INFLUSSI SOCIALI DEI BENEDETTINI

INFLUSSI SOCIALI DEI BENEDETTINI

Prof. Serafino Prete

E’ noto l’influsso del monachesimo sulla società e sulla civiltà occidentale, e interessa rivelarlo, con brevi cenni, per la  terra “Fermana”. Sull’esempio dei grandi monasteri benedettini, la Badia di Farfa, con le sue officine, la sua chiesa di Santa Maria, la sua scuola, la biblioteca, il mulino, le fortificazioni, fu una vera cittadella messa a disposizione ed utilità esterna dei laici, dove servi e coloni e chi avesse voluto, poteva apprendere le arti, i mestieri e cercare ospitalità e protezione. Gran parte della febbrile attività, che si svolgeva dentro il sacro recinto, era rivolta alla cura, manutenzione e produzione nei latifondi che si erano venuti formando con le donazioni di duchi, gastaldi e pii proprietari: quei “ latifondi monastici nei quali, quanto minori erano le esigenze e i bisogni degli proprietari monaci, tanto più vantaggiose e facili diventavano le condizioni economiche dei servi e dei coloni” (Schuster). Il latifondo non fu creato né favorito dai monaci, avendolo essi ereditato ed acquistato, al contrario essi ne cominciarono o almeno intensificarono la bonifica, diffondendo l’enfiteusi, che fu praticata su larga scala sotto l’abate Mauroaldo (790-802) e nei secoli seguenti.

Quando i monaci e il clero in genere si sentirono insufficienti all’opera immensa, offrirono questo largo contratto agricolo per la durata ordinariamente di tre generazioni, che conciliava gli interessi economici della chiesa con quelli familiari di numerosi proletari, per cui la bonifica del suolo e la ricchezza del patrimonio ecclesiastico si risolvevano così in un aumento del censo familiare. E se molti liberi si offrirono a questo scopo servi della Badia perché “ non potevano vivere,” (è scritto),  bisogna dire che tale servitù mite era preferibile agli stenti della libertà. Servi, coloni, enfiteuti e censuari, se erano oberati da alcune servitù, come trasporti di derrate alla badia, recapito di lettere ed altri servizi (corvées) venivano in compenso forniti di macchine agricole, strumenti di lavoro e dell’occorrente, secondo lo spirito di San Benedetto, che consegnando la falce ad un Goto aveva detto: “ Ecco lavora e non rattristarti”.

Tali erano le condizioni economico-agricole della nostra terra. Il codice diplomatico di Santa Vittoria in Matenano, pubblicato in parte dal Colucci nel tomo XXIX nella sua opera contiene molti atti di concessione di enfiteusi dei secoli 11º e 12º , e numerose liste di censuari sparsi dovunque: a Monte Falcone, Smerillo, Monte Rinaldo, Monte Giorgio, Sant’Elpidio, Montottone, Marano (Cupramarittima), Montelparo. Nell’1279 fu tenuto un processo per la contestazione da parte dei rettori dello Stato Pontificio di Monte Falcone ed altre terre del Presidato contro la Badia. Nella deposizione che rimane dei vari testimoni si ricordano i segni e le dimostrazioni d’affetto e di devozione delle popolazioni verso gli abati del Presidato e si protesta ancora l’attaccamento alla Badia. È un riconoscimento all’opera di quei monaci che bonificarono le nostre terre, le vaste pianure selvose e paludose, dove le fonti (documenti) ricordano chiese e monasteri presso l’Aso e ai “piedi” (foce) del Chienti e procurarono benessere alle popolazioni rurali. Alle quali neppur mancò la possibilità dell’istruzione, sia pure elementare, e della cultura, come il sorriso e il sollievo dell’arte.

Un documento dell’archivio di Santa Vittoria contiene la concessione di una prebenda della chiesa di Santa Cecilia in Monte Falcone a favore di Giacomo di Giovanni dello stesso castello per “ apprendere nelle scuole.” Nelle donazioni o permute o fondazioni di chiese ed oratori si accenna sovente al mobilio liturgico con la sua consueta espressione “ i libri e le campane e gli ornamenti “ la dotazione liturgico-artistica, e non è raro trovare gli inventari della sua della dotazione ecclesiastica con note che fanno intravedere il pregio artistico.

   In un inventario che si riferisce alle chiese farfensi di Monte Falcone,  San Pietro di Sorripa e Santa Cecilia si elencano: antifonari, messali, calici d’argento, crocefissi, paramenti di seta, turibolo, acquasantiera e tre campane. Un curioso inventario di libri appartenente a maestro Ugolino di Nuzi di Santa Vittoria, del 1408, enumera opere di filosofia antica, di medicina; come non pensare alla provenienza di quei manoscritti preziosi dalla Badia del Matenano?

   Resti imponenti di chiese farfensi, reliquie insigni di arte di questo periodo, rare, è vero, ma sparse qua e là nel territorio della chiesa Fermana costituiscono un capitolo di storia difficoltosa, ma seducente che attende di essere scritto.

Gettando uno sguardo a volo d’uccello sulla distesa ineguale di terre che abbraccia la chiesa Fermana, solcate dall’Aso e dal Tenna, delimitate dalla Menocchia e dal Chienti, dai monti e dal mare, quando fissiamo l’occhio sui colli arati, un dì selve e macchie; sulle pianure irrigate, un dì paludose; sui castelli e paesi a cavallo di colli e di poggi, un dì deserti; quando ammiriamo le popolazioni che vi si muovono col segno della fede antica e dell’assiduo lavoro, pensiamo che si scorgono ancora le tracce profonde ed inconfondibili dell’apostolato monastico.

( Periodico mensile:  “Santa Vittoria astro dello Stato Farfense” 23 marzo 1951”

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