IL BAROCCO
Il secolo XVII in letteratura ha un movimento chiamato Barocco o Marinismo che si propone di reagire alla solenne compostezza dell’arte umanistica e di creare un poesia sfavillante e ardita, capace di sbalordire i lettori. Il suo periodo va dalla metà del secolo XVI alla seconda metà del secolo XVII.
Lo stile umanistico aveva presentato le caratteristiche della chiarezza e dell’ornato decoroso: i marinisti si propongono di sostituire alla forma statica del classicismo, che contava già due secoli di vita, una forma spettacolare e movimentata.
Il programma marinista, nella sua parte negativa, è costituito, dunque, dal rifiuto della tradizione dei classicisti che gli innovatori definivano “beccamorti di Parnaso”, portatori di una poesia morta.
La parte creativa del programma si può riassumere in due motti: ricercare il nuovo (il Marino scriveva: “per novo cammino, dietro a nuovi pensier muovere il corso”): e meravigliare il lettore (Marino: “è del poeta il fin la meraviglia, chi non sa far stupir vada a la striglia”).
Il Rinascimento poteva apparire agli uomini del ‘600 come l’età delle innovazioni, delle realizzazioni superbe: la civiltà aveva fatto un gigantesco passo in avanti. La scoperta di nuovi continenti, di nuove vie di comunicazione, delle armi da fuoco, delle nuove leggi della fisica, di nuovi espedienti tecnici nel campo della pittura, della scultura e dell’architettura, persuasero gli uomini dell’età post-rinascimentale che, per creare atre invenzioni, bisogna superare il passato avventurarsi nell’ignoto, superare il passato, fidando nelle risorse del proprio ingegno per ogni rinnovamento. Nuove scoperte scientifiche continuavano gloriosamente per opera di Nicolò Copernico e di Galileo Galilei, confermando l’idea della progressività indefinita della scoperta.
Audaci ed avventurieri, i secentisti vollero scoprire nuovi mondi in tutti i campi. La ricerca del nuovo in letteratura, però, non consiste, per i secentisti, in un rinnovamento dell’ispirazione, ma nella creazione di una forma e di un linguaggio nuovo, senza alcuna preoccupazione di comunicare i grandi ideali della vita e di cogliere nell’esistenza umana i temi nuovi capaci di interessare.
Il nuovo stile inventato dai marinisti è definito concettoso (geniale). Il concetto è una parola peregrina “velocemente significante un obbietto per mezzo di un altro”, ossia è una metafora ingegnosa.
Il “mondo nuovo” perciò, sarà caratterizzato da uno sforzo eroico per porre e conservare l’immaginazione in stato di incandescenza; non per ricercare un’espressione chiara e decorosamente adatta a manifestare pensieri e sentimenti sgorgati da una convinzione intima, piuttosto per ritrovare, nel serbatoio dell’immaginazione, forme sensibili le quali, con il pensiero che si vuole esprimere, abbiano una affinità così sottile e misteriosa che solo un “genio” riesca ad individuarla.
Il marinista non interpreta la realtà, se non per ricercare le immagini più stravaganti, secondo un misterioso segreto di somiglianza, noto a lui soltanto. L’arte, perciò, si riduce ad un puro sforzo immaginativo, , a linguaggio “sfavillante” di metafore. Ai fini dell’effetto linguistico, non solo viene sfruttata la metafora, ma vengono messi in uso tutti gli artifici più potenti della retorica.
– aggettivazioni abbondanti;
– sinonimie incalzanti;
– paragoni moltiplicati;
– invettive o apostrofi;
– interrogazioni retoriche ed esclamazioni;
– personificazioni;
– epifonemi ( espressioni vibranti di chiusura)
– contrasti di concetti e di parole;
– allitterazioni (ripetizione di suoni vocalici e consonantici);
– ritmi sonori e spesso onomatopeici.
