fosse un contrasto insanabile.
De Sanctis, si diceva, è critico romantico: Carducci è critico positivistico. L’uno si è specializzato nel definire i grandi quadri storici, nel rivivere la forma come anima della poesia, l’altro si è specializzato nello studio dei particolari, nell’esame della forma come tecnica della poesia.
I seguaci della poesia positivistica (i quali nell’esame di un’opera d’arte si sono specializzati nell’indagare sulla genesi storica dei singoli motivi, della parola, dei metri, cioè sulla parte materiale o positiva della composizione) credevano che Carducci fosse con loro, perché aveva insistito tanto sull’esame della tecnica-poetica.; e disprezzavano il De Sanctis come un chiacchierone di di tutto parla, fuorché dell’opera. Il De Sanctis, infatti, preoccupato delle grandi sintesi ideali e storiche (sulle orme di Hegel), sembrava perdere di vista la realtà positiva di un’opera, per delineare i procedimenti seguiti dello spirito nel dar forma all’anima di un’epoca e quindi all’anima degli artisti che quella stessa opera avevano generata.
Invece le cose stanno diversamente.
Il Carducci accoglie della critica romantica del De Sanctis:
a)- il concetto che nell’opera d’arte si incarna l’anima dell’autore;
b)- il concetto che fra l’anima dell’autore e quella della sua età esiste un rapporto vitale.
Il contrasto è solo in questo:
a)- per il De Sanctis (come per Hegel e per tutti i romantici) materia e forma
nascono insieme, nel senso che la forma è l’anima della materia e non si può
concepire materia viva senza la sua anima: materia e forma nascono per lo
stesso atto di “intuizione”.
Per il Carducci, invece, la forma, benché debba sempre essere adeguata alla
materia, tuttavia, viene dopo l’ispirazione e si crea attraverso un paziente
lavoro
di tecnica, in cui intervengono come fattori decisivi la cultura letteraria e il
buon gusto (ricordare a questo proposito il grande artiere di “Congedo” di
“Rime nuove”: prima fonde i motivi nella fucina ardente del suo spirito, cioè
nel suo sentimento e poi dà ad essi una forma).
b)- il De Sanctis si esprime con linguaggio appassionato e caldo, che non rifugge
dal procedimento spezzato e vivace caratteristico del linguaggio parlato.
Il Carducci, invece, nel suo discorso è più disciplinato e più organico, più
classico e più letterato, insomma.
Conclusione
Da quanto si è detto circa il Carducci poeta e il Carducci critico, si può concludere che egli rappresenta, nella seconda metà dell’ottocento, la sintesi perfetta fra quanto aveva avuto di meglio il Romanticismo e quanto ebbe di meglio il Positivismo.
Infatti:
a)- ritroviamo in lui l’identità romantica e la concretezza positivistica.
b)- il culto della civiltà classica, di cui assimilò lo spirito naturalistico e lo stile preciso e bello: Atene e Roma simboleggiavano per lui la forza serena ed elegante. Il culto della storia medievale di cui ammirò e cantò i liberi Comuni e riprodusse lo stile semplice e forte nelle ballate. Il Medioevo simboleggiava per lui l’epoca della primitività italica, sostanziata di naturalità rude e gentile, ardente di passioni sublimi, e creatrice di uno stile austero e fiorito insieme.
La sintesi fra la bellezza elegante, classica e la ruvidezza medievale ci dà il tipico classicismo carducciano, in cui la bellezza va costantemente congiunta con la primitività schietta e vigorosa.
Dante, poeta metafisico e teologo, aveva scelto come modello, nel mondo classico, Virgilio, poeta pensatore. Il Parini, poeta del buon senso, aveva scelto come modella Orazio. Foscolo, poeta della bellezza signorile, aveva scelto come modello Catullo. Il Carducci, poeta del popolo dell’Italia nuova, aveva scelto come modello il plebeo dell’età repubblicana di Roma e il fiero cittadino del Comune medievale: così spirito classico e spirito romano si congiungevano a fare di lui il classicista dell’età del Positivismo.
c)- il critico che ricerca nell’opera d’arte l’anima del poeta e l’anima della nostra stirpe: il critico che ricerca nella creazione poetica i pregi della tecnica del bello.
Spirito, armonia e tecnica: idealità, bellezza, arte: romanticismo, classicismo, positivismo: la sostanza del Carducci poeta.
GIOVANNI PASCOLI
(1855-1912)
PENSIERO:
a)- Concezione del reale.
E’ una concezione agnostica: non sappiamo chi siamo, donde veniamo, dove andiamo. Il Pascoli subisce l’influsso del positivismo che dichiara insolubili tutti i problemi che evadono dal campo della scienza, della matematica, della tecnica e della esperienza in generale.
Il Pascoli era stato educato alla religione cattolica da giovanetto nel collegio degli Scolopi ad Urbino e la mamma e le sorelle, col loro esempio e con la loro parola, gli avevano resi familiari i principi e i modi di vita della religione cristiana; ma la cultura positivistica sostituì alle certezze della fede un dubbio angoscioso: egli vorrebbe continuare a credere a quello che gli è stato insegnato, ma la scienza in lotta con la fede, specie a quei tempi, nega tutto quello che gli è stato insegnato: non ha il coraggio di rinnegare la fede, né quello di respingere la scienza, e perciò rimane nel dubbio: non si saprà mai con certezza quello che siamo (leggere la poesia “Il naufrago”) . L’uomo è “onda che va che viene”, cioè nulla. Leggere anche la poesia “Il libro” in cui il poeta immagina che un uomo invisibile stia a sfogliare un libro antico quanto il tempo, il libro del mistero, senza mai trovare la pagina in cui vi sia la spiegazione “dell’enorme mister dell’universo” per usare una frase del Carducci.
b)- Concezione della vita.
La vita è male: la terra su cui viviamo è definita in “Dieci agosto”: “quest’atomo opaco del male”
Da che cosa deriva il male? Anzitutto deriva dalla paura, la quale a sua volta deriva dalla tenebra del mistero che ci avvolge tutti. Nella poesia “La vertigine” il poeta immagina il globo terrestre lanciato a velocità spaventosa nello spazio cosmico con gli uomini attaccati al suolo con i piedi, pendenti in giù con la testa: una posizione delle più infelici, in moto verso mete che nessuno conosce. Il “dubbio” strazia l’animo del poeta (il Carducci in “Idillio maremmano” parla del tarlo del pensiero che gli trafora il cervello): nella “Preghiera dell’eremita” egli fa dire al suo eremita: “A me dispensa (risparmia) il reo dolor che pensa” cioè il dolore del pensiero, ossia il dubbio.
Altra causa del dolore umano è la cattiveria degli uomini. Il Pascoli subì un grave shock a causa della uccisione del padre e di altre numerose sciagure, che investirono la sua famiglia, in conseguenza di quel fatto. Visse la sua adolescenza e giovinezza nel periodo in cui il capitalismo opprimeva gli operai, e gli anarchici, in nome degli operai, compivano imprese terroristiche. Egli stesso fu messo in carcere per aver scritto una poesia in onore dell’anarchico Passanante che aveva attentato alla vita di Umberto I nel 1879. Poi si staccò dall’anarchismo e aderì spiritualmente (non politicamente) ad un socialismo umanitario che attuasse la pace tra i popoli e la giustizia per gli oppressi.
Come si esce dal dolore?
1)- Anzitutto trovando conforto nella natura. La natura non è cattiva, come affermava il Leopardi: essa è buona e con i suoi grandi spettacoli e le sue piccole cose sa offrire uno svago innocente a chi vuol dimenticare la tristezza della vita. Leggendo “L’ora di Barga” si può capire quanta consolazione il Pascoli traesse dalla comunione affettuosa con le piccole cose del mondo animale e vegetale. Alla natura il Pascoli si avvicina con l’animo del fanciullino: rimane estasiato di fronte agli spettacoli grandi della natura la cui grandezza quasi gli mette timore; si avvicina curioso ed affettuoso ai piccoli esseri che vivono insieme con l’uomo nell’immenso parco della terra, per parlare con essi, per vagheggiarli, per immedesimarsi con la loro vita felice. L’immedesimazione fa sì che egli apprenda e riproduca degli animali più graziosi e più pacifici (quali sono ad esempio gli uccelli), il canto, i suoni inarticolati: chiù….chiuù…. ffr…. frr…..
2)- Attraverso l’unione fraterna e affettuosa di tutti gli uomini. Nella poesia “I due fanciulli” il Pascoli dopo aver descritto la riappacificazione di due fratellini che, dopo aver litigato, sono stati condotti a letto dalla mamma e avvolti dalle tenebre, per la paura, si sono riavvicinati e abbracciati, aggiunge: “uomini nella truce ora dei lupi”, cioè quando insorgono in voi gli istinti aggressivi della bestia feroce, ricordatevi del mistero che ci circonda: è una tenebra che fa paura; non sappiamo da dove veniamo, chi siamo e soprattutto dove andremo a finire: abbracciamoci e teniamoci compagnia, gli uni e gli altri, in attesa che il mistero si risolva, o, diventando più fitto, ci assorba.
Leopardi aveva lanciato un appello ne’ “La ginestra” a tutti gli uomini perché si unissero contro la nemica comune, cioè la natura. Per il Pascoli la natura è benigna e i mali derivano all’uomo dal suo simile: se gli uomini fossero più buoni diminuirebbero i mali, e a quelli che sono inevitabili (malattie, terremoti, ecc) si potrebbe apportare rimedio più facilmente.
Anche l’amore assume nel pensiero del Pascoli un significato di fraternità e perde ogni carattere di passione, anche se nobile. La donna è una sorella, l’uomo un fratello: sono due smarriti nel buio dell’esistenza, che hanno bisogno di farsi compagnia. L’amore passionale in “Digitale purpurea” è presentato come causa di morte spirituale.
PENSIERO LETTERARIO
Per capire la poesia del Pascoli, che potrebbe essere definita grande poesia di un poeta piccolo, è necessario leggere la prosa che egli ha intitolato “Il fanciullino”.
“Esiste – egli dice – nel fondo di ogni uomo (ecco la psicologia di sub-strato) un fanciullino la cui voce viene sopraffatta troppo spesso dai rumori della vita. Ma il fanciullino è sempre vivo e parla sempre. La sua caratteristica è la curiosità, il bisogno di affetto, la meraviglia, la paura, la pietà. Al fanciullino piacciono gli animali, soprattutto gli uccelli; quando guarda il cielo o il mare o le nubi o il sole, lavora di fantasia, immagina mondi meravigliosi, fatiche colossali nell’universo e rimane estasiato. Quando è festa è riscaldato dall’allegria; quando è lutto piange al veder piangere gli altri. Non conosce l’odio, ignora la vendetta; vuol bene a quelli che parlano la sua lingua, ma rispetta e quasi ammira incuriosito quelli che parlano una lingua diversa. Gli uomini veri sono quelli che pensano, sentono, parlano, operano come il fanciullino che è nel fondo del loro essere. Particolarmente il poeta, che fra gli uomini deve essere esempio di perfezione, deve ascoltare la voce del fanciullino”.
Non bisogna credere che il fanciullino del Pascoli sia puerile: egli non è dotato di capacità di ragionamento, ma è fornitissimo di intuito. Per mezzo di questo egli riesce a cogliere gli aspetti sublimi nella vita e nel mondo, a dire verità che sono eterne, quanto è eterno l’uomo, appunto perché egli vive nel profondo dell’essere di tutti gli uomini, di tutti i tempi e di tutti i luoghi. Non è un bambino che dica puerilità, ma un bambino saggio e soprattutto buono: aperto a tutte le cose più belle e più care della vita, aperto anche ai grandi ideali della libertà, giustizia, patria.