Gli espedienti che la retorica umanistica aveva inventato come mezzi per rendere efficace l’espressione linguistica di pensieri sinceri, offrivano ai secentisti uno stimolo alle risorse d’effetto (ignote ai predecessori) nella tecnica linguistica, considerata non come un mezzo, ma come un fine. Gli innovatori erano invasi dagli eroici furori del “genio”, ed ispirati dalla voce misteriosa del “gusto”, per cui miravano ad affogare i lettori in un mare di sonanti e colorite parole.
Per essere poeta, secondo l’estetica secentista, è necessario essere forniti di due facoltà: del Genio e del Gusto. Ne furono teorizzatori: Matteo Peregrini (”Delle acutezze”), Emanuele Tesauro (“Il cannocchiale aristotelico”), e Baltasar Gracian (“ Agudeza y arte de ingenio”).
Il “Genio” dei secentisti è pura capacità immaginativa di trovare immagini e ingegnosità nel combinarle per esprimere qualche pensiero, evitando la forma e il linguaggio comune, e sostituendolo con una forma ed un linguaggio straordinari.
Il genio è una specie di invasamento, un incendio della immaginazione per cui i concetti assumono forme esagitate e teatrali, e tutta la composizione procede fiammeggiante e travolgente; talvolta è una specie di fuoco d’artificio in vista della batteria finale; talvolta è capriccio arguto ed elegante; talvolta è arditezza e temerarietà di immagini.
Il “Gusto” è la capacità di individuare i bei ritmi, le belle disposizioni di parole, i bei contrasti, le ingegnose allitterazioni. Il genio è una proprietà che riguarda più la forma (cioè il modo di presentare il contenuto immaginativo) e si riferisce all’immaginazione; il gusto riguarda la parola e si riferisce esclusivamente alla tecnica del linguaggio.
I secentisti usarono tutti i mezzi adatti a meravigliare il lettore. Essi non intendono suscitare riflessioni profonde, passioni ideali e diletti interiori, ma si propongono di affascinare l’immaginazione dei lettori, di impegnarli maliziosamente nella interpretazione delle loro acute metafore, di dilettarli con l’ingegnosità dell’artificio, di ottenere da loro il riconoscimento ammirato per la bravura tecnica.
Temi di ispirazione.
Il contenuto della letteratura secentesca appare povero perché i temi costituiscono un pretesto, non per interpretare un aspetto della vita, ma per comporre “pezzi” di bravura.
Questa letteratura secentesca è descrittiva per mezzo di immagini, con temi che si prestino ad uno svolgimento sfavillante. Eccone i principali:
– temi paesistici, ricchi di colori, di suoni, per sensazioni voluttuose.
– temi elogiativi che si prestano a favorire l’enfasi (come le dediche).
– temi macabri, per destare impressioni forti e sensazioni di orrore;
– temi sensuali con una esperienza lussuriosa ed ingenua.
– temi polemici, svolti con baldanza aggressiva, volgare ed epica.
– temi enigmatici (indovinelli) per favorire il linguaggio metaforico.
Gli aspetti dei temi non sono sviluppati dai secentisti in modo profondo; sono poco sinceri, ma la loro esperienza ha un significato storico perché il barocco interpreta l’esigenza intima propria del mondo che lo creava. Il secentismo è una cultura (del secolo XVII) caratterizzata dalla clamorosità esteriore, dalla posa artificiosa, dalla forma fastosa.
Il Manzoni nei “Promessi Sposi” ha delineato, con aderenza alla realtà storica, questa cultura bizzarra che unisce insieme la miseria e l’abbigliamento fastoso, l’onore e il puntiglio, il senso della propria dignità e la prepotenza, la signorilità e la rozzezza, la minacciosità della legge e la sua efficacia autorevolmente riconosciuta, la crudeltà più feroce e la santità più benevola, la sensualità e l’atteggiamento serio.
Il tono di questa bizzarria non è mai moderato o spigliato, ma è sempre eccessivo: eccesso nel male come nel bene, non tanto nelle intenzioni quanto negli atti; è naturale quindi che anche i poeti di quel secolo siano bizzarri; come ogni poeta è l’espressione più genuina della sua generazione.