L’atteggiamento del fanciullino, che il Pascoli volle costantemente assumere quando componeva poesie, se da una parte gli permise di cogliere e di esprimere le impressioni ingenue, vaghe, quasi di sogno, del mondo della natura e degli uomini, dall’altra costituì per lui un limite quando volle affrontare temi eroici ed ispirati “all’enorme mister dell’universo”.
Per cui oggi i critici apprezzano come espressioni veramente poetiche e originali (soprattutto perché avvicinano il Pascoli al movimento decadentista europeo) le prime due raccolte di poesie: “Myriciae”, “Canti di Castelvecchio”. Con ciò non si esclude che anche in “Primi poemetti” e in “Nuovi poemetti”, nei “Poemi conviviali”, in “Odi e Inni”, in “Poemi Italici”, in “Poemi del Risorgimento”, in “Carmina”, non ci siano spunti di vera poesia: si vuol dire soltanto che nelle prime due raccolte, il Pascoli è riuscito meglio che nelle altre ad esprimere la perfetta fusione tra lo spirito e le cose, con quel tono di affettuosità e ingenuità che è caratteristico del suo temperamento: sono insomma le raccolte veramente pascoliane. Nelle altre il Pascoli tenta di superare sé stesso, ci cimenta con temi che esigono una spiritualità più drammatica e più vigorosa della sua.
Lo stesso simbolismo che nelle prime due raccolte si fonde con lo stato d’animo, divenendo di questo l’espressione poetica, spesso nelle altre raccolte si stacca dallo stato d’animo e diventa riflessione concettuale (ad esempio ne “I due fanciulli” , ne “Il naufrago”, ne “La Digitale purpurea”, nelle quali il poeta non contento del simbolo, interviene a dare di questo la spiegazione concettuale).
Ottimo nell’esprimere l’ansia di penetrare nel mondo metafisico, senza possibilità di entrarvi, diventa mediocre quando si mette a filosofeggiare sul mistero stesso. Questo quello che dicono i critici, tuttavia non è difficile trovare in tutte le opere del Pascoli, anche in quelle meno riuscite, lo spirito del Pascoli stesso caratterizzato da incertezza, dolore, angoscia, bontà e spirito di fraternità.
LO STILE DEL PASCOLI
1)- Stile impressionistico: egli ama disporre gruppi di immagini legandole fra loro con l’unità dell’atmosfera musicale.
2)- Stile simbolistico: questo o quello aspetto della natura, questo o quello aspetto della vita umana sono utilizzati dal poeta per comunicare al lettore una sua idea, un suo stato d’animo (ricordare tra le poesie simboliste quelle già accennate “Il naufrago”, “Il libro”, “I due fanciulli”, “La Digitale purpurea”: ed ora aggiungiamo anche “Alexandros” e “Ritorno di Ulisse”, che sono i più noti tra i “Poemi conviviali”.
3)- Stile sensitivo: cioè capace di esprimere con immediatezza l’impressione che le cose fanno sui sensi dell’uomo allorché questi si fonde con esse.
4)- Stile classicheggiante: il Pascoli vive in una atmosfera decadentista, ma è un profondo conoscitore della letteratura greca e latina: perciò le doti della chiarezza, della precisione, dell’armonia, del decoro che sono proprie dello stile classico, rendono non solo comprensibili (a differenza della poesia decadentista straniera, che è molto spesso oscura), ma addirittura gradite le sue raccolte di poesie.
IL DECADENTISMO
E’ un movimento letterario ed artistico che, sorto in Francia nell’ultimo ventennio dell’800, si è diffuso nel resto del mondo ed esercita ancora il suo influsso sulla letteratura e sull’arte dei giorni nostri.
Il suo programma è quello di rivendicare la piena libertà dell’artista da qualsiasi vincolo, sia esso costituito dalle regole dei retori e dai modelli classici (e questa liberazione era già stata attuata dal Romanticismo), sia esso costituito da tesi razionali (di carattere filosofico, scientifico, politico, morale, religioso, sociale) o da esigenze di esperienze (che erano il fondamento del realismo, naturalismo, verismo).
Alla base di questo programma di libertà assoluta c’è il concetto che l’arte è creazione, e che, se essa è tale, è il prodotto di colui che crea, il quale trae tutto da sé stesso. In tal modo il Decadentismo intende troncare i ponti con tutta la letteratura del passato, da quella classica a quella rinascimentale, a quella romantica, realistica.
Queste letterature vengono rifiutate per due motivi: anzitutto perché sono legate ad elementi intellettualistici o sperimentali; in secondo luogo perché le composizioni letterarie del passato sono tutte condotte secondo un dettato logico: sono discorsi in prosa o in versi, fatti con un legame fra le diverse parti di carattere logico e quindi intellettualistico (ad esempio: “I Sepolcri“ del Foscolo sono un discorso in versi in cui il poeta dimostra una sua tesi, quella dell’importanza dei sepolcri nella vita civile dei popoli seguendo una logica).
Vedremo che cosa i decadentisti sostituiscono alla logica che è metodo intellettualistico, per unire fra loro le diverse parti delle loro creazioni.
Secondo i decadentisti il poeta deve trarre fuori tutto dal suo intimo, e la sua creazione non deve essere inquinata da elementi razionali. La creazione poetica ed artistica è alogica (= senza logica) e perciò essa non può essere altro che “intuizione”, cioè visione che sorge su, come si suole dire “dal profondo dell’essere” e si concretizza in un immagine. In pratica quello che i decadentisti sostengono si riduce a questo: il poeta ha acquistato un patrimonio più o meno ricco attraverso l’esperienza, la lettura, l’educazione familiare e sociale, ed è, nello stesso tempo, dotato di una personale sensibilità o temperamento che gli deriva da fattori ereditari, ricollegabili direttamente ai suoi genitori, indirettamente a tutta la stirpe umana (in ogni individuo esiste in forma nucleare il concentrato di tutte le energie e di tutte le esperienze della stirpe umana). Questo complesso di cultura acquisita, e di energia e modi ereditati e personali, viene comunemente chiamato “psicologia di sub-strato”, cioè complesso di elementi che sono alla base di tutti i nostri modi di pensare, di sentire, di agire. Dalla psicologia di sub-strato, attraverso l’elaborazione compiuta dall’inconscio, o sub-conscio. si staccano, di tanto in tanto, “stati d’animo” che automaticamente e con rapidità fulminea si concretizzano in un’immagine.
Questa immagine, concretizzazione di uno stato d’animo, formatasi senza intervento della ragione, è poesia.
Vengono perciò rifiutati dai decadentisti non solo il ragionamento e la logica, ma anche i temi della letteratura tradizionale. Questa parlava di eroi, di grandi passioni, di nobili ideali, di storia, di miseria, di problemi ecc.: cioè la letteratura decadentista, invece che di cosa o offerta dall’esperienza, o creata dalla fantasia, esprimerà gli stati d’animo del soggetto.
Non è detto che la storia, gli ideali, le esperienze, la cultura ecc. non rientrino nell’aspirazione del decadentista perché, come si è detto, contribuiscono a forma anch’esse il cosiddetto fondo in cui si elaborano gli stati d’animo, ma è da tener presente che la storia, esperienze, ideali, ecc. perdono la loro identità in quanto il soggetto li trasforma, li sente e li esprime in modo tutto suo.
Così, si afferma nel decadentismo un soggettivismo talmente esasperato che, spesso, mancando una precisa identità o fisionomia ai motivi svolti, e identificandosi questi con il soggetto, è difficile al lettore capire quello che il poeta vuol dire.
I decadentisti che scrivono romanzi non presentano le vicende di un popolo, ma la storia di un personaggio eccezionale che è eroe di sé stesso: è la storia dell’uomo di lusso, per usare una espressione del Verga.; o la storia del super-uomo, cioè l’uomo super-dotato e destinato, o che si crede destinato, a cambiare la storia umana, la storia del libertino sazio e non beato dei piaceri della vita; oppure la storia di chi è macerato dal dubbio, che scruta sé stesso e gli altri, senza mai riuscire a capire né sé stesso né gli altri e che, chiuso nel suo guscio, , e perduti i contatti con Dio e con gli uomini, si dispera oppure scoppia in risate da pazzo o allucinato pieno di amarezza (sono queste le storie dei romanzi e dei drammi di Pirandello); oppure la storia di crisi spirituale complicata da pazzia, di suggestioni, di sub-coscienti sconvolti, di passioni morbose, in cui i personaggi dicono cose strane, parlano con sé stessi e con esseri immaginari, si confessano, si vezzeggiano e si schiaffeggiano (vedere alcuni romanzi del Fogazzaro “Malombra”).
Ciò che è comune a tutta questa storia e l’eccezionalità dei protagonisti: non si tratta mai di persone comuni, né di vicende comuni, quasi per reazione al realismo e al verismo, che si stava affermando negli stessi anni in cui sorgeva il decadentismo.
Se si tratta di poesia lirica, il soggetto di quasi tutte le composizioni è il poeta stesso, che parla quasi sempre di sé, dei suoi ricorsi, delle sue pene e delle sue delusioni, delle sue angosce e suggestioni pazzesche.
Se il poeta decadentista è un seguace della teoria del super-uomo, come lo è D’Annunzio, allora il poeta esalterà la violenza, l’aggressività. La lussuria centauresca, tutte le brame della bestia, vissute con la raffinatezza dell’intelligenza e della volontà umana.
LO STILE DEL DECADENTISMO
Parliamo soprattutto dello stile che i decadentisti usano quando compongono poesia (nella prosa, salvo la costante preferenza per le complicatezze e le descrizioni minuziose, non si distaccano molto dalla prosa delle altre correnti letterarie).
A)- Stile essenziale o concentrato.
E’ chiaro che se l’arte è frutto di una intuizione, di una folgorazione, l’espressione si riduce al minimo indispensabile (talvolta una poesia si riduce ad un sol verso “M’illumino d’immenso”). All’età nostra, dicevano i decadentisti ( e tra questi in particolare i futuristi) tutto deve avere la velocità della macchina, e quindi anche la poesia deve essere rapida, fulminea.
B)- Stile frammentario.
Una volta eliminata la logica, il discorso poetico non corre più su un binario diritto e non ha più la complessità armonica di u n organismo pervaso in tutte le sue parti dallo stesso spirito vitale; ma si ridurrà ad una serie di impressioni fissate in immagini che sembrano staccate a chi è abituato a leggere col criterio della logica, ma sono collegate fra loro dallo stesso stato d’animo e dalla stessa atmosfera musicale. Chi legge una poesia decadentistica con i criteri della poesia classica o romantica ha l’impressione di trovarsi di fronte ad un discorso dispersivo e poco comprensibile, mentre sa che il poeta è veramente poeta (come nel caso del Pascoli), e che le varie impressioni o frammenti sono facilmente riconducibili all’unità, se si riesce a penetrare nello stato d’animo del poeta e ad entrare nell’atmosfera musicale e pittorica che egli ha voluto creare con segni ed immagini.
C) -Stile sensitivo.
Abbiamo detto che il poeta decadentista non riproduce le cose, ma esprime quello che, una volta immedesimatosi con lui, diventano nel suo mondo soggettivo: per cui esse non hanno una loro soggettività, ma sono rivestite ed animate dalla sensibilità del poeta, con il quale sembrano addirittura confondersi. Questa fusione tra soggetto ed oggetto viene chiamata “sensibilità” in quanto le cose acquistano il senso dell’uomo, e l’uomo acquista quello delle cose (significativa, a questo proposito, è “La pioggia nel pineto” di D’Annunzio).
D)- Stile simbolistico.
Il simbolismo consiste nell’esprimersi per simboli, cioè per immagini che hanno un significato proprio, ma dal poeta sono usate in luogo di altre immagini, con esse legate da rapporti di somiglianza (la lonza, il leone, il lupo sono simboli, nel primo canto dell’Inferno, della frode, della violenza, dell’incontinenza; Beatrice è simbolo della rivelazione o della fede; Virgilio è simbolo della ragione).
Una volta ammesso che poesia è creazione del soggetto, e che questa creazione è frutto di un misterioso lavoro inconscio che si verifica nella zona ombrosa del subconscio, non ci si fa meraviglia che per il decadentista assuma l’immagine di una cosa, per significarne un’altra, in quanto, nel suo mondo interiore, tra le due cose, si è instaurato un rapporto (o per somiglianza fra esse o per vicinanza spaziale o temporale, nel ricordo del poeta). Non si tratta di un simbolo scelto con criteri dettati dall’intelligenza o dall’esperienza (come avviene ad esempio per i simboli danteschi), perché i decadentisti hanno escluso queste due fonti, ma di sostituzione reciproca di cose per legamento soggettivo e quasi sempre inspiegabile.
Il simbolismo costituisce un fenomeno stilistico così importante nel decadentismo, che simbolismo e decadentismo spesso si identificano. Rimbaud dice che: “la natura è una foresta di simboli e di voci. Spetta al poeta saper combinare gli uni e le altre”.
E)- Stile allusivo e suggestivo.
Dovendo comunicare il suo stato d’animo ai lettori non con un discorso logico, ma con una serie di immagini o di impressioni staccate, il poeta crea, attraverso le immagini stesse e la musicalità delle parole, una specie di atmosfera che suscita nel lettore una suggestione per cui egli, ad un certo punto, ha la sensazione di essere là dove il poeta l’ha voluto portare.
Allusivo è detto perché, talvolta, il poeta genera lo stato di suggestione nel lettore con accenni o allusioni a cose a lui note e capaci di trasferirlo nel cerchio magico che egli sta creando.
LINGUAGGIO
a)- Essenziale, cioè ridotto al minimo indispensabile. Questa nota si spiega col fatto che, eliminato il discorso intellettuale, logico e ridotta la poesia a frammenti di impressioni, frutto di intuizioni o folgorazioni, vengono eliminate anche le strutture del discorso logico con le sue forme grammaticali e sintattiche tradizionali.
I futuristi arriveranno addirittura a proporre, per esigenze di immediatezza, velocità ed essenzialità, un linguaggio fatto di soli sostantivi e verbi all’infinito.
b)- Sincretico e polivalente, cioè che fonda e scambia tra loro immagini e sensazioni diverse. Ad esempio, già il Carducci ne “Il bove” scambia la sensazione visiva con quella uditiva, chiamando verde il silenzio (“Il divino del pian silenzio verde”). Questa nota , che diventerà preminente nella lirica (raramente nella prosa) dei decadentisti, si spiega con il fatto che nel sub-cosciente del poeta le immagini si richiamano, si accostano e si fondono per somiglianza, per contrasto per identità di tempo e di spazio, per legame casuale o finalistico: per cui il poeta, invece del termine proprio di causa, , usa il termine proprio di effetto; un fatto contemporaneo a quello di cui sta parlando viene sostituito a quest’ultimo (se, ad esempio, in Agosto ha veduto le meteore, invece di dire Agosto afoso, dirà il mese delle meteore calde). Il tal modo il linguaggio decadentistico diventa così astruso che per interpretarlo è necessario o immedesimarsi nel poeta o che il poeta stesso dica quello che voleva dire.
c)- Musicale. “Facciamo anzitutto della musica” afferma un decadentista francese, Verlaine. Questa affermazione esprime il proposito dei decadentisti di staccare il più possibile il lettore dall’attenzione al concetto, al discorso logico, per trasferirlo nell’atmosfera che essi vogliono creare e in cui vogliono assorbire anche il lettore.
Talvolta questa ricerca di musicalità toglie ogni sostanza di contenuto alla espressione poetica e la riduce esclusivamente a suono. Anche in questi casi è difficile al lettore capire al di là della musica delle parole, che cosa il poeta voglia dire.
d)- Allusivo,cioè, talvolta, la parola non viene usata per il significato che ha, ma perché col suono con significato, richiama una immagine o contribuisce a creare una atmosfera.
e)- Retorico al massimo, cioè caratterizzato dall’uso sovrabbondante dei mezzi che l’arte del parlare ha creato nel corso dei secoli: metafore, simboli, sineddochi, metonimie,interrogative retoriche, esclamazioni.
Il tutto si spiega perché la parola del decadentista non è più agganciato al concetto che è intellettualistico e che quindi si esprime sempre e solo con lo stesso vocabolo, ma è carica di sensazioni complicatissime e spesso misteriose.
f)- Nuovo, ad una poesia del tutto nuova è necessario un linguaggio nuovo, cioè un linguaggio in in i neologismi abbondano; parole vecchie assumono significati nuovi, parole caduto in disuso ritornano in uso. Ne risulta un linguaggio straordinariamente ricco, raffinato, prezioso, ma lontano dall’intelligenza del lettore comune (in Italia il mago della parola è D’Annunzio).
g)- La novità si estende anche alla metrica. Non solo non vengono più adottate le strutture metriche tradizionali con le strofe ben definite e arricchite dalla rima, ma vengono aboliti anche i versi tradizionali, dodecasillabo, endecasillabo, novenario ecc.) ai quali viene sostituito il cosiddetto verso libero, costituito, talvolta, da una sola sillaba. Eliminati gli accenti fissi che costituivano il verso tradizionale, la poesia si eguaglia alla prosa.
BREVE RIASSUNTO DELLA DOTTRINA ESTETICA DECADENTISTA
1)- L’arte è creazione.
2)- Il processo creativo ha una sua prima origine “nel profondo dell’essere”.
Il profondo dell’essere è costituito dalla psicologia di sub-strato.
Questa risulta composta da tre elementi:
a)- elemento innato primordiale, costituito dagli impulsi, dalle brame, dai
modi di percepire le cose e di reagire ad esse, che sono comuni a tutta la
stirpe umana. Questo elemento è ereditario ed ogni individuo lo riceve
dalla stirpe umana in generale con tutte le categorie e tutte le
esperienze che essa ha acquisto dal primo giorno della sua esistenza
fino ad oggi. Si tratta di un fascio di energie che è nel profondo della
psicologia di ogni uomo perché costituisce la dote caratteristica della
specie umana.
b)- elemento innato personale: è costituito dai modi personali di percepire e
reagire, di vivere gli impulsi e le brame; modi ereditati dagli antenati
della famiglia e strettamente collegati con la personale struttura
psicofisica (=psicofisiologica).
c)- elemento acquisto, che è costituito dalle esperienze personali e da quelle
altrui, acquisite attraverso la cultura e la civiltà in cui uno vive.
3)- Da questo fondo dell’essere si sprigionano in continuazione i cosiddetti “stati d’animo” o “impressioni”. La sostanza, la tonalità, la struttura degli stati d’animo vengono determinate dal lavorio misterioso del sub-cosciente, che può paragonarsi ad un cervello elettronico, in cui gli accostamenti, le combinazioni e i risultati di queste si verificano secondo leggi ben precise, ma che sfuggono all’occhio di chi guarda solo dall’esterno. Sono le forze della associazione psichica (per usare un termine caro alla psicanalisi) che danno corpo allo stato d’animo: forze misteriose, regolate da leggi misteriose.
4)- Quando lo stato d’animo si sprigiona dal profondo dell’essere, si concretizza in una forma o immagine. Questa concretizzazione avviene attraverso un’attività che si chiama “intuizione” (o folgorazione) e che, appunto, perché è intuizione, esclude il ragionamento e tutto ciò che con questo è connesso.
5)- Quando emerge dal lavoro misterioso dell’essere la forma intuitiva si compie la creazione artistica. Fra tutte le attività dell’uomo l’arte è la più alta e quella che riassume tutte le altre (Hegel aveva detto che la più altra e quella che riassume tutte le altre era la filosofia).
CAUSE DEL DECADENTISMO
1)- L’affermarsi di un movimento irrazionalistico nell’ultimo quarantennio del ‘800, e che dura fino ad oggi, in reazione al razionalismo e allo scientismo dei positivisti.
Secondo questi si deve accettare solo ciò che è razionale e scientificamente dimostrabile: ciò che è razionale e scientifico, è immutabile e intoccabile, è oggettivo e condiziona l’intelletto umano. In Francia ad opere di Boutroux, e soprattutto di Blondel, si reagisce alla posizione positivistica con l’affermazione della libertà perfino nel mondo della fisica e della chimica.
Blondel, infatti, sostiene che la fonte di tutto il reale è “lo slancio vitale”, cioè una energia libera che liberamente dà struttura e modi a sé stessa; struttura e modi fissi, ma non eterni nel mondo dei minerali, struttura sempre mobile nel mondo degli animali.
Nell’uomo lo slancio vitale non è colto tanto nell’intelligenza che si limita a catalogare i fenomeni del reale ( e il catalogo non riproduce affatto le singole cose catalogate come esse sono in sé stesse), quanto nell’intuizione, immedesimazione dell’uomo con l’energia vitale diffusa in tutto l’universo.
In base a questa teoria Blondel divide la religione in due forme: la religione chiusa e la religione aperta. La prima è la religione dei dogmi che sono percepiti dall’intelligenza; la seconda è unione immediata con Dio al di sopra e al di là dei dogmi. La stessa cosa egli dice della morale: la morale chiusa è fatta di precetti razionali; la morale aperta è fatta del dono di sé all’umanità al di sopra e al di là dei precetti.
Questa tendenza all’irrazionalismo doveva riflettersi anche sull’arte. Anzitutto si tenta di liberare l’arte dai vari servizi che essa in passato ha reso a finalità che con essa non hanno niente a che fare (a finalità politiche, religiose, morali, scientifiche); in secondo luogo si tenta di fare dell’arte la prima e l’assoluta delle attività umane.
Basta ricordare a questo proposito la filosofia di Benedetto Croce, il quale pone l’arte (che definisce intuizione) come la prima delle attività dello spirito e in nessun modo collegata con le altre attività di esso (filosofia, economia, morale): l’arte è l’attività con cui lo spirito crea tutto ciò su cui in seguito esso riflette (filosofia), di cui si vale per creare utilità (economia), o su cui esprime giudizi di bene o di meno bene (morale).
In Francia si afferma dalla metà del secolo XIX, il “Parnassismo” o movimento di Parnaso, che si propone, come programma, l’arte per l’arte o la forma per la forma. Così si comincia a mettere da parte il contenuto e si comincia a volgere l’attenzione solo alla forma, che, una volta scissa dal contenuto, diviene creazione alogica.
Il programma dei decadentisti, in pratica, si riduce a questo: l’arte per l’arte; l’arte non prende norma dalla vita, ma dà essa stessa lo norma alla vita, cioè non riproduce oggettivamente la vita, ma la crea a modo suo. Il poeta è un super-uomo, un demiurgo che vive la sua vita come opera d’arte, ed a cui perciò è lecito vivere al di là del bene e del male. Non è difficile scorgere in questa deificazione dell’uomo superiore, come è considerato il poeta, un influsso della teoria di Nietzsche, che fece la distinzione fra la “morale del signore” e “la morale del gregge”.