A causa del loro stile eccessivo, nella vita privata e nell’arte, essi furono considerati dal popolo cervelli balzani, capaci più di dire cose curiose che cose sensate. Renzo nell’osteria della “Luna piena” dà l’appellativo di poeta ad un giocatore che ha detto una cosa curiosa e si professa anche egli poeta in quanto, nei momenti di euforia, sa dirne tante di cose curiose, ed il Manzoni commenta l’espressione di Renzo, chiarendo che in quel secolo, il poeta non era una sacro ingegno, ma un cervello balzano, il quale, nel dire e nel fare, avesse più dello stravagante che non del normale.
Il poeta secentesco, alla luce dei lampi del suo genio, capta visioni spettacolari e, con linguaggio quasi da oracolo, le riferisce al piccolo mondo dei mortali, affascinati, ai suoi piedi.
Cause dell’estetica. Il barocco si riassume in questi principi fondamentali:
– l’arte (la poesia) è forma e linguaggio;
– la forma e il linguaggio sono belli quando sono impressionanti;
– le facoltà dell’arte della meraviglia sono il Genio ed il Gusto.
Cause del principio: l’arte (la poesia) è forma e linguaggio:
Una prima causa della riduzione dell’arte a forma e a linguaggio è da attribuirsi alla meschinità della vita spirituale di quel periodo debole negli ideali necessari a tener attive le coscienze delle persone colte. Si contentano della forma esteriore in politica, come in religione, come in economia, come in morale.
Il governo Spagnolo lancia fuori a gettito continuo “gride”(leggi) minacciose, ma non si interessa del loro effetto. La civiltà del ‘600, più che da convinzioni e da passioni ideali, è caratterizzata dal formalismo: e questo carattere si doveva fatalmente riflettere nella letteratura: povero e quasi nullo il contenuto, eccessivi la forma e il linguaggio.
Un seconda causa del formalismo secentesco si può individuare nel culto esagerato della retorica, messo in voga dagli umanisti del ‘400, e diventato fanatismo nella seconda metà del ‘500: i secentisti non avendo contenuti seri, nel complesso, riposero tutte le loro speranze di effetto negli artifici formali.
Perfino l’esempio del Rinascimento contribuì all’affermarsi della concezione formalistica dell’arte; dato che il culto della forma aveva impegnato i letterati e gli artisti in problemi di tecnica espressiva con tanto calore che erano riusciti a trovare forme perfette, con aspetti geniali che costituivano il motivo più profondo dell’ammirazione dei dilettanti ed anche dei professionisti i quali finirono con il pensare che l’abilità stilistica costituisce nell’arte quasi il tutto, o l’essenziale.
Cause del secondo principio: la forma e il linguaggio sono belli quando sono impressionanti.
Una prima causa si può individuare nel fatto che di solito chi ha poco da dire, per destare interesse e impressione, in chi lo ascolta, si vale delle parole grosse, delle frasi ingegnose, di certi giochi di espressione che sembrerebbero voler dire chissà quali cose, mentre invece non dicono nulla. Lo stile di chi vuole affermarsi a qualsiasi costo è clamoroso, artificioso, vivace, variatissimo, in modo da destare l’attenzione meravigliata di chi sta intorno.
Una seconda causa della magniloquenza secentesca si può individuare in un traviamento dello stile maestoso del Rinascimento. Nel secolo XVII alcuni ammiratori della precedente grandezza, accolsero soltanto l’impressione delle forme, ma non individuarono la sostanza intima di pensiero e di sentimento che alimenta la pienezza e la robustezza delle forme, e confusero così il grande con il grandioso.