2)- L’esistenzialismo che si afferma proprio nello stesso periodo il cui sorge in decadentismo. La figura dell’esistenzialista è quella del disancorato, dell’uomo che disperatamente cerca un approdo su un terreno sicuro e non lo trova, dell’uomo chiuso in sé stesso e che cerca invano di intendersi con gli altri, dell’uomo perciò immerso nell’angoscia.
Il decadentista, come abbiamo detto, è chiuso in sé stesso, non comunica né con la natura oggettiva, né con il mondo oggettivo dei suoi simili; è sempre ripiegato su sé stesso per scrutarsi, per sentirsi, per compiacersi o per vezzeggiarsi: talvolta è un esistenzialista disperato o allucinato, talvolta è un esistenzialista gaudente e raffinato: nota costante è l’egemonia del proprio essere.
3)- Il disfacimento dell’oggettività del vero, che aveva dominato il pensiero umano fino all’idealismo. La filosofia idealistica riduce tutto a creazione del soggetto (intesa come creazione dello spirito); non esiste più una verità eterna ed immutabile, bensì esiste la creazione di verità sempre nuove con il ritorno della dialettica degli opposti. Il positivismo distruggendo o dichiarando inconciliabile la metafisica e riducendo la morale a costume strettamente legato con le vicende storiche, sempre mutevoli, non ha affatto contribuito a riaffermare la validità oggettiva ed eterna dei principi che reggono la vita umana, anzi ha contribuito a disgregarli e ad assoggettarli alle mutabili esigenze degli individui e dei popoli.
Disancorati dalla verità oggettiva i decadentisti si abbandonano alla creazione soggettiva più sfrenata, condotta con i metodi della libertà più spregiudicata.
4)- Il sorgere della psicanalisi, che a sua volta è legata alle teorie dell’evoluzionismo e dell’ereditarietà sostenute dal positivismo, il cui proposito era quello di spiegare i fenomeni, che nel passato erano considerati spirituali, con le leggi della chimica-biologica, in rapporto al concetto che l’anima non è spirituale, ma è una fascia di energia. Il lavoro del sub-cosciente che, come si è visto, è alla base della dottrina estetica del decadentismo, è da riallacciarsi, appunto, a questa teoria della bio-psicologia.
5)- Bisogno di reagire alla concezione della natura dei positivisti. Per i positivisti la natura è un mondo di leggi e di forme da sfruttare con la tecnologia, allo scopo di creare condizioni di vita sempre più agiate. Per i decadentisti la natura è un mondo pieno di immagini, di simboli, di voci, di misteri fra i quali si aggira per immedesimarsi con essi l’uomo, il cui mondo interiore, pieno anche esso di misteri, di energie, di slanci, di brame, di tenebre, di luce, di sofferenze e di impeti di gioia, va in cerca di mezzi per esprimersi nella meravigliosa foresta di suoni, di colori, di forme di vita della natura.
Il Beaudelaire in un sonetto intitolato “Corrispondences”(Corrispondenze) dice: “La natura è un tempio ove vivi pilastri fanno talora udire parole confuse, l’uomo vi passa attraversando foreste di simboli che gli rivolgono sguardi familiari. I profumi, i colori, i suoni si rispondono l’uno all’altro come echi che da lungi provenendo si fondono in tenebrosa e profonda unità, vasta come la notte e come la luce”.
Così si passa dalla natura dei classici, intesa come bello scenario da contemplare, alla natura dei romantici intesa come confidente dell’uomo, alla natura dei realisti intesa come ambiente fisico geografico e il più delle volte ostile all’uomo che in esso fatica e pena, alla natura dei decadentisti che costituisce una identità con l’uomo.
Questa immedesimazione dell’uomo con la natura, che è propria dei decadentisti, può avvenire in due modi: o con l’affettuosità candida, ingenua e curiosa del fanciullino (come avviene in Pascoli) o con la foga voluttuosa e violenta del centauro (come avviene in D’Annunzio).
6)- L’affermarsi di un indirizzo culturale che preferisce accettare o rifiutare la verità o l’errore non in base alla ragione, ma in base ad una “esigenza morale” o “esigenza del cuore”. E stato Kant ad iniziare questo metodo in quanto egli svaluta la possibilità della ragione pura, in campo metafisico, nel quale ci si orienta solo in forza di una esigenza morale o ragion pratica. La verità si sente, della verità si ha bisogno ed è vera non perché si dimostri che è vera, ma perché se ne ha bisogno.
Nell’ultimo trentennio del ‘800 e nei primi due decenni del ‘900 si affermano queste due correnti culturali che sembrano riprendere in pieno il metodo morale kantiano: Il Pragmatismo americano di James e Dewey e il Modernismo religioso (Loisy). I pragmatisti sostengono che in nessuna affermazione, all’infuori di quella scientifica e matematica, si può dare una dimostrazione razionale: né in campo metafisico, né in quello morale, né in quello politico, né in quello economico, ecc. Sarà la capacità di produrre effetti, più o meno benefici, una volta che sia stata applicata alla pratica (pratica in greco si dice pragma) a dire se una affermazione è vera o no (esempio: esiste Dio ? Con la ragione non si può dimostrare – Kant – e allora facciamo la prova pratica: supponiamo che Dio esista e vediamo quali convenienze pratiche questa persuasione apporta alla società umana; facciamo l’ipotesi opposta e vediamo anche qui quali sono le convenienze. Quella delle due ipotesi che produce conseguenze migliori, dal punto di vista sociale, è vera o meglio è più accettabile”.
All’esigenza morale di Kant è sostituita l’esigenza morale. I modernisti partendo anch’essi dal presupposto kantiano, che in religione i ragionamenti non concludono nulla di certo, sostengono che l’adesione ad una verità religiosa è solo frutto di un bisogno interiore: io credo in Dio non perché la religione mi dimostra che senza una causa prima non si spiegherebbe il mondo, ma perché dal profondo del mio essere, ad un certo momento, erompe l’esigenza di un essere supremo a cui affidare la mia esistenza e quella degli altri.
Nel settore letterario alla poesia guidata dalla logica si sostituisce l’impressione che si forma attraverso il lavorio misterioso del sub-cosciente.
Sintesi storica
1)- Preannuncia il decadentismo il movimento parnassiano con il suo programma “l’art pour l’art”. Lo preannuncia Baudelaire che, come dice un critico francese “essendo stati mietuti tutti i campi alla luce del sole e non rimanendo quindi più nulla da dire alla poesia che ha lavorato sul piano del passato, si è fatto diavolo ed è sceso nelle profondità del sub-cosciente”. A Baudelaire si attribuisce anche la nascita del simbolismo.
2)- Il movimento di rinnovamento rivoluzionario e radicale della letteratura, in opposizione al passato, comincia a Parigi verso il 1880, ad opera di alcuni cenacoli letterari della della riva sinistra (rive gauche) dai nomi piuttosto strani: “zutistes” (= menefreghisti), “nous autres” (= noi altri), “chat noir” (=gatto nero). Da questi cenacoli sono sorte delle riviste: “La nouvelle rive gauche” (1882), “La Revue indipendente” (1885), “Revue wgnerienne” (1885), “Le dacadent” diretta da Laforque.
Gli esponenti del movimento furono: Verlaine (che, attaccato dai sostenitori della vecchia letteratura come decadente, rispose: “Sì, è vero, io sono l’impero giunto al termine della decadenza, cioè sono l’interprete di una umanità che vive tra le raffinatezze, bagordi, le incredulità, le superficialità, i dubbi, le angosce, le disperazioni di una umanità che, ormai sazia di tutte le esperienze, è giunta al tramonto”, Stefano Mallarmé, famoso fu anche Huysman autore di “Areveur” (= a ritroso o contro corrente), Rimbaud.
In Italia gli esponenti sono Pascoli (molto moderato a causa della sua cultura classica), D’Annunzio.
Esponente in Cecoslovacchia fu Kafka con i suoi racconti allucinanti e pieni di angoscia esistenziale.
In America Jojce nei cui romanzi passato e presente si fondono come in un sogno strano. In Francia, più vicino a noi è Proust.
MOVIMENTI DERIVANTI DAL DECADENTISMO.
Il termine “Decadentismo” è generale e significa indirizzo radicalmente nuovo della letteratura, caratterizzato da un soggettivismo libertario e spregiudicato.
I movimenti sorti in seno a questo indirizzo generale sono:
A)- Il simbolismo (Baudelaire, Verlaine, Mallarmé, Rmboud).
B)- L’estetismo, cioè il culto di una bellezza e di un piacere raffinati al massimo e conditi di molti artificio. Per gli estetisti tutto ciò che è bello e piacevole è morale: al di là del bene e del male. L’artista, creatore del bello, è un dio, un super-uomo (D’Annunzio e Huysmann).
C)- Super-omismo di cui il massimo rappresentante è Nietzsche, teorizzatore della distinzione fra “spirito apollineo e spirito dionisiaco”; il primo è una concezione e un modo di vita improntato a una ebbrezza furente, ad una brama pazzesca di affermazione.
D)- Lo psicanalismo, il cui fondatore è Freud, per il quale nel fondo dell’essere umano ci sono due istinti: quello dell’eros (cioè della creazione) e quello dello sterminio (cioè della distruzione); da questi due istinti sgorgano tutte le brame, i pensieri, i sentimenti, le azioni, e, se essi sono smentiti cioè bloccati, allora si verificano le turbe psichiche.
E)- Dadaismo di cui fu iniziatore Tristan Tzara: sostiene il bando totale della ragione e l’automatismo psichico più assoluto. Il pittore o il poeta lavorano come in un sogno, anzi debbono mettersi nella condizione di chi sogna (nel sogno gli accostamenti delle immagini sono autentiche per associazione misteriosa, non per esigenza di ragione).
F)- Surrealismo o arte e poesia della sovra-realtà: bandisce il reale ed esprime solo quello che detta l’inconscio. Come si vede è legato al dadaismo. Fondatore fu André Breton che lanciò “il manifesto del surrealismo” nel 1924.
G)- Impressionismo che in pittura sostiene la tesi che “la mano deve riprodurre quello che l’occhio vede” e l’occhio vede sempre e precisamente il colore dell’oggetto che è quello che fa più impressione (per esempio dell’albero fa più impressione il verde): il colore sostituisce l’oggetto. Il disegno, l’espressione dei personaggi non interessano. Il colore stesso sostituisce tutto: disegno, stile, espressione. E il colore non si ottiene con i metodi tradizionali, né si prepara prima: esso risulta da accostamento di colori opposti.
In poesia all’impressionismo pittorico corrisponde la sostituzione del contenuto con la parola suggestiva, che riproduce l’impressione fatta dalle cose nel poeta: la parola suggestiva sarebbe il corrispondente del colore.
H)- Espressionismo: è il contrario dell’impressionismo, a cui gli espressionisti rimproverano la dipendenza dall’oggetto o la mancanza di rielaborazione personale, e perciò sostengono che l’arte deve riprodurre non le cose, ma esprimere le cose stesse, così come le ricerca il soggetto, il quale può vederle sotto mille aspetti e in mille modi, che sono strettamente legati alla sua soggettività.
Esponente dell’espressionismo è Van Gogh.
In poesia all’espressionismo corrisponde il principio che il poeta deve esprimere i suoi stati d’animo che si formano attraverso il lavoro misterioso del sub-cosciente e che, quindi, sono estremamente soggettivi, come soggettiva è l’espressione di essi.
I)- Crepuscolarismo. E’ un indirizzo letterario che si afferma in Italia tra la fine del ‘800 e il primo ventennio del ‘900, in opposizione alla poesia solenne e rumorosa del Carducci, e a quella sfavillante e raffinata del D’Annunzio, cioè di due autori che allora erano considerati come campioni insuperabili della nostra poesia.
I crepuscolari (Gozzano – Govoni – Corazzini) si propongono (forse dietro l’esempio di Pascoli) di opporre alla grande poesia la piccola poesia.
Ecco il repertorio dei crepuscolari: l’autocompianto, l’amore della vita mediocre (gli amori per la serva, le visite pomeridiane, , le festicciole patriottiche, il salotto adorno di “buone cose di pessimo gusto”, cioè di album con le fotografie, di scialli, di merletti, di miniature), il fastidio del vivere quotidiano con gli interminabili pomeriggi domenicali, la pena che fanno i cani randagi, i viaggi in carrozza di III classe piena zeppa di grosse valigie, le corsie degli ospedali e dei ricoveri, le beghine e le beghinerie ecc.
Questi motivi sono svolti con un senso di rassegnazione condita da ironia: non è solo abbandono al proprio destino, ma è anche sorriso amaro sulla propria esistenza infelice.
Il linguaggio è volutamente semplice, quasi trasandato. Del decadentismo nei crepuscolari c’è la continua riflessione su sé stessi, l’isolamento ed una specie di voluttà del dolore.
L)- Futurismo. E’ un indirizzo letterario e artistico che è caratterizzato dal proposito di troncare qualsiasi rapporto con il passato e di trovare modi nuovi per la poesia e per l’arte, capaci di esprimere il ritmo velocissimo della civiltà moderna. “Il manifesto futurista”di Marinetti fu pubblicato nel “Figaro” il 20 febbraio 1909; il programma si riassume “nell’amor del pericolo, nell’abitudine all’energia e alla temerarietà, nel movimento aggressivo, nell’insonnia febbrile, nel passo di corsa, nel salto mortale, nello schiaffo e nel pugno”.
Il mezzo di espressione letteraria di questi motivi è costituito dalle cosiddette “parole in libertà” svincolate dai legami della sintassi e della punteggiatura riproducenti gridi, suoni, rumori, versi di animali, rombo di motori, frastuono di officina. Questa spregiudicatezza aggressiva, congiunta a disprezzo del passato, sarà fatta propria dal movimento fascista, che esalterà lo spirito aggressivo, la violenza, la conquista spavalda, la lotta incessante. Ma non bisogna dimenticare che uguale ed identico era anche lo stile della rivoluzione socialista.
La spavalderia e l’audacia, lo spirito di conquista che non conosce ostacoli, costituivano parte essenziale dell’ispirazione poetica e della concezione di Nietzsche del super-uomo.
M)- Ermetismo. E’ un indirizzo poetico (poesia lirica soprattutto) caratterizzato dalla difficile decifrabilità del discorso poetico, da una specie di magicità misteriosa della parola, come se il poeta parlasse una lingua sconosciuta. E’ la conclusione estremistica del soggettivismo, del simbolismo, dell’espressione concentrata, che costituiscono gli aspetti fondamentali del decadentismo. E’ una poesia che non si interpreta con la logica della ragione, ma tentando di penetrare nello stato d’animo del poeta, utilizzando le suggestioni delle immagini e le evocazioni dei suoni della parola.
Withitfield nel suo volume “Petrarca e il Petrarchismo” afferma: “l’oscurità della scrittura è utile, dal momento che permette a menti diverse di cogliere verità diverse, uno comprendendo una cosa, altri un’altra” : è un discorso piuttosto strano, che fa poco onore sia ai poeti, che in questo senso ognuno potrebbe interpretare a modo proprio, solo perché il loro discorso non ha un senso preciso, sia per il lettore che, avvicinandosi ad opere di questo genere, non farebbero altro che perder tempo; tuttavia alcuni poeti ermetici, come Ungaretti, Quasimodo, Montale, sono riusciti, attraverso l’espressione ermetica, a comunicare talvolta stati d’animo che non sarebbe stato possibile con l’espressione tradizionale.
GABRIELE D’ANNUNZIO
(1863-1938)
PENSIERO
A)- Concezione del reale.
E’ la stessa concezione del Carducci: il reale è una unità eterna ed infinita di materia e di spirito.
Questa unità che egli chiama Pan, è caratterizzata essenzialmente ed esclusivamente da energia. Il reale è energia ribollente che si manifesta in forme impetuose e lussureggianti, con istinti prepotenti, con ricchezza inesauribile di colori, di suoni e di modi di essere.
A differenza del naturalismo del Carducci, il naturalismo o panismo del D’Annunzio, è brama selvaggia e aristocratica nello stesso tempo, è primitività, è raffinatezza.
B)- Concezione della vita.
Vivere significa identificarsi con la materia, cioè dare a quella la possibilità di manifestarsi nel proprio essere in tutta la varietà delle sue energie e dei suoi modi. Alla natura che rivive nell’uomo e in tutta la sua ricchezza non tutti gli individui sanno unirsi in modo adeguato: alcuni sono limitati da remore morali o sociali o religiose; altri, invece, spezzati i vincoli di qualsiasi norma imposta dalla ragione o dal costume, si tuffano nell’immenso oceano delle energia della natura per confondersi con essa, per goderne fino in fondo il piacere, per trarre ispirazione e modi di espressione a creazioni nuove.
Questo si chiama vivere panico. E’ riservato solo al poeta il privilegio di utilizzare e godere tutte le risorse della natura, tutti i fenomeni della vita vegetativa, animale, umana per arricchire il proprio essere al fine di creare con la stessa varietà, potenza di energia, ricchezza di suoni, colori di cui è dotata la natura stessa. Ci troviamo di fronte, perciò, ad una concezione panica della vita e ispirata al super-omismo o super umanesimo.
Tutte le esperienze sono lecite all’artista, perché sperimentando possa essere in grado di esprimere tutti gli aspetti della natura e della vita: sia le esperienze pure che quelle impure, sia quelle umane che disumane, sia quelle triviali che raffinate sono permesse all’artista.
E se nel fare l’esperienza l’artista dovesse nuocere ai suoi simili ? Niente di male: le nature inferiori sono destinate a potenziare quelle superiori, il gregge è al servizio del super-uomo, perché questi persegua uno scopo che è il più alto di tutti: l’arte.
Nella lirica “Inno alla vita” (tratto dalla raccolta “Le laudi” e precisamente dal primo libro intitolato “Maia”) il D’Annunzio afferma: “Nessuna cosa – mi fu aliena; nessuna mi sarà mai.- Laudata sii diversità delle creature – sirena del mondo ! – Talor non elessi – perché parvemi che eleggendo – io t’escludessi – o Diversità, meraviglia – sempiterna e che la rosa – bianca e la vermiglia – fosser dovute entrambe alla mia brama……”
Questa bramosia è voluttà integrale. Nelle “Laudi” dal D’Annunzio è opposta alla rinuncia cristiana (come del resto aveva già fatto su un piano decoroso e più significati dal punto di vita politico e sociale il Carducci).
Viene così affermata l’identità fra vita di uomo e vita di poeta, cioè fra poesia e vita (che è una identificazione propria del decadentismo – perché attività più elevata); eccezionale la poesia, eccezionale la vita.
Perciò eccezionale la lussuria, vissuta in tutte le esperienze più diverse, eccezionale la casa con i suoi ornamenti (ricordare la “Capponcina” – il “Vittoriale”, eccezionale la carriera politica (deputato di destra, passa all’improvviso ai settori più avanzati della sinistra), eccezionale la vita militare (milita in aviazione e marina e affronta gravi rischi, anche se non proprio eccezionali – impresa di Fiume), eccezionale la sofferenza ( perduto un occhio rimane bendato, ma non inerte; era avvilito, scrive il “Notturno” eccezionale perfino la posizione del suo corpo dopo la morte: in piedi, eccezionale anche la sua vita di pensionato a cui lo ridusse il fascismo: pensionato d’oro nella stupenda villa del Gardone.
Il godimento voluttuoso delle risorse della natura e le gesta del super-uomo debbono essere sempre conditi di un ingrediente: la bellezza. Bella la vita, bella la poesia.
Huysmann aveva affermato che la bruttezza è il marchio del demonio e quindi va respinta come il male: il D’Annunzio sembra aver fatto propria questa affermazione: la sua preoccupazione costante è quella di rivestire di forme raffinate anche le cose più turpi. Quando parliamo di bellezza in D’Annunzio non intendiamo l’armonia di cui parlavano i classici, quella bellezza di cui parlava il Foscolo che appunta la identificava con l’armonia: parliamo di una bellezza che è fasto raffinato, che è estetismo.
Egli vuole che le quattro forze che tirano il cocchio della sua vita: “volontà, voluttà, orgoglio, istinto”, si sfrenino in modo bello: bello il decente, bello l’indecente, bello il gesto animalesco, bello il gesto sublime, bella la mollezza, bella la vita eroica.
Spetta alla capacità creativa del poeta il compito di trasfigurare tutto in bellezza. Nel romanzo “Il fuoco” del protagonista Stelio Effrena dice il D’Annunzio: “Egli era giunto a compiere in sé stesso l’intimo connubio dell’arte con la vita……… a perpetuare, senza intervalli, la condizione misteriosa da cui nasce l’opera di bellezza e a trasformare in visioni ideali tutte le figure passeggere della sua esistenza, per cui tutte le apparenze si trasfiguravano come nella virtù di un magico specchio”.
A questa capacità di trasformare tutto in immagini poetiche corrispondeva la “capacità di tradurre queste stesse immagini in parole così esatte e così scultoree che egli aveva l’impressione di trovarsi di fronte a forme reali e oggettive”.
Quanto alla metrica, che è il mezzo per far musica in poesia, nel “Piacere” si legge: “Il verso è tutto. Nella imitazione della natura nessun istrumento è più vivo, vigile, acuto, vario, multiforme, plastico, obbediente, sensibile, fedele” (in questa sovrabbondanza di aggettivi non è difficile cogliere uno degli aspetti più evidenti dello stile dannunziano: il barocchismo, la concentrazione retorica, la fastosità verbale; vita ed arte nel mondo del D’Annunzio si identificano sempre con un’orgia di lusso, di lussuria, di sensitività, di spavalderia: raramente il poeta riesce ad approfondire i suoi temi con visioni ricche di sensi umani. Perciò, oggi, i critici riconoscono al D’Annunzio una straordinaria capacità di usare e creare il linguaggio, di cogliere tutte le sfumature della musicalità dei versi tradizionali e di creare nuovi ritmi con versi nuovi.
Riassumendo, i punti fondamentali della concezione della vita e dell’arte del D’Annunzio sono questi:
a)- panismo (o identificazione del poeta con la natura, identificazione voluttuosa, piena di brame inesauribili, per tutto diversa da quella ingenua, affettuosa e pura del Pascoli).
b)- super-umanismo o super-omismo fondato sul concetto che l’artista è un demiurgo, un dio, e che, perciò, gli è lecito fare tutte le esperienze che intende esprimere in arte, senza alcuni limiti morali (identità di arte-vita al di là del bene e del male).
c)- estetismo, cioè ricerca costante e artificiosa della raffinatezza e del fasto.
STILE DEL D’ANNUNZIO
Possiamo definirlo con un aggettivo solo: stile fastoso, cioè straricco di immagini e di mezzi espressivi (parole comuni e parole rare, parole vecchie come alcune desunte dal vocabolario del ‘200 e del ‘300, parole nuove cioè inventate da lui, ritmi metrici di tutte le specie, classici, medievali, rinascimentali, popolari, liberi come quelli futuristi).