Alla fine del ‘500 e nei primi anni del ‘600, nei vari campi dell’arte, si nota la tendenza al movimentato: il David del Michelangelo è l’esemplare della forza giovanile concentrata in un atteggiamento di misurata e composta audacia; il David di Bernini, invece, piegato su un fianco, con lo sguardo torvo, in atto quasi di mordersi un labbro per ira, è l’espressione della forza in atteggiamento teatrale: queste due statue, in cui è svolto lo stesso soggetto, possono essere assunte quasi a simbolo della grandezza cinquecentesca e della teatralità secentesca.
La speculazione filosofica, nella seconda metà del ‘500 ha assunto un tono audace e quasi drammatico: la concezione del Bruno è protesa a conseguire l’immenso. Anche nel mondo della letteratura si è notata, nel corso del secondo ‘500, una drammaticità, ora di posa ora di vera passione. A confondere il grande con il fastoso enfatico contribuì molto lo stile generale della vita che si affermò nell’Europa di allora, dominata dalla civiltà spagnola.
La Spagna che nel 1492 era ancora impegnata nella lotta contro l’antico invasore moro, nel 1519, in seguito alla fortunata eredità di Carlo V, diventò la più potente nazione del mondo; passò da una vita mediocre ad una vita imperiale, con forme esteriori impressionanti e con uno stile costantemente enfatico.
Ma gli effetti disastrosi dell’amministrazione degli Spagnoli, in Italia, stanno a dimostrare che rare volte essi sono andati al di là delle belle parole. Nei “Promessi Sposi” Manzoni fa capire come il popolo non era aiutato dai magniloquenti governatori, mentre i “bravi” continuavano a vivere e a vigoreggiare.
Le famiglie signorili italiane, alleate più o meno strettamente alla Spagna, assimilavano quello stile della boria altezzosa e del fasto senza gusto; i nobili di campagna erano più o meno come don Rodrigo, cioè superbi, prepotenti e villani; i nobili di città più o meno o spavaldi come il Conte Attilio o boriosi come il Conte Zio o freddi e compassati come il padre di Gertrude.
L’onore del casato era l’ideale supremo di questa nobiltà: da qui le sopraffazioni reciproche tra famiglie e famiglie, e le frequenti parate dei parentadi, in occasione di fatti lieti o luttuosi.
Anche nel mondo ecclesiastico si affermava uno stile sfarzoso nelle divise, nelle cerimonie liturgiche, nella decorazione dei templi. L’oratoria sacra assunse forme teatrali e si valse di tutti gli artifici inventati dalla retorica secentista, per far colpo sull’uditorio e pascerlo di belle parole.
L’enfasi diventa, nel ‘600, uno stile o modo mentale che si rivela in tutte le espressioni della vita. E’ chiaro che, essendo il poeta l’interprete più genuino di una generazione, le espressioni poetiche del ‘600 siano intonate alla grandiosità fastosa. A confermare lo scrittore nella sua posa di invasato contribuiva anche il fatto che egli in genere era al servizio di questa o di quella corte e quindi, oltre che riverberare la civiltà del secolo nella sua forma più tipica (quella cortigiana), doveva impegnarsi a dar lustro al casato del Signore, illustrandone le gesta in forma superlativa e procurandogli l’onore di possedere, in antagonismo con gli altri casati, il più illustre verseggiatore.
In arte, più che nella poesia, il barocco ebbe le sue più belle e più piene espressioni. Nell’architettura con il Bernini e il Borromini, il Barocco ci diede chiese e palazzi dalle linee ardite, movimentate e spezzate, dalle decorazioni sfavillanti di oro e di stucco. Nella scultura il Bernini ci ha dato statue colossali dalle pose teatrali, dai panneggi svolazzanti, con certi spunti interessanti per arditezza di tecnica. Nella pittura Caravaggio e i Carracci crearono dipinti dalle tinte forti e dai contrasti netti.
In conclusione il secolo XVII è caratterizzato dal gusto del grandioso e dell’impressionante, che nel campo letterario, cade in un formalismo bizzarro e stravagante.
Cause del terzo principio: le facoltà dell’arte della meraviglia sono il Genio ed il Gusto.