Erede, come egli si stimava, di tutti gli scrittori del passato e demiurgo dell’avvenire, egli fonda nelle sue opere i modi dello stile di Omero, di Virgilio, degli stilnovisti, di Dante, di Boccaccio, degli umanisti, dei seicentisti in modo particolare dei veristi (soprattutto nelle “Novelle della Pescara”) e soprattutto dei decadentisti.
Che cosa c’è del decadentismo nel D’Annunzio ?
1)- la concezione dell’identità fra arte e vita;
2)- l’identificazione del soggetto con l’oggetto;
3)- la concezione che l’arte è frutto di un misterioso lavorio che si verifica
nel profondo dell’essere con il contributo di energie e di modi ereditati
dalla stirpe umana, meglio definita, e potenziati dal temperamento dalla
cultura dell’artista.
4)- il culto quasi fanatico della forma, intesa come immagine,
parola, musica.
5)- la predilezione per le complicatezze psicologiche di qualunque specie
esse siano: complicatezze nelle lussuria, nel godimento dei piaceri che
offre la natura nella descrizione di stati d’animo improntati a violenza,
vendetta, fanatismo, ecc.
Da ricordare che la teoria del sub-strato, mentre dal Pascoli è simboleggiata dal fanciullino, nel D’Annunzio è simboleggiata dal centauro in cui le forze animalesche, agili, plastiche, vigorose, sono utilizzate da un petto e testa d’uomo, cioè dal sentimento e dall’intelletto umano.
Nel ditirambo “La morte del cervo” un centauro, dopo aver schiantato ed ucciso il cervo (Il super-uomo che schiaccia l’essere inferiore) appare al poeta “bellissimo: in ogni muscolo, gli fremeva una vita inimitabile”.
OPERE DEL D’ANNUNZIO.
Si suole distinguere l’immensa produzione dannunziana un quattro periodi:
1)- periodo dell’adolescenza in cui imita il Carducci (nella raccolta “Canto novo”) e i veristi (nella raccolta “Novelle della Pescara”).
2)- periodo della sensibilità raffinata e della sensualità estetizzante in cui subisce l’influsso dei decadentisti europei (dal 1884 al 1894); le opere di questo periodo sono: “Intermezzo di rime” (1884), “Isotteo” ( 1886), “Le elegie romane” (1892). I romanzi “Il piacere” (1889), “Giovanni Episcopo” (1891), “L’Innocente” (1892). Chiude questo periodo la raccolta di poesie intitolata “Poema paradisiaco” (1893) la cui ispirazione è voluttuosa e languida come quella de “Il piacere”.
3)- periodo del super-omismo (1894/1912). Distinguiamo in questo periodo:
a)- romanzi: “Il trionfo della morte” (1894), che è forse il migliore fra i romanzi del D’Annunzio e “Le vergini delle rocce” e il “Fuoco” (1900), “Forse che sì, forse che no”.
b)- opere in versi : “Laudi”, divise in cinque libri dei quali i primi tre (“Maia”, “Elettra”, “Alcyone”) furono pubblicati nel 1903, gli altri due (“Merope”, “Asterope”) dal 1912 in poi.
c)- opere teatrali: “La città morta”, “La gioconda”, ambedue del 1901, la “Francesca da Rimini” (1902), “La figlia di Jorio” (1904), “La fiaccola sotto il moggio” (1905), “Più che l’amore“ (1906), “La nave” (1909), “Fedra” (1909).
4)- periodo in cui il D’Annunzio diventa uomo e meno super-uomo e quindi scrive cose che i critici oggi riconoscono più valide.; ricordiamo soprattutto le prose: “La contemplazione della morte“ (1912), “Il notturno” (1916), scritto quando era bendato per una ferita ad un occhio ricevuta in una azione di guerra. “Le faville del maglio” (dal 1924 al 1928), bellissima opera autobiografica. “Il libro segreto” (1935).
GUIDO GOZZANO
(1883-1916)
Introduzione a Guido Gozzano e caratteri generali della letteratura
del Novecento.
Guido Gozzano è stato un poeta crespuscolare e la sua arte viene inquadrata nel “Decadentismo”. In genere questo termine suole essere frainteso, occorre quindi ben determinare il suo vero significato.
Renato Serra, nel suo libro “Le lettere”, pubblicato nel 1914, aveva affermato che “versi che si facciano leggere in Italia non ce ne sono”. Voleva dire che nei primi anni del ‘900 non sono esistiti in Italia poeti “umani”, cioè “universali”.
L’irrazionalismo, la fiacchezza intellettuale e morale che si arrende ad ogni capriccio ed impulso, l’inettitudine al ripugnanza a seguire la via maestra dell’idealismo che concepisce l’arte come “rivelazione profonda di quel principio assoluto nel quale soggetto ed oggetto coincidono”, sono considerate cause essenziali di tale debolezza poetica, di quel che v’è di superficiale e di avventato, di fatuo e di arbitrario in quest’arte.
Le cause più dirette ed evidenti di tale fiacchezza poetica sono da porsi nell’indirizzo generale della cultura moderna che inclina a staccar sempre di più la poesia dalla vita e nelle teorie con cui l’estetica idealistica ha indirettamente avvalorato tale tendenza.
Questa suggeriva: “appartatevi, disegnate il volgo profano”, ed ancora: “siate ingenui, siate immediati, cercate la vostra originalità inconfondibile, guardatevi da ogni intrusione dell’intelletto”.
I poeti del secolo XIX avevano creduto nel risorgere della vita cristiana, nell’idea nazionale, nell’onnipotenza della scienza,nella libertà, nella ragione che li faceva meno egoisti, nell’amore; insomma nei grandi ideali.
La nuova letteratura concepì la vita come solo “sentire”, il mondo della natura come “animalità ed irrazionalità”, inutili il vero, il bello, il buono.
I maestri ed i modelli vennero d’oltr’Alpe e furono Baudelaire, Verlaine. La poesia nuova quindi si abbandonò ai capricci dell’immaginazione, alle tentazioni di tutti i morbi morali e di tutte le convalescenze patetiche.
Il Martini Fausto Maria (poeta crepuscolare, Roma 1886-1931) che conobbe da vicino tutti i poeti crepuscolari romani ha scritto che Sergio Corazzini e i suoi compagni spesso ripetevano: “la poesia è sentirsi morire”.
La poesia in questi uomini non era ormai che la voce fioca ed estenuata di una stanchezza morale che non sa più lottare né sperare e si abbandona con desiderio al torpore che preannuncia la morte.
Essi cercano la poesia in quell‘ansia, il quel tremore, in quel vago fantasticare e quell’inerte desiderare che si compiace delle tinte tenui, dei toni delicati, dei languidi ritmi, delle lontananze brumose e di quella tristezza e di quel mistero in cui il tramonto avvolge l’apparenza delle cose (il crepuscolo: questi poeti vennero chiamati col nome “Crepuscolari” per la prima volta da Serra nel 1911).
Ritrassero il lento mancare della luce e l’assopirsi delle voci e in armonia con lo scolorarsi della natura, il languire e l’attenuarsi della vita interiore.
Sono considerati loro maestri, in Italia il D’Annunzio del “Poema Paradisiaco” ed il Pascoli dei “Canti di Castelvecchio”.
Tre sono i più grandi poeti crepuscolari: Sergio Corazzini (1887-1907, romano morto a venti anni consunto dalla tisi; Guido Gozzano (1883-1916), morto a trentadue anni dello stesso male e Marino Moretti (1885-1979).
I poeti crepuscolari.
Sergio Corazzini poeta accorato della noia e della malinconia, sentì profondamente questo suo quotidiano distaccarsi dalla vita e si abbandonò alla tristezza con accenti ingenui e profondi. Fu considerato dai Crepouscolari il piccolo martire della nuova religione che succedeva alla mitologia del superuomo. Il Jammes, il Maeterlink, il Rodembach e il Laforgue ne erano stati i piccoli apostoli da cui gli italiani, e Corazzini in particolare, trassero motivo di ispirazione.
Afferma il Bargellini “Guido Gozzano fu il piccolo Papa di questa religione” e il suo libro “La via del rifugio” costituì il tenue credo di questi poeti.
Guido Gozzano ebbe modo di elaborare con maggiore perizia la sua poesia. Mentre il Corazzini sentiva di non meritare il nome di poeta (“perché tu mi dici poeta? Io non sono un poeta, io sono un piccolo fanciullo ecc.”), il Gozzano sentì di meritare il nome di poeta, per quanto di poeta minore, anzi minuscolo. Gabriele D’Annunzio si era firmato, nell’albo d’oro della poesia, con lettere tutte maiuscole; Giovanni Pascoli con le lettere maiuscole soltanto nelle iniziali, Guido Gozzano firmò con lettere tutte minuscole e tutte di seguito, così: guidogozzano.
Un altro poeta crepuscolare, Marino Moretti, sdegnerà persino l’inchiostro, come materia troppo nobile ed indelebile e firmerà a matita le sue poesie “Poesie scritte col lapis”.
La poesia del Gozzano
– poesia prima di tutto, a lutto, (invano piangere questa Musa a lutto, che porta il lutto a tutto ciò che fu).
– di abbandono e di nostalgia: (il mio sogno è nutrito d’abbandono e di rimpianto.
– di felicità inaccessibile (La signorina felicità)
– di vita che sfugge (non amo che le rose che non colsi. Non amo che le cose – che potevano essere e non sono – state……)
La poesia del Gozzano inoltre trova un nuovo aspetto nell’ironia che conclude il suo canto, per la quale il poeta si pone al di sopra del suo sogno e del suo canto e lo contempla con distacco e con un senso di superamento. Dopo la frenesia di Nietzsche segue la rinuncia e l’ironia dei Crepuscolari. Guido Gozzano mosso da questo spirito farà rimare il nome di Nietzsche con quello di camicie (Niccie). E questo particolare ha valore d’un ironico simbolo. La più forsennata potenza scendeva a patti col più ridicolo degli indumenti umani.
Guido Gozzano giocò garbatamente e maliziosamente col proprio cuore. Lo fece piangere e sorridere, soffrire e godere, lamentarsi di maniere “un poco falso, come piace a me”. Dette alla sua poesia il gusto del racconto, riprendendo lontanamente l’andamento della cantica dei Romantici, ma rendendola scaltrita ed ironica.
“Ognuno conosce la ricetta del fare del Gozzano – scriveva Renato Serra – Argomenti provinciali ed infantili, signorine un po’ brutte, cose un po’ vecchie, crinoline, ricami del colore di rose tea; ambiguità dell’amore senza passione, del sentimentalismo senza sentimento e dei profumi senza odore; e poi i versi che sono prosa; le monotonie che diventano varietà e la cascaggine che diventa forza; l’enfasi dell’accento e della rima messa su tutti i punti più banali; quell’aria di dare come nuove e commoventi tutte le cose tristi e mediocri”.
“Le sue parole più ciniche – dice il Galletti – lasciano intravedere però un’anima sincera, una intelligenza pronta e perspicace, che in un corpo sano avrebbero proseguito le nobili cose e dato alla esistenza del poeta uno sopo ed una legge”.
Gozzano e la vita – la favola.
Gozzano non riusciva ad afferrare la vita in nessuna maniera. Sfuggiva a lui di mano come una biscia, con lo snodarsi dei giorni e degli anni; “passò, passò quasi vent’anni la cosa fatta di giorni, che si chiama la vita”: per lui quindi la vita era una cosa fatta di giorni. I giorni passavano e la vita fuggiva con loro. In queste condizioni di uomo a cui non riusciva di cogliere la vita, che cosa restava da fare? Appartarsi in un angolo remoto “fra le gioie defunte e i disinganni”, e gustare nostalgicamente le tristi reliquie delle cose che furono e non sono più, le melanconiche memorie di tutte le cose che potevano essere e non furono.