Una prima causa di questo principio della teoria estetica del barocco è da individuarsi in una falsa interpretazione della genialità, non come una capacità normale, ma una specie di misteriosa abilità che serve ad uscire dallo stile comune e dall’uso ordinario.
I secentisti abbagliati da questo carattere di straordinarietà del Genio confusero l’ingegno con l’ingegnosità, cioè crederono che per creare cose grandi non fosse necessaria un grande spiritualità, bensì solo una buona dose di abilità nel cercare forme nuove e complicate.
A far confondere l’ingegno con l’ingegnosità contribuì anche assai la dottrina machiavellica circa la vera sapienza che per Machiavelli non è conoscenza del vero della vita vissuta, ma è abilità, astuzia: il principe saggio non è quello che, nell’amministrare il suo popolo, si regola secondo i principi eterni del vero, del buono e del giusto, ma chi, in un mondo di cattivi, sa abilmente destreggiarsi, prevenendo o respingendo le iniziative della malizia altrui con piani di difesa e di offesa spregiudicatamente combinati ed attuati.
Il Botero, affermando che per la difesa della religione è lecito ricorrere a qualsiasi mezzo, convalidava il metodo del Machiavelli, sebbene ne limitasse l’uso solo alle difese della fede. Le lotte religiose in Francia tra Lega Cattolica e Lega Ugonotta, e quelle in Germania tra l’Unione Evangelica e la lega Cattolica, le bricconerie e le astuzie della diplomazia europea del secolo XVII stanno a dimostrare che, dopo le dottrine del Machiavelli e del Botero, il successo nella vita pubblica non era affidato tanto alla sapienza e alla saggezza, quanto all’astuzia ed alla abilità.
Il secolo XVII, enfatico ed orgoglioso, fu anche un secolo attaccabrighe: il senso dell’onore diventò istinto di sopraffazione e puntiglio: sia nella cittadina di provincia che nelle grandi città, le famiglie dei nobili sono in perpetua lotta tra loro, non tanto per motivi di interesse, quanto per avere la soddisfazione di infliggere l’umiliazione all’avversario.
Da qui tutto un intreccio si contrasti e di alleanze, di diplomazie familiari in competizione con altre diplomazie familiari. E la vittoria spetta all’ingegnoso: ad esempio, ad un Conte Attilio, che sa conquistare l’orgoglio del Conte Zio, ed a questo Conte Zio che sa far capitolare un Padre Provinciale. E’ chiaro che in un mondo dove non si apprezza nulla più dell’abilità, anche il poeta si dedichi all’avventura dell’ingegnosità della parola.
L’ingegnosità come abilità nel trovare forme ed espressioni che destino curiosità e meraviglia, non costituisce certo la capacità artistica vera e propria; il vero ingegno è costituito dalla capacità di percepire la realtà in un modo il più possibile completo e nell’inquadrarla in una visione vasta e seria della vita, nel sentirla con intensità, nel rappresentarla con precisione. E’ importante la concezione esatta della natura e della missione del poeta.
Il vero gusto a cui essi si appellavano, insieme al vero genio, sono di per sé la fonte inesauribile di buoni suggerimenti per il compositore, tuttavia nel ‘600 era, in pratica, totalmente soggettivo. Il Barocco si manifesta orgoglioso e puntiglioso e l’individualità viene esagerata in quanto è considerata come garanzia di originalità, come motivo per distinguersi dagli altri ed affermarsi come inventori.
Vari giudizi sul ‘600.
Giudizi opposti sono stati enunciati nei confronti della civiltà del secolo XVII: alcuni hanno svalutato tutti gli aspetti di questo secolo come età di decadenza generale, altri l’hanno esaltato come età di effervescente dinamismo e di notevole attività in tutti i campi.
I denigratori hanno confuso il secolo intero con il barocco, cioè la vita intera del ‘600, con un particolare aspetto di essa, la stravaganza, certamente non simpatica alla mentalità tradizionale latina, desideroso delle proporzioni e dell’armonia, della sobrietà e dell’eleganza, dell’idea e della forma.
All’opposto altri fanno gli elogi, vedendo, nelle varie espressioni della civiltà di questo secolo, l’incarnazione di una spiritualità, di un’ansia, di una manifestazione storicamente vera dell’anima umana nel suo evolversi incessante, cioè hanno veduto espressioni appropriate di una mentalità vera e vissuta; e ciò, secondo essi, è sufficiente per affermare che tutte le manifestazioni della civiltà di quel secolo hanno il loro valore.
Alla svalutazione assoluta dei primi si possono opporre le conquiste importanti realizzate dal ‘600, nelle arti dell’architettura, della scultura e della pittura con le opere veramente pregevoli. Alla rivalutazione assoluta dei secondi si può notare che non è sufficiente che qualche espressione di vita sia sincera e genuina perché possa essere dichiarato tutto pregevole.
L’ansia del nuovo e dell’improvviso, la tendenza all’effetto clamoroso prodotto con l’irregolare,il capriccioso, l’imprevisto, hanno trovato interpreti veramente eccellenti in architetti come Bernini e Borromini: dal colonnato di Bernini alla chiesa di S. Agnese del Borromini, c’è tutta una serie di edifici sacri dalle linee bizzarre, capaci di destare curiosità ed interesse, e dall’ornato fastoso e straricco capace di sbalordire.
I nomi di Michelangelo, di Caravaggio e dei fratelli Carracci sono rimasti celebri nella storia della pittura. Essi compongono le immagini con il metodo dei contrasti forti e delle tinte piene ed abbondanti, ma sanno raggiungere l’effetto dell’impressione forte.
Questi risultati nel campo dell’arte stanno a dimostrare che solo i mediocri nel ‘600, come in tutti i secoli, abusano di una formula tecnica sostituendo la vera ispirazione. La linea spezzata, lo stracarico ornativo, il contrasto violento rimangono maniere convenzionali, se lo spirito che vuol realizzarle non conosce lo slancio dell’ardimento, la passione del grandioso.
Non si può, inoltre, negare che il secolo XVII è tra i più gloriosi per le conquiste scientifiche. Galilei, famoso per le sue invenzioni nel campo della fisica, ancor più famoso per l’invenzione del metodo scientifico; il Torricelli, il Castelli, il Redi, il Malpighi, il Viviani, sono i personaggi a cui spetta il merito di aver iniziato praticamente la serie delle invenzioni scientifiche dell’età moderna.
Nel campo politico domina un deplorevole conformismo al dominio spagnolo, tuttavia esiste una difesa, se non dell’italianità pura e disinteressata, almeno antispagnola, nel ducato di Savoia: intorno a Carlo Emanuele I di Savoia troviamo due scrittori antispagnoli: il Tassoni con “Le Filippiche”e il Testi.
Traiano Boccalini nei “Ragguagli del Parnaso” e nella “Pietra del paragone politico” rivela un’audace indipendenza di giudizio.
In campo letterario, troviamo varie forme di ispirazione e di espressione; e qualcosa di buono si può trovare. Le espressioni del barocco interpretano l’autentica anima del secolo XVII, con l’ispirazione al nuovo e al grandioso, caratteristica di esso.
G.B.Marino è il più notevole interprete di questa aspirazione barocca, e le sue opere manifestano una mania di perpetua avventura, più che una mentalità solida; una segreta intenzione di apparire più come un mago della parola, che un nobile proposito di incarnare gli ideali del secolo.
Questa osservazione relativa al Marino vale anche per la maggior parte degli scrittori del ‘600. Non mancarono persone di eccellenti capacità, ma quasi tutte deviarono; per incostanza, per brama di originalità che confondevano con la stravaganza, perché forzati dalla persuasione generale che il poeta fosse un invasato incantatore di cervelli umani.