In questa ricerca di evadere dalla tristezza della vita presente, carica di affanni e sempre tormentata dallo spettro terribile della morte, che si avvicinava giorno dopo giorno, il poeta di Agliè cercò un facile e dolce rifugio nell’immaginare e sognare il mondo incantato della fiaba, con i suoi miracoli e con il prestigioso succedersi degli eventi in cui gli ostacoli venivano superati dal portentoso.
Vita.
Poeta crepuscolare, nato ad Agliè Canavese nel 1883, morto ivi nel 1916. Già a vent’anni, mentre studiava legge all’Università di Torino, era minacciato dalla tisi che poi lo trasse alla tomba. Nel 1905 si diede alla lettura dei poeti stranieri: De Heredia. Leconte de Lisle, Henri de Régnier, Baudelaire, e fino al 1908 studiò con passione gli intimisti, i poeti della “reveries”: Paul Verlaine, Sully Prudhomme, Francis James, Francois Coppée, Jules Laforge, George Rodembach, Gustave Kahn.
Raccolse i suoi primi versi in “La via del Rifugio” (1907).
Viaggiò poi molto per curarsi (le sue impressioni di un viaggio in India furono raccolte in “Verso la cuna del mondo” (1917); scrisse parecchie novelle e rievocazioni della Torino del passato, poi riunite in volumi (“L’Altare del passato”, 1918; “L’ultima traccia”, 1919); pubblicò anche libri per bambini (“I tre talismani”,1904, “La principessa si sposa”, 1917). La sua fama nella letteratura italiana è legata alle sue liriche “Colloqui” (1911).
Il poeta.
E’ il più ricordato, ammirato ed amato dei poeti del tramonto, della rinuncia e della morte. E’ appunto un artista che ha conosciuto la misura ed ha saputo dare un ritmo e una forma melodica alla sua musica interiore.
Questo fine e delicato poeta (morto di tisi a 32 anni) dal “forte e ferreo” Piemonte generato ad esprimere con aristocratica grazia la stanchezza, la rinuncia spirituale di tutta una generazione e l’ironica consapevolezza di tale decadenza, ci offre nei suoi versi, “La via del rifugio” e i “Colloqui”, una grande ricchezza di motivi.
Le immagini da cui la sua sognante, sorridente ed irridente tristezza muove a modulare con arte sicura i ritmi delle sue poesie erano già note e molto care, la più parte, a tutti i poeti della penombra, esperti di quelle parole mormorate sommessamente “che fanno tremare il cuore”.
Egli ci fa sentire la malinconia delle ville solitarie e dei parchi abbandonati, l’amarezza degli amori che ci deludono, della gioventù che sfiorisce, della vita che lentamente ci lascia e la dolcezza tormentosa dei tramonti la cui ombra fa più vaste e misteriose le cose, più solitaria e più profonda la nostra anima.
Dopo il Pascoli egli conduce il nostro cuore verso il paese dei sogni e delle utopie, per i mari ignoti, ove i naviganti cercano nel lontano orizzonte le spiagge della più bella delle isole: “l’isola – non – trovata”, e sentono che il cuore si tinge nell’”azzurro color di lontananza”.
E quando egli, aggirandosi in una vecchia casa campestre, cercando la “bellezza riposata dei solai” descrive dilettosamente il “rifiuto secolare” che v’è raccolto, sembra un Coppée in soffitta.
Motivi del suo atteggiamento.
Ma per il Gozzano questo appartarsi e questo ripiegarsi dell’anima lontano dalla piena luce e dal tumulto della vita meridiana, in un piccolo angolo, tutto in ombra, ove i particolari di una esistenza mediocre e ombratile acquistano un senso nuovo e misteriose risonanze, illuminate come sono da una pallida luce quasi di cripta mortuaria, non è voluttà dilettantesca ed un segno di rinuncia spirituale.
Come Sergio Corazzini egli era ammalato di tisi, ma, più fortunato di lui, il male gli concesse tanto di vita quanto bastò alla sua coscienza d’uomo e di artista per poter guardare, come in una magica fontana, fin dal profondo della sua sensibilità dolorosa per contemplare in essa senza viltà e senza sdegno l’immagine della vita desiderata e sfuggente, e trarre da quella visione una nuova e serena poesia.
La luce magica e spettrale che avvolge ai suoi occhi le apparenze del mondo, è passata attraverso i veli cinerei di cui il pensiero insistente della morte non lontana, fasciava li spirito consapevole e rassegnato al destino.
La sua inerzia contemplativa è veramente lo staccarsi dell’anima dalla realtà per guardarla lucidamente, quasi dal di fuori e da una sfera diversa e remota, come di chi si prepari ad uscire, senza proteste o lamenti vani, dal mondo e dalla vita.
Questo atteggiamento fu il motivo delle sue mirabili favole: uscire dal mondo reale per tuffarsi in un mondo di sogno e di fantasia. Da un viaggio fatto in India, in cerca di aria salmastra, di sole e di salute, aveva riportato, insieme alle immagini e ai ricordi di cui compose il libro “Verso la cuna del mondo” (pubblicato postumo nel 1917), il disegno che la morte rese vano, di un “poemetto sulle metamorfosi delle farfalle”. Ma egli aveva già dato la sua fiorita di canti e arricchito di una sua tenue nota, ma pura e cristallina, il concetto della sua poesia italiana. “Un lento male indomo” aveva consumato in lui il corpo e inaridito, a poco a poco, le fonti della vita interiore.
Motivo della scelta.
La letteratura destinata ai fanciulli, e da leggersi nelle scuole elementari, ha molteplici funzioni. Essa, soprattutto, deve tendere ad educare il fanciullo sia nella moralità che nel campo estetico, e deve, a poco a poco, portare il fanciullo alla conoscenza della lingua: inoltre attraverso la lettura, l’anima del ragazzo deve aprirsi alla conoscenza del mondo del sapere e la lettura, scelta opportunamente, assolve in modo particolare questa funzione.
Quanto il Gozzano ha scritto risponde pienamente a queste finalità della lettura. Nei suoi racconti e nelle sue favole, il ragazzo assimila indirettamente sani principi di moralità (generosità, amor fraterno, carità ecc.) che non vengono indicati con massime che rappresenterebbero la narrazione, ma scaturiscono dallo sviluppo naturale della sua vicenda.
Inoltre le favole, i racconti, le poesie per i piccoli del Gozzano parlano immediatamente al cuore dei fanciulli e sono pervase da un continuo soffio incantevole di poesia e di arte.
In fine il linguaggio che lo scrittore usa è quello dei nostri giorni, svestito da ogni descrizione pedantesca e dottrinale. La lingua che egli usa è quella viva e parlata dell’Italia di oggi; è questo motivo che lo raccomanda sopra ogni altro autore straniero che a volte parla un linguaggio troppo lontano da quello dei nostri ragazzi e necessariamente ogni traduttore non può fare a meno di evitare questo difetto. Anche i nostri migliori scrittori per ragazzi dei tempi passati, anche quelli del primo ‘800 risentono di questo difetto
Moralità, culto del bello e linguaggio vivo sono i migliori pregi ed i motivi più validi che hanno suggerito questa scelta.
Guido Gozzano scrittore per ragazzi.
Le raccolte di fiabe del Gozzano vanno sotto il nome “I tre talismani” (talismano, parola derivante dall’arabo, significa: figura o carattere misterioso impresso su qualche oggetto e a cui la superstizione attribuisce poteri miracolosi); “La principessa si sposa”. Egli scrisse anche altre fiabe, che sono state pubblicate postume nella raccolta delle due antecedenti pubblicazioni.
“Le Rime per i bimbi” sono brevi e graziose poesie di vario argomento.
Le favole.
Ogni favola si apre (nella raccolta: “I tre talismani”) con quattro versi agili e spigliati che accennano al mondo fiabesco che sta per aprirsi.
La prima favola, per esempio, così comincia:
“Quando i polli ebbero i denti
e la neve cadde nera
(bimbi state bene attenti)
c’era allora…..c’era….c’era
un vecchio contadino ecc……”
Nella favola “I tre talismani” abbiamo il trionfo della giustizia sulla perfidia e sulla prepotenza dei potenti, il disprezzo delle ricchezze e l’amore alla vita semplice.
Nella favola “La danza degli gnomi” viene ripreso il tema della matrigna che ama la propria figlia e non ha alcun sentimento di benevolenza verso la figlia del marito vedovo. La figlia della matrigna cresce cattiva e perversa mentre la figlia del vedovo ha sentimenti di bontà e di generosità. Questa trovò nella sua bontà la sua fortuna.
In “Nevina e Fiordaprile” il simbolo della neve viene trattato con finezza e vivacità fantastica. Nevina si disfà al contatto del sole, perché aveva lasciato i suoi monti, per la bramosia di conoscere altri mondi.
Nella “Fiaccola dei desideri” è narrata la vicenda di Fortunato, il giovane che trova il premio della sua costanza di fronte agli ostacoli della vita.
Nella “Lepre d’argento” gli alberi racchiudono un mondo misterioso e Aquilino costante ad ogni difficoltà per la salvezza di Nazarena, la fanciulla che egli ama.
Nella favola “La camicia della trisavola” è narrata la vicenda di Prataiolo, un giovane che riceve dalla sorella la camicia della trisavola che, distesa per terra, ubbidisce ad ogni comando. Essa creerà la fortuna di prataiolo che, riconoscente, vuole la sorella partecipe delle sue gioie.
Nella seconda raccolta di fiabe “La principessa si sposa” non si ha più l’apertura della narrazione con brevi versi, ma il Gozzano inizia subito il racconto.
Nella favola “Piumadoro e Piombofino” la fanciulla Piumadoro ha rispetto per i piccoli animali, le piccole cose che ogni ragazzo desidera prendere per trastullarsi con essi; essi la ricompenseranno per la sua bontà. Piumadoro diventata leggerissima, volando col vento si incontra con la farfalla, la cetonia e il soffione che la accompagnano dalla fata dell’Adolescenza che le fa conoscere Piombofino, ammalato di un male opposto a quello della ragazza; era diventato pesantissimo. Vincendo gli inganni delle fate cattive (il castello della menzogna, il castello dei desideri) con il grano della bontà riesce a salvare il giovane.
Il “Re porcaro” descrive la sorte di tre figlie di un re, stregate per opera della matrigna che strega anche il re (la fatatura dello scambio). La matrigna viene punita mentre le tre principesse riescono con la loro costanza e con la loro mutua opera di soccorso a rompere ogni incantesimo.
Nella favola “La cavallina del negromante” , Candido per amore del padre va a guadagnare lontano. Il negromante lo prende a suo servizio, e compie molte ingiustizie. La scienza di Candido porta alla morte il negromante e alla propria fortuna.
Nella favola “Il reuccio gamberino” narra di Sansonetto che berteggia una vecchina dai capelli bianchi, a cui egli tira un colpo di nocciolo sul naso. Egli sente allora il tempo correre all’indietro. Egli deve ritrovare il nocciolo, affrontare lunghissimi viaggi, affrontare il gigante Marsiglio, recidergli il capello verde. Così può entrare nel suo castello, cercare il ciliegio nato dal nocciolo, raccogliere ogni nocciolo caduto che portava scritto “Grazie dell’irriverenza!” Egli viene allora risanato: corre al suo castello ove era dato un torneo per la mano di Annabella, la sua sposa promessa. Egli riesce a vincere.