Una corrente classicheggiante rappresentata dal Chiabrera, dal Testi, dal Guidi e dal Filicaia ha una produzione trasandata o poco precisa perché della poesia classica essi non hanno assimilato lo spirito, ma si sono contentati di adottare i metri e il tono. Nel complesso fanno l’impressione di persone che volendo imitare un famoso oratore si contentato di riprodurre il tono della voce in tutte le sue varietà di modulazione. L’arte veniva concepita come forma e come tono.
Il desiderio di novità ha prodotto nel campo letterario anche generi letterari nuovi: troviamo infatti il poema eroicomico (”La secchia rapita” del Tassoni), il ditirambo (Redi), la commedia dell’arte, il melodramma.
Alessandro Tassoni, che tra gli innovatori fu certamente il più ricco di genio, ebbe una straordinaria capacità di costruire le scene e di riprodurre i particolari, con combinazioni veramente felici, e rivelò una spigliatezza ed un duttilità di linguaggio tali da paragonarlo in questo con l’Ariosto; tuttavia egli preferì essere un mattacchione.
I singoli motivi della “Secchia rapita” sono condotti con arte eccellente, fino al passo che precede la conclusione, e l’ultimo passo è costantemente una specie di balletto da istrione: con la frase volgare, con l’espressione comico-popolaresca rovina, per così dire, tutta una costruzione veramente bella.
Manca a tutta l’opera eroicomica un’ impostazione ben chiara e sincera, cioè una vera visione della vita. Il bizzarro desiderio di originalità sintetizza, un po’, la forma sua spirituale.
Il ditirambo nacque col Redi e col Redi si può dire che sia morto: la breve vita non fu certo gloriosa: “Bacco in Toscana” non è che un elenco di buoni vini e un esempio di virtuosismo tecnico per riprodurre lo stato di ebrietà. Uno stile nuovo, ma nulla di nuovo nella sostanza.
La commedia dell’arte, sorta alla fine del ‘500, ebbe il suo massimo sviluppo e si abbandonò a tutte le bizzarrie possibili ed immaginabili durante il corso del ‘600: nello stile della maggior parte delle compagnie comiche essa fu ridotta ad un guazzabuglio farsesco, destinato a far rimanere a bocca aperta e a far crepare dalle risa un pubblico curioso di colpi di scena, buffonerie, spacconate.
Il melodramma, sorto anch’esso alla fine del ‘500, durante il corso del secolo XVII si ridusse all’esecuzione di “arie” senza vera e propria azione e con un intreccio costituito, come quello della commedia dell’arte, da vicende intricate e sbalorditive. Notevole, la parte musicale per opera di valenti maestri,ma il libretto è ridotto il più delle volte, a meschinerie.
L’audacia della spiritualità del ‘600 ebbe qualche notevole affermazione nel campo della critica, di cui eccellenti rappresentanti sono Alessandro Tassoni e Traiano Boccalini: l’uno con i “Pensieri diversi”, l’altro con i “Ragguagli di Parnaso”. Ma non inquadrano i problemi con una sistematicità che li risolva con dimostrazioni coerenti e logiche.
L’unica affermazione notevole della critica secentesca è quella relativa alle regole aristoteliche, che vengono definite non imperative, ma solo indicative. Fu questa una affermazione intelligente e capace dei più preziosi sviluppi, ma, essendo frutto più di mania di novità, che di una nuova mentalità estetica, ebbe poche conseguenze. Da in essa possiamo cogliere un preludio alla reazione che. più sistematicamente condurranno i romantici contro la retorica dei generi letterari.
Letteratura scientifica.
La produzione letteraria enfatica e stravagante del mondo secentesco che, non avendo granché da dire, moltiplica e gonfia le parole, possiamo definirla letteratura di costume, destinata ai “letterati” e ad ambienti pomposi oppure grossolani.