Nella favola “Nonsò” è narrata la storia di un bimbo di otto anni che risponde sempre: “Nonsò”. Questi viene raccolto da un principe e riceve in dono da lui una cavalla che lui sceglie, che parla quando “Nonsò” vuole fare il male. Dopo un primo fallo è costretto ad espiare e fare un lungo viaggio. In questo egli fa continue opere di bene e riesce a rapire “La Bella dalle Chiome Verdi” per il suo Re. Dopo altre imprese “Nonsò” vede la giumenta fedele trasformata in bellissima principessa che egli sposa.
Nella favola “Le leggenda dei sei compagni” narra la vicenda di tre fratelli che partono dalla casa paterna in cerca di fortuna. I primi due per la loro durezza di cuore ritornano sfiduciati a casa. Il terzo per la sua bontà riesce a far fortuna aiutato da tre uomini che lui aveva soccorso.
Così si chiude la seconda raccolta: sia il primo libro che il secondo comprende un gruppo di sei favole.
Sotto il titolo di “Altre fiabe” sono state raccolte altre sei composizioni per ragazzi che si differenziano un poco per il loro carattere e il mondo e l’ambiente in cui vivono i personaggi e si svolgono le azioni.
Il mondo delle prime due raccolte è il classico mondo degli gnomi, delle fate, delle streghe, dei giganti e dei negromanti; in queste ultime fiabe troviamo un mondo ed un ambiente umano e reale; avvengono pure in queste fiabe fatti strani, ma essi hanno più del miracolo, sembrano più opera divina che risultato di forze misteriose e occulte. Ci troviamo più nel mondo della leggenda ne “Il Natale di Fortunato” che in quello della fiaba. Esso si apre con queste parole: “Oggi che l’ala della pace cristiana sembra sfiorare la terra, la mia fantasia stanca non ama raccontarvi vicende di orchi e di fate, di gnomi e di malefici. Evocherò per voi una fiaba non mia, una leggenda che ascoltavo dalla cara bocca di una fantesca defunta, in altri Natali lontani, quand’ero piccolo come voi, miei piccoli amici”. Essa descrive il contrasto tra due doveri e due desideri: il pane per i piccoli, il rispetto della festa di Natale. La bontà di Fortunato è premiata ed egli diventa ricco. Me nella ricchezza il cuore di Fortunato cambiò e divenne duro: non accolse più i poveri come aveva promesso di fare al sorgere della sua fortuna, ma rispettava solo i ricchi come lui. Ritornato là dove aveva lasciato il giorno di Natale, ritornò povero: “che la povertà vi rifaccia pietoso e cristiano!”.
Questa leggenda è così umana che sembra muoversi in un clima di semplicità e di verità evangelica: essa è riportata in quasi tutte le antologie per i ragazzi di circa dieci anni.
“Il mugnaio e il suo Signore” ci porta alla favola dei tre talismani: Inizio, tema, ambiente sono gli stessi. L’avidità e l’ingiustizia vengono punite.
“La corona del Re”. Sono tre fratelli che muovono alla ricerca della corona reale smarrita. Il fortunato che la ritroverà succederà al padre. Giacinto stimato più fortunato dei suoi due fratelli è abbandonato da essi. Giacinto giunge sul campo di battaglia e alla vista dei corpi esanimi giurò in cuor suo di non permettere più guerre quando fosse salito al trono. Ritrovò la corona, ma più tardi i fratelli gli diedero una bevanda malefica: si addormentò per sempre. Ricercato dal Re, viene trovato, viene svegliato da un eremita, ma non rivela la cattiveria dei fratelli.
“Luca e Mario” è una storia. Se questo racconto fosse stato nel libro “Cuore”, vi avrebbe figurato tra i migliori. La vita di due bimbi di differente condizione sociale (Luca spazzacamino, Mario figlio di ricchi signori), uniti dall’amore che nasce naturalmente nel cuore di ragazzi buoni. Questo amore alla morte di Mario, lega la madre a Luca che viene accolto nella ricca casa al posto del bimbo defunto. Episodio di vita bellissimo, trattato con naturalezza e finezza, dove la commozione per il dolore e il male si stempera e si distende nella generosità e nella bontà.
“Il salice solitario”: è la favola o più esattamente la storia impossibile di un eremita, consunto dai digiuni, che si sente morire in una landa solitaria, sconsolata e monotona (ambiente caro ai crepuscolari). Egli con la penitenza aveva dominato il suo corpo e chiese a Dio di poter reggere per sempre un nido di uccelli. Il Signore lo converte in salice. Il motivo ricorda la mitologica leggenda di Dafne e Apollo; ma da Gozzano riceve un tono più elevato e un motivo più significativo: la generosità del cuore umano.
“Il contino lustrascarpe” è il racconto di un ragazzo buono dei nostri giorni. L’ambiente è quello di una città moderna: è un racconto pienamente umano, niente vi è di fiabesco. Nino il lustrascarpe improvvisato, lavora per il povero lustrascarpe ammalato e per Marta, sua figlia. Il figlio del conte, Nino, che aveva visto suo padre esigere l’affitto delle due stanze in soffitta, tenute dal lustrascarpe, riesce ad aprire il cuore del padre alla generosità ed alla carità.
Rime per bimbi.
Sono una raccolta di temi e delicate poesie, semplici e chiare nel linguaggio e nello stile, scritte in varie occasioni per i fanciulli conosciuti ed amati dal poeta.
Degna di particolare ricordo è la lirica intitolata: “La Notte Santa”, in cui, il poeta immagina fantasticamente il peregrinare di albergo in albergo (Albergo del Cervo, Albergo del Moro) di S. Giuseppe e della Madonna nella notte santa e chiude la lirica con festevole vivacità rinnovando metri e toni per fare partecipare i fanciulli alla gioia della natività di Gesù.
Indice
Letteratura italiana……………
Origine della lingua italiana
Dante Alighieri……………………
Francesco Petrarca…………
Giovanni Boccaccio…………………
Il Rinascimento……………………….
Letteratura volgare del ‘400….
Francesco Guicciardini………….
Niccolò Machiavelli…………….…
Ludovico Ariosto……………………
Torquato Tasso………………………
Il Conformismo………………………
Il Conformismo………………………
Il Seicentismo…………………………
L’Arcadia…………………………………
Giovanni Goldoni……………………
Il Neoclassicismo…………….………
L’Illuminismo………………….………
Giuseppe Parini……………….……
Vittorio Alfieri……….………….…
Vincenzo Monti………………….
Ugo Foscolo………………………
Il Rinnovamento………………
Il Romanticismo…………………
Giacomo Leopardi………………
Alessandro Manzoni……………
Secondo e terzo Romanticismo…
Francesco De Sanctis…………………
Il Verismo……………….…………………
VERGA G. – Mastro Don Gesualdo – I Malavoglia.
Giosuè Carducci…………………………
Giovanni Pascoli…………………………
Il Decadentismo…………………………
Breve storia del Decadentismo……
Gabriele D’Annunzio………………….…
Guido Gozzano………………………….…
BREVE BIOGRAFIA DEL PROFESSORE DON DINO MANCINI
(Prof.Fabrizio Fabi)
Nell’ottobre 1992 il Consiglio di Circolo della Scuola Elementare di Viale Trento, sita in Fermo, deliberava l’intitolazione della stessa scuola a Mancini Don Dino.
Le ragioni della proposta vennero illustrate spiegando che tutte le scuole della cittadina sono identificate attraverso intitolazioni che, per lo più, richiamano figure di Fermani, distintisi per gli studi, per le opere e per la funzione esercitata a Fermo. Nella ricerca per individuare un nominativo che per prestigio, notorietà e meriti obiettivi, aiuti la cittadinanza Fermana ea riconoscersi e sentirsi comunità, anche attraverso i nomi che le identificano, la scelta più adatta è sembrata essere quella del prof. Dino Mancini.
Egli è nato a Potenza Picena l’8.10.1915 ma, perso il padre a causa della prima guerra mondiale, è sempre vissuto a Fermo dove ha fatto tutti gli studi delle scuole medie, ginnasiali e liceali e all’Istituto di Teologia presso il Seminario Arcivescovile, dove è stato ordinato sacerdote.
Dal 1938 al 1942 è stato a Milano per frequentare l’Università Cattolica presso la quale ha conseguito la laurea in Lettere a pieni voti e lode accademica. Nell’ottobre del 1942 ha cominciato la sua lunghissima attività di docente Fermano: in Seminario fino al 1969; presso I.T.C. “G.B.Carducci” dal 1963 al 1978.
Ha svolto il suo insegnamento in tanti anni, per tanti discepoli ed in così numerosi istituti per Materie Letterarie, Filosofia, Religione, da lasciare tracce della sua grande personalità e della sua inarrivabile competenza in tutte le scuole della città.
L’intelligenza, la versatilità, la dedizione, unite ad una notevolissima sensibilità, lo hanno reso capace di condivisione e di umanissimi coinvolgimenti.
D’altra parte dottrina, preparazione e disponibilità verso i giovani, attratti dalla sottile autoironia e dalla coloritissima saggezza profusa in tutti i suoi rapporti, hanno moltiplicato gli effetti del suo lavoro di docente facendone un autentico vitale magistero, ben oltre i confini dell’istruzione prevista nei curriculi e nelle varie cattedre.
Testimoniano il suo vigore di pedagogista e di educatore, schiere di sacerdoti, di professionisti e, soprattutto, di insegnanti elementari i quali, a rischio di un’enfasi da lui sempre scoraggiata, lo chiamavano volentieri “maestro dei maestri”.
Il sacerdote Don Mancini, ineccepibile e rigoroso con se stesso, ma attento e comprensivo nei riguardi degli altri, ha officiato con dignità tanto in chiese di campagna, (a San Claudio), come in Santuari di città (alla Pietà), predicando e seguendo gruppi che che sollecitavano assistenza, dal Movimento Laureati,alle organizzazioni studentesche, fino alle Opere Benedettine, intervenendo, ogni volta che ne veniva richiesto, a conferenze, dibattiti e convegni nei quali gli pareve di dover completare l’azione dell’insegnante che sempre sentiva di essere, anche negli ambienti e nelle situazioni più diverse.
Ha avvertito, paraltro, profondamente i problemi del suo tempo, nella Chiesa e nella società, ma in particolare nella scuola.
Le sue riflessioni, raccolte nel volume ”Più serietà nell’esame di Stato e nella Scuola” (1971), sono state pubblicate dagli stessi amici che avevano curato nel 1966 la prima edizione di “Autonomia del lavoro e progresso economico”.
E’ morto il 20 Dicembre 1990 mentre usciva edito “Erebos” un suo studio sulla condizione della cultura e della civiltà di oggi. Mancini Don Dino, sacerdote, intellettuale, insegnante e cittadino esemplare, era noto ed apprezzato in Viale Trento, suo quartiere di residenza, come lo era in tutta Fermo e nel Fermano.
L’intitolazione della scuola a suo nome, oltre che dalla unanime considerazione della gente, trae specifico titolo dal fatto che egli, incaricatone, ha insegnato Religione anche nelle aule della elementari di Viale Trento; e dal fatto che tanti insegnanti elementari, della Città e del Comprensorio, collegano al suo ricordo una scelta di vita che, nella scuola e nella cultura, realizza la coscienza della solidarietà civile e dell’impegno a favore della comunità.
Il Direttore Didattico prof. Fabrizio Fabi “Il Trillo” 7.3.1997 “Perché Don Dino?”