Appartata da questa letteratura di costume, fiorisce la letteratura scientifica, gloriosa dal punta di vista delle scoperte scientifiche, non solo per quanto riguarda l’Italia, ma anche per le altre nazioni. Le scienze rivolgono l’attenzione degli uomini sulla realtà terrena, realizzando le loro prime gloriose conquiste, con la pratica del metodo efficace, cioè la combinazione dell’indagine sperimentale con la matematica, il processo induttivo e quello deduttivo.
Il merito del metodo e delle sue prime applicazioni spetta al Galilei che visse durante il seicento, ma fuori dalla mentalità, perché la sua anima fu sempre a contatto col mondo della natura, in cui si compiacque di indagare, e in cui trovò le più belle soddisfazioni. Simile ad un nuovo Colombo e munito di un metodo sicuro, esaminò il mondo della natura, e, con sua grande meraviglia, vide schiudersi, uno dopo l’altro, i misteri di essa: “Merito del metodo”, diceva egli, “che si rivela chiave infallibile dei segreti della natura”.
Nel “Saggiatore” e nel “Dialogo intorno ai massimi sistemi” il Galilei espresse la sua passione scientifica, il suo entusiasmo per la infallibilità del metodo, la sua felicità per aver incontrato tanta fortuna nel mondo, prima ignoto, della natura.
La relazione che egli fa delle sue esperienze e delle sue conquiste, non ha il tono della cronaca freddamente narrativa; piuttosto quella di una storia meravigliosa ed appassionante: la lucidità del suo pensiero, l’ordine perfetto della realtà fisica che egli discopre, impongono alla sua relazione nitidezza e semplicità. Chiarezza e passione, severità scientifica ed entusiasmo ottimistico fanno delle sue due opere esemplari perfetti, dei trattati scientifici.
Galilei aveva molte cose da comunicare e il suo entusiasmo era uno stato d’animo vero e proprio, e perciò non aveva bisogno di assumere pose né di chiacchierare a vuoto. Il senso di umiltà e di simpatica bonarietà con cui egli attribuisce, non a sé stesso, ma al metodo il merito delle sue scoperte, lo rende caro al lettore, il quale, finalmente, si trova di fronte ad un vero scienziato senza le ciglia aggrottate e senza le arie misteriose del mago.
La ricchezza del pensiero e la passione per la ricerca, come hanno garantito serietà scientifica alle opere del Galilei, così hanno conferito notevole importanza letteraria all’opera storiografia di Paolo Sarpi. Questo frate veneziano, ardito sostenitore degli interessi della sua patria in una contesa con la S. Sede, per la sua presa di posizione, scorge nelle attività della Chiesa più l’opera degli uomini che l’azione dello Spirito di Dio, e compone la “Istoria del Concilio Tridentino” con una mentalità naturalistica e profana, degna di un Machiavelli o di un Guicciardini. La critica esplicita è rarissima: il Sarpi si contenta di descrivere con efficacia, sicuro che il lettore intelligente capirà il suo pensiero segreto. Anche egli, come il Galilei, ha molte cose da dire e, quindi, usa uno stile molto sobrio e chiaro.
Il cardinale Pietro Sforza Pallavicino si assume il compito di rispondere, con una storia documentata, alle interpretazioni tendenziose del Sarpi, e aveva anch’egli molte cose da dire, dovendo confutare e difendere con prove positive, si trovò più condizionato e gli mancò la libertà di cui può usufruire chi attacca e demolisce. La pesantezza della storia del Pallavicino, o per le esigenze della difesa o per la modesta capacità artistica, pone l’opera stessa in un grado di minore eccellenza letteraria.
Conclusione
Il ‘600 ha avuto per molti aspetti una mentalità fastosa, Ha espresso la sua forma spirituale e il suo stile mentale in maniera presuntuosa, chiassosa e pompeggiante. Una espressione perfetta, quindi bella, in certi campi l’ha avuta, adeguata all’ideale perseguito: Dove questo è mancato si notano la mediocrità o l’ambizione di coloro che si erano assunto il compito di esprimerlo degnamente.